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12 Gennaio, 2023
IL BUON VINO NASCE DALLA BUONA TERRA
IL BUON VINO NASCE DALLA BUONA TERRA
AZIENDA MUSCARI TOMAJOLI
TARQUINIA 2022
Come nasce un buon vino?
Dalle mani sapienti di chi lavora la terra oppure dal rispetto dell’espressione della terra stessa?
Quella che vi raccontiamo in questo articolo è la storia d’amore, di rivoluzione, di rinascita di un’Azienda che ha posto le sue redini nella tradizione e nel valore primario del rispetto per il suo territorio. Devozione che viene mostrata osservando i bisogni della terra e del vigneto, ogni anno diversi e specifici. Un grande rispetto portato avanti da tutte le persone che, attualmente, ne fanno parte.
Noi, Partners in Wine, in una giornata uggiosa, siamo andate alla scoperta di questa piccola ma sorprendente ed unica realtà: l’Azienda di Marco Muscari Tomajoli situata a Tarquinia, un piccolo gioiello incastonato su un colle nel Nord del Lazio, Patrimonio UNESCO Etrusco.
Con calorosa accoglienza, incontriamo Marco ed il suo fedele amico e collega Pietro Mosci, il quale, con grande gentilezza e disponibilità, ci racconta la storia di questa realtà camminando in mezzo ai filari e accompagnandoci nella visita alla cantina.
Come sempre, siamo attratte dai vigneti che, nonostante in questo periodo dell’anno sono a riposo dopo un lungo e faticoso lavoro, ci emozionano. Il vento tra i capelli, il profumo della terra fresca e il tocco della pianta ci fanno sentire vicine alla natura, regalandoci un senso di libertà, di leggerezza e respirando la “vita” che si percepisce in questo luogo.
Pietro inizia a raccontarci che l’azienda di Marco è molto piccola e a livello familiare ed è per questo che lui non ha un ruolo ben specifico.
“Il mio lavoro dipende dal periodo nel quale ci troviamo: in quello della raccolta sono in cantina con le varie lavorazioni e le ultime sfecciature; durante il Natale mi occupo un po’ anche della parte commerciale con gli ordini dei clienti e nel resto dell’anno sono immerso tra i filari a lavorare la terra. Mi occupo a 360° dell’azienda e sono 5 anni che ne faccio parte. Io e Marco siamo amici da quando eravamo bambini ed è, oltre che un piacere, anche molto facile lavorare insieme a lui per il bene che ci lega. Ho molta esperienza sul campo e faccio continui affiancamenti con l’enologo seguendo molto le sue direttive. Amo molto la terra, soprattutto questa. “
AZIENDA MUSCARI TOMAJOLI TARQUINIA 2022 (In alto vitigni a bacca rossa, in basso vitigni a bacca bianca )
Se guardiamo dall’alto i filari di Marco, possiamo notare una forma ad elle, da una parte abbiamo i rossi e dall’altra i bianchi, in totale 2 ettari di vigna: il Montepulciano ad inizio filare, il Petit Verdot spostato più verso il mare, due piccoli appezzamenti di Barbera ed Alicante inizialmente sperimentali ed infine il suo meraviglioso Vermentino.
Il Montepulciano viene utilizzato sia per la riserva “Pantaleone”, per la quale fanno una selezione scrupolosa dei filari durante l’annata con una raccolta tardiva a metà di ottobre, sia per il rosato “ Velca” raccolto un mese prima.
Fanno tutte micro vendemmie, iniziando dal Vermentino per mantenere l’acidità alta, poi il Montepulciano per il rosato, il Petit Verdot e così via.
Il lavoro in vigna viene svolto da Marco, Pietro e all’occorrenza da Stefano, un altro loro collaboratore.
Gli impianti sono stati tutti innestati nel 2007 dal padre di Marco, Sergio Muscari Tomajoli, toscano di nascita, andato in pensione dopo una grandiosa carriera da ufficiale di Marina.
Da sempre è stato un grande appassionato di vino che lo ha portato a vivere un’esperienza anche in Francia con i primi corsi di avvicinamento e da sommelier.
Nel 2007 Sergio si ritrova un piccolo appezzamento di terreno lasciatogli dal bisnonno di Marco da parte della madre che, a suo tempo, veniva utilizzato solo per il bestiame. Riprende in mano la situazione facendo varie ristrutturazioni come la cantina, il casale, gli impianti e innestando le nuove viti. Ci fu una prima fase iniziale di sperimentazione anche con il supporto dell’enologo Gabriele Gadenz, il quale sposò subito il progetto di Sergio.
L’importanza della Terra
Inizialmente dalle prime analisi del terreno è emerso che quella terra era vergine e per questo le viti non avevano bisogno di lavorazioni particolari.
Gli esperimenti furono molteplici prima di arrivare alla prima produzione del Nethun, il loro Vermentino, e del Pantaleone. Quest’ultimo in origine era un blend, Petit Verdot, in percentuale maggiore, insieme a piccole partite di Barbera e Montepulciano.
Con l’entrata in azienda di Marco, nel 2017, succeduto al padre purtroppo venuto a mancare, insieme allo storico enologo si scelse di vinificare in purezza il Petit Verdot, questo grande vitigno che più si adattava al clima, sempre molto rigoglioso e mai con una malattia.
A tal proposito, Pietro prosegue nella sua spiegazione:
“Noi lavoriamo con inerbimento permanente, non facciamo irrigazione, non concimiamo, lasciamo fare tutto quanto alla natura. Anche come filosofia aziendale, è una nostra scelta far soffrire le piante e condurle a trovare, da sole, i vari nutrienti. Usiamo solo zolfo e rame ovviamente quando serve. Non siamo certificati biologici, perché al momento non ne sentiamo la necessità, ma ovviamente lavoriamo in maniera biologica e naturale e nel completo rispetto delle volontà della pianta.
La cosa bella di una realtà piccola come questa è che puoi lavorare artigianalmente. Per quei pochi prodotti che diamo, usiamo ancora la pompa a mano; stessa cosa per la raccolta, scrupolosamente a mano, dalle potature allo sfalcio del verde. Facciamo molta attenzione ai tempi di raccolta, calcolando anche il clima dell’annata. Infatti, quest’anno, abbiamo dovuto anticiparla poiché è stata un’annata molto calda. Rispettiamo i tempi delle piante e siamo sempre in vigna per intervenire nel momento del bisogno”.
Due sono i valori principali di questa azienda: la sostenibilità e la qualità. Quest’ultima si basa sul rispetto della vite e del suo ciclo naturale. C’è purezza e semplicità nel loro lavoro, c’è tanto rispetto e amore per quella che considerano una terra unica e naturale.
Tutto questo porta l’azienda ha rese per ettaro bassissime e ad una qualità del vino eccellente.
Siamo a 170 metri slm ed i terreni sono argilloso-calcarei, a pochissimi chilometri dal mare e a pochi metri dal bosco circostante. Le viti che si trovano a ridosso del bosco sono protette dai venti freddi e proprio per questa barriera crescono meno in altezza rispetto a quelle a fondo valle.
Nonostante la vicinanza al mare, non ci sono terreni sabbiosi, ma in profondità c’è questa pietra particolare, chiamata Pietraforte (come da foto). E’ una pietra calcarea, una marna argillosa che solo loro hanno in questa zona, dovuta alla compattazione di argilla, creatasi in milioni di anni, con cemento carbonatico. E’ possibile infatti notare sopra questa pietra delle striature bianche ovvero il calcare rimasto compresso in essa. Questa composizione la ritroviamo in superficie con alte tracce di calcare attivo ovvero il calcio che dona tantissimi nutrienti alle piante.
Ad oggi, questa pietra è ancora in fase di studio analitico per le sue componenti che con ogni probabilità influenzano il vino, come per esempio la grande spalla acida percepita degustandolo che potrebbe essere, secondo Marco, una delle caratteristiche ereditate.
All’improvviso un retaggio dal passato
Camminando tra i filari, in lontananza, notiamo alcune piccole viti. Cosicché Pietro ci racconta che disboscando una parte del terreno, hanno da poco ritrovato una vigna impianta dal bisnonno di Marco. Le piante hanno sicuramente dai 60 ai 70 anni e sono tutti vitigni misti poiché una volta si mescolavano per ottenere uve diverse e alcuni sono addirittura a piede franco. Al momento, stanno approfondendo l’analisi e l’identificazione genetica per capire se in futuro sarà possibile tenerle in considerazione per qualche progetto interessante.
Una piccola ma fruttuosa cantina
Entusiaste arriviamo in cantina dove Pietro ci fa strada:
“Inizialmente era un annesso agricolo dove il nonno di Marco teneva tutti i suoi attrezzi, poi è stata trasformata in una vera e propria cantina. Facciamo tutto da soli con pochi macchinari e attualmente produciamo circa 7.000 bottiglie l’anno. Un terzo di queste le vendiamo in America, tramite un importatore conosciuto da Marco, il quale, lavora con aziende piccole nella zona del Massachusetts e di New York, e le restanti bottiglie qui in Italia. Tutte le etichette sono state rielaborate dall’artista Guido Sileoni di Tarquinia. Sono disegni meticolosi e precisi. Guido ha seguito varie scuole d’arte ma ha avuto un forte legame, fin da piccolo, con il lavoro del padre che faceva l’architetto. Questo, ad oggi, lo riscontriamo nella sua arte, nelle forme geometriche dei suoi disegni, nella sua precisione e nei tratti spigolosi. Ha creato a Tarquinia un murales raffigurante molte divinità etrusche, sua grande passione”.
Entrando, notiamo subito disegnate sui muri varie raffigurazioni di queste particolari e bellissime etichette, una stanza che ospita barrique T5, le protagoniste dedicate soltanto alla Riserva, e in un’altra pochi ma essenziali macchinari.
Il modello T5 è una barrique molto particolare, in rovere francese, proveniente dalla foresta di Tronçais, in Francia, stagionata per 5 anni all’aria aperta. Rappresenta il top di gamma della Tonnellerie Taransaud.
La loro Riserva, l’Aita, affina qui per 18 mesi prima dell’imbottigliamento per poi riposare almeno altri 9 mesi in bottiglia.
Attualmente l’Azienda produce tutto in purezza: per il Pantaleone quasi 2000 bt, per il Nethun altre 2000, per il rosato Velca 1800 bt e infine per la Riserva circa 500 bt annue.
AZIENDA MUSCARI TOMAJOLI TARQUINIA 2022 La cantina di vinificazione e la barricaia
Un piccolo casale accogliente: in alto i calici!
Terminato il nostro giro nei vigneti e nella cantina, Marco ci ospita nel suo piccolo ma accogliente Casale, risalente ai primi anni del ‘900, ristrutturato completamente dal padre che, ad oggi, funge da sala di degustazione e da base operativa.
Iniziamo qui la degustazione insieme a Pietro e Marco, il quale, ci racconta di più sul progetto delle nuove etichette.
“Questo progetto è frutto di una bellissima collaborazione con il pittore Guido Sileoni, Italo-argentino, nato a Buenos Aires, da mamma argentina e padre italiano. Si sono trasferiti a Tarquinia quando lui aveva 5 anni poiché a quei tempi la situazione in patria era molto difficile e la famiglia decise di tornare in Italia. Legato da sempre al mondo dell’arte e dopo aver svolto lavori di altro genere, ha deciso di seguire la sua più grande passione. Anche lui ha perso suo padre molto giovane e credo che, proprio dopo questo evento, ha deciso di intraprendere la carriera artistica. Su questo siamo molto simili”.
Marco continua a spiegarci che l’inizio della collaborazione con Guido avvenne nel 2012, in seguito alla sua visita ad una mostra da lui creata molto particolare e importante che organizzò nella chiesa sconsacrata di Tarquinia. Un luogo molto evocativo.
“In quell’occasione, secondo me Guido, ha definito e concretizzato chi voleva essere, le sue linee, i suoi tratti, i suoi colori ed il suo meraviglioso stile. Io per caso andai a quella mostra e ne rimasi folgorato, da lì in poi gli proposi una collaborazione. Tra bozze, sperimentazioni e prove varie siamo usciti ufficialmente con le prime due etichette nel 2014, il Nethun e il Pantaleone”.
L’idea di prendere in considerazione le tombe etrusche per le etichette dei vini fu di Guido.
Marco desiderava che rappresentassero un elemento del loro territorio in maniera fedele e autentica e avessero una loro storia. Dovevano essere identitarie e così è stato.
“Questa cura che Guido ha dei dettagli, quasi maniacale, mi ha fin da subito colpito perché volevo che trasmettesse all’osservatore tutto il lavoro che si nasconde all’interno della bottiglia”.
VINO, ARTE O STORIA?
Il primo calice che degustiamo è il loro Velca 2021, un Rosato da uve Montepulciano in purezza. Al naso strabilianti note floreali di garofani e note fruttate di ciliegia. Al palato freschi sentori di frutti rossi, banana, arancia e un pizzico di erba fresca. Avvolgente e con un bel finale sapido e minerale. Un vino di un’eleganza straordinaria.
Per questa etichetta, Sileoni ha scelto la Tomba dell’Orco che rappresenta una donna etrusca che cinge un uovo, fanciulla realmente esistita che si chiamava Velia Spurinna, considerata un po’ la Monna Lisa della civiltà Etrusca, di una bellezza incredibile. Gli Spurinna, a quei tempi, erano una delle famiglie più importanti della storia di Tarquinia. Il dettaglio dell’uovo invece è stato preso dalla Tomba degli Scudi, raffigurante moglie e marito che si stanno scambiando un uovo, simbolo di vita, di fertilità e di rinascita per le coppie di quei tempi.
Il secondo calice che degustiamo è il Nethun 2021, Vermentino in purezza. Il clone è il Corso, proveniente da Sartène, nel sud della Corsica. Qui avvertiamo proprio la salsedine del mare e capiamo fin da subito che il grande potere d’invecchiamento di questo vino è dato proprio dal terreno. Il naso respira intense note di gelsomino, susina e camomilla, toni erbacei e avvolgenti nuance balsamiche. Al palato si avverte una nota netta di pera Williams e agrumi, una sferzante sapidità che lo contraddistingue portandoci con l’immaginazione tra le onde del mare. Lo troviamo molto equilibrato e le note di cedro, mandarino ed anice ci fanno pensare ad un abbinamento ai crudi di mare.
Per l’etichetta di questo vino, l’Artista si è ispirato di nuovo alla Tomba dell’Orco sulla quale in un angolo si intravedono dei tralci di vite con delle foglie stilizzate. L’idea è stata quella di voler richiamare il legame del Vermentino con il mare rappresentando la fusione tra i tralci di vite e i pesci stilizzati. Il nome è di origine etrusca come la divinità del mare, Nethuns, per i Romani il Dio Nettuno.
Il terzo calice in degustazione è il Pantaleone 2019, Petit Verdot in purezza. All’olfatto avvertiamo immediatamente la sua parte erbacea e balsamica, mentre al palato un insieme di frutti rossi, prugna, cannella, chiodi di garofano e liquirizia legano armoniosamente fra di loro. Una morbidezza eccezionale, un’acidità e una freschezza ben integrate. Un connubio perfetto che ci emoziona.
Per l’etichetta, Guido ha preso in considerazione la Tomba dei Baccanti, la quale nella parte più alta è raffigurata la scena di due leoni che stanno cacciando due gazzelle. Il messaggio che vuole essere trasmesso è quello della forza del leone possente e lineare ovviamente nel suo stile artistico.
Per l’ultimo vino in degustazione, Marco ci sorprende con la sua meravigliosa Aita 2020, 100% Montepulciano. Un grande vino che, impenetrabile come il suo colore rubino violaceo, al naso ci regala note di ciliegia nera, mirtillo, mora e prugna in un connubio perfetto assieme a sentori di cioccolato e tabacco. Sul finale leggere note balsamiche e speziate, di cannella e liquirizia. Un tannino davvero molto equilibrato ed elegante. Qui ci lasciamo per un attimo andare degustando le sue dolci note boisé.
Etichetta nuovamente ispirata alla Tomba dell’Orco, nella quale, da una parte, viene raffigurata l’Aita, divinità etrusca dell’oltretomba, corrispondente all’Ade Greco. In molti la scambiano per una donna poiché il suo viso tende ad avere dei lineamenti molto femminili, ma in realtà è una divinità maschile con un copricapo raffigurante la testa di un lupo.
<<Marco, qual è l’etichetta che più ti rappresenta?>>
Con una bellissima risata, Marco risponde: “Ho un legame unico e profondo con ognuna delle mie etichette. Un legame unico ma diverso. Nethun sicuramente è quella più rappresentativa che si è espressa sempre in maniera più nitida ed è quella che ci ha fatto conoscere di più nel commercio. Il Velca, nel suo piccolo, è stata l’etichetta che ha ottenuto più riconoscimenti importanti”.
Come obiettivi futuri, Marco ci confida che vorrebbe ampliare il vigneto e con un po’ di Vermentino in più a disposizione concepire un bianco riserva tra qualche anno. In più continuerà a studiare quelle viti molto antiche ritrovate da poco per capire se possono essere utilizzate per produrre un altro eccellente vino.
Marco Muscari Tomajoli
“E’ iniziato tutto da mio padre. Mio nonno è morto nel 2000 ed era quello che si occupava della terra e degli animali. Mio padre invece ha ricostruito tutta la struttura, tutto il casale e impiantato le prime viti nel 2007, ma ha iniziato tutto questo con la visione di un hobby di fine lavoro, di uno sfizio personale. Poi ha conosciuto il nostro attuale enologo, Gabriele Gadenz e insieme hanno iniziato a sperimentare. Io sono subentrato quando mio padre è venuto purtroppo a mancare e mi sono reso conto che è una grande macchina, un ciclo continuo che non si ferma e che ha bisogno costantemente di investimenti”.
Ringraziamo di cuore Marco Muscari Tomajoli e Pietro Mosci per la bellissima visita e accoglienza a noi riservata. Conoscere la storia, la filosofia ed il pensiero di ogni azienda che visitiamo è per noi fondamentale. Ed il rispetto, l’amore, la determinazione e caparbietà che ogni giorno i produttori mettono per far bene il loro lavoro, può soltanto essere per noi motivo di ispirazione e grande stima.
Vi lasciamo come sempre con una frase a noi cara:
“Credo che avere la Terra e non rovinarla sia la più bella forma d’arte che si possa desiderare”.
Andy Warhol
Ilaria Castagna e Cristina Santini
Partners in Wine
Ci trovate su Instagram:
Kris_lifes_somm Cristina Santini
Winefood_and_therapy Ilaria Castagna
https://www.youtube.com/watch?v=RakajXgmc-E
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22 Dicembre, 2022
L'eredità dei legami con la propria Terra
L’eredità dei legami con la propria Terra
Masterclass “Eroica Campania”
Il coraggio della resilienza
Vini Buoni d ‘Italia 2022
Nei primi giorni di dicembre abbiamo avuto il piacere di presenziare ad un grande Tasting Event all’evento “Vini Buoni d’Italia” che ha visto la premiazione delle Corone e delle Golden Stars di oltre 850 vini di tutta Italia e la partecipazione di molti Consorzi tra cui il Consorzio Barbera D’Asti e vini del Monferrato, Consorzio per la tutela dell’Asti e del Moscato D’Asti Docg, Consorzio Tutela Vini d’Acqui e Consorzio Tutela Prosecco Doc.
Nell’occasione abbiamo scelto di dedicare maggiormente la nostra attenzione alla Masterclass tenutasi in una delle sale dell’Auditorium della Tecnica di Confindustria a Roma.
Ha aperto l’incontro il Presidente del Consorzio Tutela Vini del Vesuvio, Ciro Giordano, con i ringraziamenti a vini Buoni d’Italia per l’opportunità di parlare della Regione Campania, presentando poi tutti i relatori presenti: Pasquale Carlo giornalista, referente per la guida vini buoni d’Italia del Touring Club per Campania, Basilicata e Calabria, Chiara Giorleo Critica Enogastronomica, Prof. G. Ferdinando De Simone Archeologo e i Presidenti degli altri Consorzi: Teresa Bruno del Consorzio Tutela vini d’Irpinia, Cesare Avenia di VITICA ~ Consorzio di Tutela Vini di Caserta, Andrea Ferraioli del Consorzio Tutela Vini di Salerno, Libero Rillo del Consorzio Tutela Vini del Sannio non presente.
L’eredità dei legami con la propria Terra : Masterclass “Eroica Campania”
Il coraggio della resilienza Vini Buoni d ‘Italia 2022
Relatori da sx: Prof. G. Ferdinando De Simone, Chiara Giorleo, Pasquale Carlo
È una Masterclass particolare, diversa, dove non si racconta solo il vino, ma un percorso sull’intera Regione e sulla sua produzione.
Pasquale Carlo afferma: “Berremo dei vini che secondo noi suscitano alcune emozioni, perché questo è l’aspetto più importante, in una formula diversa per far capire che la Campania oltre ad avere un patrimonio di biodiversità ha anche un patrimonio culturale e storico pieno di tradizioni”.
LA STORIA FORGIA I TERRITORI
Interviene Ferdinando De Simone: “la storia del vino in Italia è abbastanza recente, il modo di produrre vino oggi è un qualcosa che è avvenuto dopo la fillossera, dopo l’industrializzazione. Questi sono dei territori che hanno avuto una grande presenza legata all’occupazione del vino che ha caratterizzato il territorio per dei millenni e che vede una continuità culturale tra le popolazioni. Ad oggi ci sono molti rituali, riti dionisiaci che sono stati tramandati, ma che in verità hanno perso un po’ il contenuto”.
Siamo consapevoli che bisogna guardare al passato per capire meglio l’importanza del vino legata alla cultura del bere che sicuramente in Campania è nata con i greci, a differenza della produzione che si deve ai romani. I vini della Campania arrivavano in tutto l’impero fino alla Bretagna, alla Gallia e alla Spagna e quelli del Vesuvio sono stati trovati addirittura in India.
UN DISEGNO CHE SI VA DELINEANDO
Strabone, geografo e storico greco, parla della Campania dell’età romana con confini più limitati rispetto ad oggi, partendo sempre dal Monte Massico descritto come un teatro con gli spalti a rappresentare gli Appennini e con questa grande piana alluvionale di fronte all’area del Casertano con Roccamonfina da un lato e la Penisola Sorrentina dall’altro. Come un bellissimo teatro sul mare.
Comprendiamo gradualmente l’eterogeneità del territorio campano: c’è il sole, il vento che viene dal mare che spazza via le nuvole, le montagne che proteggono dai venti freddi del Nord, l’acqua dei fiumi, la ricchezza del suolo dovuta alle aree vulcaniche. Ci sono tre aree vulcaniche importanti: quella del Somma-Vesuvio, quella di Roccamonfina, quella dei Campi Flegrei. Poi ci sono le colline con i terreni calcarei e la piana alluvionale.
A completare il quadro un mosaico variegato di eccellenze tra Doc e Docg, 23.300 ettari vitati che in realtà sono pochi se pensiamo che dal 1906 al 1932 la Campania era la Regione più coltivata in Italia grazie alla natura dei suoli vulcanici dove la fillossera non è riuscita a distruggere totalmente il patrimonio vitivinicolo.
L’eredità dei legami con la propria Terra : Masterclass “Eroica Campania”
Il coraggio della resilienza Vini Buoni d ‘Italia 2022
Territorio campano e Denominazioni
La maggior parte della produzione viene da vitigni a bacca nera; a Napoli si beve esclusivamente vino rosso o “vino nero”. Oggi fortunatamente la moda del mercato si sta orientando verso i bianchi, verso anche la capacità di evoluzione dei bianchi campani. C’è l’Aglianico (28%) che storicamente è il vitigno più presente in Campania, anche se sta perdendo un po’ lo scenario a causa della Falanghina (13%) che negli ultimi 10 anni ha avuto un boom ed è diventata la Doc più importante per il Sannio e, dal punto di vista economico, per la Regione; la Barbera (6%) che non ha nulla a che vedere con quella piemontese; poi ci sono un’infinità di vitigni autoctoni e il Sangiovese (6%).
UN VIGNETO DAL TIRRENO ALL’APPENNINO
In passato, la provincia di Benevento produceva meno vino rispetto a tutte le province campane; oggi invece rappresenta circa la metà della produzione. Poi viene Salerno, Avellino, Napoli e Caserta. La viticoltura è prettamente di collina e di montagna, resistono bene le vigne antiche e per ora i consorzi stanno pensando alla moltiplicazione dei vitigni a bacca bianca resistenti ai cambiamenti climatici.
UN CALICE PER 5 TERRITORI
IL SOMMA-VESUVIO
Il monte Somma è una montagna che abbraccia il Vesuvio e rappresenta l’antico cono vulcanico. C’è stata un’evoluzione nei millenni e la forma attuale è data dall’ultima eruzione risalente al 1944. È leggermente arretrato rispetto al Vesuvio, esposto sì alle brezze marine, perché siamo a Napoli sulla costa, ma soprattutto a quelle appenniniche essendo verso l’interno con un clima più fresco che porta ad una rigogliosa vegetazione verde. È Il lato nord, quello più antico, dove si coltivano le castagne, i pomodori, le albicocche, ricco non solo di materiale piroclastico ma anche di argilla.
Al contrario il Vesuvio è molto sabbioso, più esposto al mare, con ceneri non molto acide utilizzate come fertilizzante per i terreni. Il Somma è l’areale produttivo esclusivo della Catalanesca del Monte Somma, un vitigno a bacca bianca che storicamente arrivò qui per un dono d’amore. Fu portata a Napoli dalla Catalogna da Alfonso I d’Aragona, che conquistò tutto il sud Italia, perché si era innamorato, perdendo la testa, di una giovane ragazza del luogo. Inizialmente era utilizzata come uva da tavola nel periodo in cui c’era poca frutta ed era un privilegio mangiarla. Venne poi coltivata e mantenuta nel tempo grazie alla caparbietà di alcuni produttori che la utilizzarono per produrre il “lambiccato” che veniva poi portato in dono a Dottori, Notai, Avvocati. Fino a che nel 2006, dopo attenti studi, venne inserita nel Registro delle uve da vino e nel 2011 arrivò un disciplinare di produzione dedicato alla Catalanesca del Monte Somma IGP.
Il Monte Somma-Vesuvio e la sua Catalanesca
Primo calice: CANTINE OLIVELLA “KATÀ” Catalanesca del Monte Somma IGP 2021
È un’uva con una buccia spessa e resistente quindi si può raccogliere anche tardivamente quando le condizioni metereologiche lo consentono. È un vino che ha una sua complessità, una sua ricchezza e un corpo più sostenuto rispetto agli altri vini del Vesuvio, incentrati più sulla verticalità e sulla tensione salina.
La Catalanesca ha un altro passo – dice Chiara Giorleo – e noi la troviamo con una ricchezza concentrata subito al naso, con un soffio vegetale, spaziando dall’agrume leggermente candito, tipo lime forse un cedro più maturo, alla mela fuji più dolce, più matura, con un leggero tocco tropicale di ananas sciroppata, una sensazione di miele pure essendo un vino giovane. Stessa ricchezza la riscontriamo al palato per concentrazione e per sensazione tattile, di velluto, supportata dalla lavorazione sulle bucce fini. Freschezza e sapidità che non tradiscono il territorio. L’Azienda ha i suoi vigneti tra i 300 e i 650 MT slm, con importanti pendenze, a piede franco e il 90% hanno più di settanta anni di vita.
TECNICHE ANTICHE TRAMANDATE NEL TEMPO
Troviamo curiosa la particolare tecnica, usata in questa zona, della “propaggine” che consiste nel far passare un ramo della pianta madre nel terreno in modo che possa radicare e in un futuro staccarsi dalla principale. In questo modo non vengono estirpate le viti che hanno terminato il loro ciclo produttivo e impiantate quelle a piede americano. È una tecnica tramandata di generazione in generazione che assicura il mantenimento dell’impianto genetico del vitigno inalterato. Infatti, ci racconta l’azienda presente all’incontro che, quando vanno a generare le vigne nuove, scavando trovano in profondità altri tronchi delle viti più vecchie proprio perché i nonni avevano già utilizzato questo tipo di operazione.
Inoltre sul Monte Somma vengono utilizzate ancora oggi opere di ingegneria idraulica costruite dai Borboni, vasche che permettono all’acqua di defluire su questi forti pendii. A suo tempo vennero fatte anche diverse leggi per tutelare questi grandi canali di età vulcanica con pene severe per chi ostruiva il loro corso e con l’obbligo, per chi coltivava le terre lì intorno, di liberarli da qualsiasi ostruzione.
In effetti oggi, grazie a chi vive e coltiva la terra in queste zone, si riesce a contrastare, pulendo e coinvolgendo le amministrazioni a rifare le strade e a sistemare gli alberi, il continuo mutamento dei versanti del Vesuvio, perché geologicamente il materiale vulcanico è antico, poco stabile e a rischio frane.
La Provincia di CASERTA
Tre le zone importanti del Casertano c’è sicuramente Aversa, dove molti produttori hanno ripreso la coltivazione della vite in zone abbandonate durante l’industrializzazione. L’esempio più vivo è l’Asprinio con i suoi alberi alti più di dieci metri; l’alto Casertano, diventata la zona in cui i romani iniziarono a capire che, più che affidarsi ai greci e ai sanniti che stavano intorno al Vesuvio, potevano coltivare i terreni nella zona alta di Roccamonfina, simile a quella del Vesuvio. La terza è la zona che si trova al limite verso est, Monte Maggiore, denominata “il balcone sulla Campania Felix”, un territorio ricchissimo sia per la fertilità del terreno dovuta alla presenza del Fiume Volturno e all’attività vulcanica, sia per le tante testimonianze sannitico-romane.
La Vigna del Ventaglio
A Caserta ancora oggi c’è una fortissima impronta borbonica e la Reggia ne è la testimonianza.
Nella II metà del settecento, Ferdinando IV di Borbone chiese a Luigi Vanvitelli di creare, nell’area retrostante la Reggia, una vigna, “la Vigna del Ventaglio” nel territorio di San Leucio, formata da dieci spicchi di vigneto, appunto a forma di ventaglio, con a dimora le dieci migliori uve tra cui Piedimonte bianco e rosso, i progenitori del Pallagrello. Nei diari di corte si evince che i vini Piedimonte del Ventaglio venivano serviti nelle grandi occasioni insieme ai Bordeaux e ai Grand Cru. Oggigiorno i vitigni autoctoni della zona, come il Pallagrello bianco e nero, il Casavecchia e la Coda di Pecora vengono vinificati in purezza.
Secondo calice: IL VERRO “SHEEP” Coda di Pecora Terre del Volturno IGP 2021
Chiamata così per la forma del grappolo che ricorda la coda di una pecora, è un’uva a bacca bianca a maturazione tardiva, diversa dalla Coda di Volpe o dal Juhfark vitigno ungherese di cui è stato oggetto di discussione, originaria della Magna Grecia e vinificata in purezza da questa Cantina. Unico produttore.
Cesare Avenia, Presidente del Consorzio Tutela Vini di Caserta e proprietario della Cantina “Il Verro”, nel 2003, in seguito all’acquisto di un terreno si accorge e incuriosisce di questo vitigno presente tra i filari abbandonati. Al ché avvia esami sul DNA e studi ampelografici per classificare la sua unicità ed essere così inserita nel Registro Nazionale delle varietà, ancora in fase di completamento.
Per noi che siamo nel clou di questo viaggio sensoriale, riscontriamo immediatamente una ricchezza aromatica olfattiva dovuta proprio alla maturazione tardiva di questa varietà, dalla mela cotogna, alle sensazioni rinfrescanti di erbette, sbuffi di macchia mediterranea, e sul finale una sensazione di cenere annunciando il suo sorso più austero. Al palato è più imponente con una nota astringente non dovuta alla macerazione sulle bucce, ma alle caratteristiche proprie del vitigno. Grandissima sapidità sul finale che rende il vino gastronomico e beverino.
La Vigna del Ventaglio e la Code di Pecora
La Provincia è un territorio variegato, con mare, montagna e vulcano, con una produzione limitata in termini di bottiglie, di circa 2.000.000 all’anno su sei denominazioni (4 Doc e 2 IGP). Troviamo il Falerno del Massico, l’Asprinio di Aversa, il Galluccio, la Casavecchia di Pontelatone, Terre del Volturno e Roccamonfina.
Cesare Avenia interviene: “Quando mi è stato chiesto di vinificare la coda di Pecora non ci ho pensato due volte visto che è il mio vino preferito. Provengo da un’altra esperienza professionale, ma questo non mi ha fermato e impedito di creare la mia Azienda perché amavo il territorio e volevo nel modo migliore rappresentarlo e anche riscattarlo. Il destino dei vitigni autoctoni è delicato, se non trovano uno sponsor fanno una brutta fine. E poi questo bianco matura tardi, ed è un problema per il produttore, a meno che non arrivi uno sponsor che se ne occupa e questo diventa una tipicità e una ricchezza”.
La Cantina ha una produzione di meno di due ettari in regime biologico e si avvale della collaborazione dell’Enologo Consulente Vincenzo Mercurio e del Prof. Moschetti Biologo che si occupa di fermentazioni e di lieviti utilizzati. È una continua ricerca che porta se tutto va bene a produrre 5000 bottiglie all’anno.
“Vi assicuro che, se venite dalle mie parti a trovarmi, apriamo una bottiglia di Coda di Pecora del 2011 e vi renderete conto che ancora è in perfetta forma”
L’ IRPINIA IN TUTTE LE SUE FORME
E’ un territorio multiforme, punteggiato da rilievi, inciso da valli con notevoli valenze ambientali e paesaggistiche. Due sono i racconti storici importanti di questa zona menzionati da De Simone.
Il primo riguarda i Colli di Abellinum: Avellino era un’antica città sannitica divenuta in seguito colonia romana e sorgeva dove oggi si trova la città di Atripalda e dove il Cristianesimo è riuscito a legarsi alla fine dell’impero romano. Il problema è che c’erano ancora nella campagna, per quanto perseguitate, persone pagane. Personaggi significativi dell’epoca furono: San Felice di Nola, imprigionato e torturato nel corso delle persecuzioni cristiane, purgatore dei veneratori delle Chiese che distruggevano le statue delle divinità pagane; San Paolino di Nola che, chiudendo un occhio, ha fatto in modo che si mantenessero i riti pagani sulle tombe dei martiri cristiani, conciliando il Paganesimo con il Cristianesimo. In questo periodo molti pellegrini dall’area dell’Irpinia andavano a Nola sulla tomba di San Felice e San Paolino a pregare e compravano il vino lì prodotto.
L’Irpinia e il suo Greco di Tufo
Una leggenda racconta che nel 1648 Scipione di Marzo scappa da San Paolo Belsito, vicino Nola, per allontanarsi da un’epidemia di peste e si rifugia a Tufo. Porta con sé le uve Greco e da qui nasce la coltivazione di quest’uva antica e pregiata in questo areale.
Nell’800, ad affiancare la grande produzione di vino, ci fu il ritrovamento di un ricco giacimento di zolfo che portò ad un insediamento industriale molto importante nella zona. Lo zolfo fu impiegato anche nella coltivazione della vite che ebbe un’esplosione in tutta l’Irpinia, dando origine alla “zolfatura”, ossia alla tecnica di protezione usata contro le malattie della vite. Da Tufo è partito lo zolfo che ha salvato i vigneti di tutta Italia.
Terzo calice: “Quattro Venti” PETILIA Altavilla Irpina Greco di Tufo DOCG Riserva 2020
È una DOCG ristretta comprendente otto micro comuni siti in un prestigioso territorio produttivo in provincia di Avellino. Lo scenario verso l’interno cambia completamente rispetto al Vesuvio, con un territorio prettamente montuoso, con inverni nevosi.
Dalle parole di Chiara Giorleo: “il Greco di Tufo e il Fiano di Avellino sono esempi importanti in tutta Italia di vini bianchi da invecchiamento e da vitigni autoctoni. In Italia ce ne sono molto pochi”.
Questo Greco di Tufo è di grande personalità, è un rosso travestito da bianco. Per noi la sua imponenza e sferzata acida sapida donano una finezza in grado di esprimersi al meglio nonostante le difficoltà di questo vitigno, poco produttivo, sensibile alle muffe e all’ossidazione. Ma se poi si sa lavorare esce un vino estremamente complesso, con note di zagara, pesca non troppo matura, sensazione di mela annurca e macchia mediterranea. Un finale sulfureo che è molto territoriale e che lo ravviva moltissimo con note sorprendenti di pietra focaia. È un’uva che proviene da viticoltura eroica, da una parcella specifica che si trova a 600 MT slm con rese tra i 50/60 q/ha ed è una vigna molto piccola di un ettaro. È una grandissima forza in Irpinia insieme al Fiano di Avellino e al Taurasi che è la DOCG più antica del sud Italia.
SALERNO – PENISOLA SORRENTINA
Nella provincia di Salerno, la più estesa d’Italia, la cultura del vino è una tra le più antiche con testimonianze lasciate nell’insediamento di Pontecagnano, nell’ultimo sito più a sud, da genti indigene e dagli Etruschi. Ci sono molte citazioni nella storia salernitana dove si parla delle proprietà benefiche del vino. C’era già una grande cultura del bere.
Quando si parla della penisola sorrentina ci si riferisce ad una zona originariamente molto selvaggia abitata da popolazioni locali e verso le quali i greci, molto prima dei romani, avevano un certo interesse e anche un po’ un rapporto conflittuale. Per il Greco, l’indigeno non era realmente un uomo, non era civilizzato perché non viveva in città con le leggi in comune, e viveva da solo in campagna, pascolava le greggi, produceva già il vino però non aveva la cultura del bere perché non ancora legata a quel rito della convivialità e del simposio.
Quello che hanno fatto i greci è usare quindi il vino come veicolo di acculturazione, di integrazione, di un modo di bere e anche di vivere, aumentando la platea dei possibili bevitori e migliorando di conseguenza anche il suo commercio.
Raffaele Ferraioli e suo Furore
Quarto calice: Furore “COSTA D’AMALFI” Fiorduva Doc di Marisa Cuomo 2020
È doveroso citare Raffaele Ferraioli, scomparso un anno fa e ricordato, come ci racconta Pasquale Carlo, “non come Sindaco di Furore ma come colui che ha creato Furore e inventato la parola Costa d’Amalfi, fondatore delle Città del Vino in Campania”. Un poeta e un visionario, definito uno dei padri della viticoltura moderna in Costiera Amalfitana insieme a Peppino Apicella di Tramonti. Non produceva vino ma ospitalità in tutti i sensi anche come ristoratore.
Ricordata per i vini bianchi, con la Costiera Amalfitana entriamo in un micromondo con le sue caratteristiche uniche, in un mosaico di territori, di microclimi, di sottosuoli e di vitigni autoctoni particolari.
Entusiaste beviamo Rivoli, Fenile e Ginestra, vitigni autoctoni in blend con una bella complessità, spaziando dai fiori d’arancio, alla nespola, al melone bianco, ad una sensazione speziata non pungente, rinfrescante come il cardamomo. Un vino salmastro, iodato che ci ricorda un po’ il territorio. Grandissima ricchezza e stratificazione che ritroviamo anche al palato, rotondità grazie alla maturità del frutto e alla concentrazione ben bilanciata con una freschezza non tagliente ma perfettamente integrata al succo. Finale sapido che non rende pesante la beva.
Siamo sulla costa a 300 MT slm, con pendenze sopra il 50%, su terrazzamenti stretti e rocce a picco che denotano un certo fascino. Un paesaggio caratteristico di questa zona, dove non si utilizzano sistemi meccanizzati e per il trasporto delle uve vengono impiegati gli animali da soma.
Parla il Presidente del Consorzio Tutela Vini di Salerno, Andrea Ferraioli:
“Nel 1995, a Furore, parallelamente all’ottenimento della Doc, io e mia moglie attivammo un campo catalogo di circa 3000 metri dove mettemmo a dimora 42 varietà di uva di cui 28 a bacca bianca e 14 a bacca rossa. Contestualmente iniziammo a fare uno studio per la classificazione clonale, con microvinificazioni sperimentali e da qui uscì il protocollo per il Fiorduva con i tre vitigni in blend. Da rese molto basse, con questi tre vitigni insieme, siamo riusciti a produrre un numero di bottiglie congruo e soprattutto il segreto è che insieme si completano. Vinificati in purezza non sarebbero stati bevibili e il vino sarebbe stato squilibrato. Sono ceppi prefillossera disposti a pergola che hanno minimo 60 anni, impiantati su muretti a secco con il sostegno di pali di castagno. Oggi questi vitigni non sono miei ma della Costiera Amalfitana e sono identitari di un territorio squisito. È importante oggi curare la storia di un territorio.”
Leonardo Mustilli e la Falanghina del Sannio
SANNIO
Il Sannio è storicamente conosciuto per la Regina delle vie, la Via Appia che passava per Benevento e per le tante testimonianze dall’Egitto dovute alla presenza dei mercanti provenienti da Alessandria d’Egitto. È un territorio vastissimo e il Monte Taburno rappresenta uno dei luoghi più significativi dal punto di vista geografico poiché a difesa della Longobardia. Dopo la caduta dell’impero romano, Benevento fu il più importante feudo longobardo del Sud.
IL CREATORE DELLA FALANGHINA
Un altro personaggio che ha fatto la storia del vino è Leonardo Mustilli, Ingegnere appartenente ad una famiglia di stirpe nobile che nel ‘500 si trasferì da Ravello verso l’interno. Dopo aver creato un’azienda agricola, negli anni ’70, comincia a studiare e operare microvinificazioni su vitigni antichi tra cui la Falanghina che è sempre esistita nella provincia di Benevento. Però all’epoca veniva conferita alle fabbriche di Vermouth nel nord Italia, perché essendo un’uva con molta acidità raggiungeva un grado alcolico elevato. Tutto finì poi con lo scandalo del metanolo.
Leonardo riscopre un vitigno sul Taburno e inizia a vinificarlo con molte problematiche finché alla fine riesce a strutturare un vino che va bene per il mercato e da qui farà fortuna. Nel 1979 imbottiglia la prima Falanghina del mondo. Da allora ad oggi gli ettari vitati a Falanghina sono diventati circa 3000 con una produzione di 12.000.000 di bottiglie l’anno.
L’eredità dei legami con la propria Terra : Masterclass “Eroica Campania”
Il coraggio della resilienza Vini Buoni d ‘Italia 2022
Degustazione 5 calici per 5 territori
Quinto calice: “KYDONIA” di Ca’ Stelle Viticultori in Castelvenere, Falanghina del Sannio DOP Vendemmia Tardiva 2017 affina per il 50% in legno
Questa bottiglia è appena uscita sul mercato e premiata da Vini Buoni d’Italia.
Per noi questo calice di vendemmia tardiva rappresenta un cammino sensoriale stimolante che, nonostante i suoi 5 anni, si mostra giovanissimo alla vista, ha un naso molto complesso, frutta gialla matura, mele, noci, fiori bianchi. Mostra un palato vivace e concentrato con note citriche evidenti. Freschezza, acidità e grande longevità sono le sue migliori doti.
Cantine degustate: Cantine Olivella, Cantina Il Verro, Cantina Petilia Altavilla Irpinia, Cantina Marisa Cuomo e Ca’ Stelle Viticultori in Castelvenere
Pasquale Carlo:
“Mi fa piacere che siamo stati insieme quasi due ore, sono stati bravi anche i produttori che ci hanno permesso di degustare i loro vini”
Ciro Giordano:
“Ringrazio i relatori e voi per la partecipazione, da domani gireremo il mondo con questo Format. Quando parliamo del nostro territorio abbiniamo la parte storica, archeologica al valore della produzione vitivinicola in Campania. Sottolineo la grande unione che oggi hanno i cinque consorzi di tutela, la grande sinergia che c’è tra i cinque presidenti come vedete, per la promozione delle piccole e grandi attività. L’obiettivo è tirare fuori il valore di questa Regione, il mondo vitivinicolo campano e tutte le eccellenze dei territori che oggi avete potuto ben vedere”.
L’eredità dei legami con la propria Terra : Masterclass “Eroica Campania”
Il coraggio della resilienza Vini Buoni d ‘Italia 2022
Line up: Cinque Consorzi a braccetto
Chiudiamo la nostra esperienza con delle personali considerazioni:
La Campania è stata per noi davvero una piacevole scoperta; lei è sinonimo di mare, sole, sapori e profumi che infondono energia ed allegria.
È la Terra del fermento, della storia, dell’arte, delle tradizioni e della cultura che, come avete letto, viene da lontano, si respira tra la gente, i monumenti e il suo paesaggio e ci parla dei miti della storia romana e greca. E’ il Territorio che custodisce antichi e pregiati vitigni, ceppi centenari che da soli ci raccontano decine di affascinanti e antiche storie piene di sacrifici, amore e caparbietà.
E’ tanto e spesso troppe cose insieme, ma che travolge con una valanga di emozioni chi la vive in tutte le sue sfaccettature.
Questa è la Terra della gente che ama.
Ilaria Castagna e Cristina Santini
Partners in Wine
https://www.youtube.com/watch?v=RakajXgmc-E
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21 Novembre, 2022
DUE PASSI IN VIGNA 2022
DUE PASSI IN VIGNA 2022
L’anima del vino raccontata: rispetto, amore e terroir
“Un viaggio unico nei territori del vino”.
Quest’anno è stato proprio questo per noi, Partners in Wine, un viaggio di approfondimento su varie tematiche e Terroir, partecipando all’evento “Due Passi in Vigna”, curato nei minimi dettagli dai ragazzi di Vinario4 all’interno del Mercato Centrale di Roma. Un incontro con 20 produttori di diverse parti d’Italia, degustando oltre 70 delle loro migliori etichette in abbinamento ai piatti delle botteghe gourmet situate al Primo Piano del Mercato.
Ogni anno che passa, questo evento diventa sempre più ricco di protagonisti del mondo del vino e della comunicazione. Ed un grazie va sicuramente a questi tre ragazzi, colleghi e amici che dal 2019, uniti dalla stessa passione per la cultura enologica, hanno voluto raccontarci storie di vino, tradizioni e dialoghi costruttivi, ricercando costantemente novità e curiosità da regalarci.
In questa Edizione, ci siamo concentrate maggiormente sulle due grandi Masterclass: la prima sui “Suoli e Markers gustativi” a cura di ATWine Consulenze Enologiche, accompagnata da una degustazione di vini alla cieca; la seconda dedicata alla scoperta della Cantina Muscari Tomajoli con la prima verticale in assoluto del loro Pantaleone e facendoci innamorare della sua Aita, una Magnum di Montepulciano in purezza.
Quanto è importante il terreno nel vino?
A guidarci nella prima Masterclass è stato l’Enologo Pierpaolo Pirone, il quale ha voluto porre l’attenzione proprio sull’importanza del terreno, proponendo un incontro davvero interessante focalizzato su quattro terreni differenti del nostro territorio laziale: calcareo-marnoso, vulcanico, calcareo ferroso e sabbioso costiero. Ci ha spiegato così, tutte le caratteristiche differenti, visive e organolettiche, che ogni terreno può dare.
“Quello che noi andremo a fare questa sera sarà una cosa un po’ complicata. Usciremo fuori dai semplici canoni di degustazione, senza soffermarci sulle sensazioni in sé e per sé, ma ragionando sulle macro sensazioni alla scoperta dei diversi terreni nei vini che abbiamo scelto, di cui in teoria non sappiamo nulla. Vi presenterò quattro suoli molto caratteristici, raccontandovi cosa loro dovrebbero dare al vino e cercheremo insieme di tracciare un profilo basandoci su quanto possa essere intensa e potente la percezione di determinati olfatti”.
Pierpaolo ci spiega che in questi calici troveremo tutti vitigni differenti tra loro, con morbidezze ed acidità diverse e ci consiglia di porre la nostra attenzione sul come il suolo permetta alla pianta di maturare in determinate condizioni che poi vanno ad influire sul vitigno.
Obiettivo unico ma terreni differenti
Iniziamo partendo dai suoli Vulcanici che con la loro attività eruttiva ormai dormiente caratterizzano maggiormente il nostro territorio laziale.
Generalmente, questi suoli sono quelli più fertili perché ricchi di magnesio, fosforo e potassio. Ci donano olfatti potenti e complessi con vini sapidi e minerali, un grado alcolico importante e una forte acidità che è ben bilanciata dalla grande struttura. E’ proprio la grande presenza del potassio che dona, nella parte gustativa, una marcata sapidità con un finale amaricante.
Tra i suoli più pregiati al mondo abbiamo quello Calcareo Marnoso: molto difficile da lavorare se non in determinati momenti dell’anno.
Le marne sono un incrocio tra tanto calcare e tanta argilla. Se le percentuali si equivalgono abbiamo le marne, se abbiamo invece una presenza di calcare maggiore come il carbonato di calcio avremo la marna calcarea. Infine, se il terreno è colmo di silicati di alluminio, avremo un’argilla marnosa ricca di materiale nutritivo.
Dal suolo argilloso-marnoso avremo vini rossi con più struttura e tannino decisamente marcato; nei bianchi, invece, non avremo una grandissima intensità olfattiva ma sensazioni nette e precise, regalando eleganza ma mai potenza. Al palato si ha una sensazione di sapidità più o meno percettibile a seconda del vitigno, ma non con quella chiusura amara come nel caso del suolo vulcanico.
Il suolo calcareo, invece, molto chiaro di colore, è meno ricco di sostanze nutrienti, risultando più freddo e con una buona capacità di trattenere l’acqua. Da questi suoli si ottengono vini più chiari in colore, aromatici, eleganti, non troppo strutturati, con buona acidità e scarsa tannicità.
Le Terre Rosse hanno un’elevata presenza di ossidi di ferro e sono originate per effetto dell’ erosione delle acque piovane. Sono suoli ricchissimi di elementi nutritivi e regalano vini di buona pienezza e complessità con sensazioni di spezie, erbe aromatiche e fiori, buona acidità, un colore intenso e fortemente equilibrati.
Infine, le Sabbie Costiere sono originate dal fondo del mare e dalla sua azione erosiva sulle nostre coste. Sono suoli difficili da lavorare, dove non c’è molta sostanza organica quindi non riescono a spingere la pianta a maturazioni estreme; sono però suoli molto drenanti e ricchi di cloruro di sodio. Da questo tipo di terreno abbiamo vini più freschi e meno longevi, carenti di struttura, ma accattivanti sotto il profilo olfattivo. Valorizzano l’acidità, le parti iodate e salmastre e hanno un finale sapido e “dolce”.
Degustazione alla Cieca: alla ricerca dei suoli
Nel primo calice riscontriamo un colore giallo paglierino chiaro; al naso ci rivela subito sensazioni fresche e minerali con eleganti note di frutta a polpa bianca, mela gialla e ananas, mentre al palato si aggiungono note di salvia e una piacevole sapidità che accompagna nel finale un ricordo di note erbacee.
Qui non abbiamo avuto dubbi, guardandoci abbiamo detto all’unisono: “Questo suolo è quello calcareo-marnoso”.
Il vino in questione è il Maturano Frusinate IGP dell’azienda Antica Tenuta PALOMBO di Atina in provincia di Frosinone.
Nel secondo calice troviamo un colore molto simile al primo, ma con un naso ricco di profumi aromatici accompagnati da piacevoli note floreali. Al palato ha una grande acidità bilanciata da note agrumate. Dobbiamo ammettere che, inizialmente, questo calice ci ha fatto riflettere molto. Dopo alcuni dubbi, infine, abbiamo capito che le caratteristiche non potevano non essere dei suoli delle terre rosse. In degustazione: COLLE BIANCO Passerina Del Frusinate IGT dell’Azienda Casale Della Ioria di Anagni in provincia di Frosinone.
Vini in degustazione delle Aziende: Antica Tenuta Palombo, Casale Della Ioria, Agricola Cavalieri e I Pàmpini
Nel terzo calice notiamo subito una differenza di colore, un giallo paglierino più intenso che in olfazione presenta note varietali speziate e minerali arricchite al palato da note di frutta a polpa gialla matura. Note sapide in contrapposizione ad un’ottima freschezza. Anche per questo calice ci siamo trovate un po’ titubanti e alla fine, non riuscendo a capire il suolo di provenienza, abbiamo atteso che la bottiglia fosse scoperta.
Abbiamo degustato un vino proveniente dal suolo vulcanico: Lazio Bianco IGP Petit Manseng dell’Azienda Agricola Cavalieri di Genzano di Roma, nel cuore dei Castelli Romani.
A conclusione della prima Masterclass, nel quarto calice finalmente assaggiamo un rosso dal colore attraente rubino con riflessi violacei. Al naso presenta un bouquet intenso di frutti rossi, protagonisti mora e mirtillo. Un’esuberanza al palato con note di ribes nero e pepe bianco. Troviamo una buona struttura e un’ottima acidità.
Qui dentro c’è il mare e capiamo fin da subito che il suolo di provenienza è quello delle Sabbie Costiere.
In degustazione: Syrah “Oriente” dell’Azienda I Pàmpini di Acciarella in provincia di Latina.
Ilaria Castagna, Pierpaolo Pirone e Cristina Santini
Seconda Masterclass: CANTINA MUSCARI TOMAJOLI
Marco Muscari Tomajoli ci ha guidato in un viaggio nel tempo con le diverse annate dei suoi vini, coadiuvato da Riccardo Roselli di Vinario 4, e con la partecipazione di Guido Sileoni, l’artista che ci ha permesso di ripercorrere la storia degli Etruschi attraverso le immagini delle sue opere d’arte che ritroviamo sulle etichette aziendali.
“Ho deciso di dedicare questa Masterclass al nostro Pantaleone, è la prima volta in assoluto che facciamo una verticale di Petit Verdot. La mia è un’azienda molto giovane, nata nel 2007 da un’idea di mio padre Sergio Muscari Tomajoli.”
Marco Muscari Tomajoli, Riccardo Roselli e Guido Sileoni
Con queste parole di Marco iniziamo un piccolo percorso alla scoperta della sua azienda che, possiamo già anticiparvelo, andremo presto a trovare. L’Azienda, sita in Tarquinia, nasce dall’idea del padre Sergio, grande appassionato di vino, di produrre le proprie bottiglie, curando tutte le fasi, dalla vigna alla produzione.
Con il loro attuale Enologo, Gabriele Gadenz, nel 2007 decidono di impiantare su terreni vergini, alcune varietà selezionate e particolari: due rossi, il Montepulciano e il Petit Verdot e un unico bianco, il Vermentino.
“Abbiamo la fortuna di avere dei terreni tramandati da più di 100 anni in famiglia. L’azienda è piccola, meno di 2 ettari, situata in una posizione ottimale a Tarquinia, piccola cittadina del Nord del Lazio, abbracciata alle spalle da un grande bosco a pochi km dalla Toscana, a soli 6 km dal mare e a 150 mt s.l.m. Le nostre viti crescono su un terreno argilloso-calcareo con prevalenza di argille rosse”.
La particolarità di queste vigne è che sono vecchie di 100 anni perché la collina è stata disboscata negli anni 30.
“La prima persona che si trovava lì fu il mio bisnonno, a quel tempo erano considerate delle piccole quote che davano ai veterani della prima guerra mondiale. Abbiamo avuto quindi la fortuna di ritrovarci questo terreno che prima di allora era un bosco e che, ancora oggi, cinge i vigneti della nostra azienda”.
Marco ci racconta che, succeduto in azienda al padre nel 2016, ha cercato di imprimere un cambiamento soprattutto su due fattoti principali: la sostenibilità e la qualità. Quest’ultima si basa sul rispetto della vite e del suo ciclo naturale. La cosa fondamentale che li contraddistingue è quella di lavorare tutto a mano, non utilizzando nessun tipo di macchina. Anche per il discorso sulla sostenibilità c’è purezza e semplicità poiché non vengono impiegati erbicidi, concimi, non c’è irrigazione e le fermentazioni sono spontanee ad opera dei lieviti indigeni.
Si lavora solo con prodotti ammessi nell’agricoltura biologica quindi rame e zolfo solo di contatto, argille fini tipo zeolite e propoli. Le rese per ettaro sono bassissime, facendo in totale dalle 6 alle 8000 bottiglie di produzione.
La storia di un popolo antico: gli Etruschi
Arte, Storia e Vino
“Quello di cui mi sono innamorato è la capacità che ha il vino, con pochi elementi, di essere un prodotto culturale, che porta dietro secondo noi la storia del territorio, un prodotto che riesce ad arrivare in profondità”.
Proprio con queste parole, Marco ci tiene a raccontarci la storia della sua amata Tarquinia, iniziando dagli Etruschi e facendoci vedere immagini molto importanti di tombe differenti situate nella Necropoli di Monterozzi, famosa in tutto il mondo per i loro dipinti che dal 2004 è inserita nella lista dei siti Patrimonio Mondiale Unesco.
Al suo interno ha più di 6000 tombe scoperte, scavate nella roccia e con i suoi 130 ettari rappresenta il complesso più esteso che si conosca.
Alcune di queste hanno dato l’ispirazione per le etichette dell’azienda, come ad esempio la tomba degli scudi dove il dettaglio dell’uovo è riproposto nell’etichetta del loro rosato “Velcha”, raffigurante una figura femminile che cinge un uovo; quest’ultima era “Velia Spurinna”, una donna esistita veramente, considerata la Monna Lisa della civiltà Etrusca, di una bellezza incredibile, anch’essa presa dall’immagine di un’altra tomba.
Altre due tombe sono state significative per l’azienda: quella dell’orco all’interno della quale è raffigurata l’Aita, divinità etrusca dell’oltretomba, riportata nell’etichetta della Riserva, e quella dei baccanti che ritroviamo invece nell’etichetta del Panteleone.
Dall’intervento di Guido Sileoni: “La mia esperienza con Marco nasce dall’inizio e mi incuriosì subito perché non è da tutti iniziare un percorso così difficile rivolgendosi ad un artista per la propria produzione di etichette. Sposai subito il progetto considerando come fulcro aziendale la storia degli Etruschi e la valorizzazione della nostra storia. Il Pantaleone aveva bisogno di qualcosa che richiamasse il leone, visto che quest’ultimo era riferito al territorio dove nasce l’azienda. La prima volta che Marco mi parlò di Pantaleone, mi tornò subito alla mente la scena nella tomba dei baccanti che raffigura dei leoni che aggrediscono la gazzella. Inizialmente, inserii entrambe le figure ma ci accorgemmo poi di voler trasmette un messaggio più chiaro, di forza ma il meno aggressivo possibile. Infine, tolsi la gazzella e rimase solo il leone; forte, possente e molto pulito ovviamente allineato al mio stile”.
Alcune delle etichette aziendali
Ora, in alto i calici
Iniziamo la degustazione con Marco, coordinato da Riccardo Roselli, il quale ci spiega che nelle prime annate del Pantaleone nel 2014 c’era una piccola percentuale di Barbera. A proposito di ciò, Marco ci tiene a spiegare:
“All’inizio, dopo vari esperimenti da parte di mio padre e dell’enologo Gabriele, fu impiegata una piccola percentuale di Barbera; poi con il tempo abbiamo capito che un vitigno tardivo come il Petit Verdot (maturità fenolica più lunga e lenta), insieme al nostro clima perfetto, risultava straordinario vinificato in purezza.”
Pantaleone 2020 Petit Verdot 100% Acciaio
Uve vendemmiate nella metà di Settembre, un’annata buona ma non regolare.
Al calice troviamo un’eleganza unica, tanta polpa e un tannino molto fine.
Un connubio perfetto tra freschezza, spalla acida e note balsamiche che non mancano. Una parte speziata che vira molto sulla cannella, chiodi di garofano e liquirizia, una morbidezza che non ti aspetti da un’annata così giovane. La parte vegetale ed erbacea del Petit Verdot è ben integrata in un bouquet inaspettatamente dolce. Nonostante sia un’annata giovane ha note molto rotonde e già immaginiamo l’evoluzione che potrà avere negli anni.
Pantaleone 2018
Annata fresca ma piovosa dopo una 2017 molto siccitosa. Le temperature medie, non così elevate, gli hanno permesso di posticipare la data di raccolta al 27 settembre.
Già dal colore notiamo sfumature diverse, qualche riflesso aranciato. Al naso troviamo subito dei sentori di fiori appassiti, un’esuberanza di frutti rossi, di susine e ciliegie accompagnate da note di radici e spezie orientali. Un vino gioviale e “combattivo” al palato con un’acidità maggiore e con un’espressione più spigolosa di note vegetali caratteristiche del Petit Verdot.
Pantaleone 2016
Annata perfetta con piogge classiche d’inverno e primavera calda. Un’annata equilibrata, di grande qualità.
Sentori di cenere e di prugne disidratate ci inondano il palato. Questa bottiglia è di un’eleganza unica, più composta e avvolgente della 2018. Le note di tostatura, spezie, frutti di bosco e ciliegia ci lasciano sognare ad occhi aperti. Una nota di zafferano improvvisa dà una freschezza e una complessità impressionante. E’ un’espressione territoriale eccellente. Un vitigno indomabile che Marco è riuscito a padroneggiare con sicurezza e determinazione.
“Ho portato queste tre annate, secondo me tra le più rappresentative; il metodo di produzione è sempre lo stesso, ma dopo tante prove, abbiamo capito che il vino per noi è autenticità. L’affinamento è di 6 mesi di acciaio e 6 mesi bottiglia. Tre vini identici, il vitigno è lo stesso, cambia l’annata e ovviamente il dettaglio importante sta nella diversità del clima negli anni”.
Verticale di Pantaleone e Aita 2019
Aita 2019 Montepulciano 100% Riserva
L’aita è il frutto di una selezione delle migliori uve di Montepulciano provenienti da una parcella di un ettaro. Raccolta leggermente tardiva a metà ottobre e fermentazione in acciaio spontanea senza l’aggiunta di lieviti.
L’affinamento è avvenuto per 18 mesi in piccole barriques di primo passaggio chiamate T5, il top di gamma della tonnellerie francese Taransaund.
Il legno di queste barriques è una prima scelta di rovere francese selezionato soltanto in una foresta in Francia, la foresta di Tronçais, stagionato 5 anni all’aria aperta. Infine l’Aita prima di essere messo in commercio rimane in bottiglia per altri nove mesi.
Un vino che esprime caparbietà, forza ed eleganza, elementi rappresentati in etichetta con il disegno di una donna travestita da lupo. Un vino impenetrabile come il suo colore rubino violaceo, una ricchezza di frutto e fiore impressionante. Avvertiamo sentori di ciliegia nera, mirtillo, mora e prugna che si abbracciano perfettamente alle note speziate di cannella, lieve tabacco aromatico, leggera liquirizia e una sottile scia balsamica nel finale. Un tannino non aggressivo ma ben integrato a testimonianza del suo equilibrio e della sua eleganza. Al palato freschezza ed acidità sono le protagoniste, leggere note boisè avvolgono tutto il nostro palato; una grande struttura per quello che noi pensiamo essere un grande vino.
“Il lancio lo abbiamo avuto l’anno scorso a dicembre e per fortuna è tutto sold out, a fine novembre uscirà la seconda annata”.
Ilaria Castagna, Marco Muscari Tomajoli e Cristina Santini
Alla fine delle Masterclass, ci siamo dedicate un po’ alle Aziende che si trovavano ai vari banchi d’assaggio. E’ sempre un onore ed un privilegio conoscere nuovi Produttori o portare un saluto a quelli già conosciuti.
Alcune delle Aziende presenti all’evento: Vigne Del Patrimonio, Tenute Filippi, Palazzo Prossedi e Masseria Barone
Noi, Partners in Wine, ci teniamo a ringraziare i ragazzi di Vinario4, Pierpaolo Pirone di ATWINE Consulenze Enologiche e Marco Muscari Tomajoli per la splendida storia dei suoi vini che in un altro articolo approfondiremo.
Vi lasciamo, come piace tanto a noi ragazze, con una frase di riflessione:
Nulla eguaglia la gioia dell’uomo che beve, se non la gioia del vino di essere bevuto
Charles Baudelaire
Partners in Wine
Ilaria Castagna e Cristina Santini
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7 Novembre, 2022
Un viaggio lungo un secolo di tradizioni: Casale Vallechiesa
Un viaggio lungo un secolo di tradizioni che inizia cosi:
“Siamo cresciuti in una famiglia nata con il vino, la vite e la viticultura ”
Con questa frase di Cristina Piergiovanni, moglie di Aristide Gasperini, iniziamo il nostro viaggio nella storia, nei racconti antichi e perché no, in qualche leggenda di Casale Vallechiesa.
Il nostro percorso comincia proprio con il ricordo di un mestiere, ad oggi, ormai scomparso. Un mestiere che i nostri nonni ci hanno raccontato sempre con sorrisi ed entusiasmo: Il carrettiere a vino.
Ci torna alla mente quel carretto legato alla fatica benevola e a quei sacrifici fatti per portare il vino ogni giorno nella meta più ambita di quei tempi: la grande Capitale. Molti allora erano i carrettieri del vino ed uno tra tanti fu proprio Aristide Gasperini Padre.
“Chi ha una storia di famiglia alle spalle ha molto da ricordare e raccontare. Noi proviamo a spiegare cosa è stato in passato il vino e cos’è, per noi, tutt’ora. Una volta si faceva solo il vino sfuso, si portava con i carretti e non con le bottiglie. Ci sono molte storie dell’epoca. Ad esempio mio suocero mi raccontava che partendo con il carretto a notte fonda per arrivare a Roma, portava con sé soltanto un cagnolino per compagnia. Come oggi invece accade a mio marito con la compagnia di una volpe tra i filari. Poi, durante il tragitto per Roma, c’era anche tanta paura di essere assaliti dai briganti che potevano rubare il carico di vino, arrecando danni economici. C’è un mondo dietro al vino, c’è poesia”.
Una tradizione familiare di oltre 130 anni
Nel ‘800, prima la famiglia Gasperini dalle Marche, da sempre viticoltori e commercianti, poi la famiglia Piergiovanni dall’Abruzzo, per vicissitudini e cambiamenti, si trasferirono nei Castelli Romani per lavorare a Roma, poiché vista come la grande meta per chi a quell’epoca ovviamente abitava in piccoli paesi. Arrivati in questo territorio, i Gasperini iniziarono a coltivare la vite, a produrre il loro vino e a commercializzarlo come si faceva in quel periodo, trasportandolo e vendendolo a Roma proprio con il carretto. A tal proposito, ci sono documenti storici risalenti agli inizi dell’800 che attestano il mestiere di carrettiere a vino registrato con il nome del suocero. Negli anni ’90, nella zona “Via Casale Vallechiesa”, a Frascati, in provincia di Roma, la Famiglia Gasperini acquista la proprietà, ristrutturata in parte già nel 1800, anticamente a funzione di chiesa e in seguito di scuola. La ristrutturazione venne continuata negli anni seguenti, acquistando anche vari terreni intorno. Il nome Casale Vallechiesa nasce proprio dal nome della via. Ad oggi, l’Azienda ha 5 ettari di proprietà e 14 in conduzione, tutti circoscritti al Casale. Cristina ci racconta che gli amici del suocero ad oggi, non potendo più lavorare le vigne, hanno concesso ad Aristide di coltivare e utilizzare le uve per i propri vini.
La nascita della vite su un’antica strada romana
Siamo a quasi 300 metri di altitudine, con una bella ventilazione ed una bella pendenza. Intorno a noi ammiriamo vari tipi di vigneti, rigogliosi ed imponenti lungo le pendici delle colline circostanti che si estendono fino alle porte di Roma, in località Pietra Porcia.
Da un lato abbiamo la sensibile ma corposa Malvasia puntinata seguita dalla resistente Malvasia di Candia; il Viognier da una parte, accompagnato da filari di Trebbiano, Bombino, Bellone e pochi filari di Greco che vanno a comporre il blend Frascati DOC.
Come protagonisti dal lato opposto abbiamo il Montepulciano, il Cesanese ed infine, un po’ di Syrah.
La filosofia aziendale che la famiglia, ad oggi, porta avanti per quanto riguarda alcuni vitigni, è quella di lavorarli in purezza solo se l’annata è ottimale, come ad esempio il bombino in purezza oppure la Riserva del Frascati Superiore DOCG .
L’ ecosostenibilità è un altro punto di forza e la certificazione arriverà sulle bottiglie dal prossimo anno. Gli interventi in vigna sono minimi e naturali, vengono utilizzati composti organici e piantato il favino, tra i filari, per apporto proteico delle piante.
Cristina ci tiene a sottolineare anche che quest’anno la stagione è stata talmente calda che non c’è stato quasi bisogno di far nulla per aiutare i vigneti e i pochi interventi effettuati sono stati zolfo e rame sempre in quantità assolutamente contenuta.
Composizione dei suoli
Vediamo proprio con i nostri occhi le differenze di composizione dei terreni: una parte dei vigneti è coltivata su terreni sabbiosi e tufacei di colore arancione; l’altra parte dei filari su terreni argillosi e basaltici originati dalle varie colate laviche del nostro vulcano laziale.
“Abbiamo di tutto e con varie esposizioni al sole. Tutto è diverso qui. C’è diversità nel terreno, nel microclima che cambia da collina a collina, situate in posizioni differenti, dalla lavorazione diversa dei vari vigneti, fino ad arrivare in cantina. E tutto questo ci rende unici. Dobbiamo avere un’identità e la nostra è proprio questa”.
Guardandoci intorno, ci accorgiamo di essere circondate da tanti muretti a secco e di camminare su quella che anticamente era una vera e propria strada romana, percorsa da più e più persone che, facendo delle vere e proprie processioni, arrivavano in quella chiesa lontana situata dove oggi si trova la cantina. Cristina infatti ci racconta che fu proprio il marito a recuperare tutti i sassi e a ricreare alcuni di questi muretti. I nomi delle vie non sono mai dati a caso, sono sempre legati a qualcosa e si intersecano tra di loro da tempi immemori. Qui, nulla è per caso.
“Avevamo una vigna di tantissimi anni, abbiamo dovuto, a malincuore, toglierla poiché il terreno era dismesso, franato e sparpagliate tutte intorno c’erano varie pietre laviche di queste strade. Abbiamo dovuto purtroppo, lavorare molto sul terreno dismesso ma ad oggi siamo riusciti, a ricostruire quello che era andato distrutto ed a proteggere ciò che per noi è anche la nostra storia”.
Ritrovamenti antichi
Camminiamo e troviamo sotto i nostri piedi alcune parti dell’antica strada romana, della sorgente d’acqua ancora in funzione ristrutturata per utilizzare l’acqua potabile in vari modi e varie grotte, di cui una impiegata per l’affinamento del primo metodo classico di Malvasia Puntinata o del Lazio in purezza che a seguito di varie sboccature, con ogni probabilità e studi uscirà dai 36 mesi in poi sui lieviti.
Continuando il nostro viaggio, percorrendo queste strade, ci rendiamo conto dei tanti anni di storia di questo luogo, degli antichi racconti narrati e dei personaggi che hanno lasciato segni ed impronte di una cultura che ci sembra, ad oggi, così lontana.
UNA GRANDE QUERCIA COME CUSTODE
Accanto alla cisterna romana, troviamo un’imponente e suntuosa quercia secolare, con una sorprendente storia alle spalle, affiancata da una più piccola.
Anticamente, quando le donne percorrevano questa strada per lavorare la vigna, venivano spaventate da un serpente dotato di orecchie, il quale arrotolandosi, si arrampicava intorno alla quercia più grande. Trattasi dell’aspide sordo.
La leggenda narra che questo aspide avesse la sua tana proprio su questa quercia magnifica e che, per questo motivo proteggeva la sua tana e l’antica cisterna romana chiamata “cava di Santa Croce”.
Ad oggi, la Famiglia Gasperini ha voluto omaggiare la grande quercia, riportando sull’etichetta della linea “Caspide”, gli anelli del suo tronco, a testimonianza dei suoi tanti anni, e nel retro la storia dell’aspide sordo.
Ammirando sotto la luce le due querce, ci sembra quasi di poter immaginare una madre ed una figlia che proteggono la loro terra, il loro terreno.
Proprio in questo punto, ci soffermiamo un momento a riflettere e a guardare intorno il panorama, fantasticando subito su imponenti degustazioni, fatte all’ombra di queste due querce, con il loro abbraccio caloroso e protettivo e la dolce brezza di un vento primaverile.
“Abbiamo fatto di tutto per mantenere l’autenticità del luogo”
VINO E MARKETING
“Da sempre noi crediamo che il vino debba avere una territorialità e che, quest’ultima debba essere raccontata bene. Il cliente deve capire l’identità di quel vino e poi ,in seguito a questo, acquistarlo se piace. Il mondo del marketing molto spesso questo lo dimentica”
Qui ci troviamo molto d’accordo con le parole di Cristina: il vino si deve trasmettere, spiegare e narrare. Abbiamo il dovere di farlo con emozione, passione e dedizione, soprattutto quello dei Castelli Romani poiché, chiunque lo rappresenti ha il dovere di provare ad eliminare l’etichetta vino di quantità e non di qualità che ancora ad oggi si porta. Come filosofia aziendale hanno abbracciato il fatto di voler creare tipologie diverse di vini, una più identitaria e di nicchia ed una più semplice, di facile beva ed a prezzi contenuti mirata alla GDO. Proprio per questo motivo hanno creato la LINEA CASPIDE vendendola, ad oggi, molto all’estero ma che in futuro troveremo anche nella GDO.
Per l’affinamento dei loro vini, non prediligono passaggi estremi in legno per evitare la troppa cessione di aromi vanigliati, cercando di valorizzare ed esaltare invece i profumi del vitigno con una leggera tostatura sopra. Per i rossi utilizzano barriques o tonneaux di 2 e 3 passaggio per 5/6 mesi e per alcuni dei loro bianchi, come il Cannellino, la barrique e, per la Riserva, il tonneau.
”Il Cannellino passito me lo tengo stretto, è una particolarità, pochissime rese, grande qualità. Una piccola chicca “
Per l’ HEREDIO, un blend di Malvasia del Lazio, Greco e Bombino, si è evidenziata questa parola con caratteri più grandi in etichetta anziché Frascati Superiore DOCG, poiché si è voluto dare importanza all’identità del nome piuttosto che alla Denominazione, ovvero dare un nome ad un vino per riconoscerlo in mezzo a mille così da renderlo più identitario. Un possibile acquirente deve voler comprare il Frascati di Casale Vallechiesa perché ama i suoi sentori, crede in questa filosofia e perché non pone la sua attenzione soltanto al costo.
Intervista a Bruno Gasperini: Blockchain e Metaverso
Intervistiamo il figlio di Cristina, Bruno Gasperini, General Manager di Casale Vallechiesa e Delegato dell’Associazione Città del Vino del Comune di Frascati che ci racconta:
“Tutto deve essere tracciato e rintracciabile, iniziando dalla vigna fino alla macchina per l’imbottigliamento; questo dà una sicurezza differente. Il nostro progetto in anteprima è quello di tracciare tutta quanta la filiera con la blockchain che ci porterà ad avere una trasparenza totale con il cliente, su tutto”
Essenzialmente il lavoro è quello di inserire dei chip in etichetta che avranno il compito di fornire al consumatore finale tutti i dati sulla storia della bottiglia di vino, cominciando dalla mappatura del grappolo di uva in vigna, alle mani dell’uomo che l’ha raccolta, l’orario, il giorno, l’imbottigliamento e il viaggio finale. I Focus primari sono tre al momento: tracciabilità, sostenibilità e l’internazionalizzazione. Poi in futuro si punterà anche all’ospitalità incrementando le camere.
Al momento tre sono le modalità di degustazione:
L’EARLY TASTING ovvero la degustazione- aperitivo, la WINE EXPERIENCE, quella più complessa con il tour della cantina, dei vigneti e la degustazione ed infine il LUNCH IN THE WINERY con il pranzo completo. Ovviamente fanno anche eventi privati tramite la collaborazione di un catering.
Bruno continua a raccontarci che per quanto riguarda la sostenibilità, in fase di conversione al biologico, verranno certificati non solo i vigneti, ma anche tutto l’assetto aziendale.
Seguendo il progetto della Blockchain, ci saranno dei sensori in vigna che, automaticamente, andranno a sostituire l’intervento umano, e daranno risultati in tempo reale. Questo porterà a far mutare il mondo delle certificazioni.
Tutto questo porterà alla partecipazione ad un club privato che con un’identità digitale darà l’accesso alle degustazioni, alla futura sboccatura o ai diversi passaggi di produzione dello spumante, ritirandolo per esempio quando sarà pronto tra 36 mesi direttamente in azienda o rivendendo il certificato così da non alterare l’autenticità della bottiglia.
Questo in futuro potrà essere integrato anche con il distributore, poiché, tramite sempre il Chip si potranno rilevare tutti i problemi relativi alla filiera produttiva come anche alla distribuzione.
“Noi saremo quasi sicuramente i primi a farla, fummo i primi nel Lazio e terzi in Italia anche a progettare un NFT con la linea del Metodo Classico, creandone un utilizzo funzionale, legato al certificato digitale dando autenticità al nostro spumante”
Per quanto riguarda l’estero, il consumatore internazionale pone molta attenzione sulla tracciabilità e sostenibilità del prodotto italiano, perché vuole avere la certezza di acquistare il vero Made in Italy. Il progetto della Blockchain aiuta, in questo senso, a raggiungere proprio questi obiettivi.
Il prossimo passo per l’Azienda sarà utilizzare il Metaverso ovvero questo spazio virtuale all’interno del quale vivere esperienze, incontrare altri utenti e creare qualsiasi cosa come per esempio partecipare alle fiere internazionali, spedendo i propri campioni. Il progetto effettivo sarà creare una cantina nel Metaverso. Sarà un investimento del futuro.
La qualità richiede tempo: la degustazione
Per noi che amiamo questo vitigno, è stato un grande piacere fare un confronto sulle due ultime annate. Il Viognier, vinificato in purezza, ha trovato sul nostro territorio laziale la sua massima espressione, grazie al clima caldo e ai nostri suoli vulcanici ricchi di minerali.
Dopo la vendemmia manuale, le uve portate in cantina e diraspate subiscono una criomacerazione per 36 ore a bassa temperatura. Fermentazione a temperatura controllata e affinamento in acciaio per quattro mesi e tre mesi in bottiglia prima dell’uscita.
Primo calice “GIOVIN RE” Viognier IGP 2021
Assaggiamo con curiosità l’ultima annata più calda della precedente e la prima sensazione che ci colpisce al naso è questa leggera pietra focaia nascosta da una vellutata acidità e profumi di albicocca e fiori di camomilla. Un vino ancora giovane ma con un sorprendente corpo e una bella sapidità dovuta al suo terreno vulcanico. Un palato fresco, vivace, agrumato, con note di frutta esotica e ritorno alle note olfattive. A nostro avviso molto longevo.
Secondo calice “GIOVIN RE” Viognier IGP 2020
Questa 2020 è a dir poco sorprendente, con spiccate note balsamiche, sentori nitidi di pietra focaia e una spalla acida alta che accompagnerà questo Viognier lungo tutti i suoi migliori anni d’invecchiamento. Al palato avvertiamo piacevoli note di mandorla dolce e frutta secca. Grande evoluzione e longevità sono, dal nostro punto di vista, le sue caratteristiche primarie.
Terzo calice “HEREDIO” Frascati Superiore DOCG 2021
70% Malvasia del Lazio, 15% Greco e 15% Bombino Degustiamo un bel cavallo di battaglia nonché orgoglio di punta dell’Azienda. Olfattivamente ci incuriosisce e coinvolge questa esplosione di frutta e fiori, con evidenti note di camomilla e tanta balsamicità.
Al palato ritroviamo le stesse componenti olfattive con l’aggiunta di albicocca, rosmarino, salvia, note erbacee, macchia mediterranea. Un Frascati degno di nota, sapido e persistente, di media struttura con un finale piacevolmente agrumato.
Prolungata macerazione a freddo sulle bucce, affinamento in acciaio sulle fecce fini per quattro mesi; mentre la riserva affina in tonneau 5/6 mesi sulle fecce nobili e 6/8 in bottiglia.
Dalle parole di Bruno:
“Il vino deve essere ricordato. I nostri vini devono avere quell’identità che rimane impressa nella mente del consumatore. Solo così secondo me un cliente si conquista. Il nostro calice più identitario è sicuramente l’HEREDIO e la RISERVA. Si riconosce, ha personalità, ha territorialità.”
Quarto calice “ANIMA LIBERA” Malvasia Puntinata IGP 2019
Vino a fermentazione naturale e integrale delle uve con raspi e bucce per 10 gg, non criomacerazione ma solo macerazione di 10 gg e decantazione x filtrazione. Affinamento sui lieviti indigeni per 4 mesi in acciaio.
Un vino che vuole essere l’espressione naturale di questo terroir, originale e identitario, caratterizzato soprattutto dalla presenza di macchia mediterranea. Al palato ha un gusto pieno, di ottima struttura. Lo troviamo molto Intrigante!
“CANNELLINO” di Frascati DOCG VENDEMMIA TARDIVA 2020
80% Malvasia Puntinata, 10% Greco e 10% Bombino (200 bottiglie)
Rese molto basse per questo Cannellino con una vendemmia tardiva e un leggero appassimento in pianta. Imbottigliato da poco, ma già ricco di profumi come albicocca candita, agrumi canditi, miele, zenzero, fieno, muschio, terra bagnata. Degustandolo abbiamo questa dolce e fresca sensazione di canditi predominanti, note di erbe aromatiche e un retrogusto di caramella mou.
Macerazione a freddo sulle bucce e affinamento, come da tradizione, 5/6 mesi in caratelli di legno.
Visitando anche il loro punto vendita ci rendiamo conto che la produzione qui non è soltanto del loro eccellente vino, ma anche di marmellate, olio, una passata di pomodoro selezionata e premiata dal gambero rosso e sott’oli.
Un grande ringraziamento a Cristina Piergiovanni e alla sua Famiglia per averci ospitato nella loro Cantina, regalandoci una visita indimenticabile in una giornata calda e soleggiata.
A conclusione di questa intensa giornata, Vi lasciamo con le parole di Bruno Gasperini:
“Noi abbiamo una storia, quella non ce la toglierà mai nessuno, abbiamo una bella azienda e molte volte si deve puntare su quello che si ha, sui propri punti di forza. Il nostro è sicuramente la nostra antica storia, partendo dai nostri nonni”.
Noi ci sentiamo di aggiungere:
“Historia magistra vitae – la storia è maestra di vita”
Ilaria Castagna e Cristina Santini
Partners in Wine
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10 Ottobre, 2022
PARVUS AGER: il "piccolo campo" dall’antica tradizione al cambiamento
“Mi piace pensare che nelle mie vene scorre vino. Sono cresciuta all’interno delle Cantine di mio nonno, giocavo a nascondino in mezzo ai filari, andavo in bicicletta in mezzo ai silos. Il vino fa parte di me”.
Ci piace aprire il nostro racconto con le intense parole di Silvana Lulli, nipote del Fondatore, Silvano Lulli, il Nonno, l’artefice, il Maestro che nel periodo della seconda guerra mondiale portava, come da tradizione nei Castelli Romani, il vino con il carretto fino a Roma.
Questa è la storia di un’antica famiglia di viticoltori, giunta alla quarta generazione, e pronta a sterzare, facendo tesoro degli insegnamenti passati, per lasciare un’impronta profonda, nel luogo di appartenenza e nel mondo del vino.
la cantina con i suoi vigneti
L’Azienda venne acquistata 40 anni fa e chiamata “PARVUS AGER“ dal latino “piccolo campo”, che poi tanto piccolo non lo è, a testimonianza della soddisfazione di aver comprato una grande realtà ovvero 54 ettari a Roma, tutti concentrati nella stessa zona, nel cuore dell’Appia antica tra Santa Maria delle Mole e Ciampino.
LA COSTRUZIONE DI UN FUTURO
Sette anni fa, con l’obiettivo di puntare non alla quantità ma alla qualità, sono stati impiantati nuovi vitigni autoctoni ed internazionali e questo ha permesso all’azienda di passare da soli conferitori di uve, quali erano, a veri e propri produttori seguendo tutte le fasi della produzione fino all’imbottigliamento.
La cantina è stata costruita totalmente nel 2020, rivisitando interamente la parte tecnologica, dalla pressa soffice, alla macchina di filtrazione di ultima generazione che non stressa il vino e non lo riscalda.
Su questi 54 ettari sono piantate 11 varietà, in prevalenza Montepulciano e Malvasia puntinata, ma anche le varietà Trebbiano verde e Bombino per realizzare soprattutto la Roma Doc. Mentre per i vitigni internazionali ci sono Syrah, Petit Verdot e Viognier che hanno trovano il loro habitat ideale grazie al terreno molto particolare e ricco di minerali, epicentro del cratere del vulcano laziale.
Un terreno che presenta, nei suoi strati tufo, basalto, minerali come potassio, magnesio, zolfo che unito ad un’attenta selezione in pianta e in cantina e con basse rese per ettaro, dona nel calice profumi persistenti e ricchezza al palato.
Ogni rigo di questa planimetria rappresenta un filare reale, diviso per varietà e colori.
Silvana ci racconta con entusiasmo che l’ azienda di Famiglia ha un profondo rispetto per l’ambiente e un legame indissolubile con il territorio; quest’anno, in effetti, non c’è stato bisogno di interventi particolari, grazie anche alla pulizia in vigna e alle potature più corte.
Gli interventi effettuati sono stati il meno possibili invasivi e solo all’occorrenza.
IL CAMBIAMENTO DI VITA
Entrata in Azienda a novembre dell’anno scorso, da prima dedita ad altro, convinta dal padre, Silvana entra nel cuore della Parvus Ager e rivoluziona tutte le fasi del processo di produzione portando profondi mutamenti.
“Questo mondo mi ha rapita fin da subito” .
Ad oggi, il padre è il supervisore, il fratello Giacomo opera in cantina, la sorella Alessia alla parte artistica, mentre lei si occupa dei rapporti commerciali con l’Italia e l’Estero, della produzione insieme all’enologo e di tutti gli eventi in rappresentanza dell’Azienda.
” Io qua sto bene, la passione è il volano, il motivo trainante”.
piantina distribuzione vigneti per colore
LA RIVOLUZIONE IN CAMPO
Uno dei cambiamenti fondamentali, per la cantina, è stato il cambio dell’enologo.
Dall’entrata di Paolo Peira in Azienda, lo scorso anno, sono iniziati una serie di esperimenti per cercare di capire come un vitigno possa evolvere con due lavorazioni diverse, come per esempio sta accadendo tuttora per il Sauvignon, raccolto quest’anno in due modi diversi, precoce ad agosto e maturo a settembre.
Stesso discorso vale per la varietà Viognier, piantata da poco, e sperimentata per cercare di cogliere le migliori sfumature e il suo comportamento su questa parte di suolo vulcanico.
Parlando sempre di esperimenti, Il fratello di Silvana, Giacomo, ha messo per gioco un anno fa, delle bottiglie di Malvasia puntinata e di Montepulciano ad affinare per sei mesi sotto terra nel punto in cui non cresce la vigna.
Si è notato che i vini hanno subito una trasformazione sia a livello visivo che olfattivo-gustativo, probabilmente grazie ad un terreno sulfureo, dove a quattro metri di profondità ci sono gaser con acqua a 70 gradi.
Su queste bottiglie sono in atto studi di ricerca per capire da cosa sia dipeso questo cambiamento, nonostante fossero sigillate con sughero e capsula.
UN GRANDE LAVORO IN CANTINA
Dall’intervista a Silvana:
” Stiamo crescendo, è un percorso difficilissimo e complicato. C’è una guerra dei prezzi pazzesca, ma noi abbiamo deciso di fare qualità e a determinati prezzi non possiamo scendere facendo due linee uguali per segmenti diversi. Preferiamo, per questo motivo, continuare a vendere una parte delle uve piuttosto che fare una separazione di qualità in cantina”.
Il vino sosta sulle fecce nobili fino alla fine e viene filtrato nel momento in cui viene imbottigliato; imbottigliamento che avviene solo su richiesta, altrimenti rimane ancora un po’ nelle vasche a riposare sulle sue essenze.
C’è tanta soddisfazione, per l’azienda, anche nella vendita delle cisterne sia sul territorio nazionale sia fuori dai Castelli romani.
Per quanto riguarda l’estero, stanno chiudendo contratti con gli Stati Uniti, Messico e Nord Europa.
botti di rovere dove riposato i vini rossi e bianchi
LA LINEA “ETERNA”
Le etichette della linea Eterna dedicate alla Roma Doc raffigurano i baccanali che, nella mitologia dell’antica Roma, rappresentavano le festività a sfondo propiziatorio e a rituali dedicati a Bacco in occasione della semina e della raccolta delle messi. E da brutti “mostri”, bevendo il vino, diventavano belle donne e begli uomini.
In occasione della presentazione della Guida “Vini Buoni d’Italia”, il Roma Doc bianco ha vinto il premio 4 Corone.
Potrete trovare questa linea in degustazione a Novembre, all’evento enogastronomico Excellence Food Innovation alla Nuvola di Fuksas nel cuore di Roma.
VISITA IN CANTINA E ASSAGGI DI VASCA
Con grande entusiasmo, iniziamo la visita in Cantina e da subito incontriamo tre grandi vinificatori nei quali, Silvana ci racconta, fermentano il Trebbiano Verde, il Cabernet Franc e il Petit Verdot da una settimana.
I rossi passano prima nei vinificatori dai 10 ai 15 giorni con continui rimontaggi di 10 minuti ogni ora.
Dopo la svinatura, viene estratto il fiore ovvero il liquido, risultante solamente dalla pigiatura e diraspatura, senza subire pressatura; mentre le vinacce vanno in pressa per essere torchiate (torchiatura leggera) da pressatura soffice.
Viene imbottigliato solo il liquido fiore, anche se la resa è inferiore ma la qualità è superiore. Questo procedimento è per tutti i rossi.
Ultima varietà ad essere raccolta è il Montepulciano perché è il più tardivo.
Il Rosso Roma Doc Riserva esce quest’anno dopo 12 mesi di legno grande da 25 hl di primo passaggio, due anni dall’imbottigliamento quindi per un totale di tre anni.
Come anche il Syrah che affina nelle botti di rovere da 25 hl e il Cabernet Franc in barrique di secondo passaggio.
Per noi, tutto questo, è il fascino dell’attesa per quei vini che stanno nei vari legni ad affinare, e l’emozione di degustare i giovani dalle vasche. Quindi il presente e il futuro di ogni vino.
tutte le bottiglie
Per il nostro primo assaggio da vasca, proviamo il Sauvignon Blanc, sul quale è stata fatta la stabulazione ( mosto e fecce a contatto per alcuni giorni prima della fermentazione alcolica) a otto gradi di temperatura per otto giorni, bloccando la fermentazione, per esaltare olfattivamente tutti i suoi profumi. In questo caso le uve sono state raccolte il 17 agosto, quindi precocemente, con un grado Babo basso.
Ci ritroviamo nel calice un’esplosione di aromi, un grado alcolico presente , zuccheri finiti, ma nonostante questo più chiuso all’esame organolettico, perché mantenuto ad una temperatura di nove gradi.
A differenza, il nostro secondo assaggio del Sauvignon, raccolto regolarmente il 29 agosto, svolge un processo di vinificazione normale.
Troviamo sì meno aromaticità al naso ma una impercettibile differenza con il primo calice.
A tal proposito, Silvana ci spiega, come tutto ciò non sia attendibile poiché ogni giorno evolve, preoccupa, rilassa, cambia, migliora. L’attesa sembra essere una spina nel fianco.
Al palato la differenza è notevole anche perché la temperatura è tarata a diciotto gradi con un’acidità più marcata e un più alto grado alcolico.
Tutto questo sapendo che, nel calice abbiamo la stessa uva, proveniente dalla stessa campagna e dallo stesso ettaro, ma con una lavorazione diversa.
Primo compleanno per il Viognier sul quale viene effettuata criomacerazione con il ghiaccio secco dentro la pressa fermo sulle bucce per delle ore.
Inconfondibile il nostro terzo assaggio, dolce al naso in contrasto all’amaro del palato, che non ti immagini da un naso così esplosivo di frutta esotica e matura.
Presenta ancora un po’ di zucchero, sapido e un po’ astringente nella parte centrale della lingua.
Per il nostro quarto assaggio, Silvana ci presenta, il suo Vermentino che, “udite udite”, quest’anno affinerà per la prima volta in barrique di secondo passaggio. Lo troviamo ancora poco attendibile poiché all’inizio della fermentazione con un grado zuccherino alto ma già con sentori iniziali citrico come il cedro.
Assaggi da vasca
Passiamo al nostro quinto assaggio e da buone amanti dei Rossi ci immergiamo, totalmente affascinate, tra le vasche del Syrah.
Ci troviamo al calice un bellissimo color rubino intenso, già con una grande astringenza nonostante l’assenza di legno e le poche speziature. Un vino molto pulito benché ancora in fermentazione.
Finale con il botto: sesto assaggio con il Petit Verdot.
Ancora nel vinificatore in fermentazione da sette giorni, contempliamo il suo colore stupendo da succo d’uva rosso violaceo (quasi sicuramente affinerà in legno), strabiliante al naso e al palato, morbido nonostante sia ancora un vino “sporco” in fermentazione.
Silvana ci dice che vorrebbe metterlo così in bottiglia per quanto è buono.
Noi concordiamo. A tavola lo berremmo così!
sfumature di colore
Grandi prospettive, grandi obiettivi per questa cantina che ha investito sulla tecnologia all’avanguardia, su vini di qualità pur mantenendo la tradizione ma puntando al futuro.
Molte novità all’orizzonte!
Silvana Lolli
Ringraziamo Silvana Lulli e la sua Famiglia per averci ospitato e aperto le porte della loro “casa” raccontandoci il futuro della Parvus Ager che noi, nel nostro piccolo, vi abbiamo voluto esporre. Andateli a trovare!
A ragion veduta, vi lasciamo come sempre, con un finale sul quale riflettere :
“Innovare è inventare il domani con quello che abbiamo oggi”
Ilaria Castagna e Cristina Santini
Partners in Wine
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26 Settembre, 2022
Lugana un vino nato per invecchiare
Un vino nato per invecchiare “Immediatezza e longevità”, un titolo che racchiude tutta la natura e le potenzialità del Turbiana, il vitigno da cui nasce la storica Doc Lugana: un vino nato per invecchiare. Nata nel 1967, una delle prime in Italia, è una denominazione interregionale lombardo-veneta, che si estende nell’area a sud del Lago di Garda.
È stato un viaggio meraviglioso per noi, Partners in Wine, partecipare alla Masterclass ” Lugana Armonie senza tempo”, promossa dal Consorzio di Tutela Lugana Doc, tenutasi a Villa Piccolomini, nel cuore di Roma. Raccontata minuziosamente da Daniele Cernilli, fondatore della testata e guida vini Doctor Wine, affiancato da Fabio Zenato, Presidente del Consorzio, abbiamo scoperto le tante versioni della Doc Lugana: Spumante, Base, Superiore, Riserva e Vendemmia Tardiva. L’esperienza ci ha dimostrato come il tempo possa essere un valido alleato, regalandoci in ogni calice vini di grande spessore, versatili, con un’acidità predominante e un’evoluzione sorprendente.
Il terroir del Turbiana
Chiamato anche Trebbiano di Lugana, il Turbiana fa parte della variegata famiglia dei trebbiani e presenta alcune similitudini con il verdicchio. È coltivato per lo più in Lombardia, in cinque Comuni, Sirmione, Desenzano, Lonato, Pozzolengo e Peschiera su terreni morenici, ovvero sbriciolati dai ghiacciai, ricchi di argilla bianca, componenti calcaree, minerali fino a diventare sabbiosi verso le colline. Il Lago di Garda, il più grande d’Italia, è la testimonianza di quel che resta di un antico ghiacciaio di diecimila anni fa che si è ritirato. È una massa d’acqua importante che rappresenta un’isola mediterranea, una sorta di enclave all’interno della Pianura Padana. Il clima mediterraneo favorisce la crescita sana delle uve e una ventilazione costante, addolcendo le temperature mitigate dalle brezze del lago. Sono zone altamente soleggiate, prive di nebbia, con un microclima unico, ottimo per la coltivazione di quest’uva dalla buccia spessa e dal grappolo compatto.
Il Consorzio: numeri e obiettivi
Dalle parole del Presidente: “Il Consorzio sta in una fase di crescita continua, in particolare all’estero; il Lugana Doc conta ad oggi 2500 ettari vitati ed è una denominazione che produce 27 milioni di bottiglie l’anno di cui il 70% viene esportato all’estero soprattutto in Europa, America e Asia. È un vino che sta crescendo anche al suo interno in termini di piccole e medie aziende che stanno operando in modo qualitativo e rappresentano identità uniche nel territorio. In questa giornata siamo in veste di promotori del nostro territorio; è una denominazione molto conosciuta all’estero e che in Italia vive una fase molto importante di crescita che si sviluppa soprattutto sull’asse Milano-Venezia. Ecco allora la volontà di raccontare anche qui a Roma il territorio attraverso i vini e poter poi condividere con Voi, Operatori e la Stampa, quello che è il senso del Lugana”.
Lugana: una sorprendente degustazione
In questa prima parte, abbiamo avuto modo di degustare 10 referenze a confronto e alla cieca. I primi cinque vini erano della stessa annata, una orizzontale della 2021 di cinque cantine differenti. La seconda batteria dei cinque vini era di diverse annate, una verticale della 2020, 2018, 2017, 2009, 2002 vendemmia tardiva. I temi affrontati in questa sessione sono stati l’autolisi dei lieviti, l’immediatezza e la capacità di sfidare il tempo del Lugana, caratteristiche peculiari di questo vitigno dalla grande personalità. L’autolisi è il percorso più importante: la permanenza sulle fecce di fermentazione, ricche di proteine, che arricchiscono la massa di elementi che vanno a formare le molecole odorose, al di là delle note fruttate, donano un’ampiezza maggiore al risultato finale. Si vengono ad originare così caratteristiche organolettiche che ritroviamo in ogni calice, come firma di una linea stilistica simile per tutti i produttori, dovuta alla coltivazione in terreni e con condizioni climatiche abbastanza uniformi. Tutti elementi che fanno sì che il Lugana diventi riconoscibile e unico. Le note organolettiche che riscontriamo comunemente sono la pietra focaia, candela spenta, note di combustione, note sulfuree che si incrociano con note fruttate, agrumate, e un’amabile mandorla fresca.
Annata 2021
In questa annata abbastanza classica, un po’ più calda rispetto a quella in corso, le note descritte sopra sono evidenti fin da subito, avvertendo proprio una sorta di comunità stilista soprattutto nei primi tre calici degustati. È sorprendente il livello di acidità molto interessante considerando che, come ci racconta Cernilli, la zona si trova a Nord del 45° parallelo, come Bordeaux, e che ha invece questo clima mediterraneo mite grazie alla sua vicinanza al lago che ha questa azione di termoregolazione sulle temperature. Tutti i vini 2021 in degustazione passano dai quattro agli otto mesi sulle fecce sottili e vinificano in acciaio. In alcuni sono evidenti più le note fermentative, citriche/agrumate; in altri più le note floreali e fruttate. Nei primi tre calici non c’è un frutto definito, è sempre un’attesa olfattiva. Troviamo una comunione di elementi primari, fermentativi ma anche terziari. Non ci sono elementi di calore alcolico, è più marcata la salivazione in alcuni calici in funzione della freschezza. Il quarto calice è un vino composto, che dà l’impressione di avere un residuo zuccherino dovuto però alla sua dolcezza alcolica, molto completo al livello olfattivo che esprime le caratteristiche tipiche del Lugana con meno sentori di pietra focaia. Un vino piacevole, morbido. Infine nel quinto calice troviamo una nota sulfurea molto presente, dovuta forse alla sua permanenza più lunga sulle fecce, un’acidità più alta e una astringenza leggera sulla punta della lingua. C’è qualche elemento in contrapposizione che lo determina e lo rende interessante per la sua “rusticità”. Per cui, in definitiva, si alternano vini con maggiore acidità e salinità rispetto alla struttura, più immediati; altri con una struttura più predominante, più completi nella composizione dei vari elementi organolettici. (In ordine di degustazione: La Meridiana, Cantina Bulgarini, “Le Creete” di Ottella, “Montunal” di Montonale, ” Capotesta” di Cascina Maddalena).
Annata 2020
Annata più fresca che porta nel calice determinati aspetti di acidità più evidenti. Naso divertente e complesso, note agrumate, meno pietra focaia, spiccata acidità, meno struttura, meno calore alcolico, croccante, nota più fresca: “dove i valori del Nord vincono sui valori del Sud”, ci spiega Cernilli. Da qui, confrontandoci, capiamo con più determinazione che il Lugana non è soltanto un vino che si esprime in modo orizzontale con caratteristiche uniformi come nella 2021, ma a seconda dell’annata ha delle espressioni diverse. Questo calice ha un’espressione più verticale. Si sente tutto il Nord. (Lugana Doc “Sorgente” Citari).
Annata 2018
Annata simile alla 2020, leggermente più fredda. In questo calice sentiamo note agrumate più aspre quasi di limone, un’evoluzione di pietra focaia, candela spenta, più sapido che aiuta la salivazione, un ottimo rapporto tra struttura e acidità. Un vino sinestetico per metafora, più verticale, più ghiaccio rispetto alla 2021; è l’espressione di quella che potrebbe essere l’ampiezza di un Lugana, non è un vino banale che verte solo sulla frutta esotica, ma un vino che non ci si aspetta di degustare e stupisce. (Lugana Doc “Demesse vecchie” di Olivini).
Annata 2017
La 2017 è stata la prima annata veramente tropicale. Sia all’olfatto sia al palato pensiamo possa fare un passaggio in legno e da qui il colore più carico, la presenza di note di frutta tropicale esotica e di mandorla fresca. All’inizio ha qualche nota fenolica dovuta sicuramente alle alte temperature che hanno favorito le parti solide. Molto piacevole e gastronomico. (Lugana Doc Riserva ” Sermana” di Corte Sermana)
Annata 2009
Un’annata che gioca tutto sull’acidità e quindi sulla longevità di questa bottiglia. Colore dorato, all’olfatto sentiamo delle note di cereali, c’è un ricordo di fermentazione nonostante il tempo passato, miele, mango, acidità spiccata. Qui siamo al di là del semplice frutto. Alla faccia dei bianchi che non invecchiano!!! Un vino fantastico da tenere in cantina e saper attendere. (Lugana Doc “Madre Perla” di Perla del Garda).
Annata 2002
Questa annata è stata terribile in tutta Italia, piovosa e fredda. Nonostante il tempo, questo calice è straordinario. È un’espressione sontuosa di Lugana che ha un’acidità alta ancora presente dopo venti anni. All’olfatto sentiamo profumi di cereali, note terziarie, agrumate, tioliche. Avvolgente al palato come una poesia con un’ottima tenuta. Una gran bella scoperta il suo potere di invecchiamento.
Nel corso dell’evento abbiamo degustato altri Lugana, altre versioni anche spumantizzate e annate più vecchie, grazie alle 38 aziende presenti sotto la loggia, venute a Roma a rappresentare le tante sfumature di quest’uva meravigliosa che ci ha regalato tante emozioni nei calici. Calici che, in ogni tipologia, hanno egregiamente accompagnato gli antipasti di salumi e formaggi di varie stagionature e i giochetti al ragù in bianco. Abbiamo avuto il grande piacere, tra le tante ottime aziende, di degustare tutti i prodotti della Cantina Le Morette del Presidente del Consorzio, Fabio Zenato.
Concludiamo, come sempre, lasciandovi con una frase che, secondo noi, rappresenta anche i nostri caratteri e pensieri :
“Il vino mi ama e mi seduce solo fino al punto in cui il suo e il mio spirito si intrattengono in amichevole conversazione”. Hermann Hesse
Cristina e Ilaria
Partners in Wine
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19 Settembre, 2022
CUVETTE VILLA FRANCIACORTA: LA FORZA DEL TEMPO ATTRAVERSO LE BOLLICINE.
È una mattina di fine giugno e a Monticelli Brusati il sole è già caldo. Siamo in una delle estati più calde della nostra storia. Le foglie guardano la terra che, polverosa e arida a causa della siccità, trasmette lo sforzo che ogni singola pianta di vite sta vivendo in questo periodo difficile per le condizioni climatico-ambientali. Meravigliosa è la brezza che dal lago di Iseo invoglia a camminare tra le vigne, in attesa di quello che è un evento che raramente avviene in Franciacorta: la verticale di ben dieci annate di Cuvette.
Villa Franciacorta ci regala ogni anno spumanti millesimati Franciacorta con lavorazioni lunghe sui lieviti. Cuvette appartiene alla romantica storia di essere stato il vino di nozze di Roberta Bianchi e Paolo Pizziol, oggi titolari dell’azienda, donatole dal papà, Alessandro.
Un Franciacorta caratterizzato da una personalità decisa e solida, che dà conferma a chiunque lo degusti. 85% Chardonnay e 15% Pinot nero con una lavorazione di circa 6 mesi e i seguenti 66 mesi l’affinamento è sui lieviti (per l’ultima annata prodotta). Una bollicina che già sposa l’idea del tutto pasto, che rimane al centro dell’attenzione se servita dall’antipasto al fine pasto, nel rispetto delle portate ad essa abbinate.
Accolti nella sala delle degustazioni, siamo stati felicemente accomodati ad un tavolo imperiale per circa cinquanta giornalisti del settore, ristoratori ed enotecari. Siamo dunque stati guidati magistralmente da Nicola Bonera, miglior Sommelier d’Italia nel 2005, percorrendo così la storia di Cuvette e dell’azienda attraverso una “macchina del tempo”.
2016
Descrizione tecnica:
Una grande vendemmia. Un anno certamente non facile sotto l’aspetto climatico con fasi alterne che hanno consentito di raggiungere risultati sorprendenti sotto l’aspetto qualitativo. L’andamento climatico particolarmente favorevole della primavera, senza grosse insidie dal punto di vista fitosanitario, ha consentito una ripresa vegetativa in media con annate precedenti e lasciava prevedere una buona evoluzione. Ai primi di giugno un clima più fresco e umido con piogge frequenti ha comportato un rallentamento delle fasi fenologiche con conseguente posticipo della maturazione. A fine luglio l’annata si presentava con un potenziale produttivo di grande interesse e indubbia qualità con una riduzione quantitativa tutto sommato limitata. Gradazioni ideali, ottime acidità, profumi intensi e fragranti, e come sempre, caratteristica di questo terroir, la eccellente sapidità hanno dato
vita ad una grande annata.
Inizio vendemmia: 25 agosto
Bottiglie prodotte: 8.155
Data sboccatura: agosto 2021
Note di degustazione:
Colore meraviglioso, brillante e lucente. Il naso sprigiona note intense; è un naso pieno e completo;
Si percepiscono i sentori di frutta gialla ancora croccante, le linee sottili di spezia e delicata balsamicità. Le sensazioni fragranti di lievitati accompagna, e mai schiaccia, il ventaglio di profumi.
In bocca sprigiona una forza elegante con particolare ricchezza sia di aromi che nell’equilibrio gustativo. Freschezza tesa e grande pienezza nel sorso. Persistenza straordinaria e nota sapida particolarmente percettibile.
2015
Descrizione tecnica:
La stagione vegetativa 2015 è cominciata senza intoppi con il germogliamento intorno alla prima decade di aprile. Da aprile ad agosto la stagione 2015 è stata la meno piovosa degli ultimi anni. L’andamento meteorologico del mese di luglio, caratterizzato da pioggia quasi assente e temperature medie giornaliere piuttosto alte, ha rallentato l’attività metabolica delle vigne, riportando la progressione della maturazione ad un andamento più regolare. Le raccolte sono cominciate intorno a Ferragosto e sono proseguite per circa venti giorni. Il perdurare di temperature medie piuttosto elevate ha comportato una vendemmia breve e concentrata. Infatti, per le uve destinate alla spumantizzazione è molto importante la tempestività della raccolta per garantire il mantenimento del corretto corredo acidico, che assicura la caratteristica freschezza e longevità de Franciacorta.
Sul piano quantitativo rispetto alle premesse iniziali, le rese realmente registrate in cantina sono tra il 5 e il 10% inferiori alle aspettative, in quanto la quasi assenza di precipitazioni durante tutta la stagione vegetativa ha determinato un alleggerimento del peso dei grappoli. Sul piano qualitativo complessivamente quella del 2015 è da considerarsi un’annata interessante, con profilo da vini più orientati a struttura e complessità che in altre annate.
Inizio vendemmia: 14 agosto
Bottiglie prodotte: 7.061
Data sboccatura: maggio 2020
Note di degustazione:
Il colore si presenta sempre molto bello. La nota varietale dello Chardonnay al naso si esprime in maniera diretta e nitida. Deciso e verticale con leggere sfumature erbacee, verde e una frutta bianca succosa e croccante. La pulizia di bocca e l’equilibrio di beva sono eccellenti. Ha il difetto, se così si può chiamare, di non colmare mai la sete. Si continua bere e molto volentieri. Talmente cremoso e ricco che ricorda un Saten.
Si percepisce a livello generale che l’annata è stata particolarmente bella ed equilibrata. Non si percepiscono shock, tutt’altro, è fluido e leggiadro, come ci si aspetta da una bollicina di questa caratura.
2012
Descrizione tecnica:
Ottima annata caratterizzata da repentini cambiamenti climatici, che hanno alternato periodi caldi e secchi a periodi freddi e umidi. In particolare, un periodo freddo ed umido in concomitanza della fioritura ha determinato una sensibile riduzione della quantità dei grappoli, mentre un periodo di caldo torrido e secco è coinciso proprio con l’inizio della vendemmia. La conoscenza del terroir associata alla corretta gestione delle pratiche agronomiche, hanno consentito di avere un ottimo raccolto dal punto di vista qualitativo e buono da quello quantitativo.
Inizio vendemmia: 17 agosto
Bottiglie prodotte: 6.030
Data sboccatura: marzo 2018
Note di degustazione:
Bollicine e colore fini ed eleganti dal punto di vista visivo. Sia l’impatto olfattivo che quello gustativo portano al racconto del vino finezza e una sensazione un pochino più esile rispetto alla grande annata 2015. Da aspettarselo ed esaltarlo in quanto la precisione con la quale si esprime questo spumante è davvero esaltante. Belle le note mentolate, di anice, fresche e balsamiche regalate dal pinot nero. Una frutta un poco più a pasta bianca e le note speziate che ricordano la 2016.
2010
Descrizione tecnica:
Buona annata, dopo un inverno freddo e umido il germogliamento è iniziato con sensibile ritardo. Buona emissione di grappoli con un equilibrato rigoglio vegetativo. Fase della maturazione caratterizzata da un insolito periodo fresco e piovoso che ha portato ad un ritardo del periodo della vendemmia; i grappoli hanno mantenuto acidità elevate, superiori alla media, con gradazioni medio basse.
Inizio vendemmia: 30 agosto
Bottiglie prodotte: 7.710
Data sboccatura: febbraio 2017
Note di degustazione:
Anche nella 2010 il colore e la bollicina sono meravigliosi alla vista. Al naso si percepiscono note di leggera ossidazione, una frutta particolarmente matura, sfumature di caramello, spezie che tendono all’orientale e un finale di erbe aromatiche molto piacevole. Il sorso è pieno, rotondo, particolarmente “grasso” dettato anche da una bollicina più fine e meno impetuosa. Lo Chardonnay è caldo e carico e il Pinot nero dona struttura e ricchezza gustativa. Bello il finale esotico e di liquirizia in polvere, nonostante la lunghezza non sia da segnalare. La sapidità è una costante.
2008
Descrizione tecnica:
Ottima annata. L’inverno non particolarmente freddo ha favorito una buona ripresa vegetativa con una giusta emissione di grappoli. La primavera, caratterizzata da continue piogge accompagnate da basse temperature, ha ritardato le fasi vegetative incidendo in maniera sensibile sul momento della raccolta. Nella media la produzione quantitativa, regolare in tutti gli apprezzamenti. Ottima la matura-
zione dello Chardonnay, che ha conservato un patrimonio aromatico importante ed ha consentito una produzione vinicola qualitativamente superiore alla media. Buoni i tenori zuccherini con acidità elevate.
Inizio vendemmia: 26 agosto
Bottiglie prodotte: 7.495
Data sboccatura: marzo 2016
Note di degustazione:
Il naso è il più floreale trovato finora: spensierate le note di violetta accompagnate dalle note di erbe aromatiche come la salvia e il timo, tutti particolarmente intensi, che si percepiscono ancora prima di avvicinare il calice al naso. In bocca la bollicina è numerosa e persistente, ma non invasiva. Si può definire vinoso, con una leggera sfumatura liquorosa ben riequilibrata dalla freschezza e sapidità che a braccetto danno quel leggero colpo di durezza che un’annata come la 2008 necessitava.
Il finale è speziato e si intravedono le note di pasticceria e di panettone. La balsamicità sempre presente in persistenza.
2007
Descrizione tecnica:
Buona annata caratterizzata da un inverno mite, con temperature quasi mai al di sotto degli 0° C, e da una primavera particolarmente calda dove la ripresa vegetativa precoce ha portato ad una fioritura anticipata di 2-3 settimane. Il successivo altalenarsi di ritorni di freddo a temperatura al di sopra della media non ha particolarmente favorito l’allegagione incidendo sensibilmente sulla quantità di uva
prodotta. L’impennata di temperatura del mese di luglio ha accelerato nuovamente la maturazione portando ad un anticipo della raccolta di 10-15 giorni rispetto alla media delle annate precedenti. Le uve raccolte oltre ad un perfetto stato sanitario presentavano un ottimo contenuto zuccherino con buoni livelli di acidità.
Inizio vendemmia: 8 agosto
Bottiglie prodotte: 14.612
Data sboccatura: maggio 2014
Note di degustazione:
Tostatura. La prima cosa che si percepisce al naso è quel leggero sentore di nocciola tostata e coccio di abete ardente. I terziari si fanno sentire e la parte di frutta, pur essendoci e raccontandosi, passa leggermente in secondo piano. Il sorso colpisce ancora per la bollicina viva. Grande equilibrio anche per questa 2007. Bella è la persistenza tattile, più che gustativa, in quanto la sapidità rimane sulle labbra e dona quella piacevolezza di beva che da un vino così longevo non ti aspetteresti.
2006
Descrizione tecnica:
Ottima annata. Ripresa vegetativa in condizioni climatiche ottimali, che ha favorito una buona emissione di grappoli al punto che in taluni appezzamenti si è reso necessario il diradamento. Un inizio dell’estate particolarmente caldo e asciutto ha fatto temere un ripetersi dell’annata 2003. Grazie però ad un sostanzioso cambiamento delle condizioni climatiche che hanno portato acqua in quantità ideali per lo svolgimento delle fasi vegetative della vite, per l’accrescimento degli acini. La formazione degli zuccheri e la salvaguardia del patrimonio acido e aromatico, al momento della raccolta le uve si sono presentate perfette dal punto di vista sanitario con un ideale contenuto di zuccheri, acidità buone con una concentrazione alta di componenti aromatiche.
Inizio vendemmia: 23 agosto
Bottiglie prodotte: 18.910
Data sboccatura: ottobre 2011
Note di degustazione:
Già al naso percepiamo che questo 2006 sarà uno spumante dalle mille freschezze. Verticale al naso e colpisce ancora una volta la capacità di lettura dell’annata da parte del vino. Un’annata più fresca che porta sensazioni fragranti, leggera mentuccia, spesse sensazioni semi aromatiche, una punta di incenso e mela golden in abbondanza. In bocca sia la bollicina che la struttura del vino danno la sensazione di essere meno potente, più sottile, più delicata, ma diretta e tagliente.
Può sembrare esile, ma ha in sé la vigoria di un Franciacorta che ha fatto un passaggio in legno, seppur minimo, che non sovrasta, ma ne arricchisce il sorso.
2003
Descrizione tecnica:
Buona annata. Fino alla fine di giugno andamento climatico nella norma. Durante i mesi di luglio e agosto si è manifestato un periodo molto caldo e asciutto con temperature prossime ai 40°C. Vendemmia molto anticipata rispetto alle annate precedenti con gradazioni spesso elevate e bassa acidità. Scarsa resa del mosto. La natura e la profondità dei terreni aziendali hanno mitigato notevolmente i disagi climatici dell’annata consentendo comunque di ottenere bollicine di buon spessore.
Inizio vendemmia: 13 agosto
Bottiglie prodotte: 14.000
Data sboccatura: febbraio 2008
Note di degustazione:
Siamo difronte ad una delle migliori bottiglie della verticale. Un colore che ricorda l’oro colato con i riflessi ancora vivi e vivaci. Già dal suo aspetto si può intuire il potenziale di un vino che ha sulle spalle 21 anni, di cui 16 dalla sboccatura. Il naso si presenta regale, sommo e austero per certi versi. Dopo qualche istante si sprigiona un’intensità profonda e un ventaglio di aromi che continua ad evolvere senza mai perdere di intensità. Le note di ossidazione ricordando vini come la vernaccia di Oristano, con uno spetro olfattivo tridimensionale. Ricco al naso con profumi di miele, frutta secca, albicocche disidratate, anice stellato, chiodi di garofano, fichi secchi, menta peperita…e potrei continuare per ore a narrarlo. La bocca stupisce con una bollicina galoppante e una freschezza ancora netta, a tratti tagliente. Un tripudio di lunghezza gustativa e straordinaria piacevolezza. In forma la bottiglia? Può essere, ma solo chi fa in maniera passionale, consapevole e attenta il vino può regalare emozioni di questo tipo attraverso “una propria creatura”.
1999
Descrizione tecnica:
Annata contraddistinta da una buona ripresa vegetativa. Buona produzione e stato sanitario eccellente. Gradazioni medio-basse con buona acidità caratterizzata da alti livelli di acido malico, che hanno consentito un eccellente sviluppo delle potenzialità aromatiche dell’uva.
Inizio vendemmia: 1° settembre
Bottiglie prodotte: 13.050
Data sboccatura: marzo 2003
Note di degustazione:
Una delle prime bottiglie prodotte cha ha la caratteristica di avere un grado zuccherino un po’ più elevato (in etichetta troviamo l’indicazione “extra dry”). Le motivazioni dell’utilizzo di questa dose extra di zucchero sono molto semplici da comprendere: la conservazione del vino. Non si tratta di una scelta stilistica, ma pura chimica e fisica. Le sensazioni che regala un vino spumante del 1999 sono emozionanti a priori, in quanto la capacità di riuscita di un prodotto fatto in epoche con tecnologia e conoscenza inferiori a quelle di oggi. Tuttavia, il vino si presenta dal corredo aromatico interessante, sicuramente evoluto e con la maturità propria di uno spumante di questa annata. Molto complesso e ricco e, degustandolo, mantiene ancora viva bolla e freschezza.
La dose di dosaggio rende tutto molto rotondo e morbido, ma non stucchevole. Persistente al palato, sicuramente un vino che si avvicina più all’abbinamento con formaggi erborinati o con un dessert fresco ed estivo.
A degustazione conclusa, un grande insegnamento che rimane è l’impotenza dell’uomo di fronte alla natura. Nonostante se le idee siano ottime, le tecniche affinate, i metodi di produzione all’avanguardia, in ultimo i conti sono da fare con la natura che ci circonda, le stagioni che si susseguono e con tutto il creato. Saranno questi fattori che aiuteranno nell’ottenimento di un prodotto eccellente o, al contrario, complicheranno la produzione e le aziende.
Definire questa esperienza straordinaria è riduttivo, senza considerare l’unicità delle annate e delle bottiglie aperte.
La vera esperienza è come il vino permetta all’essere umano di tornare indietro nel tempo e di viaggiare riscoprendo idee, filosofie, esperimenti, prove, successi, sconfitte, attraverso un ricordo tangibile. È qualcosa che ti riporta ad un periodo che ormai non c’è più, ma che non si dimentica e che non si deve dimenticare, perché proprio grazie a chi c’è stato, oggi noi siamo.
Federico Bovarini
Descrizione tecnica per ogni annata a cura di Villa Franciacorta
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17 Agosto, 2022
Mottura e il Grechetto: un'antica storia d'amore
Continuano le incursioni per cantine de Il vino in una stanza questa volta nella Tana dell’Istrice, per raccontare di Sergio Mottura e il Grechetto: un’antica storia d’amore.
Come nel film “Le Cronache di Narnia”, entrando nell’armadio, qui in cantina, ci ritroviamo in un’altra dimensione. Inondate da pareti di pietra, scendendo molte scale, sempre più in profondità, veniamo immerse in una grotta scavata nel tufo risalente al XV Sec.
Adornato da così tanta storia, tradizione e cultura riposa qui lo spumante, in un accumulo stratificato di cenere vulcanica che isola e mantiene una temperatura di 13 gradi che improvvisamente ci da una sensazione rigenerativa dopo il gran caldo vissuto in questa giornata . Ci colpisce la muffa ovunque depositata sulle bottiglie a riposo, la stessa che troviamo nelle cantine dello Champagne.
Nelle Terre del Grechetto Edizione 2022
Siamo a Civitella D’Agliano, nell’Alta Tuscia viterbese, all’evento Nelle Terre del Grechetto XIX edizione. Organizzato dalla Proloco e condotto dal giornalista enogastronomico Carlo Zucchetti, siamo ospiti dal grande Sergio Mottura. Mottura è tante anime: pioniere del biologico dagli anni 90, grande icona del grechetto, vitigno emblema di questo territorio. Ha fondato la propria immagine e la propria produzione proprio su di lui. Ritrovandoci in questa suggestiva piazza medievale, ci accoglie Giuseppe che, accompagnandoci all’interno della sala di degustazione, ci racconta la storia della sua famiglia che noi vi riportiamo con immenso piacere.
Una bella storia
Una bella storia quella dell’amore tra Mottura e il grechetto, la volete sentire? Giuseppe Mottura, figlio del “Boss” Sergio Mottura (così da lui soprannominato), ci porta con la mente direttamente al 1933, quando Sergio, giovane ragazzo intraprendente e grande sognatore, eredita da un suo prozio paterno piemontese la tenuta a Civitella D’Agliano. Fino agli anni ’60 molte zone d’Italia, compresa questa dove ci troviamo, erano gestite con contratti di mezzadria. Tutto cambiò nel Settembre del ’64: fu rivoluzionato tutto il sistema agrario. Le scelte che cambiano la prospettiva. E’ il momento in cui Sergio inizia a prendere decisioni fondamentali per lo sviluppo dell’azienda. La Scelta con la S maiuscola fu quella di innamorarsi follemente del grechetto.
Grechetto super omnia
Mottura e il grechetto. Oggi la chiameremmo intuizione, all’inizio fu una semplice scelta derivata dall’aspetto organolettico del vitigno. Tra Orvieto doc, Malvasia, Trebbiano, Procanico, Grechetto e altri, Sergio si rese conto che quest’ultimo dava risultati migliori, qualitativamente più alti. Ha inizio così questa lunga storia d’amore con il grechetto, partendo proprio dal “Poggio della costa”, vigneto piantato a filare negli anni ’70. Sino ad allora e nei decenni precedenti i mezzadri, non potendo impiegare un ettaro di terra solo per la coltivazione della vite, utilizzavano il terreno per altre colture. Quindi la vite era maritata ad un albero da frutto o ad un olmo (stucchio). Tutto questo, ovviamente, venne meno con l’arrivo dell’imprenditoria agricola e con l’impianto dei primi vigneti “puri”. Altra scelta fondamentale arrivò alla fine degli anni ’80, quando Sergio decise di imbottigliare i propri vini, passando da conferitore di uve a produttore, occupandosi di tutte la fasi produttive fino alla commercializzazione, creando il proprio marchio aziendale e divenendo così vignaiolo al 100%.
L’istrice simbolo di approccio biologico
Terza scelta, anche questa estremamente importante per il progresso aziendale, è stata quella di dedicarsi completamente al biologico. La conversione inizia nel ’91 e la certificazione arriva nel ’96. Perche l’istrice in etichetta ? “L’idea dell’istrice nasce quando mio padre, accanito sostenitore del biologico, comincia a lavorare la terra in maniera più salutare, sostenibile e si accorge del ritorno degli istrici nei vigneti come parte integrante dell’eco sistema. Le tane sono bellissime sotto i nostri 37 ettari vitati. L’istrice diventa così un simbolo di unificazione dei vignaioli che decidono di seguire le orme del bio, del rispetto per la natura creando un mondo agricolo diverso da come era apparso negli anni ’70/80. Un mondo fatto di chimica. Un esempio: dopo anni di utilizzo del verde rame come prodotto previsto per la coltivazione biologica contro la malattia peronospora, oggi alcuni produttori hanno sostituito il metallo pesante che si accumula nel terreno con del semplice tannino di castagno, organico al 100%. Inoltre, viene usata la zeolite come prodotto naturale per rendere la vite più resistente alla siccità e migliorare le caratteristiche fisiche e chimiche del terreno.
Oltre le radici della vite
Oggi l’azienda fa parte di un gruppo di produttori di Orvieto, l’ORV (oltre le radici della vite), che da anni sta cercando di ricostruire l’immagine dell’Orvieto Doc e di lavorare insieme per una sua identità. Assaggiando e confrontando i vini, questi produttori sono giunti alla conclusione che il grechetto non è un’uva che vale per tutti i territori. Un territorio della Tuscia diversificato in tre macro-aree che hanno origini geologiche completamente diverse: c’è l’area vulcanica che parte del lago di Bolsena e arriva ad Orvieto; c’è la parte nord sedimentale e marina con grosse percentuali di argilla nei terreni; e infine la terza area, principalmente alluvionale del Tevere di migliaia di anni fa, circoscritta tra i due Comuni di Civitella D’Agliano e Castiglione in Teverina.
Orvieto DOC
Produzioni e terroir completamente diversi fanno sì che la percentuale di uve nell’Orvieto Doc cambi di zona in zona. Chiaramente in questa azienda il grechetto ne è protagonista. Dalla rivalutazione dei vitigni autoctoni, alla ricerca scientifica ed alla sperimentazione su campo, agli studi sul DNA e alle varie vinificazioni scelte per esaltare al meglio le grandi potenzialità del vitigno grechetto, la Famiglia Mottura ha voluto creare soprattutto un lavoro d’ identità e di qualità del prodotto, selezionando come unico denominatore, il Clone G109 ovvero il Grechetto di Orvieto. E’ un’uva difficile, tannica, bisognosa di una pressatura delicata, ma una garanzia per la longevità del vino, come ci dimostrano le bottiglie degustate in questa occasione. Ascoltando Giuseppe: “L’atteggiamento giusto del vignaiolo è considerare il vigneto eterno. Poiché la vite per 40/50 anni subisce stress, bisogna andare a lavorare con la sostituzione delle fallanze della vite che muore il prima possibile in modo che l’età media del vigneto rimanga alta, soprattutto facendo sì che tutte le viti rimangano in produzione”.
La degustazione
il titolo dell’articolo è Mottura e il Grechetto: un’antica storia d’amore. Il grechetto, infatti, è ovunque. Partiamo con la degustazione:
Spumante Metodo Classico Brut Magnum 100% Chardonnay millesimato 2011 – 10 anni sui lieviti sboccatura 05/22.
Nasce da uve Chardonnay, provenienti dal Cru San Martino, situato sulla parte alta dell’azienda. Nobile con un perlage fine ed elegante. Intreccio di sentori di erbe aromatiche con nuances complesse di crema pasticcera e nocciola. In bocca si avverte una grande freschezza vibrante con ritorni di agrumi e frutta secca.
Acidità molto alta: nelle annate in cui la maturazione avviene in giornate ancora molto calde, le uve sono raccolte nelle prime ore mattutine proprio per avere delle uve fresche e acidità maggiore. Racconta Giuseppe: “Mio padre mi racconta che nell’ 83 le prime prove di metodo classico furono fatte con uve Verdello e Grechetto, ma con scarsissimi risultati. Si passò così velocemente ai vitigni classici quali Chardonnay e Pinot Nero. La prima annata ufficiale però uscì nell’ 84 da uve Verdicchio e Grechetto. “
Tragugnano Orvieto Doc 2021 vs 2011 – 50% Procanico 50% Grechetto. Acciaio. (Entrambi tappi a vite plus)
In questo caso l’obiettivo è quello di rilanciare la DOC sia dal punto di vista comunicativo che organolettico. La strategia è quella di mantenere sempre alto l’interesse sul proprio territorio. L’ azienda si regge sulla produzione dell’Orvieto DOC e del Grechetto in purezza; insieme rappresentano quasi il 90% della produzione. L’Orvieto DOC è stato il vino fondamentale per questa zona e se, ad oggi si coltiva grechetto, è proprio perché nella doc da sempre c’è la sua presenza.
L’annata 2021 ha dato vita ad un vino semplice, godurioso e dinamico con piacevoli sentori di mela smith, glicine, pera williams, zenzero e mandorla amara , che rappresentano l’equilibrio perfetto tra la sapidità e l’acidità alta pur mantenendo un tenore alcolico importante. Tornando 10 anni indietro, ci troviamo a degustare la 2011 che ci colpisce per la sua spalla acida ancora alta e non spigolosa. La mandorla è sempre presente ma più dolce al palato con un arricchimento di frutta a polpa matura e miele con ritorni di pera, mela e nocciola.
POGGIO DELLA COSTA CIVITELLA D’AGLIANO IGT – 100% Grechetto CRU 2020 vs 2014 (50% tappo a vite plus e 50% sughero a scelta del cliente)
Uve raccolte rigorosamente a mano, pressate in maniera soffice con decantazione a freddo. Fermentazione e maturazione in acciaio per 6 mesi più due mesi in bottiglia. La 2020 è un vino molto giovane caratterizzato da grande acidità e sapidità. Venature minerali, evidenti note balsamiche e richiami di nocciola tostata e miele di castagno. La sua vibrante freschezza lo rende godibile in qualsiasi occasione. Poliedrico. Estrema: questa è la nostra parola assegnata alla 2014 a conferma della longevità del Grechetto. Il colore dorato ci conquista prima ancora di poggiare il calice al naso, abbiamo l’oro nelle mani. Un mix di frutta tropicale, frutta secca e miele di castagno ci avvolgono l’olfatto che ritroviamo anche al palato. Un leggero picco di ossidazione ci fa sorridere ma uno spiccato e bellissimo finale di fiori appassiti e erbe secche ci convince.
POGGIO DELLA COSTA
Dalle parole di Giuseppe: “Poggio della Costa è un vigneto piantato nel 1970; solo 7 ettari di Grechetto. Inizialmente mio padre prese tralci di grechetto da chi, per tradizione, coltivava e vinificava il Grechetto “buono”. In realtà dopo tanti anni di lavorazione, questo vigneto è diventato il nostro CRU aziendale. Io ho una definizione tutta nostrana e paesana di CRU, ovvero che se da un vigneto, 10 volte su 10, esce il vino più buono della cantina allora quella è sicuramente una vigna di pregio. E’ un vitigno che ha tutta una serie di elementi che in realtà neanche il produttore conosce fino in fondo. Il Grechetto non sbaglia mai sia per qualità sia per costanza; sa vivere a lungo e dopo tanti anni per questa azienda è stato un successo “.
LATOUR A CIVITELLA 2020 vs 2016 Grechetto in purezza fermentato in barriques di rovere francese (95% sughero e 5% tappo a vite plus)
Prima parte di fermentazione in acciaio, seconda fase di fermentazione in barrique fino a giugno; affinamento 9 mesi in legno e riposo in acciaio nella cantina sotterranea per 6 mesi prima dell’imbottigliamento. In realtà la prima annata fu prodotta nel ‘94. In quel periodo, Sergio Mottura conosce l’ amico produttore francese, Louis Fabrice Latour. Fu lui, colpito dalla qualità del vino, a suggerirne l’affinamento in legno, donandogli cinque barrique di sua proprietà. Da qui il nome riportato in etichetta. Chiaramente da allora ad oggi l’ affinamento è cambiato moltissimo. L’obiettivo principale è stato quello di mantenere l’idea di un grechetto elaborato in legno ma senza perdere l’ espressione autentica del vitigno unita all’identità dell’azienda.
Una 2020 intensa e luminosa con un impatto olfattivo complesso ed elegante, con sentori di frutta a polpa bianca, burro fuso e nocciola. Decisamente morbido e tattile al palato con un finale piacevole di vaniglia e scorza di agrumi. SOLENNE E POTENTE: la 2016 ci fa innamorare partendo già dal colore. Un dorato intenso che si riflette al calice. Al naso un connubio perfetto di fiori appassiti, sentori di nocciola, fiori bianchi e burro; assaggio solido, complesso con sentori di pasticceria per un finale di gran classe. Chapeau!
MUFFO LAZIO IGT Grechetto Passito 2016
Elegante e complessa espressione di Grechetto passito, ottenuta da uve colpite da muffa nobile e maturato in barrique per 12 mesi. Sontuoso vino da meditazione dal colore ambrato, affascinante nei suoi sentori di miele, burro, fiori gialli, scorza di agrumi canditi e pietra focaia. Intrigante al naso, ci dona anche sentori di frutta esotica. Al palato cremoso, armonico e di buon corpo con una sapidità travestita da dolcezza con timide nuances eteree. Finale speziato. SUBLIME! Tanta materia a conferma del grande potenziale di questo vitigno.
Un ringraziamento speciale a Giuseppe Mottura che ci ha ospitate nella sua dimora regalandoci emozioni, nozioni, curiosità su un grande vitigno, il Grechetto, che ha fatto e farà la storia della nostra Regione.
Vi lasciamo, a conclusione di questa bellissima esperienza, con una citazione di Andy Warhol perfetta per questa occasione. Citazione che rispecchia totalmente la filosofia della Famiglia Mottura.
“ Credo che avere la terra e non rovinarla sia la più bella forma d’arte che si possa desiderare”
Ilaria Castagna e Cristina Santini Partners in Wine
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8 Agosto, 2022
Un binomio da comunicare…Vino e Valle d'Aosta
Un binomio da comunicare…è così che Stefano Di Francesco, presidente del Consorzio Vini Valle d’Aosta, inizia la nostra intervista, un messaggio che vuole unire la bellezza del posto alla qualità del vino.
Siamo a Morgex, tra i filari e la meravigliosa vista, al primo evento Vini in Vigna- Valle d’Aosta nel bicchiere, la cui organizzazione è stata affidata al nuovo Consorzio Vini Valle d’Aosta, insieme al presidente Stefano Di Francesco e all’agenzia n8marketing, in cui ventitré aziende hanno portato i loro vini per dare la possibilità a tutti i partecipanti di farsi conoscere e riconoscere le qualità organolettiche del patrimonio ampelografico Valdostano.
Un evento accompagnato non solo dalla degustazione dei vini ma anche dagli assaggi della cucina dello chef Café Quinson Agostino Buillas e dalla dolce voce della cantante Silvana Bruno (in foto).
Lo stesso evento verrà poi ripetuto il 20 Agosto ad Aymavilles per fare conoscere le altre aziende vitivinicole della Valle d’Aosta.Durante la nostra intervista, Stefano ci racconta che il Consorzio è stato costituito da pochi mesi, il 28 Marzo di quest’anno e raggruppa il 92% delle cantine valdostane, sia privati che società cooperative. Il binomio da comunicare, rappresenta il messaggio principale della nascita del Consorzio Vini della Valle d’Aosta, e si evolve infatti nel volere trasmettere a tutti che questi meravigliosi paesaggi nascondono le difficoltà di una viticoltura eroica e verticale che sono alla base della produzione del loro vino.
Un territorio che si estende per ben 70Km all’interno del quale coesistono 14 DOC, unico al mondo! Ovviamente ritroviamo anche i vitigni autoctoni per la produzione di vini internazionali. Sono anche definiti “I vini più alti di Europa”, estendendosi da circa 1250m per scendere a 400-500m. Dai bianchi ai rossi, la loro fondamentale caratteristica è data da mineralità e sapidità.
Stefano chiude l’intervista riportando uno dei principi verso cui anche loro sono molto attenti, la sostenibilità ambientale, nonostante la voglia dei viticoltori ma anche del Consorzio stesso sia quella di crescere.
Investire nel territorio significa portare turismo aumentando la conoscenza dei prodotti tipici e della territorialità e quindi la conoscenza del vino della Valle D’Aosta, un binomio da comunicare.
“Oltre alle Montagne c’è anche il Vino”.
A cura di Elisa Pesco
https://www.youtube.com/watch?v=RakajXgmc-E
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