Il cibo è vita. La vita è cibo.
Mangiar bene per vivere meglio. In questa rubrica gli articoli che riguardano il mondo del buon vivere insieme al buon cibo. Oltre che al buon vino!
12 Settembre, 2024
Roma incontra l'IGP Olio di Puglia
IL COSA E IL DOVE
22 Luglio, le eleganti sale di Palazzo Brancaccio in una Roma africana sono come un miraggio per i discepoli dell’Extravergine.
Qui, sfidando l’asfalto che fonde e l’aria che brucia il CONSORZIO IGP OLIO DI PUGLIA e GAMBERO ROSSO hanno presentato al pubblico romano le produzioni di una decina di Aziende di una Regione che, da sola, produce oltre il 50% dell’Olio Extravergine italiano.
Una decina di Aziende aderenti a un Consorzio nato nel 2020 (dopo il riconoscimento l’anno precedente della Denominazione IGP Puglia).
Una masterclass, di cui potrete leggere di seguito, ha preceduto l’apertura dei banchi d’assaggio accompagnati da scelte culinarie particolarmente azzeccate a livello di abbinamento
LA MASTERCLASS
Dieci gli EVO in degustazione nella masterclass guidata da Stefano Polacchi di GAMBERO ROSSO con l’aito di Maria Francesca Di Martino (Presidente del CONSORZIO IGP OLIO DI PUGLIA) e Giuseppina Lavalle (Referente Tecnico del CONSORZIO IGP OLIO DI PUGLIA).
Dieci EVO che illustrano le diverse anime di un territorio talmente vasto che, non a caso, alcuni chiamano ancora “LE Puglie”.
Di questi dieci 6 erano monocultivar di quella Coratina che nel tempo ha saputo ritagliarsi una fetta di mercato importante e conquistare un gradimento sempre maggiore da parte dei consumatori.
Vabbè, di seguito troverete le mi consuete note di assaggio e i miei personalissimi punteggi.
A proposito di questi ultimi devo spiegarVi per quale motivo potreste trovarli particolarmente “severi”.
Sapete certamente che l’olio EVO si degrada giorno dopo giorno dal punto di vista organolettico e, arrivati a un quasi Agosto romano con temperature prossime ai 40°C, anche i prodotti di una Regione in cui non si fa economia di polifenoli sono arrivati piuttosto stanchi.
In un paio di casi si è percorso pericolosamente il sottile crinale del difetto e altri due campioni, riassaggiati nei banchi all’esterno, si sono rivelati essere solo un problema di “quella bottiglia”.
Comunque, per questi e per gli altri mi sento di dire che, assaggiati al momento giusto, avrebbero ottenuto tutti da 3 a 4 punti in più, ma tant’è.
Leggete, assaggiate e fate le Vostre considerazioni.
IGP OLIO DI PUGLIA MONOCULTIVAR LECCINO, AGRICOLA TAURINO: il naso, ahimè non pulito, comunica calore e poi nocciole fresche, un tocco di ravanello e uno d’agrume.
Un po’ meglio l’assaggio, condotto su delicati temi di amaro e piccante, un po’ grasso ma abbastanza lungo.
(N.V.).
IGP OLIO DI PUGLIA BIOLOGICO, ASSOCIAZIONE FRANTOIANI DI PUGLIA: naso sottile e delicato da cui si fa fatica a tirar fuori note di carciofo, mandorla e un appena di melanzana.
Assaggio coerente delicato nella parte amaricante e con un leggero piccante in crescendo.
(83- Punti).
IGP OLIO DI PUGLIA “PUGLIA OLIO MARE”, DE CARLO: questo l’avevo assaggiato un mese fa e m’aveva impressionato per pulizia (leggete qui), oggi si mostra particolarmente stanco nel proporci prati sfalciati, carciofo, erbe aromatiche e pomodoro maturo.
In bocca regala piccantezza decisa, un crescendo di amaritudini e una chiusura decisa su note di erbe amare.
(83 Punti).
p.s. riassaggiato ai banchi all’esterno merita 3 Punti in più ma…un mese l’ha decisamente cambiato).
IGP OLIO DI PUGLIA “CRU DI PUGLIA”, OLIO CICCOLELLA: naso sprint, ricco di sentori vegetali di rucola, carciofo, cardo, il giusto di pomodoro e sapienti pennellate di spezie e agrumi.
Assaggio maschio e deciso ma al contempo di educato equilibrio gustativo.
(87 Punti).
IGP OLIO DI PUGLIA MONOCULTIVAR CORATINA, LE 4 CONTRADE: quasi timido all’olfatto regala sentori di rucola e pomodoro appena maturo, belle note di erbe aromatiche (origano in primis) e un bel quid di frutta secca.
Sorso di bell’equilibrio amaro e piccante con il primo a gestire la bocca e il secondo a seguirlo in progressione allungando il finale.
(85 Punti).
IGP OLIO DI PUGLIA MONOCULTIVAR CORATINA, PANTALEO: olfattivamente non pimpante gioca le sue carte proponendo note di oliva verde e pomodoro maturo al fianco dei canonici carciofo e mandorla verde.
Assaggio sorprendente!
S’approccia in punta di piedi e poi…”BOOM”!
Deciso, maschio, amaro quanto serve, piccante quanto deve e di lodevole lunghezza.
(86+ Punti)
IGP OLIO DI PUGLIA MONOCULTIVAR CORATINA, OLIO GUGLIELMI: la bottiglia della masterclass aveva qualche “problemino” per cui Vi dico di quello in assaggio ai banchi che tra erbe amare, peperone e carciofo, lascia intravedere mandorla, mela e rosmarino.
Assaggio maturo, appena grasso e che punta con decisione sul piccante ma si assesta ben presto su intense amaritudini che allungano la chiusura.
(84 Punti questa bottiglia, forse 80 quella della masterclass).
IGP OLIO DI PUGLIA MONOCULTIVAR CORATINA “SCHINOSA”, AZIENDE AGRICOLE DI MARTINO: olfatto intenso, maschio nel proporre carciofo, cicoria, rucola, freschezze di mela verde e stuzzicanti peposità.
Assaggio di decisa coerenza, privo di cedimenti, di bella pulizia e intensità ragguardevole, equilibrato nei toni dell’amaro e del piccante e con un finale davvero salato.
(Quasi 90 Punti).
IGP OLIO DI PUGLIA MONOCULTIVAR CORATINA, LE FERRE: naso interessante, che associa verzure ortolane e leguminose a singolari tostature (anche di frutta secca) e amaritudini di carciofo a soffi balsamici.
In bocca, pur coerente e dinamico, si mostra più grasso dell’atteso e chiude in leggero calando evidenziando quanto il periodo di assaggio influisca sul risultato finale.
Peccato.
(84+ Punti).
IGP OLIO DI PUGLIA MONOCULTIVAR CORATINA BIOLOGICO, COOPERATIVA MADONNA DEL ROSARIO: anche qui qualche “problemino” disturba l’olfatto di una Coratina gestita con gentilezza.
Olfatto non troppo fresco, con sentori più di fieno che di erba sfalciata, note di rucola, carciofo e pomodoro maturo.
Assaggio che risente del clima e del periodo, un po’ grasso ma con una interessante nota balsamica in chiusura.
(82 Punti ma…).
E QUINDI?
E quindi niente!
Sicuramente devo ringraziare GAMBERO ROSSO per avermi invitato all’Evento e il CONSORZIO IGP OLIO DI PUGLIA per la tenacia con la quale porta avanti questo progetto ma…
Ci sono diversi ma.
Innanzitutto il periodo scelto per la manifestazione.
Sappiamo tutti quanto sia difficile comunicare il valore, soprattutto salutistico, dell’olio EVO, un prodotto da sempre immancabilmente presente sulle nostre tavole ma destinato a essere acquistato seguendo le offerte della GDO e non la Qualità.
Non capisco quindi (ma in tutta onestà me ne sono state spiegate le ragioni dai responsabili del Consorzio) perché si debbano presentare prodotti in un quasi Agosto romano con temperature prossime ai 40°C che risentono necessariamente, nonostante l’animo “strong”, di una intrinseca “vecchiaia”.
L’olio EVO non fa che degradarsi giorno dopo giorno (dal punto di vista organolettico) e credo che si faccia un torto al Prodotto e al Produttore non presentandolo al TOP della forma sottraendogli gran parte di quell’irresistibile appeal che dovrebbe avere rispetto ai prodotti “da scaffale”.
E poi basta con questi bicchierini di plastica (oltretutto senza una copertura che impedisca la perdita di profumi)!
Nel 2024 è ora di mandarli in pensione!
Comunque vale sempre il “purché se ne parli” e il fatto che “piuttosto che niente è meglio piuttosto”.
Quindi, nell’attesa di giorni migliori, lunga vita all’olio EVO
Roberto Alloi
VINODENTRO
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2 Settembre, 2024
Graziana Costanzo. Grace, il bauletto carico di felicità
Palagonìa è uno di quei piccoli paesi della Sicilia orientale dove il tempo sembra essersi fermato. Non so dire a che anno, ma di certo non recente.
Poco più di quindicimila abitanti, si raggiunge da Catania in circa quaranta minuti andando verso Caltagirone. Non è un posto dove si va per qualcosa di particolare perché c’è poco. A parte le arance a polpa rossa tra le più buone della Sicilia. E del mondo direi io.
Lungi da me l’idea di denigrare un qualunque paese e uno siciliano in particolare. Non fosse altro perché la Sicilia è nel mio cuore.
Palagonìa però, al pari di tanti altri paesini dell’entroterra siculo, offre purtroppo poco, sia a livello attrattivo ovvero per un non residente, sia per chi qui vuole vivere e mettere su famiglia.
Non è ne un bene ne un male. È una situazione di fatto con la quale le persone del luogo convivono. Senza drammi. Anzi, per certi versi rivendicando la vera sicilianità, l’essere siciliani con le tradizioni e lo spirito che da sempre caratterizza questa meravigliosa terra.
In un contesto del genere, proviamo a proiettarci, prima di qualunque altra cosa, a diciannove anni fa.
Si parla tanto oggi di interruzione di gravidanza, di sacrosanto diritto delle donne di gestire in libertà e coscienza il proprio corpo, di diritti. Se ne parla tanto ma, come al solito, si fa poco. Soprattutto nel guardare alle leggi esistenti nella loro totalità e non certo al lato preferito dal partito politico di turno.
Comunque sia, se hai poco meno di diciotto anni e sei incinta, senza mettere in mezzo qualunque tipo di stereotipo meridionalista, devi avere una grande, grandissima personalità per portare a termine la gravidanza. Specialmente se sei sola e sai che sarai sola ad andare avanti nella vita.
Viene facile pensare a film come Sedotta e abbandonata interpretato dalla mitica Stefania Sandrelli. Era il 1964 quando Pietro Gelmi dipingeva la ricerca dell’onore di Don Ascalone
Signor pretore, non siamo né miliardari né baroni; una sola ricchezza abbiamo…un nome onorato
Ma quella era un’altra Sicilia. Diversa anni luce da quella attuale. Anche se con tanti, tantissimi punti di congiunzione.
Graziana Costanzo, comunque la si metta, ne ha avuto di coraggio. Sua figlia ha appena compiuto diciotto anni e alla sua festa di compleanno ha voluto leggere una lettera. Era dedicata alla madre, a colei che da sola, con tanti immensi sacrifici, l’ha amata prima, cresciuta poi. Aiutata a diventare donna per camminare a testa alta nella vita. Il migliore dei regali che un genitore possa ricevere dalla propria figlia. Non comune, non scontato, non banale. Un dono meraviglioso.
Io la proteggo. Ho cercato di dare sempre una visione del mio lavoro e non della vita privata. Mi sono diplomata col pancione e lei è nata quattro giorni dopo.
Graziana è una donna forte e determinata. È una forza della natura che, con il sorriso sempre in primo piano e i grandi occhi luccicanti, guarda alla vita con serenità.
Da piccolina io la vedevo già nel futuro. Adesso la vedo cresciuta e capisco che c’è lei.
Jennifer, Jenny. La bambina che oggi è maggiorenne. Sembrano due sorelle.
Jenny, la bambina per crescere la quale Graziana ha messo tutto da parte. Le sue idee, la sua vita privata. Non ne vuole parlare perché tende sempre ad alzare un muro tra pubblico e privato, tra lavoro e famiglia. Però le due cose si fondono e sono compenetrate l’una nell’altra e l’una trae ispirazione dall’altra. L’una influenza l’altra. Nel bene e nel male.
Come il bauletto Grace che nasce come ricordo di nonno Salvatore.
Aveva venti mesi Graziana quando nacque suo fratello Davide. Troppo piccola perché la mamma potesse occuparsi a tempo pieno di lei e Davide contemporaneamente. Nonno Salvatore, che rimasto vedovo, viveva a casa con la figlia, iniziò ad occuparsi di Graziana. Un legame che diventa sempre più forte e consente a Graziana di assorbire la Sicilia, quella vera, da chi l’aveva nel sangue. Le tradizioni, i sapori, i colori.
Oggi tutti i bambini hanno lo zaino per andare a scuola. Spesso sono dei veri trolley poiché costretti da insegnanti poco intelligenti a portare in classe tutti i libri necessari alle lezioni. Non solo alcuni insegnando anche a condividere con il o la compagna di banco. Proprio tutti.
‘Nzia mai!
Un tempo invece c’era la cartella. Una piccola borsa con tanto di manico e, a volte, le bretelle per la tracolla. Era tipicamente stretta e conteneva a malapena lo spazio per un quaderno ed un paio di libri. Stretti. Ricordo il sussidiario, una sorta di libro dove dentro c’erano più o meno tutte le materie ad esclusione della matematica.
Non poteva mancare nella cartella anche la merenda. Generalmente una rosetta farcita o due fette di pane con qualcosa di companatico. Merendine? E mica c’erano. Acqua? No perché tanto quella del rubinetto era potabile. Pensate un pò, era potabile. Come ora certo ma pare che sia meglio non berla. Allora non è potabile? Ah no, lo è di certo. Mah!
Graziana non aveva la cartella. A casa non se la potevano permettere. A scuola andava con una semplice borsa di tela.
Nonno Salvatore vedeva gli occhioni di questa piccola carusa che saettavano taliando le cartelle scintillanti delle altre bimbe e il cuore si faceva piccolo piccolo. Tanto fu che decise di fargliela lui stesso una cartella. Pelle? Nonzi. Troppo cara. Stoffa? Nonzi. Sarebbe rimasta moscia. Cartone? Nonzi. Si sarebbe rotta subito.
Legno. Una bella cartella di legno tagliato sottile a listarelle tanto da poter avere la curvatura giusta.
È così che realizzò la cartella per la piccola Graziana.
Sarei voluto essere li per vedere il sorriso e gli occhi della piccola carusa che guardava la sua cartella nuova. Così come quelli di nonno Salvatore che una lacrima l’avranno sicuramente prodotta.
Una cartella con dentro i libri e la merenda che si trasforma in un bauletto con dentro la Sicilia.
Graziana dopo aver lavorato nel panificio di famiglia è costretta, con sofferenza, a distaccarsene per via di una intolleranza alla farina. Apre un negozio dove vendere anche il pane del forno di famiglia. La chiama La Baguette. Un nome che per Palagonìa non deve essere stato propriamente in linea con le tradizioni locali.
“Chi nicchi nacche Baguette?
Poco forse ma questo è tipico di una donna come Graziana. Curiosa e vogliosa di scoprire il mondo. Una donna che non si accontenta dei confini del paese o della Sicilia. Ampie vedute e capacità di guardare oltre, immaginandosi il futuro. Solo che più che importare qualcosa in Sicilia, Graziana ha l’ambizione di portare qualcosa della Sicilia in giro per il mondo.
La cartella!
Graziana è una donna felice di natura. Se le chiedeste cosa vuole dal futuro, vi risponderebbe che lei dalla vita ha già avuto tanto e che è felice così. È ambizioso certo, ma di quell’ambizione che si fonda su una tale serenità d’animo che la porta a vivere le cose con felicità. Lei sa che riuscirà nelle cose dunque non prende proprio in considerazione il fallimento. Ci impiegherà anni e sacrifici. Ma ci riuscirà. Questa è la felicità.
Con tutta questa felicità, mi stavo perdendo.
Invece no, perché è proprio la felicità la chiave di tutto.
C’è una canzone che mi fa cantare sempre mia figlia che si chiama Se sei felice.
Fa un pò cosi
Se sei felice e tu lo sai batti le mani
Se sei felice e tu lo sai batti le mani
Se sei felice e tu lo sai e mostrarmelo potrai
Se sei felice e tu lo sai batti le mani
Se sei felice e tu lo sai batti i piedi
Se sei felice e tu lo sai batti i piedi
Se sei felice e tu lo sai e mostrarmelo potrai Il senso è che se sei felice, devi farlo sapere agli altri perché la felicità è bella e contagiosa. Graziana ha trovato dentro di se la felicità nelle cose che ha fatto e fa. Nelle cose per sua figlia. Nel panificio. Nel ricordo del nonno e di quel meraviglioso bauletto. Il bauletto è stata la sua felicità. Un dono di nonno Salvatore per renderla felice. Il bauletto me lo ha regalato mio nonno. Un ricordo di amore. Ora sono socievole ma da piccola ero timida. Mio nonno mi vedeva triste perché vedevo che gli altri bambini avevano il bauletto per la merenda. Così me lo ha fatto lui, non lo ha comprato. È un ricordo indelebile per questo perché fatto da lui per rendermi felice. È così che Graziana vuole condividere con il mondo intero la sua di felicità. Ma sa che un solo bauletto, il cui contenuto è la intangibile felicità, non sarà in grado di diffonderla questa stessa felicità come lei vorrebbe. Ecco allora che immagina Grace come un contenitore della sua terra ovvero dei suoi prodotti. Grace. Eh qui la cosa da un lato si complica, dall’altro no se si comprende bene Graziana. Anzitutto cosa è Grace Grace nasce come simbolo di raffinatezza. Grace Kelly. Mi verrebbe da dire come per La Baguette “Chi nicchi nacche Grace? Che c’entra con la Sicilia? Per chi pensa che una ragazza di Palagonìa sia una sprovveduta, non solo pensa male ma è anche prevenuto. Graziana nella sua determinazione sa bene che se vuole affermarsi in questo mondo per nulla tenero, deve studiare. Comprendere il mondo e i fenomeni che lo accompagnano per poi agire di conseguenza. Mi piace colpire ed essere unica. Ho studiato i competitor e fatto una analisi di mercato e volevo stupire, colpire. Distinguermi. Il nome doveva essere un brand. Grace Kelly è una icona di bellezza cosi come sono i prodotti siciliani. Dei gioielli. Non una semplice idea la sua ma una vera e propria strategia di marketing volta a distinguersi in un mondo che sa di omologazione. Anche solo per i prodotti siciliani che se non recano il prefisso “Sicilia” o “Sicily” neanche nascono. Graziana identifica e si immedesima così profondamente in Grace che la chiama, spontaneamente, “lei”. Lei l’ho lanciata a dicembre e chi la riceveva la metteva sotto l’albero come fosse un ricordo. Voglio far rivivere il lato artigianale della Sicilia. Grace è un bauletto che nasce oggi in cartone. Completamente smontabile per essere trasportato anche in valigia (poi ditemi se questo non è marketing). Lo volevo simile al legno e cercavo una azienda che me lo facesse simile a quello di legno che mi fece mio nonno. Un contenitore di eccellenze siciliane che Graziana ha l’ambizione di portare nel mondo. La mia ispirazione è stata sempre questo di portare la Sicilia in giro per il mondo. Il bauletto nasce per custodire i prodotti siciliani. Il bauletto contiene prodotti propri come la marmellata delle arance provenienti dagli orti del nonno o quelli del forno di famiglia cosi come prodotti dei tanti artigiani del territorio. Produttori di eccellenza. Lei è destinata a prodotti di eccellenza. Il mio progetto lo ampio facendo entrare solo gli artigiani che sono allo stesso livello di lei. La Sicilia nel bauletto. La Sicilia con il bauletto. Artigianalità e sicilianità. Forza e determinazione, caparbietà, per una donna come Graziana che vuole la sua Grace in giro per il mondo. Il mio sogno è aprire Grace in un luogo turistico della Sicilia per essere conosciuta nel mondo. Lei si smonta tutta e si mette anche in valigia. Da li creare franchising per girare il mondo. Mi alzo sempre alle cinque di mattina dunque continuerò a farlo anche se non ci riesco. Nessuno mi toglierà il sogno di viaggiare con lei per tutto il mondo. Graziana e lei, Grace. Magari a breve ci sarà anche la sorella maggiore di Grace per mettere tutto dentro ed essere pronti per un picnic chic. Tutto ma proprio tutto l’occorrente. Per ora basta Grace. Per Natale ci metto i panettoni piccoli. A Pasqua le uova. Creativa e tanta verve per Graziana. Una ne fa e cento ne pensa si direbbe. Una creatività che forse potrebbe essere eccessiva per il rischio di perdersi nelle idee. La sua determinazione, la voglia di riscatto per il lungo periodo passato con e per la figlia, le idee chiare circa il futuro, la porteranno certamente a non perdersi. Ne nelle idee ne di animo. Non vedevo l’ora lei crescesse per realizzare il mio sogno. Da piccola voleva le mie attenzioni e non potevo dedicarmi alle cose mie. Sono una tipa precisa e se le cose le devo fare bene. Anche la mia vita privata ho messo da parte ma adesso i risultati con lei ci sono. È la figlia che tutti vorrebbero avere. Mi sono sacrificata però ora raccolgo i frutti. Tanto sono giovane. Mio fratello mi ha chiesto più volte di andare a lavorare in ufficio. Ma a stare li, cosa che ho fatto, mi faceva sentire morta. Da mamma ad imprenditrice. Se lo vedo nella testa lo voglio realizzare. Perché no? Posso continuare a fare i panini con la mortadella e la mamma ma sono felice. Ogni cosa che ho avuto è frutto del lavoro e del sacrificio. Hai dato il buon esempio. Lei alla sua festa ha fatto una lettera a me per ringraziarmi di questi diciotto anni. Nel bauletto c’è tutta la Sicilia e tutta Graziana. L’anima, il cuore, la voglia. È un prodotto fatto con il cuore dentro il quale ci si può mettere tanto tanto altro. Magari il futuro. Perché dentro c’è tutta Graziana. Una donna, una mamma, una imprenditrice che, in cuor suo, sa che dentro Grace c’è anche il futuro di Jenny. Perché è giusto che anche lei possa ricevere in dono un bauletto carico di felicità e di futuro. Per essere una donna indipendente e orgogliosa. Vogliosa di futuro e, soprattutto, felice. PS come sono i prodotti contenuti nel bauletto? Ho provato la marmellata di mandarini, il pesto di pistacchio e i capperi. Appena aperto i vasetti, gli odori della Sicilia hanno immediatamente detto la loro in maniera forte e decisa. I mandarini sono così presenti che sembrava avere uno aperto in mano; i pistacchi sono pistacchi e non surrogati; i capperi sono quelli del sole e del mare. Creano dipendenza Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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Se sei felice e tu lo sai batti le mani
Se sei felice e tu lo sai e mostrarmelo potrai
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Se sei felice e tu lo sai batti i piedi
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Se sei felice e tu lo sai e mostrarmelo potrai Il senso è che se sei felice, devi farlo sapere agli altri perché la felicità è bella e contagiosa. Graziana ha trovato dentro di se la felicità nelle cose che ha fatto e fa. Nelle cose per sua figlia. Nel panificio. Nel ricordo del nonno e di quel meraviglioso bauletto. Il bauletto è stata la sua felicità. Un dono di nonno Salvatore per renderla felice. Il bauletto me lo ha regalato mio nonno. Un ricordo di amore. Ora sono socievole ma da piccola ero timida. Mio nonno mi vedeva triste perché vedevo che gli altri bambini avevano il bauletto per la merenda. Così me lo ha fatto lui, non lo ha comprato. È un ricordo indelebile per questo perché fatto da lui per rendermi felice. È così che Graziana vuole condividere con il mondo intero la sua di felicità. Ma sa che un solo bauletto, il cui contenuto è la intangibile felicità, non sarà in grado di diffonderla questa stessa felicità come lei vorrebbe. Ecco allora che immagina Grace come un contenitore della sua terra ovvero dei suoi prodotti. Grace. Eh qui la cosa da un lato si complica, dall’altro no se si comprende bene Graziana. Anzitutto cosa è Grace Grace nasce come simbolo di raffinatezza. Grace Kelly. Mi verrebbe da dire come per La Baguette “Chi nicchi nacche Grace? Che c’entra con la Sicilia? Per chi pensa che una ragazza di Palagonìa sia una sprovveduta, non solo pensa male ma è anche prevenuto. Graziana nella sua determinazione sa bene che se vuole affermarsi in questo mondo per nulla tenero, deve studiare. Comprendere il mondo e i fenomeni che lo accompagnano per poi agire di conseguenza. Mi piace colpire ed essere unica. Ho studiato i competitor e fatto una analisi di mercato e volevo stupire, colpire. Distinguermi. Il nome doveva essere un brand. Grace Kelly è una icona di bellezza cosi come sono i prodotti siciliani. Dei gioielli. Non una semplice idea la sua ma una vera e propria strategia di marketing volta a distinguersi in un mondo che sa di omologazione. Anche solo per i prodotti siciliani che se non recano il prefisso “Sicilia” o “Sicily” neanche nascono. Graziana identifica e si immedesima così profondamente in Grace che la chiama, spontaneamente, “lei”. Lei l’ho lanciata a dicembre e chi la riceveva la metteva sotto l’albero come fosse un ricordo. Voglio far rivivere il lato artigianale della Sicilia. Grace è un bauletto che nasce oggi in cartone. Completamente smontabile per essere trasportato anche in valigia (poi ditemi se questo non è marketing). Lo volevo simile al legno e cercavo una azienda che me lo facesse simile a quello di legno che mi fece mio nonno. Un contenitore di eccellenze siciliane che Graziana ha l’ambizione di portare nel mondo. La mia ispirazione è stata sempre questo di portare la Sicilia in giro per il mondo. Il bauletto nasce per custodire i prodotti siciliani. Il bauletto contiene prodotti propri come la marmellata delle arance provenienti dagli orti del nonno o quelli del forno di famiglia cosi come prodotti dei tanti artigiani del territorio. Produttori di eccellenza. Lei è destinata a prodotti di eccellenza. Il mio progetto lo ampio facendo entrare solo gli artigiani che sono allo stesso livello di lei. La Sicilia nel bauletto. La Sicilia con il bauletto. Artigianalità e sicilianità. Forza e determinazione, caparbietà, per una donna come Graziana che vuole la sua Grace in giro per il mondo. Il mio sogno è aprire Grace in un luogo turistico della Sicilia per essere conosciuta nel mondo. Lei si smonta tutta e si mette anche in valigia. Da li creare franchising per girare il mondo. Mi alzo sempre alle cinque di mattina dunque continuerò a farlo anche se non ci riesco. Nessuno mi toglierà il sogno di viaggiare con lei per tutto il mondo. Graziana e lei, Grace. Magari a breve ci sarà anche la sorella maggiore di Grace per mettere tutto dentro ed essere pronti per un picnic chic. Tutto ma proprio tutto l’occorrente. Per ora basta Grace. Per Natale ci metto i panettoni piccoli. A Pasqua le uova. Creativa e tanta verve per Graziana. Una ne fa e cento ne pensa si direbbe. Una creatività che forse potrebbe essere eccessiva per il rischio di perdersi nelle idee. La sua determinazione, la voglia di riscatto per il lungo periodo passato con e per la figlia, le idee chiare circa il futuro, la porteranno certamente a non perdersi. Ne nelle idee ne di animo. Non vedevo l’ora lei crescesse per realizzare il mio sogno. Da piccola voleva le mie attenzioni e non potevo dedicarmi alle cose mie. Sono una tipa precisa e se le cose le devo fare bene. Anche la mia vita privata ho messo da parte ma adesso i risultati con lei ci sono. È la figlia che tutti vorrebbero avere. Mi sono sacrificata però ora raccolgo i frutti. Tanto sono giovane. Mio fratello mi ha chiesto più volte di andare a lavorare in ufficio. Ma a stare li, cosa che ho fatto, mi faceva sentire morta. Da mamma ad imprenditrice. Se lo vedo nella testa lo voglio realizzare. Perché no? Posso continuare a fare i panini con la mortadella e la mamma ma sono felice. Ogni cosa che ho avuto è frutto del lavoro e del sacrificio. Hai dato il buon esempio. Lei alla sua festa ha fatto una lettera a me per ringraziarmi di questi diciotto anni. Nel bauletto c’è tutta la Sicilia e tutta Graziana. L’anima, il cuore, la voglia. È un prodotto fatto con il cuore dentro il quale ci si può mettere tanto tanto altro. Magari il futuro. Perché dentro c’è tutta Graziana. Una donna, una mamma, una imprenditrice che, in cuor suo, sa che dentro Grace c’è anche il futuro di Jenny. Perché è giusto che anche lei possa ricevere in dono un bauletto carico di felicità e di futuro. Per essere una donna indipendente e orgogliosa. Vogliosa di futuro e, soprattutto, felice. PS come sono i prodotti contenuti nel bauletto? Ho provato la marmellata di mandarini, il pesto di pistacchio e i capperi. Appena aperto i vasetti, gli odori della Sicilia hanno immediatamente detto la loro in maniera forte e decisa. I mandarini sono così presenti che sembrava avere uno aperto in mano; i pistacchi sono pistacchi e non surrogati; i capperi sono quelli del sole e del mare. Creano dipendenza Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
30 Agosto, 2024
Birrificio Sangermano 18. Lorenzo Pirani: piccolo piccolo, grande grande
Ne ho conosciuti nella mia vita di figli di papà. Ragazzi che hanno goduto dei successi dei propri genitori o dei nonni. Per nulla impazienti di cominciare a darsi da fare nell’azienda di famiglia. Per nulla vogliosi di contribuire allo sviluppo. Molto interessati a godersi la vita con i soldi della famiglia.
L’altra notte vedevo un film in seconda serata (che ormai inizia alle ventitré se va bene). Si chiamava Belli di papà. Un film del 2015 diretto da Guido Chiesa con Diego Abatantuono nel ruolo del padre imprenditore di successo e i figli, Andrea Pisani, Matilde Gioli e Francesco Di Raimondo impegnati, ognuno con le loro inettitudini, a sperperare i soldi paterni. Un convincente film ben diretto capace di mettere in risalto, con ironia, l’incapacità di alcuni giovani di assumersi le proprie responsabilità. Tanto, c’è sempre qualcuno in famiglia che lo fa per loro.
Sono Lorenzo Pirani. Sono nato il 9 dicembre del 2003 dunque sono giovanissimo. Ho fatto le superiori a Fabriano, all’Agrario. Sono un Perito Agrario. Il mio birrificio è un birrificio agricolo perché la mia birra non parte dal birrificio ma dal campo. Per coltivare tutta la mia passione per la birra ho fatto la scelta di iniziare a studiare dal campo. Affascinato dalla terra che era ed è la mia passione. La natura, le piante, gli animali. Mi fa sentire bene. Due anni fa ho lavorato in fabbrica per tre mesi e mi sono trovato male. Essere un robot mi dava fastidio. Voglio essere padrone delle mie azioni e della mia vita variando ogni giorno.
La famiglia di Lorenzo è una famiglia semplice. Marchigiana di Camerano. Mamma Lisa, un fratello più grande Antonio e una sorella più piccola, Viola. Papà Corrado purtroppo non c’è più. Nel gennaio del 2013 una brutta malattia se lo è portato via. Aveva lavorato per tanti anni in quella che era l’azienda dove lavoravano gran parte delle persone della zona, la Merloni.
Mai affidarsi totalmente ad una grande azienda: prima o poi presenta il conto. Già, ma come fai se c’è solo quella. Se i politici e gli amministratori fanno di tutto per far assumere persone. Se l’economia della zona si basa solo su quella. Ne abbiamo avuti di esempi, sempre mal gestiti e andati a finire male, in Italia.
Gli anni che vanno dal 2007 al 2010 segnano per il settore degli elettrodomestici una crisi che non può che sfociare in tagli e ristrutturazioni. Non bastano i soldi dello Stato per evitare i licenziamenti definiti, con scarso senso di innovazione, necessari per far ripartire l’azienda!
Il 2009 è l’ultimo anno di Corrado Pirani alla Merloni. Una volta senza lavoro, occorre trovare altro. Complicato, dannatamente complicato per quelle zone e per quei tempi se non fosse che il papà di Lisa è proprietario di una bella azienda, la German Plast. Un posto per Corrado magari lo trova pure.
Al tempo. Non voglio certo intromettermi in affari di famiglia ne giudicare nessuno. Dico solo che Corrado un posto lo avrebbe certamente avuto li. Lui però fa una scelta diversa: decide di produrre birra artigianale.
Le cose non vengono da sole. Hanno bisogno di essere coltivate come si coltiva un campo di grano. Crescono e si sviluppano solo se hai cura di loro. Se riesci, giorno dopo giorno, a non stancarti di curarle.
Corrado aveva la passione della birra. Come tanti, produceva la birra in casa sfruttando le varie ricette e i kit che oramai si trovano sempre più in commercio. Una tendenza che negli ultimi anni ha diviso e fatto discutere in rete e al bar per chi considerava gli homebrewer dei piccoli chimici o ancora peggio dei vignaioli mancati.
Invece di inneggiare alla bellezza delle diversità, ci si divide in sette che si cortocircuitano da sole. È senz’altro vero che ì birraioli producono la birra con ricette ed ingredienti che si possono trovare in ogni momento dell’anno mentre i vignaioli possono fare il vino una volta l’anno. Ma non è anche vero che la chimica c’è in entrambe le parti?
Occorre sempre quel sano equilibrio che non tutti hanno (anche se pensano il contrario).
La passione delle birra è nata da mio padre. Nel 2009 papà venne licenziato dalla azienda di Camerano, la Merloni. Lui già faceva birra in casa con i kit. Gli veniva bene e gli piaceva. Io ci provo disse. Noi abitiamo sopra il birrificio che era una ex fabbrica di mio nonno. L’ha ristrutturata e ridipinta. Messo su un piccolo impianto. Da 100 litri. Da homebrewer più che da birraio professionista. Ha funzionato.
Ha funzionato davvero perché il tredici luglio del 2013 nasce ufficialmente il Birrificio San Germano 18. Un nome per il quale papà Corrado non è che si sia sforzato più di tanto ne attuato particolari analisi di mercato. Ha scelto l’indirizzo di casa ovvero quello del birrificio. Situato appunto al numero 18 di via San Germano a Camerano. Che grande dico io: sono le cose semplici quelle davvero meravigliose.
Così il nome, altrettanto il marchio. Corrado scelse la tigre di Sandokan, quello delle Tigri di Mompracem. Ve lo ricordate Kabir Bedi nello sceneggiato che ci ha tenuti incollati allo schermo nel 1976? Sei puntate così intense da creare una tale breccia nel cuore degli italiani che per ben 20 anni (fino al 1996!) siamo stati bombardati da film e ulteriori serie tv tutte tratte (o ispirate) ai romanzi di Emilio Salgari.
Mitica la scena di Sandokan che, trovandosi faccia a faccia con la tigre della Malesia, le corre incontro e con un balzo nel vuoto a mò di tuffatore di una prova RedBull, le squarcia la pancia con il proprio affilatissimo coltello. Applausi a scena aperta di tutti gli spettatori ivi inclusa la Perla di Labuan alias Lady Marianna Guillonk alias Carole Andrè. Divina.
A mio padre piaceva Sandokan. Rivisitata un pò per evitare problemi con il copyright.
Un piccolo birrificio che produceva e vendeva birra quel tanto che bastava per sperimentare, divertirsi e tirar su i soldi necessari a continuare a portare a casa uno stipendio.
Un impegno non da poco perché Corrado oltre a studiare e creare birre diverse partecipava alle fiere di settore e gestiva il birrificio anche con i tavoli all’aperto in estate utili per creare una atmosfera da beer garden.
Mi sono appassionato a differenza di mio fratello e sorella che lo vedevano come un peso. Papà è riuscito a trasmettermi la sua passione. Così quando nel novembre del 2022 si è ammalato e nel gennaio del 2023 è morto, con la famiglia abbiamo preso il birrificio e io lo sto portando avanti.
Lorenzo non ha ancora finito la scuola quando muore papà Corrado.
Una perdita. Uno shock. Alle volte è come uno schiaffone che ti arriva quando meno te lo aspetti anche se te lo aspetti perché sai di aver combinato qualcosa. Così puoi arrabbiarti con il mondo e prendere la strada della ribellione oppure capisci che la tua strada è proprio dinanzi ai tuoi occhi. È li. È sempre stata li. Ma eri troppo impegnato a fare (o non fare) altro per accorgertene.
Finito il diploma mi sono iscritto in un corso a Padova, una accademia per diventare birraio professionista. Corso intensivo e a marzo dello stesso anno mi sono diplomato dopo uno stage.
Avere un pezzo di carta vuol dire tutto e niente. È l’esperienza per far crescere la qualità di birra che mi interessa.
Lorenzo vuole continuare nel solco tracciato da papà Corrado. Suo fratello Antonio ha preso un’altra strada e dopo la laurea in ingegneria, lavora in fabbrica dal nonno. Viola, sua sorella, è ancora troppo piccola per decidere. Mamma Lisa non può che assecondare questa passione mista a voglia di Lorenzo.
Papà non ha avuto la possibilità di insegnarmi le cose perché è stato male. Mi diceva butta questo, butta quello. Facevo le cose perché me lo chiedeva lui. Dopo l’ho capito. Mi ha trasmesso però l’educazione verso i clienti e la metodicità e l’attenzione ai particolari. Puntando sempre al top. Io so che potrei fare una birra più alta di qualità ma non avendo le attrezzature adatte, non riuscirei mai.
Quando parlo con Lorenzo trovo un ragazzo ancora acerbo (normale vista l’età) me umile e riflessivo. Non è di quelli che pensano di saper fare le cose meglio degli altri. Studia, si documenta, parla con le persone, si confronta in continuazione. Sa che per arrivare occorre rimboccarsi le maniche e lavorare sodo. A partire da una filosofia di produzione delle birre.
Prodotti del territorio e controllo della filiera sono i primi punti sui quali appoggiarsi con solidità così da ritrovarli nelle bottiglie.
Pianto l’orzo, lo porto alla cooperativa per conferirlo. Viene stoccato e poi trasformato in malto. È mischiato ma è un malto d’orzo di qualità con filiera certificata. Selezioniamo ogni destinazione d’uso del singolo lotto. Lavoriamo con livelli elevati di proteine altrimenti perde tutta la caratteristica delle birre agricole. Diventa industriale. Quando i livelli di proteine salgono facciamo altri tipi di malto più intensi. Scartiamo fino al 55% del totale. Lo scarto serve per altri prodotti anche animali.
Poi la standardizzazione dei prodotti che non vuol dire cercare di creare qualcosa di industriale ma la voglia di offrire una solidità al marchio attraverso la riconoscibilità dei prodotti.
Papà era più da vecchio birraiolo. Non era aggiornato nei tempi. Utilizzava ricette vecchie. Più da cose di casa che da birra professionale. Però vendeva la birra e andava pure bene. Solo che le sue birre erano sempre diverse. Provava, cambiava le ricette. Io sto cercando un prodotto più standard. Papà aveva delle birre a catalogo ma alle volte erano più amare, magari più dolce, poi più profumate. Erano buone e alla gente piaceva.
Se da un lato è affascinante trovare con lo stesso nome birre leggermente o profondamente diverse, dall’altro diventa complicato spiegarlo e motivarlo ai clienti.
Lorenzo lo sa e lo capisce. Da qui la necessità, mantenendo le ricette originali del papà, cercare di standardizzare la produzione per avere prodotti sempre simili. Ricette da custodire gelosamente e migliorare a poco a poco. Nessuna, davvero nessuna velleità di cambiarle perché sa di non essere ancora abbastanza esperto. Cambiare qualcosa, qualche piccola cosa, però per migliorare.
Le mie sono quelle di una volta ma sto migliorando la linea di mio padre. Cambio le percentuali o un ingrediente per farla venire migliore. Soprattutto è cambiata la filosofia: prima si lavorava in famiglia e si produceva per far star bene la famiglia. Io voglio più produzione per far conoscere il birrificio e crescere con questo.
Giusta ambizione per un ragazzo che vuole puntare in alto. Perché questa deve essere la sua vita. In rispetto di se stessi e del padre che lo ha indirizzato.
È ancora agli inizi e lo sa. Gli attuali 10.000 litri annui lo collocano tra i micro birrifici.
Ne ha di strada da fare!
Le sue birre o, se vogliamo, le birre di papà Corrado rivisitate da Lorenzo, sono decisamente interessanti. Ne ho assaggiate tre che, come tutte le altre, sono crude, non filtrate e rifermentate in bottiglia.
La prima è la Giana. Una bionda che per la sua semplicità alcolica 4/5° è fatta perlopiù da acqua. Proprio all’acqua deve il suo nome ovvero a quella che per gli abitanti di Camerano è la presenza spettrale che si aggira a protezione de “La Fontanina”.
Giana è semplice ma di impatto per via del vegetale che si sposa con l’agrume donando alla bocca una piacevole freschezza e scorrevolezza. Grande sapidità e buona persistenza. Una birra che accompagna piacevolmente l’aperitivo o un pranzo leggero. Per goderne a pieno direi patatine fritte a go go!
La seconda è la IPA Gradina che fa sentire subito il suo luppolo al naso per poi riprodurlo fedelmente in bocca. L’amaro del naso sembra quasi scontrarsi con l’affascinante colore dorato che sa di oro zecchino. Un finale di bocca pulitissimo che tende (tende e meno male non riesce!) grazie ad un olfatto e retrogusto di agrumi, carrube, banane, cedro e mallo di noce, ad alleviare quel meraviglioso senso di prezioso e tipico amarognolo. Persistenza anche lunga.
A proposito, in omaggio al territorio, la Gradina di Camerano è una sorta di collina a forma conica utilizzata in epoche preistoriche come sede di villaggi fortificati.
La terza è l’Upupa, una birra rifermentata con il miele. L’Upupa è l’uccello che si nutre di ciò che trova nel bosco. Un pò come le api che vanno di fiore in fiore per generare il miele così da consentire all’azienda Upupa di produrre il miele che Lorenzo usa per la sua birra.
Molto rotonda quasi a ricordare una rossa. Le note di miele, luppolo e agrumi che appaiono al naso si ritrovano immediatamente al sorso donando avvolgenza, intensità e persistenza. Il finale amarognolo consente a questa birra di non essere stucchevole. Volete un abbinamento perfetto? Un’anatra con condimento al miele o, per stupire, dei biscottini di pasta frolla.
Non ho assaggiato ma lo farò alla prima occasione alcune birre delle quali mi ha parlato Lorenzo. Stagionali perlopiù ma dal mio punto di vista interessanti per il gusto, la possibilità di abbinamenti ma ancor di più per gli elementi di produzione:
Maratta la bionda aromatizzata al karkadè e ai frutti rossi (elementi coloranti utilizzati dai pittori del 1600 tra i quali Carlo Moratti detto Maratta nato a pochi metri da via Sangermano);
Primizia, l’ambrata aromatizzata che coniuga i sapori dei frutti primaverili ed estivi (pesca e uva fragola) con quelli autunnali ed invernali (castagne e cachi);
Sprevengoli (i folletti del Conero) per la birra Smoked Ale;
Zen, la bionda aromatizzato allo zenzero;
Sbriuda, la ragazza libera e ribelle del dialetto del Conero, fatta con la fermentazione e rifermentazione del mosto d’uva della campagna di Lorenzo.
Ce ne sono tante altre. Ne ho contato sul catalogo oltre 15. Non so dire se troppe, forse si ma le ricette di papà Corrado da onorare e riformulare sono tante.
Molte birre che sono a listino non le facciamo tutti gli anni. Quando riusciamo facciamo quelle speciali. Negli ultimi anni è aumentata la richiesta di birra così metto da parte il fare quelle stagionali o speciali.
Tutti gli stili delle birre le ha create mio padre. Io ho portato la standardizzazione di questi. Mi metto dalla parte del cliente che compra la mia birra. Non avendo un prodotto standard non lo racconterebbe bene. Devo essere certo che quando un cliente assaggia una birra sia riconoscibile.
La passione per la terra. La passione per la birra. Uno shock che prima ti abbatte poi ti fa rialzare. Capisci che non puoi rimanere a terra. Che la tua strada è quella che qualcuno, in qualche modo, ti ha lasciato come vera eredità. Il tempo è giusto per te. La strada adesso è per te e solo tu dovrai trovare il modo per coinvolgere il resto della famiglia e chi verrà dopo di te.
L’umiltà nel pensare di non essere già arrivato. Di dover preservare il lavoro fatto prima di te. La necessità di studiare e confrontarsi come come di sperimentare e innovare.
Bravo Lorenzo. Questo tuo essere piccolo piccolo oggi, ti aiuterà a diventare grande grande domani. Anche se la grandezza sta già nella tua umiltà e nei prodotti che crei.
Me lo immagino papà Corrado si scola con soddisfazione una tua birra dicendo: bravo il mio ragazzo!
Bravo Lorenzo!
PS a via Sangermano 18 oltre al birrificio agricolo c’è anche il Pub di Lorenzo. Se passate da Camerano, magari per capire se qualche strega riuscite a vederla a La Fontanina, fateci un salto!
Ivan Vellucci
ivan.vellucci@winetalesmagazine.com
Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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22 Agosto, 2024
OLI D'ITALIA 2024 (by GAMBERO ROSSO)
IL COSA E IL DOVE
Lo scorso 18 Giugno, gli ampi ed eleganti spazi di Palazzo Brancaccio a Roma hanno ospitato la presentazione romana della guida OLI D’ITALIA 2024 di GAMBERO ROSSO.
Gli Eventi dedicato agli oli EVO sono diventati, nel panorama romano (e non solo), ormai rarissimi e va dunque dato merito a GAMBERO ROSSO di essere riuscito a catturare l’attenzione di un gran numero di curiosi parlando dell’oro verde delle nostre tavole e lasciando da parte, per una volta, il vino.
LA MASTERCLASS
Sette gli oli in degustazione, provenienti da regioni diverse, prodotti da cultivar differenti e presentati da Indra Galbo.
Sette oli che hanno evidenziato le molte criticità di un’annata come quella della campagna olearia 2023/2024 assaggiati molto al di là del loro picco qualitativo.
EVO dunque segnati da una inevitabile “stanchezza”, che in almeno un caso percorrevano in precario equilibrio la sottile cresta del difetto.
Prendete dunque le mie descrizioni con molle particolarmente lunghe e valutate i personalissimi punteggi con la dovuta cautela, tenendo conto che ho cercato di “fare la tara” a eventuali imperfezioni tenendo conto di quanto detto sopra.
GLI ASSAGGI
IGP SICILIA MONOCULTIVAR NOCELLARA DEL BELICE “NOTTETEMPO”, TERRE DI ZACCANELLO (SICILIA): al naso si distinguono pomodoro maturo, erba sfalciata di fresco, cardo, delicatezze di soncino e piccantezze pepate.
L’assaggio, moderatamente piccante, vive di un piccante dalla progressione logaritmica che stuzzica l’ugola rinvigorendo le percezioni di erbe aromatiche e gli accenni agrumati.
(88 Punti).
MONOCULTIVAR CORATINA “SELEZIONE”, OLEIFICIO CASALE (PUGLIA): il naso percepisce distintamente cicoria di campo, carciofo, cardo, un intero mazzetto di erbe aromatiche (rosmarino, timo e salvia), scambia l’osso di pesca per mandorla amara e, in chiusura, non si fa mancare un soffio di caffè.
L’assaggio denota cura nella gestione dell’esuberanza della cultivar, equilibrato e corrispondente punta sull’amaro e propone un garbato piccante in una atmosfera sottilmente fumé.
(85/86 Punti).
DOP UMBRIA COLLI MARTANI, FARCHIONI OLII (UMBRIA): Moraiolo, Leccino e Frantoio che evocano pacatamente sentori di erba tagliata, cicoria, foglia di pomodoro e leggerezze agrumate.
In bocca risulta essere meno “umbro” di quanto atteso, deciso nel presentare sin da subito il piccante e paziente nel proporre la lunga scia di amaro.
Peccato per quel naso troppo timido…
(86/87 Punti).
“LAUDEMIO”, FRESCOBALDI (TOSCANA): “LAUDEMIO”…
Consorzio storico, disciplinare antico, bottiglia “Giugiaro style”…
In gran parte Frantoio, regala note di pomodoro maturo, fava e asparago.
Poi accenni mentolati e una frutta secca che…non aiuta un olfatto che dimostra stanchezza.
In bocca amaro e piccante marciano insieme segnando un assaggio che conferma le problematicità notate all’olfatto.
Forse colpa della bottiglia, sicuramente non aiutato dal periodo in cui lo abbiamo assaggiato.
Questo preferirei non valutarlo.
MONOCULTIVAR PERANZANA “LIMITED EDITION”, DE CARLO (PUGLIA): tra la rucola e il basilico s’erge il carciofo e si fanno strada il pomodoro, le erbe di campo amare e un quid di frutta secca.
Al palato appare elegante, corrispondente, equilibrato nel proporre amaro e piccante, deciso nel sottolineare la profonda sapidità e firmare la chiusura con acuti carciofosi.
(87/88 Punti).
MONOCULTIVAR CROGNALEGNO “CROGNALE”, TRAPPETO DI CAPRAFICO TOMMASO MASCIANTONIO (ABRUZZO): un olfatto particolarmente complesso che non lesina balsamicità mentolate prima di imboccare la strada del carciofo, delle erbe aromatiche (salvia in primis), delle stuzzichevolezze del ravanello.
In bocca dimostra autorevolezza e corrispondenza.
L’ingresso amaricante non è a gamba tesa bensì di sportiva correttezza e la scia piccante è un piacevole sentiero da seguire fino in fondo, a quella chiusura che calca ancora la mano sulle freschezze aromatiche di salvia e rosmarino.
(91 Punti, non di meno).
MONOCULTIVAR CORATINA “GRAN PREGIO BIO”, MARIA CAPUTO (PUGLIA): ancora intense (nonostante il periodo) le sensazioni di prato sfalciato, cicoria, rucola, pomodoro e melanzana.
Più dolci del previsto le note di frutta secca che, più che l’attesa mandorla, sembrano raccontare dolcezze di pinolo.
In bocca dimostra tecnica frantoiana.
Domata con sapienza l’irruenza della cultivar, rilascia prima piccantezze di pimento allungandosi con calma su amaritudini a pareggio (qui forse il periodo di assaggio ha influito).
Lungolungo.
(86 Punti)
A LATERE
Tra gli EVO assaggiati a latere della masterclass, mi preme segnalare alla Vostra attenzione:
MONOCULTIVAR CUCCO, TRAPPETO DI CAPRAFICO TOMMASO MASCIANTONIO (ABRUZZO): un EVO che si merita la segnalazione per il come è riuscito a comunicare l’incidenza della stagione sul prodotto finito.
Più carica e meno “sostanza” hanno significato, per questa cultivar a duplice attitudine tutto sommato “leggera”, un risultato inaspettatamente “strong”, con uno spot puntato sul pomodoro e una chorus line di erbe aromatiche, mandorla e sfalci.
Piccante in evidenza e amaro ad inseguire per una correttissima gestione del palato.
(86+ Punti)
MONOCULTIVAR CORATINA “SELEZION [EVO]”, TERREDIMORRA (PUGLIA): naso divertente come un prato fiorito, ricco di vegetalità ortolane, pomodoro verde, salvia, erbe amare e pinoli.
S’approccia in bocca spingendo sull’amaro per poi rivelare il proprio animo piccante.
Chiude tra mallo di noce e peperoncino.
Bella prova per questa giovanissima Azienda che entra con modestia ma a testa alta nell’olimpo della Qualità.
BBravi!
(89 Punti).
PUGLIA IGP “PUGLIA, OLIO, AMORE”, DE CARLO (PUGLIA): naso complesso che evidenzia note di carciofo, erba di sfalcio, melanzana, basilico, alloro e l’immancabile pomodoro.
Assaggio vigoroso nonostante il periodo, che punta decisamente sul piccante ma non dimentica un amaro che, nel finale, dice la sua con autorevolezza.
Bello.
(Quasi 90 Punti…quasi)
E QUINDI?
E quindi niente!
Certo Vi aspetterete che dica: “finalmente una manifestazione dedicata agli EVO”!
E invece no.
Mi spiace ma non posso decantare le lodi di un Evento sicuramente lodevole dal punto di vista della comunicazione ma sbagliato nella programmazione temporale e con più di una pecca dal punto di vista tecnico.
Innanzitutto, presentare a fine Giugno (quando nell’altro emisfero è iniziata la campagna olearia), in una Romache evidenzia temperature prossime a quelle della superficie del Sole, degli Evo le cui caratteristiche organolettiche risentiranno senz’altro di tutto ciò, non giova certo alla causa dell’EVO e non fa fare bella figura ai Produttori.
E poi, capisco l’importanza di una masterclass indirizzata a un pubblico che si sta appena approcciando al mondo dell’extravergine ma gli errori sono errori e chi conduce non dovrebbe farne (oltreché dimenticare la supponenza e dimostrare voglia).
Detto questo, al netto delle critiche che vorrei fossero intese in maniera assolutamente costruttiva, resta comunque il valore di una serata che ha provato a parlare dell’oro verde delle nostre tavole cercando di diffondere il verbo della Qualità.
Si può fare di più e meglio ma, piuttosto che niente, è meglio piuttosto.
E non dimenticate che: solo chi fa, sbaglia.
p.s. un’ultimo “buffetto” agli Organizzatori: basta co’ ‘sti bicchierini di plastica!!
Roberto Alloi
VINODENTRO
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15 Aprile, 2024
Ramas, sorseggiare quiete e lusso sul Lago di Garda
Un paradiso dentro al paradiso. Così può essere definito il resort dove sto per portarvi.
È l’hotel 5 stelle luxury sulla sponda bresciana del Lago di Garda, il Grand Hotel Fasano & Villa Principe di Gardone Riviera, che sta ampliando la propria stagionalità per diventare destinazione da scegliere tutto l’anno.
Vanno in questa direzione gli investimenti fatti nell’ultimo biennio, come il restyling della Spa e l’ampliamento delle camere, a cui si aggiunge un’offerta gastronomica sorprendente, testimoniata dalla recente Stella Michelin di Maurizio Bufi, Chef del Ristorante Il Fagiano.
Le meraviglie del Grand Hotel Fasano non possono finire qui.
Il bar manager Rama Redzepi, in occasione dei 10 anni di collaborazione con la struttura, mette il proprio sigillo su un nuovo progetto, dando il nome a quella che era la Gin Lounge. Nasce così Ramas, uno speciale cocktail bar che inizia l’attività con una speciale selezione chiamata The Way of Dragon, dedicata all’Anno del Drago del Capodanno Cinese.
Il richiamo, in continuità con The Way of Tea del 2023, è sempre quello orientale, oggi declinato in sette cocktail ispirati ad altrettanti draghi della mitologia cinese come, Hēilóng 黑龙, drago nero d’indole feroce, viene rappresentato con una grappa EVO infusa con “Happy Chai”, dry orange curaçao, succo di limone, sciroppo di cookie, ginger beer, un infuso speziato con curcuma, zenzero, cardamomo, grué di cacao e honey bush, un tè rosso molto simile al rooibos.
Altra novità della carta è la sezione Sensations, composta da cinque nuovi cocktail capaci di suscitare un turbine di emozioni in chi li assaggia. Ricordi nel tempo, ad esempio, è un tributo al clima mediterraneo del Lago di Garda, dove nascono e vegetano gli ulivi. Nel bicchiere, l’O de V Gin white, un gin a base vino con sentori di vaniglia e mango, viene accostato ai sapori del latte di mandorla infuso con un tè nero ai frutti rossi e completato con un oleosaccharum di bergamotto, olio di oliva e succo di limone.
Pronti a lasciarvi trasportare in questo ed altri viaggi?
Rama Redzepi vi aspetta al Grand Hotel Fasano per stupirvi con la sua creatività, riconosciuta a livello internazionale anche da celebri marchi del mondo spirits. Rama si è infatti aggiudicato a marzo al Next Door Guné di Firenze la prima edizione della Graham’s Port Blend Series Cocktail Competition.
Tra i 55 partecipanti provenienti da tutta Italia, a conquistare il primo premio è stata la sua ricetta Total Branco, con protagonista il Porto Graham Blend Series N.5. unito ad un amalgama fresco e fruttato di note agrumate.
Adele Gorni Silvestrini
Mi trovi su Instagram @adelegornisilvestrini
Passi in Cantina
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28 Febbraio, 2024
Cibaria, l'eccellenza in tavola
Amatriciana, cacio e pepe, carbonara, gricia. Tutte paste della tradizione romana. Cosa hanno in comune? Il pecorino romano ovviamente!
Roma, la città eterna. Meta di pellegrinaggio prima e di turismo oggi. Orde di turisti oggi invadono le strade di Trastevere, Testaccio, Monti, Prati, Esquilino e ogni dove ci sia qualcosa da vedere. Ovvero tutta Roma che è un vero museo a cielo aperto. Prima, tanti anni fa, si mangiava solo agli orari canonici ovvero dalle 12 alle 14 e dalle 19 alle 23. Se volevi mangiare fuori orario, occorreva accontentarsi di un pezzo di pizza. Il che non era male comunque!
Seduti al ristorante o in trattoria, preferibilmente all’aperto visto il clima di Roma, non può certo mancare un ricco piatto di pasta. Pecorino. Tanto pecorino. Nell’anima del piatto come in una cacio e pepe o a guarnizione, abbondante, per gli altri.
Pecorino. Pecorino e ancora Pecorino. Romano dop? Vallo a capire….
Difficile alzarsi da tavola senza una sensazione di arsura in gola. Complice la sapidità del Pecorino Romano. E dire che anche nelle ricette che si trovano sul web c’è sempre indicato di fare attenzione alla salatura della pasta vista la sapidità del formaggio.
Nessuno si è mai posto la domanda: ma perché diavolo un formaggio del genere debba essere così salato?
In realtà uno se l’è posta. Rocco Lutrario, fondatore e gestore, insieme alla figlia Priscilla, di Cibaria. Parlare con Rocco è tornare indietro nel tempo a quella Roma che non c’è più. Alla integrità delle persone. A quegli odori e sapori che caratterizzavano le strade. Alla vita di un tempo.
Il racconto di Rocco è di quelli pacati e gentili. Come il suo animo.
Con le sue parole mi trasporta negli anni sessanta del secolo scorso quando, a 17 anni, inizia a lavorare come fatturista in una azienda di medicinali a Monteverde vecchio. Così si faceva all’epoca. Occorreva lavorare per sbarcare il lunario. Per crearsi un futuro. Il boom economico andava assecondato non certo ostacolato. La sera o a pranzo scendevo a Trastevere per mangiare. Venivo dai Castelli e occorreva nutrirsi. Li sentivo gli odori veri di una volta specialmente del pecorino prodotto a nord di Roma e in provincia di Latina nell’agro pontino. Rocco conobbe la cucina romana degli osti esperti. DI quelli che cucinavano con sostanza e tradizione servendo i loro piatti in quelle osterie in gran parte rimaste come all’ora. A Roma trovare un locale rinnovato rispetto a quei tempi è una impresa. Il “romano” li ama così e per i turisti è una manna. Tutti avevano il problema di gestire un prodotto salato e grasso. Noi siamo in una splendida zona sul lago di Castelgandolfo. All’epoca si vangava e si lavorava duro. Tornavano a casa e la necessità per i lavoratori era reintegrare quanto consumato con le fatiche della giornata: grasso e salato. Oggi esce poco e bisogna rimettere poco. La tradizione romana affonda le sue radici proprio tra i lavoratori dell’agro. Tra quelli che dovevano mangiare in maniera robusta perché robuste erano le fatiche. Il grasso del guanciale, il salato del pecorino tanto per intenderci. Rocco non amava molto il suo lavoro nell’azienda farmaceutica. Quel vendere medicine lo considerava poco onorevole. Come dargli torto in fondo!
Quando ha 25 anni, si licenzia e inizia a fare il rappresentante di saponette. Già qui si denota lo spirito di intraprendenza di Rocco. Certo, siamo nel boom economico e trovare lavoro piuttosto che inventarsene uno non è complicato. Ma la voglia di rimboccarsi le maniche e di lavorare la devi avere. Rocco ce l’ha e tanta. Battendo il marciapiede arriva ad avere oltre 600 clienti.
Nei suoi giri non può non imbattersi nei mille rivoli della vita di Roma di quei tempi con tutti i suoi artigiani e commercianti. Le alimentari ad esempio. Di queste rimane affascinato tanto da capire che potevano far parte del suo futuro. Acquista un piccolo magazzino dove stoccare la merce e cambia dalle saponette al cibo. Facevo le fatture di notte con una Olivetti a manovella. Ognuno di noi pensa che o è di famiglia e mio padre faceva il sarto dunque non ne parliamo neanche oppure occorre avere fortuna. Ho conosciuto un mentore. Uno di quelli che già praticava negli anni 40 il concerto di slow food. Vide la mia voglia di fare e di come lo facevo e si innamorò di me. Mi vendeva anche dei prodotti come parmigiano, alici, prosciutto. Me li spiegava sempre con tanti particolari. Iniziò insomma una collaborazione che fu la mia scuola di specializzazione. Ero bravo a vendere ma non avevo emozioni. Guadagnavo si. Ero contento si ma senza emozioni. L’emozione iniziò quando vendetti un prodotto che non si vendeva in zona e mi venne riordinato. Hanno creduto in me, pensai. Rocco si fa strada nel mondo del food. Vende quanto serve alle alimentari romane per servire i loro clienti. Merce buona. Cibo buono. Inizia anche una intensissima collaborazione con Reggiani che produce il prosciutto di Bassiano, collaborazione che dura ancora oggi. Non sono mancati i consigli di uno che lavora sulla strada. Roma è diversa e ha bisogno di meno sale gli dicevo. Una collaborazione che è stata volta a migliorare e continuare. Cordialità di rapporti. Inizia poi una collaborazione con Malandrone, per un Parmigiano dalla lunga stagionatura (fino a 120 mesi). Un “sognatore” come lo definisce Rocco, capace di produrre un prodotto unico nel panorama nazionale.
Rocco, che non sta fermo un istante, intuisce anche le potenzialità di un altro prodotto: il baccalà. Solo che quello che si trova in giro è salato. Tanto salato che se non lo si lascia a bagno per giorni (cambiando pure spesso l’acqua) è immangiabile. Conosce Riccardo Monti che con i suoi fratelli e la Food Import importano pesce essiccato. Sul baccalà abbiamo iniziato a collaborare con la Food Import. Ormai collaboriamo da 45 anni . Abbiamo realizzato un prodotto dissalato primi in Europa. Arriva anche nei supermercati e nella ristorazione con l’1% di sale. Il piacere di mangiare qualcosa di unico. Senza problema e senza sale. C’era necessità di averlo perchè solo se hai un ascendente caprino serve sale? Lo si mette dopo magari. Negli anni la sperimentazione di un costosissimo processo ha però permesso alla Food Import di essere i leader in questa tecnologia. Riccardo veniva a Roma e affinavamo il processo. Rocco ricorda anche di quando venivano a Roma i produttori che rappresentava e gli chiedevano di portarli a mangiare la “cofana di Amatriciana”. Andava tutto bene e, sempre come si dice a Roma, “se la scofanavano tutta”. Peccato che poi il mattino dopo li ritrovava con gli occhi di fuori. Ho svuotato il frigorifero. Ma sto cazzo di sale! Non c’avete un pecorino con meno sale. Non lavoravo il pecorino perchè non mi piaceva. Il Pecorino Romano si produce tipicamente nel Lazio, in Sardegna e in Toscana a Grosseto. La produzione annua si attesta sui 280/300 quintali e quasi metà se ne va negli USA per essere usato principalmente come taglio di altri formaggi. Un formaggio che tipicamente è molto sapido. Priscilla ed io eravamo stati invitati alla inaugurazione di Eataly a Parigi dove abbiamo conosciuto l’ambasciatrice italiana. Era aprile e a giugno ci sarebbe stata una sorta di esposizione per imprenditori francesi. Quando lei ha assaggiato il nostro pecorino e parmigiano ha fermato il suo codazzo per prendere i nostri recapiti “Ho assaggiato cose straordinarie e vorrei che il 2 giugno fossero nostri ospiti per presentare i loro prodotti. Prodotti di questo genere che rappresentano l’Italia al massimo livello qualitativo devono essere fatti assaggiare. Non possono mancare”.
Così ci siamo trovati con 1800 persone che ci hanno massacrato perché non facevano altro che chiederci da dove venivano questi prodotti. Rocco lo dice con una punta di orgoglio. Così come con orgoglio parla di sua figlia Priscilla. Nella vita bisogna essere fortunati. Nel lavoro e nella moglie. Se si ha la fortuna di avere figli come Priscilla è il massimo Lo dice a tutte e tre. Tre sorelle ma solo Priscilla impegnata in azienda come Direttore Marketing.
Ma ritorniamo al pecorino e alla sua nascita.
Rocco si mette alla ricerca di qualche pastore produttore che abbia voglia di realizzare qualcosa di diverso. Meno ma molto meno sale di quello che fino ad allora c’era sempre stato.
Un pastore “intelligente e sensibile” lo trovano. Di quelli che però ti devono mettere alla prova. Un pò perché non si fidano del primo che arriva. Un pò perché Rocco gli chiede qualcosa che va oltre. Mi ha capito al volo dicendo “Ci chiedete di cambiare la ricetta che da secoli portiamo avanti? Si. Allora mi ha guardato e ha detto: “ci date fiducia”. Una svolta che consente a Rocco di realizzare il pecorino Cibaria. Fiore all’occhiello e vanto di tutta la produzione poiché davvero straordinario. Così tanto che anche altri produttori iniziarono a seguire questa svolta.
Al pecorino, al prosciutto di Bassiano, al baccalà e al Parmigiano, Cibaria (questo è il nome della ditta che Rocco fonda nel 1976) aggiunge al suo catalogo di prodotti di eccellenza da distribuire anche altro. Sempre orientati al basso contenuto di sale per esaltarne i sapori e ritornare a far scoprire quelli di un tempo. Abbiamo connotato i nostri prodotti con bassa salinità. Per il salumi non è l’1% come il Pecorino ma rispetto ai prodotti in giro c’è il 30% in meno di sale. Attenzione alla qualità delle carni e dei prodotti. Noi trattiamo solo ed esclusivamente carni di origine nazionale lavorate entro due giorni ma sempre conservate a freddo. Ricette di tutto rispetto per sentire il salume nostrano del Lazio e di Roma. Il piacere di una volta. Con carni superiori a quelle di una volta. Controlliamo anche il grasso che ci deve essere in una giusta misura per dare sapore. Senza grasso e di origine estera non possono dare sapore anche con la lunga stagionatura. La salumeria romana ha una lunga tradizione anche se poco nota. Non si sono mai fatti grandissimi prodotti perché, crocevia di mille tradizioni, non ha fatto altro che importare prodotti altrui. Qualche salsiccia secca o piccante magari e la spianata ovvero un salume ottenuto attraverso una prima parte della stagionatura con un peso sopra (da cui spianata). Dopo tre anni di sperimentazioni e prove abbiamo l’anno scorso creato la perfetta spianata romana, simbolo della tradizione romana. Così come una mortadella alla quale non aggiungiamo grasso. In genere lo si aggiunge ma noi non lo facciamo per dare ai nostri clienti qualcosa di unico. Nasce per la salumeria il brand “San Rocco” che affianca Cibaria come marchio di proprietà. Due brand nati in epoche diverse perché come dice Rocco La nostra ditta non nasce con progetti fatti a tavolino. Nel caso di San Rocco, avevamo pensato a tutto tranne che al nome. Poi, prima di spedire i primi prodotti ci fu la necessità di un collarino con il nome del marchio chiesto dal cliente. La vestizione era l’ultima cosa alla quale avevamo pensato. Allora il tipografo disse: aò te chiami Rocco, mettiamo San Rocco. Rocco non si ferma mai. Con le sue idee travolge Priscilla che a sua volta ha portato in azienda un punto di vista diverso. Quello di una consumatrice moderna, una donna, una mamma che deve fare la spesa. Tempi e quantità diverse per adattare il brand alle esigenze dei consumatori. Cibaria si rivolge maggiormente alla ristorazione ma sempre con un occhio attento alla distribuzione selezionata. Penso di dare un punto di vista differente e più contemporaneo. Sono una mamma con due bambini piccoli che fa la spesa alle sei di sera al supermercato. Deve essere una spesa veloce. Il cliente finale cosa vorrebbe? Mi faccio queste domande. Packaging differenti? Comunicazioni differenti. Mi guardo attorno e mi confronto con Rocco per capire cosa accade se facessimo le cose in maniera differente. Una domanda in più. Lavoravamo la spianata in maniera bellissima ma era di due kg. Abbiamo deciso di farla più piccola per renderla più gestibile. In due riusciamo a stare sempre di più al passo. Lui mi ha insegnato tutto anche se ogni due per tre esce qualcosa di nuovo. Nel futuro l’idea è di allargare ancora il portafoglio della salumeria romana con qualche ulteriore prodotto o il modo per presentarlo. Così come un Pecorino Romano Dop di montagna per il quale Rocco sostiene che sarà un tuffo al cuore per chi lo assaggerà. I parametri per un prodotto cibaria sono complessi. Tutto deve seguire la nostra filosofia. Nel nostro magazzino anche il più piccolo vasetto di alici ha un motivo per stare li. Tutto questo è Cibaria. Una bella, bellissima realtà guidata dal tandem Rocco e Priscilla con un team davvero incredibile. La nostra squadra è magnifica e con persone motivate. I nostri agenti sono motivatori. Sono tutti coinvolti ma se dovessimo immaginare un incremento dell’organico, avremmo problemi. Torna l’annoso problema di trovare personale che sappiano, così come fece Rocco, rimboccarsi le maniche e partire dal basso. L’esempio non vale per chi resta sul divano.
Poco importa almeno per ora. Grazie al grande affiatamento e alla grande umiltà di Rocco e Priscilla, sono certo che tra due anni Cibaria festeggerà i 50 anni di attività. Non so dire se in maniera sfarzosa o sobria. Di sicuro ci saranno tanti salumi e tanto pecorino. Ma non abbiate paura, non avrete sete il mattino dopo! Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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Roma, la città eterna. Meta di pellegrinaggio prima e di turismo oggi. Orde di turisti oggi invadono le strade di Trastevere, Testaccio, Monti, Prati, Esquilino e ogni dove ci sia qualcosa da vedere. Ovvero tutta Roma che è un vero museo a cielo aperto. Prima, tanti anni fa, si mangiava solo agli orari canonici ovvero dalle 12 alle 14 e dalle 19 alle 23. Se volevi mangiare fuori orario, occorreva accontentarsi di un pezzo di pizza. Il che non era male comunque!
Seduti al ristorante o in trattoria, preferibilmente all’aperto visto il clima di Roma, non può certo mancare un ricco piatto di pasta. Pecorino. Tanto pecorino. Nell’anima del piatto come in una cacio e pepe o a guarnizione, abbondante, per gli altri.
Pecorino. Pecorino e ancora Pecorino. Romano dop? Vallo a capire….
Difficile alzarsi da tavola senza una sensazione di arsura in gola. Complice la sapidità del Pecorino Romano. E dire che anche nelle ricette che si trovano sul web c’è sempre indicato di fare attenzione alla salatura della pasta vista la sapidità del formaggio.
Nessuno si è mai posto la domanda: ma perché diavolo un formaggio del genere debba essere così salato?
In realtà uno se l’è posta. Rocco Lutrario, fondatore e gestore, insieme alla figlia Priscilla, di Cibaria. Parlare con Rocco è tornare indietro nel tempo a quella Roma che non c’è più. Alla integrità delle persone. A quegli odori e sapori che caratterizzavano le strade. Alla vita di un tempo.
Il racconto di Rocco è di quelli pacati e gentili. Come il suo animo.
Con le sue parole mi trasporta negli anni sessanta del secolo scorso quando, a 17 anni, inizia a lavorare come fatturista in una azienda di medicinali a Monteverde vecchio. Così si faceva all’epoca. Occorreva lavorare per sbarcare il lunario. Per crearsi un futuro. Il boom economico andava assecondato non certo ostacolato. La sera o a pranzo scendevo a Trastevere per mangiare. Venivo dai Castelli e occorreva nutrirsi. Li sentivo gli odori veri di una volta specialmente del pecorino prodotto a nord di Roma e in provincia di Latina nell’agro pontino. Rocco conobbe la cucina romana degli osti esperti. DI quelli che cucinavano con sostanza e tradizione servendo i loro piatti in quelle osterie in gran parte rimaste come all’ora. A Roma trovare un locale rinnovato rispetto a quei tempi è una impresa. Il “romano” li ama così e per i turisti è una manna. Tutti avevano il problema di gestire un prodotto salato e grasso. Noi siamo in una splendida zona sul lago di Castelgandolfo. All’epoca si vangava e si lavorava duro. Tornavano a casa e la necessità per i lavoratori era reintegrare quanto consumato con le fatiche della giornata: grasso e salato. Oggi esce poco e bisogna rimettere poco. La tradizione romana affonda le sue radici proprio tra i lavoratori dell’agro. Tra quelli che dovevano mangiare in maniera robusta perché robuste erano le fatiche. Il grasso del guanciale, il salato del pecorino tanto per intenderci. Rocco non amava molto il suo lavoro nell’azienda farmaceutica. Quel vendere medicine lo considerava poco onorevole. Come dargli torto in fondo!
Quando ha 25 anni, si licenzia e inizia a fare il rappresentante di saponette. Già qui si denota lo spirito di intraprendenza di Rocco. Certo, siamo nel boom economico e trovare lavoro piuttosto che inventarsene uno non è complicato. Ma la voglia di rimboccarsi le maniche e di lavorare la devi avere. Rocco ce l’ha e tanta. Battendo il marciapiede arriva ad avere oltre 600 clienti.
Nei suoi giri non può non imbattersi nei mille rivoli della vita di Roma di quei tempi con tutti i suoi artigiani e commercianti. Le alimentari ad esempio. Di queste rimane affascinato tanto da capire che potevano far parte del suo futuro. Acquista un piccolo magazzino dove stoccare la merce e cambia dalle saponette al cibo. Facevo le fatture di notte con una Olivetti a manovella. Ognuno di noi pensa che o è di famiglia e mio padre faceva il sarto dunque non ne parliamo neanche oppure occorre avere fortuna. Ho conosciuto un mentore. Uno di quelli che già praticava negli anni 40 il concerto di slow food. Vide la mia voglia di fare e di come lo facevo e si innamorò di me. Mi vendeva anche dei prodotti come parmigiano, alici, prosciutto. Me li spiegava sempre con tanti particolari. Iniziò insomma una collaborazione che fu la mia scuola di specializzazione. Ero bravo a vendere ma non avevo emozioni. Guadagnavo si. Ero contento si ma senza emozioni. L’emozione iniziò quando vendetti un prodotto che non si vendeva in zona e mi venne riordinato. Hanno creduto in me, pensai. Rocco si fa strada nel mondo del food. Vende quanto serve alle alimentari romane per servire i loro clienti. Merce buona. Cibo buono. Inizia anche una intensissima collaborazione con Reggiani che produce il prosciutto di Bassiano, collaborazione che dura ancora oggi. Non sono mancati i consigli di uno che lavora sulla strada. Roma è diversa e ha bisogno di meno sale gli dicevo. Una collaborazione che è stata volta a migliorare e continuare. Cordialità di rapporti. Inizia poi una collaborazione con Malandrone, per un Parmigiano dalla lunga stagionatura (fino a 120 mesi). Un “sognatore” come lo definisce Rocco, capace di produrre un prodotto unico nel panorama nazionale.
Rocco, che non sta fermo un istante, intuisce anche le potenzialità di un altro prodotto: il baccalà. Solo che quello che si trova in giro è salato. Tanto salato che se non lo si lascia a bagno per giorni (cambiando pure spesso l’acqua) è immangiabile. Conosce Riccardo Monti che con i suoi fratelli e la Food Import importano pesce essiccato. Sul baccalà abbiamo iniziato a collaborare con la Food Import. Ormai collaboriamo da 45 anni . Abbiamo realizzato un prodotto dissalato primi in Europa. Arriva anche nei supermercati e nella ristorazione con l’1% di sale. Il piacere di mangiare qualcosa di unico. Senza problema e senza sale. C’era necessità di averlo perchè solo se hai un ascendente caprino serve sale? Lo si mette dopo magari. Negli anni la sperimentazione di un costosissimo processo ha però permesso alla Food Import di essere i leader in questa tecnologia. Riccardo veniva a Roma e affinavamo il processo. Rocco ricorda anche di quando venivano a Roma i produttori che rappresentava e gli chiedevano di portarli a mangiare la “cofana di Amatriciana”. Andava tutto bene e, sempre come si dice a Roma, “se la scofanavano tutta”. Peccato che poi il mattino dopo li ritrovava con gli occhi di fuori. Ho svuotato il frigorifero. Ma sto cazzo di sale! Non c’avete un pecorino con meno sale. Non lavoravo il pecorino perchè non mi piaceva. Il Pecorino Romano si produce tipicamente nel Lazio, in Sardegna e in Toscana a Grosseto. La produzione annua si attesta sui 280/300 quintali e quasi metà se ne va negli USA per essere usato principalmente come taglio di altri formaggi. Un formaggio che tipicamente è molto sapido. Priscilla ed io eravamo stati invitati alla inaugurazione di Eataly a Parigi dove abbiamo conosciuto l’ambasciatrice italiana. Era aprile e a giugno ci sarebbe stata una sorta di esposizione per imprenditori francesi. Quando lei ha assaggiato il nostro pecorino e parmigiano ha fermato il suo codazzo per prendere i nostri recapiti “Ho assaggiato cose straordinarie e vorrei che il 2 giugno fossero nostri ospiti per presentare i loro prodotti. Prodotti di questo genere che rappresentano l’Italia al massimo livello qualitativo devono essere fatti assaggiare. Non possono mancare”.
Così ci siamo trovati con 1800 persone che ci hanno massacrato perché non facevano altro che chiederci da dove venivano questi prodotti. Rocco lo dice con una punta di orgoglio. Così come con orgoglio parla di sua figlia Priscilla. Nella vita bisogna essere fortunati. Nel lavoro e nella moglie. Se si ha la fortuna di avere figli come Priscilla è il massimo Lo dice a tutte e tre. Tre sorelle ma solo Priscilla impegnata in azienda come Direttore Marketing.
Ma ritorniamo al pecorino e alla sua nascita.
Rocco si mette alla ricerca di qualche pastore produttore che abbia voglia di realizzare qualcosa di diverso. Meno ma molto meno sale di quello che fino ad allora c’era sempre stato.
Un pastore “intelligente e sensibile” lo trovano. Di quelli che però ti devono mettere alla prova. Un pò perché non si fidano del primo che arriva. Un pò perché Rocco gli chiede qualcosa che va oltre. Mi ha capito al volo dicendo “Ci chiedete di cambiare la ricetta che da secoli portiamo avanti? Si. Allora mi ha guardato e ha detto: “ci date fiducia”. Una svolta che consente a Rocco di realizzare il pecorino Cibaria. Fiore all’occhiello e vanto di tutta la produzione poiché davvero straordinario. Così tanto che anche altri produttori iniziarono a seguire questa svolta.
Al pecorino, al prosciutto di Bassiano, al baccalà e al Parmigiano, Cibaria (questo è il nome della ditta che Rocco fonda nel 1976) aggiunge al suo catalogo di prodotti di eccellenza da distribuire anche altro. Sempre orientati al basso contenuto di sale per esaltarne i sapori e ritornare a far scoprire quelli di un tempo. Abbiamo connotato i nostri prodotti con bassa salinità. Per il salumi non è l’1% come il Pecorino ma rispetto ai prodotti in giro c’è il 30% in meno di sale. Attenzione alla qualità delle carni e dei prodotti. Noi trattiamo solo ed esclusivamente carni di origine nazionale lavorate entro due giorni ma sempre conservate a freddo. Ricette di tutto rispetto per sentire il salume nostrano del Lazio e di Roma. Il piacere di una volta. Con carni superiori a quelle di una volta. Controlliamo anche il grasso che ci deve essere in una giusta misura per dare sapore. Senza grasso e di origine estera non possono dare sapore anche con la lunga stagionatura. La salumeria romana ha una lunga tradizione anche se poco nota. Non si sono mai fatti grandissimi prodotti perché, crocevia di mille tradizioni, non ha fatto altro che importare prodotti altrui. Qualche salsiccia secca o piccante magari e la spianata ovvero un salume ottenuto attraverso una prima parte della stagionatura con un peso sopra (da cui spianata). Dopo tre anni di sperimentazioni e prove abbiamo l’anno scorso creato la perfetta spianata romana, simbolo della tradizione romana. Così come una mortadella alla quale non aggiungiamo grasso. In genere lo si aggiunge ma noi non lo facciamo per dare ai nostri clienti qualcosa di unico. Nasce per la salumeria il brand “San Rocco” che affianca Cibaria come marchio di proprietà. Due brand nati in epoche diverse perché come dice Rocco La nostra ditta non nasce con progetti fatti a tavolino. Nel caso di San Rocco, avevamo pensato a tutto tranne che al nome. Poi, prima di spedire i primi prodotti ci fu la necessità di un collarino con il nome del marchio chiesto dal cliente. La vestizione era l’ultima cosa alla quale avevamo pensato. Allora il tipografo disse: aò te chiami Rocco, mettiamo San Rocco. Rocco non si ferma mai. Con le sue idee travolge Priscilla che a sua volta ha portato in azienda un punto di vista diverso. Quello di una consumatrice moderna, una donna, una mamma che deve fare la spesa. Tempi e quantità diverse per adattare il brand alle esigenze dei consumatori. Cibaria si rivolge maggiormente alla ristorazione ma sempre con un occhio attento alla distribuzione selezionata. Penso di dare un punto di vista differente e più contemporaneo. Sono una mamma con due bambini piccoli che fa la spesa alle sei di sera al supermercato. Deve essere una spesa veloce. Il cliente finale cosa vorrebbe? Mi faccio queste domande. Packaging differenti? Comunicazioni differenti. Mi guardo attorno e mi confronto con Rocco per capire cosa accade se facessimo le cose in maniera differente. Una domanda in più. Lavoravamo la spianata in maniera bellissima ma era di due kg. Abbiamo deciso di farla più piccola per renderla più gestibile. In due riusciamo a stare sempre di più al passo. Lui mi ha insegnato tutto anche se ogni due per tre esce qualcosa di nuovo. Nel futuro l’idea è di allargare ancora il portafoglio della salumeria romana con qualche ulteriore prodotto o il modo per presentarlo. Così come un Pecorino Romano Dop di montagna per il quale Rocco sostiene che sarà un tuffo al cuore per chi lo assaggerà. I parametri per un prodotto cibaria sono complessi. Tutto deve seguire la nostra filosofia. Nel nostro magazzino anche il più piccolo vasetto di alici ha un motivo per stare li. Tutto questo è Cibaria. Una bella, bellissima realtà guidata dal tandem Rocco e Priscilla con un team davvero incredibile. La nostra squadra è magnifica e con persone motivate. I nostri agenti sono motivatori. Sono tutti coinvolti ma se dovessimo immaginare un incremento dell’organico, avremmo problemi. Torna l’annoso problema di trovare personale che sappiano, così come fece Rocco, rimboccarsi le maniche e partire dal basso. L’esempio non vale per chi resta sul divano.
Poco importa almeno per ora. Grazie al grande affiatamento e alla grande umiltà di Rocco e Priscilla, sono certo che tra due anni Cibaria festeggerà i 50 anni di attività. Non so dire se in maniera sfarzosa o sobria. Di sicuro ci saranno tanti salumi e tanto pecorino. Ma non abbiate paura, non avrete sete il mattino dopo! Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
21 Febbraio, 2024
Maria Francesca Piemonte. Andata e ritorno dall’inferno. Per impastare
Vivere
È passato tanto tempo
Vivere
È un ricordo senza tempo
Vivere!
È un po’ come perder tempo
Vivere e sorridere dei guai
Così come non hai fatto mai
E poi pensare che domani sarà sempre meglio Vivere. Vivere e sorridere alla vita. Sorridere delle cose più semplici. Quelle che ci capitano tutti i giorni. Sorridere per qualcuno. Sorridere per qualcosa che facciamo. Sorridere per vivere. Si può sorridere alla vita anche se è la vita non ci ha sorriso. La felicità è qualcosa che quando la trovi, non la molli più. La stringi a te per non farla andare via. Mai più. Cosa è la felicità? Non c’è una formula. Ognuno di noi ha la sua. Magari c’è una ricetta ma occorre trovarla. E se la ricetta fosse quella di un dolce? Maria Francesca Piemonte adesso ha 42 anni e pesa 35 kg. È felice perché ha trovato la sua ricetta di felicità dopo averla lungamente cercata per 23 anni. A 17 anni caso vuole che mi sono beccata l’anoressia. Che non è una cosa che ti cerchi. Ti capita addosso ed è uno stato d’animo e non coincide minimamente con quello che tutti credono “voglio dimagrire e voglio fare la modella”. No! Io lo definirei una mancanza di stimoli alla vita. Non te ne frega più niente di niente. Non ti interessa di andare avanti in niente. Non c’è nulla che ti dia uno stimolo. Il tuo cervello si scinde in due ed è come se avessi una gemella cattiva che ti dice che l’unica cosa che puoi controllare in questo mondo incontrollabile è il tuo peso. Per cui dominalo! Tu inizi a dimagrire senza rendertene conto. Sei sempre diviso in due. Il brutto è che una parte di te capisce che stai sbagliando in pieno e stai facendo il tuo male facendo soffrire il mondo attorno a te. Che ti stai perdendo tutti gli amici perché te li stai giocando: hanno paura. Le persone hanno paura della malattia e scappa lontano. I tuoi genitori che stanno male e non sanno cosa fare. Una metà di te dice che sei una stronza e vorrebbe guarire. L’altra metà dice che se perdi il controllo del peso perdi il controllo di tutto perché il mondo è irrazionale. E quindi ti odi. Anoressia. Non voglio trattare la malattia. Non ne ho le competenze. Non è mio compito. Neanche la cura lo è perché deve essere in mano a specialisti. Però parlare con Maria Francesca è una illuminazione circa qualcosa della quale si sente spesso parlare ma rimane nell’aria a galleggiare. Fino a che non ti tocca da vicino. Ti fai una opinione ma non ne sai in realtà nulla. Non la vivi ne tantomeno la vuoi vivere. Luoghi comuni, chiacchiere, banalità. La vita vera è ben altra. La sofferenza è ben maggiore di ciò che si vede dall’esterno. Francesca racconta del suo percorso di sofferenza con forza e con felicità. Ne è uscita e ha trovato quella sua felicità in un budino. Si, avete letto bene, in un budino. Precisamente in un budino Cameo. Scaduto. Non c’è un prototipo di una persona che si ammala di anoressia. Le condizioni sociali, la famiglia, il contesto possono magari incidere ma c’è qualcosa di più profondo che colpisce. La famiglia di Francesca è una di quelle per bene. Quelle che non ti fanno mai mancare niente. Buon scuole che Francesca ripaga con buoni voti. Laurea con lode in economia aziendale alla Bocconi. Quattro lingue correntemente parlate. Eppure Francesca sprofonda negli inferi. Piano piano. Non senza accorgersene. Quasi volontariamente. La metà di Francesca che le sussurra che l’unica cosa che può controllare a questo mondo è il suo peso, prevale. Così 23 anni trascorrono in maniera drammatica. Ho tentato più volte il suicidio ma ho sempre cannato. Si dice che per morire devi prendere delle medicine sommate agli alcolici. Io da brava anoressica non ho preso l’alcol perché faceva ingrassare. E quindi mi sono solo scioccata. Se c’è una cosa che so della anoressia è che si mangia il corpo come fa una bestia famelica. Prima l’adipe poi i muscoli, poi le ossa. Senza sosta, lentamente, inesorabilmente. Tutto viene compromesso. Mi sono rotta prima un dito e un tendine e sono andata avanti un anno per ricostruire con operazioni varie. Gesso, tutore, stecca. Poi mi sono frantumate due vertebre per osteoporosi. Ho il record mondiale per l’osteoporosi giovanile in una scala che parte da zero io sono a meno 5.2. Probabilità di frattura dell’89.9%. Mi si rompono da sole. Da quando l’anno scoperto sono in cura ma ormai non c’è nulla da fare. Poi mi sono rotta l’olecrano che è la puntina del gomito con la quale mi hanno ingessato dalla punta del dito alla spalla. Ovviamente nella stagione estiva. Di mezzo non avendo più muscoli cadevo e mi tagliavo e i tagli duravano una vita perché non avevo più pelle. Sono giunta al punto che non uscivo di casa perché non avevo il muscolo per fare il gradino del marciapiede. Sono arrivata a pesare 20 kg per un’altezza di 1.65. Ero 1.70 ma nel rompersi le vertebre sono crollata di 5 cm. Francesca parla con forza e determinazione. Sa che è qualcosa di doloroso per se e per gli altri. Ma appartiene al passato. A qualcosa che si è gettata alle spalle. A volte, mentre mi parla, ho l’impressione che è come se raccontasse qualcosa che è successo ad un’altra persona. Forse lo ha raccontato molte volte o magari è solo che è così forte la determinazione che, lo spirito positivo con il quale ne parla, da questo effetto. Eppure è lei. È di lei che si parla. Sono anche morta. Pesavo 26 kg nel 2017. Dovevo andare dalla dietologa e sapevo che sarei dovuto pesare 33. Ero dunque 7 kg sotto. Non volevo dare un dolore ai miei e per risultare più pesante, ho bevuto 9 litri di acqua in meno di cinque ore con il risultato di mandare in collasso il cervello con uno shock generale. Mi ricordo solo che ho detto “io ho mal di testa”. Pare che io sia crollata con le convulsioni. Mia mamma era medico e ha capito che non poteva fermarmi. Ha chiamato l’ambulanza indicando che dovevo essere intubata. Sono arrivati dopo 25 minuti e ho avuto ulteriori 25 minuti di arresto celebrale e respiratorio. In ospedale mi hanno dichiarato morta. Sono stata una settimana in coma farmacologico e poi, mi sono ripresa. Non si sa come, mi sono ripresa. Avevano anche comprato la bara. Ci sarebbero dovuti essere danni celebrali permanenti ma per fortuna, nulla. Poi da li da 26 kg sono arrivata a 20. Eccolo il fondo. Negli inferi. Più di così non si può scendere. Quando sei qui le strade si dividono. O finiscono. Magari è vero che si può solo risalire quando hai toccato il fondo, ma è anche vero che potresti non averne la forza. O la voglia. Perché quando hai una malattia come l’anoressia, il senso della vita non lo hai più. Il tuo io cattivo prevale e non c’è molto da fare. A meno che non capiti qualcosa che diventa più importante. Qualcosa che riesca a farti capire quanto la vita sia bella. Ero a casa e non sapendo cosa fare mi sono trovata una busta di budino Cameo, scaduta. Mi sono detta: facciamolo cosi passano due ore della mia vita. Mi sono messo a fare il budino e mi sono divertita un casino. Non l’ho nemmeno mangiato perché figurati se una anoressica mangia un budino. I miei erano felici: avevo fatto qualcosa. Mi sono sentita gratificata da questi complimenti. Gratificata dal fatto che fosse pure venuto il budino. Non ci vuole molto ma nella vita non riuscivo a fare nulla. Ecco che mi è scattato qualcosa. Giù negli inferi Caronte si accontenta di una bustina di budino scaduta. Click. Click. Click. Quanto è complicata, strana e meravigliosa la nostra mente. Un episodio, un ricordo, una bustina di budino e cambia tutto. Cambia davvero tutto nella vita di Francesca. Si mette a vedere e studiare su internet la pasticceria. Procedimenti, tecniche, ricette. Corsi on line, blog, riviste. Fino a cimentarsi con qualcosa in casa maggiormente impegnativo di un budino. Non ti dico le prime frolle. Chiamarle préde, sassi come diciamo in bresciano, era fare un complimento. Però tutti a decantarle! Ho capito però che c’era qualcosa che poteva interessarmi. Così il mio cervello e la mia gemella cattiva, lentamente, dal pensare alle calorie (io sapevo a memoria le calorie di tutti i biscotti e merendine, tutti i cibi della terra. Pure del potassio perché dopo che ero morta sapevo dove trovare sodio, potassio, magnesio, cose che mi servivano) mi sono spostata alle proteine delle farine. Pane, frolle. Grassi che montano di più. Il cervello si spostava. Spostava la sua attenzione. Così piano piano prendevo peso e forza. Riuscivo ad impastare meglio. Quando svieni a metà della frolla non è il massimo. Non riuscivo nemmeno ad impastare la frolla a mano. La mente comanda tutto in questo caso. Si crea quel circolo virtuoso che porta Francesca a voler avere le energie per impastare, creare, infornare. Più sente le energie arrivare, più ne vuole avere per continuare a creare. Trova anche il coraggio e la forza per fare un un corso di sei giornate a Milano per prendere il titolo di pasticciera. Con tanto di stage alla fine. Alla fine dovevo fare un anno di stage che ho fatto in varie Pasticcerie di Brescia dove ti usano solo come lavapiatti. Ho lavato teglie su teglie di giorno e di notte studiavo per prendere il titolo di pasticciera. Che ho preso all’accademia internazionale di Milano. Dovevo preparare due torte e rispondere ad un test. Più impasti più prepari più migliori. Francesca continua a impastare senza sosta per imparare, ogni giorno, qualcosa di nuovo. Nei fine settimana partecipa ai corsi. Confronto. Ha bisogno del confronto per imparare. È affamata di questo adesso. L’anoressia ha smesso di nutrirsi del suo corpo per nutrirsi di sapere e conoscenza. Magari anche di torte. Prodotte in quantità e così in quantità che ciò che realizza, dopo averle assaggiate (!) vanno ad una Associazione di Brescia. Ho una vita. Quello che prima non avevo. È stupendo. Se prima il tuo cervello era concentrato solo sulla bilancia adesso della bilancia non ti interessa più niente. Si, ti interessa del numero della bilancia ma di quella da cucina. Tra dimagrire un kg e fare bene una torta mi interessa di più che venga bene la glassa. Sono anche più simpatica al tutto il resto del mondo. È serena. In pace con il mondo. In pace con se stessa. Soprattutto felice. Anche se di una positività che non c’è. O meglio, c’è quando pensa che i problemi siano in secondo piano rispetto al realizzare qualcosa che ti piace. Sai che domani ti alzi, ci saranno meno tre gradi, il gatto che sta male, l’assicurazione da pagare, il water rotto, ti si è fulminato il forno. Tutto quello che vuoi. Però potrei fare una torta e questo ti tira su il morale. Vai a letto sereno perché domani hai mille possibilità dinanzi ai tuoi occhi. Baking Theraphy. Cooking Theraphy. Si tende sempre a dare un nome alle cose. Anche fosse solo per capire di cosa si stia parlando. Cucinare, prendersi cura di un animale, di una pianta, di un interesse. Di se stessi. È di se stessi che occorre prendersi cura. Ma non è semplice perché c’è sempre la parte stronza dentro di noi che la vince. Ameno fino a quando non la si distrae nutrendo la parte buona con qualcosa che ci fa sorridere. Solo che non sempre si ha la fortuna di Francesca. Non sempre la si trova. Non sempre nel cammino di una persona affetta da una simile malattia si verifica quel click nel cervello. Mi piacerebbe che la gente triste, che non esce di casa, che è stanca e stufa, riuscisse a sorridere anche solo vedendo il casino che faccio io in cucina oppure distraendosi. Se si mette a fare magari un budino o una pastasciutta ci si diverte. Quando ero piccola facevo le pizzette con mia zia. Ma in realtà erano delle fettine di pancarrè con un pò di passata di pomodoro sopra e messe in forno. Una figata galattica. La facevamo in due, io ero bambina e ci divertivamo. Francesca non ha velleità di insegnare a qualcuno. Di dire a qualcuno cosa fare. Certo, lei c’è riuscita con la cucina e la pasticceria. Ha anche provato a portare la sua esperienza alle varie associazioni ed enti del territorio che si occupano di anoressia. Ma dopo le porte in faccia piene di farmaci, ha aperto un suo blog (impastaesorridi.it) ed è li che ha trovato il coraggio di condividere la sua esperienza. La sua storia, tanto per presentarsi ma anche torte, crostate e quant’altro le viene in mente. Io non riesco a fare una ricetta uguale ma devo personalizzarla e farla mia. Magari cambio un inserto, uno strato, una glassa, la forma. Me le compongo io. Prendo le idee dai social, le abbozzo, cerco le ricette, prendo gli stampi. Quindi mi scrivo la ricetta e la metto nel mio faldone. La mattina mi sveglio e in base a come mi gira, sono meteoropatica, creo. Si sveglia e impasta. Va a dormire e sogna di impastare. Ricette su ricette. Voglia di fare. Voglia di vivere. Voglia si sorridere al mondo. Di essere felice e non smetterlo di essere. La cucina, la pasticceria è la vita di Francesca adesso. Si sogna il futuro adesso. Non è più nero ciò che si ha dinanzi. La vita di colpo si è addolcita e non solo per merito dello zucchero. Senza freni e senza paure catturando il bello della cucina che sta nello sperimentare, provare, capire, rifare. Non voglio fare il pasticcere. Ho provato ad aprire una IAD, impresa alimentare domestica ma ha un costo di 4000 euro all’anno tra tasse e contributi. Ti devasta, ti uccide. È un lavorare solo per produrre senza pensare. Il senso della vita e della passione viene meno. Andrò avanti con il mio blog per capire se tira o non tira. Spero che la vita mi mandi qualcosa. Sicuramente mi ha mandato tanti amici e da cosa nasce cosa. Non ho bisogno di un granché per vivere. Preferisco la semplicità e la tranquillità. Non voglio aprire una azienda o una pasticceria. La soddisfazione del fare le cose prima per se stessa. Per alimentare, finalmente, un pò di sano egoismo. Francesca prima di ogni altra cosa e persona. Sempre e comunque nella pasticceria. Le torte moderne con le creme, le mousse, gli inserti alle noce pecan, le glasse. Sono buone ma facili. Un panettone con il lievito madre, l’impatto, i canditi, ecc è qualcosa di allucinante. Quando tu riesci a girarne uno e vedi che non cade, è tanta roba. È orgasmico. Pensa, progetta, impasta, realizza. Assaggia. Assaggia anche cose che prima non si sarebbe mai immaginata di assaggiare. La risurrezione porta anche la curiosità del mondo. Capire gusti nuovi e diversi per poterli utilizzare nelle sue creazioni. Anche questo fa parte del miracolo. Non avevo mai mangiato il passion fruit. Me l’hanno fatto conoscere ad un corso e mi è piaciuto se lavorato in un certo modo. È acido all’infinito ma se lo mischi con altre cose, ci sta. Non bisogna mai chiedersi una porta chiudi mille possibilità. Nella vita occorre sempre avere possibilità. La paura di ricadere. Di ripiombare giù nel baratro, negli inferi, non va mai via. Ma non è una paura che blocca. È qualcosa che Francesca tiene a lato e sotto controllo. In questo periodo sto prendendo anche un antinfiammatorio che mi ha fatto gonfiare e la bilancia è schizzata su di tre chili. Dunque io a farmi i pensieri. Poi faccio le torte, vedono che mi vengono bene e mi dico: ma chi se ne frega! Ha più senso un kg di più o una torta fatta bene? La spinta per continuare le da tutto. Non è solo una ragione di vita. È la felicità che ha trovato Francesca e, anche se sbaglia, non si ferma. Impara dagli sbagli. Mi è capitata di fare una mousse al formaggio. Dovevo metterci la gelatina. Ho fatto la mia mousse, l’ho messa nello stampo ma la gelatina era ancora nel microonde che suonava. Cosa fai? Inizi ad imprecare poi tiri fuori tutto, metti la gelatina e rifai. L’importante non è non sbagliare ma capire. Francesca ha trovato il suo budino. Quello che ha consentito alla mente di mettere da parte la Francesca cattiva o semplicemente l’altra Francesca. Quella che voleva controllarne il peso come unica soluzione alla vita. C’è riuscita donando a tutti qualcosa di incalcolabile. Questo racconto è un dono.
Le sue ricette sono un dono.
La sua forza è un dono.
La sua travolgente voglia di vivere e di tenersi stretta la felicità è un dono.
Anche queste sue ultime parole sono un dono. Non so quale sia il tuo problema o cosa ti blocca o ti deprime. Prova a distrarti e cercare qualcosa che ti faccia stare bene. Di vita ce ne è una sola. Al resto del mondo non frega nulla di te. Stai male perché pensi a cosa gli altri stanno pensando di te. Fottinete e concentrati su di te. Su quello che fa star bene te. Non si chiama egoismo ma salvezza personale. Tutela del benessere individuale Se tu stai meglio con te stesso stai meglio con gli altri e sei di aiuto agli altri. Devi stare bene con te stesso. Io penso di ingrassare ancora. O meglio recuperare. Ho trovato il senso di vita. Più energie ho più riesco a stare in piedi più riesco ad impastare, meno mi ammalo. Entro nei vestiti e ho meno freddo. Con 20 kg non riesci a vestirti. Quando hai trovato la felicità non la molli più. Trovarla stringerla e non mollarla più. Vivere
E sperare di star meglio
Vivere
E non essere mai contento
Vivere
Come stare sempre al vento
Vivere, come ridere
Vivere (vivere)
Anche se sei morto dentro
Vivere (vivere)
E devi essere sempre contento
Vivere (vivere)
È come un comandamento
Vivere o sopravvivere
Senza perdersi d’animo mai
E combattere e lottare contro tutto contro Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
Leggi
È passato tanto tempo
Vivere
È un ricordo senza tempo
Vivere!
È un po’ come perder tempo
Vivere e sorridere dei guai
Così come non hai fatto mai
E poi pensare che domani sarà sempre meglio Vivere. Vivere e sorridere alla vita. Sorridere delle cose più semplici. Quelle che ci capitano tutti i giorni. Sorridere per qualcuno. Sorridere per qualcosa che facciamo. Sorridere per vivere. Si può sorridere alla vita anche se è la vita non ci ha sorriso. La felicità è qualcosa che quando la trovi, non la molli più. La stringi a te per non farla andare via. Mai più. Cosa è la felicità? Non c’è una formula. Ognuno di noi ha la sua. Magari c’è una ricetta ma occorre trovarla. E se la ricetta fosse quella di un dolce? Maria Francesca Piemonte adesso ha 42 anni e pesa 35 kg. È felice perché ha trovato la sua ricetta di felicità dopo averla lungamente cercata per 23 anni. A 17 anni caso vuole che mi sono beccata l’anoressia. Che non è una cosa che ti cerchi. Ti capita addosso ed è uno stato d’animo e non coincide minimamente con quello che tutti credono “voglio dimagrire e voglio fare la modella”. No! Io lo definirei una mancanza di stimoli alla vita. Non te ne frega più niente di niente. Non ti interessa di andare avanti in niente. Non c’è nulla che ti dia uno stimolo. Il tuo cervello si scinde in due ed è come se avessi una gemella cattiva che ti dice che l’unica cosa che puoi controllare in questo mondo incontrollabile è il tuo peso. Per cui dominalo! Tu inizi a dimagrire senza rendertene conto. Sei sempre diviso in due. Il brutto è che una parte di te capisce che stai sbagliando in pieno e stai facendo il tuo male facendo soffrire il mondo attorno a te. Che ti stai perdendo tutti gli amici perché te li stai giocando: hanno paura. Le persone hanno paura della malattia e scappa lontano. I tuoi genitori che stanno male e non sanno cosa fare. Una metà di te dice che sei una stronza e vorrebbe guarire. L’altra metà dice che se perdi il controllo del peso perdi il controllo di tutto perché il mondo è irrazionale. E quindi ti odi. Anoressia. Non voglio trattare la malattia. Non ne ho le competenze. Non è mio compito. Neanche la cura lo è perché deve essere in mano a specialisti. Però parlare con Maria Francesca è una illuminazione circa qualcosa della quale si sente spesso parlare ma rimane nell’aria a galleggiare. Fino a che non ti tocca da vicino. Ti fai una opinione ma non ne sai in realtà nulla. Non la vivi ne tantomeno la vuoi vivere. Luoghi comuni, chiacchiere, banalità. La vita vera è ben altra. La sofferenza è ben maggiore di ciò che si vede dall’esterno. Francesca racconta del suo percorso di sofferenza con forza e con felicità. Ne è uscita e ha trovato quella sua felicità in un budino. Si, avete letto bene, in un budino. Precisamente in un budino Cameo. Scaduto. Non c’è un prototipo di una persona che si ammala di anoressia. Le condizioni sociali, la famiglia, il contesto possono magari incidere ma c’è qualcosa di più profondo che colpisce. La famiglia di Francesca è una di quelle per bene. Quelle che non ti fanno mai mancare niente. Buon scuole che Francesca ripaga con buoni voti. Laurea con lode in economia aziendale alla Bocconi. Quattro lingue correntemente parlate. Eppure Francesca sprofonda negli inferi. Piano piano. Non senza accorgersene. Quasi volontariamente. La metà di Francesca che le sussurra che l’unica cosa che può controllare a questo mondo è il suo peso, prevale. Così 23 anni trascorrono in maniera drammatica. Ho tentato più volte il suicidio ma ho sempre cannato. Si dice che per morire devi prendere delle medicine sommate agli alcolici. Io da brava anoressica non ho preso l’alcol perché faceva ingrassare. E quindi mi sono solo scioccata. Se c’è una cosa che so della anoressia è che si mangia il corpo come fa una bestia famelica. Prima l’adipe poi i muscoli, poi le ossa. Senza sosta, lentamente, inesorabilmente. Tutto viene compromesso. Mi sono rotta prima un dito e un tendine e sono andata avanti un anno per ricostruire con operazioni varie. Gesso, tutore, stecca. Poi mi sono frantumate due vertebre per osteoporosi. Ho il record mondiale per l’osteoporosi giovanile in una scala che parte da zero io sono a meno 5.2. Probabilità di frattura dell’89.9%. Mi si rompono da sole. Da quando l’anno scoperto sono in cura ma ormai non c’è nulla da fare. Poi mi sono rotta l’olecrano che è la puntina del gomito con la quale mi hanno ingessato dalla punta del dito alla spalla. Ovviamente nella stagione estiva. Di mezzo non avendo più muscoli cadevo e mi tagliavo e i tagli duravano una vita perché non avevo più pelle. Sono giunta al punto che non uscivo di casa perché non avevo il muscolo per fare il gradino del marciapiede. Sono arrivata a pesare 20 kg per un’altezza di 1.65. Ero 1.70 ma nel rompersi le vertebre sono crollata di 5 cm. Francesca parla con forza e determinazione. Sa che è qualcosa di doloroso per se e per gli altri. Ma appartiene al passato. A qualcosa che si è gettata alle spalle. A volte, mentre mi parla, ho l’impressione che è come se raccontasse qualcosa che è successo ad un’altra persona. Forse lo ha raccontato molte volte o magari è solo che è così forte la determinazione che, lo spirito positivo con il quale ne parla, da questo effetto. Eppure è lei. È di lei che si parla. Sono anche morta. Pesavo 26 kg nel 2017. Dovevo andare dalla dietologa e sapevo che sarei dovuto pesare 33. Ero dunque 7 kg sotto. Non volevo dare un dolore ai miei e per risultare più pesante, ho bevuto 9 litri di acqua in meno di cinque ore con il risultato di mandare in collasso il cervello con uno shock generale. Mi ricordo solo che ho detto “io ho mal di testa”. Pare che io sia crollata con le convulsioni. Mia mamma era medico e ha capito che non poteva fermarmi. Ha chiamato l’ambulanza indicando che dovevo essere intubata. Sono arrivati dopo 25 minuti e ho avuto ulteriori 25 minuti di arresto celebrale e respiratorio. In ospedale mi hanno dichiarato morta. Sono stata una settimana in coma farmacologico e poi, mi sono ripresa. Non si sa come, mi sono ripresa. Avevano anche comprato la bara. Ci sarebbero dovuti essere danni celebrali permanenti ma per fortuna, nulla. Poi da li da 26 kg sono arrivata a 20. Eccolo il fondo. Negli inferi. Più di così non si può scendere. Quando sei qui le strade si dividono. O finiscono. Magari è vero che si può solo risalire quando hai toccato il fondo, ma è anche vero che potresti non averne la forza. O la voglia. Perché quando hai una malattia come l’anoressia, il senso della vita non lo hai più. Il tuo io cattivo prevale e non c’è molto da fare. A meno che non capiti qualcosa che diventa più importante. Qualcosa che riesca a farti capire quanto la vita sia bella. Ero a casa e non sapendo cosa fare mi sono trovata una busta di budino Cameo, scaduta. Mi sono detta: facciamolo cosi passano due ore della mia vita. Mi sono messo a fare il budino e mi sono divertita un casino. Non l’ho nemmeno mangiato perché figurati se una anoressica mangia un budino. I miei erano felici: avevo fatto qualcosa. Mi sono sentita gratificata da questi complimenti. Gratificata dal fatto che fosse pure venuto il budino. Non ci vuole molto ma nella vita non riuscivo a fare nulla. Ecco che mi è scattato qualcosa. Giù negli inferi Caronte si accontenta di una bustina di budino scaduta. Click. Click. Click. Quanto è complicata, strana e meravigliosa la nostra mente. Un episodio, un ricordo, una bustina di budino e cambia tutto. Cambia davvero tutto nella vita di Francesca. Si mette a vedere e studiare su internet la pasticceria. Procedimenti, tecniche, ricette. Corsi on line, blog, riviste. Fino a cimentarsi con qualcosa in casa maggiormente impegnativo di un budino. Non ti dico le prime frolle. Chiamarle préde, sassi come diciamo in bresciano, era fare un complimento. Però tutti a decantarle! Ho capito però che c’era qualcosa che poteva interessarmi. Così il mio cervello e la mia gemella cattiva, lentamente, dal pensare alle calorie (io sapevo a memoria le calorie di tutti i biscotti e merendine, tutti i cibi della terra. Pure del potassio perché dopo che ero morta sapevo dove trovare sodio, potassio, magnesio, cose che mi servivano) mi sono spostata alle proteine delle farine. Pane, frolle. Grassi che montano di più. Il cervello si spostava. Spostava la sua attenzione. Così piano piano prendevo peso e forza. Riuscivo ad impastare meglio. Quando svieni a metà della frolla non è il massimo. Non riuscivo nemmeno ad impastare la frolla a mano. La mente comanda tutto in questo caso. Si crea quel circolo virtuoso che porta Francesca a voler avere le energie per impastare, creare, infornare. Più sente le energie arrivare, più ne vuole avere per continuare a creare. Trova anche il coraggio e la forza per fare un un corso di sei giornate a Milano per prendere il titolo di pasticciera. Con tanto di stage alla fine. Alla fine dovevo fare un anno di stage che ho fatto in varie Pasticcerie di Brescia dove ti usano solo come lavapiatti. Ho lavato teglie su teglie di giorno e di notte studiavo per prendere il titolo di pasticciera. Che ho preso all’accademia internazionale di Milano. Dovevo preparare due torte e rispondere ad un test. Più impasti più prepari più migliori. Francesca continua a impastare senza sosta per imparare, ogni giorno, qualcosa di nuovo. Nei fine settimana partecipa ai corsi. Confronto. Ha bisogno del confronto per imparare. È affamata di questo adesso. L’anoressia ha smesso di nutrirsi del suo corpo per nutrirsi di sapere e conoscenza. Magari anche di torte. Prodotte in quantità e così in quantità che ciò che realizza, dopo averle assaggiate (!) vanno ad una Associazione di Brescia. Ho una vita. Quello che prima non avevo. È stupendo. Se prima il tuo cervello era concentrato solo sulla bilancia adesso della bilancia non ti interessa più niente. Si, ti interessa del numero della bilancia ma di quella da cucina. Tra dimagrire un kg e fare bene una torta mi interessa di più che venga bene la glassa. Sono anche più simpatica al tutto il resto del mondo. È serena. In pace con il mondo. In pace con se stessa. Soprattutto felice. Anche se di una positività che non c’è. O meglio, c’è quando pensa che i problemi siano in secondo piano rispetto al realizzare qualcosa che ti piace. Sai che domani ti alzi, ci saranno meno tre gradi, il gatto che sta male, l’assicurazione da pagare, il water rotto, ti si è fulminato il forno. Tutto quello che vuoi. Però potrei fare una torta e questo ti tira su il morale. Vai a letto sereno perché domani hai mille possibilità dinanzi ai tuoi occhi. Baking Theraphy. Cooking Theraphy. Si tende sempre a dare un nome alle cose. Anche fosse solo per capire di cosa si stia parlando. Cucinare, prendersi cura di un animale, di una pianta, di un interesse. Di se stessi. È di se stessi che occorre prendersi cura. Ma non è semplice perché c’è sempre la parte stronza dentro di noi che la vince. Ameno fino a quando non la si distrae nutrendo la parte buona con qualcosa che ci fa sorridere. Solo che non sempre si ha la fortuna di Francesca. Non sempre la si trova. Non sempre nel cammino di una persona affetta da una simile malattia si verifica quel click nel cervello. Mi piacerebbe che la gente triste, che non esce di casa, che è stanca e stufa, riuscisse a sorridere anche solo vedendo il casino che faccio io in cucina oppure distraendosi. Se si mette a fare magari un budino o una pastasciutta ci si diverte. Quando ero piccola facevo le pizzette con mia zia. Ma in realtà erano delle fettine di pancarrè con un pò di passata di pomodoro sopra e messe in forno. Una figata galattica. La facevamo in due, io ero bambina e ci divertivamo. Francesca non ha velleità di insegnare a qualcuno. Di dire a qualcuno cosa fare. Certo, lei c’è riuscita con la cucina e la pasticceria. Ha anche provato a portare la sua esperienza alle varie associazioni ed enti del territorio che si occupano di anoressia. Ma dopo le porte in faccia piene di farmaci, ha aperto un suo blog (impastaesorridi.it) ed è li che ha trovato il coraggio di condividere la sua esperienza. La sua storia, tanto per presentarsi ma anche torte, crostate e quant’altro le viene in mente. Io non riesco a fare una ricetta uguale ma devo personalizzarla e farla mia. Magari cambio un inserto, uno strato, una glassa, la forma. Me le compongo io. Prendo le idee dai social, le abbozzo, cerco le ricette, prendo gli stampi. Quindi mi scrivo la ricetta e la metto nel mio faldone. La mattina mi sveglio e in base a come mi gira, sono meteoropatica, creo. Si sveglia e impasta. Va a dormire e sogna di impastare. Ricette su ricette. Voglia di fare. Voglia di vivere. Voglia si sorridere al mondo. Di essere felice e non smetterlo di essere. La cucina, la pasticceria è la vita di Francesca adesso. Si sogna il futuro adesso. Non è più nero ciò che si ha dinanzi. La vita di colpo si è addolcita e non solo per merito dello zucchero. Senza freni e senza paure catturando il bello della cucina che sta nello sperimentare, provare, capire, rifare. Non voglio fare il pasticcere. Ho provato ad aprire una IAD, impresa alimentare domestica ma ha un costo di 4000 euro all’anno tra tasse e contributi. Ti devasta, ti uccide. È un lavorare solo per produrre senza pensare. Il senso della vita e della passione viene meno. Andrò avanti con il mio blog per capire se tira o non tira. Spero che la vita mi mandi qualcosa. Sicuramente mi ha mandato tanti amici e da cosa nasce cosa. Non ho bisogno di un granché per vivere. Preferisco la semplicità e la tranquillità. Non voglio aprire una azienda o una pasticceria. La soddisfazione del fare le cose prima per se stessa. Per alimentare, finalmente, un pò di sano egoismo. Francesca prima di ogni altra cosa e persona. Sempre e comunque nella pasticceria. Le torte moderne con le creme, le mousse, gli inserti alle noce pecan, le glasse. Sono buone ma facili. Un panettone con il lievito madre, l’impatto, i canditi, ecc è qualcosa di allucinante. Quando tu riesci a girarne uno e vedi che non cade, è tanta roba. È orgasmico. Pensa, progetta, impasta, realizza. Assaggia. Assaggia anche cose che prima non si sarebbe mai immaginata di assaggiare. La risurrezione porta anche la curiosità del mondo. Capire gusti nuovi e diversi per poterli utilizzare nelle sue creazioni. Anche questo fa parte del miracolo. Non avevo mai mangiato il passion fruit. Me l’hanno fatto conoscere ad un corso e mi è piaciuto se lavorato in un certo modo. È acido all’infinito ma se lo mischi con altre cose, ci sta. Non bisogna mai chiedersi una porta chiudi mille possibilità. Nella vita occorre sempre avere possibilità. La paura di ricadere. Di ripiombare giù nel baratro, negli inferi, non va mai via. Ma non è una paura che blocca. È qualcosa che Francesca tiene a lato e sotto controllo. In questo periodo sto prendendo anche un antinfiammatorio che mi ha fatto gonfiare e la bilancia è schizzata su di tre chili. Dunque io a farmi i pensieri. Poi faccio le torte, vedono che mi vengono bene e mi dico: ma chi se ne frega! Ha più senso un kg di più o una torta fatta bene? La spinta per continuare le da tutto. Non è solo una ragione di vita. È la felicità che ha trovato Francesca e, anche se sbaglia, non si ferma. Impara dagli sbagli. Mi è capitata di fare una mousse al formaggio. Dovevo metterci la gelatina. Ho fatto la mia mousse, l’ho messa nello stampo ma la gelatina era ancora nel microonde che suonava. Cosa fai? Inizi ad imprecare poi tiri fuori tutto, metti la gelatina e rifai. L’importante non è non sbagliare ma capire. Francesca ha trovato il suo budino. Quello che ha consentito alla mente di mettere da parte la Francesca cattiva o semplicemente l’altra Francesca. Quella che voleva controllarne il peso come unica soluzione alla vita. C’è riuscita donando a tutti qualcosa di incalcolabile. Questo racconto è un dono.
Le sue ricette sono un dono.
La sua forza è un dono.
La sua travolgente voglia di vivere e di tenersi stretta la felicità è un dono.
Anche queste sue ultime parole sono un dono. Non so quale sia il tuo problema o cosa ti blocca o ti deprime. Prova a distrarti e cercare qualcosa che ti faccia stare bene. Di vita ce ne è una sola. Al resto del mondo non frega nulla di te. Stai male perché pensi a cosa gli altri stanno pensando di te. Fottinete e concentrati su di te. Su quello che fa star bene te. Non si chiama egoismo ma salvezza personale. Tutela del benessere individuale Se tu stai meglio con te stesso stai meglio con gli altri e sei di aiuto agli altri. Devi stare bene con te stesso. Io penso di ingrassare ancora. O meglio recuperare. Ho trovato il senso di vita. Più energie ho più riesco a stare in piedi più riesco ad impastare, meno mi ammalo. Entro nei vestiti e ho meno freddo. Con 20 kg non riesci a vestirti. Quando hai trovato la felicità non la molli più. Trovarla stringerla e non mollarla più. Vivere
E sperare di star meglio
Vivere
E non essere mai contento
Vivere
Come stare sempre al vento
Vivere, come ridere
Vivere (vivere)
Anche se sei morto dentro
Vivere (vivere)
E devi essere sempre contento
Vivere (vivere)
È come un comandamento
Vivere o sopravvivere
Senza perdersi d’animo mai
E combattere e lottare contro tutto contro Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
31 Gennaio, 2024
Limori: un cognome scippato, un nome guadagnato
Quando ero piccolo, in estate, i miei genitori mi portavano insieme ai fratelli a casa dei nonni materni. A Camigliano. Un piccolo paese in provincia di Caserta. Passavamo li le calde estati durante le quali nonno Antonio mi portava con lui in campagna dove scoprivo gli odori e i sapori di prodotti genuini. Gli stessi che sono ormai incisi nella mia memoria e che, purtroppo, non trovo più ora. Se non raramente.
Dopo pranzo c’era il silenzio. Nonno Antonio dormiva e non si poteva far chiasso. Complicato se ci sono bambini, maschi, urlanti. Mimma (così chiamavamo nonna) per tenerci a bada ci prometteva (non sempre), se avessimo fatto silenzio, una gazzosa o una cedrata.
Quando, riuscivamo, a non fare nulla di chiassoso (e ciò non accadeva spesso), Mimma mi mandava a prendere le bibite in un posto vicino casa. Così, dopo aver preso una banconota da 500 lire (!!!) uscivo con la Graziella rossa (la bici) e mi involavo verso il magazzino. Già un magazzino. Mica una bottega, un negozio, un supermercato. Dovevo bussare ad una porta in legno e, dopo un pò, una persona anziana fuoriusciva dal buio di quello che doveva essere stata una stalla, prendeva da una bacinella colma acqua, ghiaccio e e bottigliette di gazzosa. cedrata e spuma insieme al ghiaccio, le quattro unità a me necessarie.
Stapparle e berle con fratelli e cugini era la cosa più bella del mondo. Quel sapore, il sapore della gazzosa o della cedrata, non l’ho più sentito per oltre cinquanta anni. Non che non abbia riprovato a comprarla. Ogni volta che ci provavo, niente. Di quei sapori, nemmeno l’ombra. Non erano più quelle. Tanto zucchero. Tanto colore ma sapore, quello proprio nulla. C’è voluta la presentazione del Gambero Rosso Top Italian Food 2024 per farmi inaspettatamente ripiombare in questi ricordi. A palazzo Brancaccio conosco infatti Flavio Moretti e le sue bottigliette Limori. Un incontro che mi fa conoscere una splendida e sorridente persona come Flavio. Il suo accento romanesco nemmeno troppo marcato. Il sorriso. La voglia di chiacchierare e di prendere sempre il lato bello della vita. La sua, quella dei Moretti, a Roma, non è solo una famiglia. È una istituzione.
Da sempre distribuiscono bevande. Mi verrebbe da dire, in romanesco che “se a Roma c’hai sete, Moretti te pò da ‘na mano”.
Vero si ma fino ad un certo punto vista la tanta concorrenza che c’è sul mercato del beverage. Ma uno che fa il distributore che c’azzecca con la produzione di bibite artigianali e ingredienti di prim’ordine? Cedrate, gazzose, spume, limonate. Cose di altri tempi!
Soprattutto, Moretti e Limori cosa hanno in comune? Limori. Il nome. Partiamo da qui.
Ora, anche per un romano, potrebbe sembrare facile ma vi assicuro che non lo è. Perché la gente non ha tempo e pensa troppo velocemente. Non si sofferma sui particolari. Soprattutto non conosce il carattere di buontempone di Flavio e suo cugino Alessandro.
Allora, dividete la parola Limori in “Li” e “mori“.
A Roma “li” è un articolo. Più precisamente equivale ad un classico e semplice “i”, articolo determinativo. Dunque se si dice “li mori” si intende “i mori”.
Flavio ed Alessandro fanno di cognome Moretti. Ma i moretti sono pure bambini dai capelli mori.
I moretti. I mori. Li mori. Limori
Facile no?
Ora, vi chiederete perché vi abbia fatto spendere tante righe su un nome.
Dietro un nome c’è una filosofia. Un modo di vivere. Un mondo. Così come il carattere delle persone, la loro storia. Semplice, arzigogolata o bizzarra che sia.
Ma ci arriviamo. Per gradi. Virgilio Moretti, bisnonno dei cugini, all’inizio del 1900 inizia a fare bibite sodate. Piccola linea. Poco smercio. Quanto basta tirare su qualche soldo e iniziare un pò a farsi conoscere. Faceva aranciata, spuma, gazzosa, chinotto e qualche cosina tra soda e sifoni.
Le cose vanno per il verso giusto così che si rende necessaria una piccola linea di produzione. Una fabbrichetta insomma utile anche per imbottigliare (zona di Piazza Pio IX, per chi è pratico di Roma….vicino il vaticano per chi non lo è).
Business chiama business e chi è intraprendente coglie le occasioni che il mercato offre. C’è voglia di vivere e i consumi crescono. Con essi, in assenza di frigoriferi (entrerà nelle case degli italiani, pochi, sono negli anni 40 del secolo scorso) arriva la necessità di ghiaccio. Trasportavamo le colonne di ghiaccio per tutta Roma. Poi l’avvento della plastica e i costi esagerati fanno spostare il business dalle bibite artigianali alla distribuzione di bevande. Oggi abbiamo tre magazzini su Roma , serviamo più di 1000 clienti ai quali portiamo dall’acqua ai succhi di frutta, dai super alcolici al vino. Non da ultimo le nostre bibite. La produzione delle bibite di Virgilio Moretti passata anche per i figli, arriva fino agli anni 80 quando si interrompe la produzione di bevande. Il business si è totalmente spostato altrove. Tempo e forse voglia da parte dei nonni, non c’è.
Il tempo, la frenesia della vita, i ritmi incessanti, le difficoltà del business possono tanto. Mettono senza dubbio in archivio, magari dentro scatole riposte nel ripostiglio, ogni ricordo. Foto, lettere, ricette. “Nonno viene a mancare nel 1999 e nonna nel 2011. Ci troviamo a svuotare casa e saltano fuori i libri con le ricette, i progetti dei nonni. Solo che non c’era più la produzione. A quanti sarà capitato, proprio in un momento così doloroso come la morte di un genitore di dover, sottolineo dover poiché senza nessuna voglia o stimolo, di svuotare casa e trovare qualcosa che, in qualche modo, abbia suscitato ricordi e tanta commozione? Non posso certamente immaginare la faccia di Flavio ed Alessandro nel ritrovarsi i fogli con le ricette dei bisnonni ma la loro commozione si. Mio cugino Alessandro ed io siamo l’ultima generazione. Nel 2012 ci chiediamo “ma perché non le facciamo pure noi le bevande dei nonni? Mica facile. La prima cosa a cui occorreva pensare era la linea di produzione. Impossibile metterla su a Roma. Unico modo era un terzista. Già ma ci voleva un terzista piccolo. Uno che li poteva aiutare dalle ricette all’imbottigliamento. Pochi pezzi per capire la reazione del mercato e al resto ci si sarebbe pensato. Non ci interessava come vero e proprio business principale ma solo per portare avanti una tradizione di famiglia. O la facciamo bene o non la facciamo ci siamo detti. Un prodotto artigianale vogliamo. Non certo commerciale e industriale. Troviamo, su consiglio di un amico, una famiglia a Cingoli, nelle marche. Ci andiamo a pranzo. Troviamo Giovanni Passarelli, una persona simpatica, alla mano, disponibile. Adesso avrà circa 71, 72 anni. Ci dice come no, sono contento e diventa ancora più contento quando gli spieghiamo la storia. Non sono un esperto di ricette di bibite ma produrle fino agli anni 80 era una cosa, produrle ora, altra. Completamente diverse.
Avevamo le ricette ma tanti prodotti che si usavano fino agli anni 80 o non si trovano più o non sono più ammessi. Dovevamo dunque trovare una quadra sulle ricette. Da una base di partenza abbiamo fatto le nuove ricette con ingredienti diversi. Ci doveva piacere. La voglia di conservare una tradizione familiare ti porta a guardare avanti con fierezza. Con la consapevolezza che il tuo cognome è qualcosa che ha attraversato il tempo e lo attraverserà ancora. Ciò che produci ti contraddistingue. Ecco perché Flavio ed Alessandro non accettano compromessi. C’è bisogno di materie prime che siano di qualità. Siamo partiti con quattro prodotti: chinotto, cedrata, spuma, gazzosa. Quelli che pensavamo potessero funzionare. Adesso ne facciamo otto. Trainati dal mercato e vendendo che ci sentivamo consapevoli. Abbiamo aggiunto ginger beer, soda, tonica e limonata. Partono bene i ragazzi. L’animo è quello giusto. I genitori a vigilare ci sono. Anche il produttore, Giovanni, è sempre pronto a dar consigli. Insomma un bel mix che non può che portare a risultati eccellenti. Se ne accorgono pure quelli dell’Expo di Milano. Lo ricordate? Era il 2015. Il titolo era “Nutrire il pianeta”. Bellissimo. Anche se ricordo le code infinite…. Ci chiamano dall’Expo perché assaggiano i nostri prodotti e volevano portarci nella gamma degli sponsor. Per noi era un onore. Sta funzionando bene allora. Fissiamo appuntamento con gli organizzatori, accettiamo la proposta iniziando a programmare. Tra i padiglioni dell’Expo ce ne era uno sviluppato per Birra Moretti, brand del gruppo Heineken. Birra Moretti-Bibite Moretti…..il pasticcio è servito. Multinazionale la prima. Piccolo produttore il secondo. Non può che nascerne una novella disfida Davide contro Golia. Solo che non siamo nell’Antico Testamento ne tantomeno nelle favole. Carte bollate, tribunali, differenti paesi (Heineken ha sede ad Amsterdam) e, soprattutto, una sproporzione di mezzi economici fornisce un esito scontato. Heineken ci fa scrivere da uno stuolo di avvocati per l’utilizzo del marchio. Ma era il nostro cognome e non facevamo prodotti alcolici. Facciamo parlare i nostri avvocati che nemmeno riescono ad imbastire un discorso. Non volevamo cambiarlo. Spendiamo soldi in consulenze. Ma la sfortuna voleva che dagli anni 80 al 2010 abbiamo smesso di fare il prodotto. Senza la continuità avremmo potuto far cambiare il nome a birra moretti. O saremmo diventati miliardari. Il caso ci mette ancora lo zampino. Se avessero continuato a produrre le bevande sarebbe stato il colosso Olandese a dover pagare per l’uso del marchio Moretti.
È anche vero però che avremmo comunque, in qualche modo, la birra ma certamente non avremmo più bevuto le bibite di Flavio ed Alessandro.
Insomma, Davide si arrende a Golia. Una resa che fa male e brucia. Così tanto che si smette anche di produrre le bibite. La sconfitta non è l’aver perso contro qualcosa o qualcuno. È non poter usare il proprio cognome. Continuare qualcosa. Ma tant’è. Non si può far altro che ammettere la realtà dei fatti. Aò ma er chinotto che me davi ‘na volta…‘ndo sta?
Ma ‘a cedrata?
Senti, ma ‘a spuma? E ‘a gazzosa?
Ma perché non le rifate? Quante se lo saranno sentito dire Flavio e Alessandro in quel periodo?
Tante ma tante. Non volevamo più farla perché senza nome non ci sembrava il caso. Ma le persone sia in italia sia all’estero ce la chiedevano. Insomma, metabolizzata la sconfitta e ingoiato il rospo, la mente inizia a ragionare. Chissà, forse pure un senso di riscatto vallo a capire. C’era tutto per ripartire. Tutto tranne un nome. Lasciamo il nostro logo dei due mori (Moretti distribuzione) e facciamo un pò di prove tra i quali “li mori” i mori. Diamo una veste moderna ma legata al vintage. Svecchiata. Ad oggi ringrazio ancora Heineken per averci fatto cambiare nome perché molti clienti ci compravano solo per associazione con la birra. Magari era buono però non lo vedevano come un prodotto artigianale. Sono tante le storie e gli aneddoti di come nasce un marchio ma questo è unico. Ci si prende in giro. Si ride e si scherza in famiglia e nasce qualcosa di unico. Partiamo con Limori e anche i clienti che non la lavoravano prima iniziano a lavorarla perché capiscono la artigianalità. Adesso lavoriamo tanto a Roma, in Francia e in Lettonia. Stiamo prendendo accordi per portarlo in altre zone del mondo. Nel 2022 arrivano i premi del Gambero Rosso e per tre anni Limori vince il premio come migliore spuma e cedrata. Orgoglio e riconoscimento. Non lo dice solo Flavio Moretti che è bono ma anche altri. Di scherzare non hanno finito i Moretti.
“Quando si scherza bisogna esse seri” diceva il Marchese del Grillo.
Così, per scherzo nasce anche il nome per la limonata. Noi facciamo tonica e limonata però una limonata che può essere accoppiata anche con la tonica. Si può bere assoluta o miscelata a qualcosa. Un giorno per scherzare con mio cugino Alessandro, mio padre si chiama Fernando ma per tutti Nando, faccio una battuta e dico: ma perché non facciamo una Limonando? Mi faccio fare Una etichetta con la faccia di mio padre (mia cognata ha una scuola d’arte). Avevo un tir di limonate, ho preso un bancale che è diventato tutto di Limonando. Quando arriva il bancale sono state più le risate che altro. Dura due giorni. Tutti i clienti me la chiedono. Non faccio più la limonata ma la Limonando è quella che si vende più di tutti. Insomma aveva ragione il Marchese. Cosa c’è alla base di tutto questo. La qualità senza dubbio. Ingredienti naturali. Non più sciroppi zuccherosi ma frutta. Limonata? Limone. Spuma? Rabarbaro. Chinotto? Chinotto. Ginger beer? Zenzero. Si sente tanto lo zenzero? Ovvio, c’è lo zenzero. Costa un pò di più magari, ma la qualità richiede questo. Così come richiede di distribuire queste chicche nel modo più opportuno. Senza disdegnare la grande distribuzione. Possiamo pure metterlo in grande distribuzione ma il prezzo non può cambiare. Non voglio svenderlo perché tanto non è il mio business principale. Limori non è un giocattolo per i Moretti. Nemmeno un oggetto di puro business visto la produzione non certo elevata (attualmente 80-100 mila bottiglie l’anno). Non è un passatempo visto il tempo e la passione che ci dedicano. È la loro storia anche se non più con il loro cognome.
Limori è la linea di continuità tra passato, presente, futuro. Il futuro nel quale ci sarà magari anche quell’aranciata già presente nelle ricette del bisnonno. Soprattutto continuerà ad esserci quella qualità e quei gusti che non possono più mancare. Se non altro per evitare l’oblio. Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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Dopo pranzo c’era il silenzio. Nonno Antonio dormiva e non si poteva far chiasso. Complicato se ci sono bambini, maschi, urlanti. Mimma (così chiamavamo nonna) per tenerci a bada ci prometteva (non sempre), se avessimo fatto silenzio, una gazzosa o una cedrata.
Quando, riuscivamo, a non fare nulla di chiassoso (e ciò non accadeva spesso), Mimma mi mandava a prendere le bibite in un posto vicino casa. Così, dopo aver preso una banconota da 500 lire (!!!) uscivo con la Graziella rossa (la bici) e mi involavo verso il magazzino. Già un magazzino. Mica una bottega, un negozio, un supermercato. Dovevo bussare ad una porta in legno e, dopo un pò, una persona anziana fuoriusciva dal buio di quello che doveva essere stata una stalla, prendeva da una bacinella colma acqua, ghiaccio e e bottigliette di gazzosa. cedrata e spuma insieme al ghiaccio, le quattro unità a me necessarie.
Stapparle e berle con fratelli e cugini era la cosa più bella del mondo. Quel sapore, il sapore della gazzosa o della cedrata, non l’ho più sentito per oltre cinquanta anni. Non che non abbia riprovato a comprarla. Ogni volta che ci provavo, niente. Di quei sapori, nemmeno l’ombra. Non erano più quelle. Tanto zucchero. Tanto colore ma sapore, quello proprio nulla. C’è voluta la presentazione del Gambero Rosso Top Italian Food 2024 per farmi inaspettatamente ripiombare in questi ricordi. A palazzo Brancaccio conosco infatti Flavio Moretti e le sue bottigliette Limori. Un incontro che mi fa conoscere una splendida e sorridente persona come Flavio. Il suo accento romanesco nemmeno troppo marcato. Il sorriso. La voglia di chiacchierare e di prendere sempre il lato bello della vita. La sua, quella dei Moretti, a Roma, non è solo una famiglia. È una istituzione.
Da sempre distribuiscono bevande. Mi verrebbe da dire, in romanesco che “se a Roma c’hai sete, Moretti te pò da ‘na mano”.
Vero si ma fino ad un certo punto vista la tanta concorrenza che c’è sul mercato del beverage. Ma uno che fa il distributore che c’azzecca con la produzione di bibite artigianali e ingredienti di prim’ordine? Cedrate, gazzose, spume, limonate. Cose di altri tempi!
Soprattutto, Moretti e Limori cosa hanno in comune? Limori. Il nome. Partiamo da qui.
Ora, anche per un romano, potrebbe sembrare facile ma vi assicuro che non lo è. Perché la gente non ha tempo e pensa troppo velocemente. Non si sofferma sui particolari. Soprattutto non conosce il carattere di buontempone di Flavio e suo cugino Alessandro.
Allora, dividete la parola Limori in “Li” e “mori“.
A Roma “li” è un articolo. Più precisamente equivale ad un classico e semplice “i”, articolo determinativo. Dunque se si dice “li mori” si intende “i mori”.
Flavio ed Alessandro fanno di cognome Moretti. Ma i moretti sono pure bambini dai capelli mori.
I moretti. I mori. Li mori. Limori
Facile no?
Ora, vi chiederete perché vi abbia fatto spendere tante righe su un nome.
Dietro un nome c’è una filosofia. Un modo di vivere. Un mondo. Così come il carattere delle persone, la loro storia. Semplice, arzigogolata o bizzarra che sia.
Ma ci arriviamo. Per gradi. Virgilio Moretti, bisnonno dei cugini, all’inizio del 1900 inizia a fare bibite sodate. Piccola linea. Poco smercio. Quanto basta tirare su qualche soldo e iniziare un pò a farsi conoscere. Faceva aranciata, spuma, gazzosa, chinotto e qualche cosina tra soda e sifoni.
Le cose vanno per il verso giusto così che si rende necessaria una piccola linea di produzione. Una fabbrichetta insomma utile anche per imbottigliare (zona di Piazza Pio IX, per chi è pratico di Roma….vicino il vaticano per chi non lo è).
Business chiama business e chi è intraprendente coglie le occasioni che il mercato offre. C’è voglia di vivere e i consumi crescono. Con essi, in assenza di frigoriferi (entrerà nelle case degli italiani, pochi, sono negli anni 40 del secolo scorso) arriva la necessità di ghiaccio. Trasportavamo le colonne di ghiaccio per tutta Roma. Poi l’avvento della plastica e i costi esagerati fanno spostare il business dalle bibite artigianali alla distribuzione di bevande. Oggi abbiamo tre magazzini su Roma , serviamo più di 1000 clienti ai quali portiamo dall’acqua ai succhi di frutta, dai super alcolici al vino. Non da ultimo le nostre bibite. La produzione delle bibite di Virgilio Moretti passata anche per i figli, arriva fino agli anni 80 quando si interrompe la produzione di bevande. Il business si è totalmente spostato altrove. Tempo e forse voglia da parte dei nonni, non c’è.
Il tempo, la frenesia della vita, i ritmi incessanti, le difficoltà del business possono tanto. Mettono senza dubbio in archivio, magari dentro scatole riposte nel ripostiglio, ogni ricordo. Foto, lettere, ricette. “Nonno viene a mancare nel 1999 e nonna nel 2011. Ci troviamo a svuotare casa e saltano fuori i libri con le ricette, i progetti dei nonni. Solo che non c’era più la produzione. A quanti sarà capitato, proprio in un momento così doloroso come la morte di un genitore di dover, sottolineo dover poiché senza nessuna voglia o stimolo, di svuotare casa e trovare qualcosa che, in qualche modo, abbia suscitato ricordi e tanta commozione? Non posso certamente immaginare la faccia di Flavio ed Alessandro nel ritrovarsi i fogli con le ricette dei bisnonni ma la loro commozione si. Mio cugino Alessandro ed io siamo l’ultima generazione. Nel 2012 ci chiediamo “ma perché non le facciamo pure noi le bevande dei nonni? Mica facile. La prima cosa a cui occorreva pensare era la linea di produzione. Impossibile metterla su a Roma. Unico modo era un terzista. Già ma ci voleva un terzista piccolo. Uno che li poteva aiutare dalle ricette all’imbottigliamento. Pochi pezzi per capire la reazione del mercato e al resto ci si sarebbe pensato. Non ci interessava come vero e proprio business principale ma solo per portare avanti una tradizione di famiglia. O la facciamo bene o non la facciamo ci siamo detti. Un prodotto artigianale vogliamo. Non certo commerciale e industriale. Troviamo, su consiglio di un amico, una famiglia a Cingoli, nelle marche. Ci andiamo a pranzo. Troviamo Giovanni Passarelli, una persona simpatica, alla mano, disponibile. Adesso avrà circa 71, 72 anni. Ci dice come no, sono contento e diventa ancora più contento quando gli spieghiamo la storia. Non sono un esperto di ricette di bibite ma produrle fino agli anni 80 era una cosa, produrle ora, altra. Completamente diverse.
Avevamo le ricette ma tanti prodotti che si usavano fino agli anni 80 o non si trovano più o non sono più ammessi. Dovevamo dunque trovare una quadra sulle ricette. Da una base di partenza abbiamo fatto le nuove ricette con ingredienti diversi. Ci doveva piacere. La voglia di conservare una tradizione familiare ti porta a guardare avanti con fierezza. Con la consapevolezza che il tuo cognome è qualcosa che ha attraversato il tempo e lo attraverserà ancora. Ciò che produci ti contraddistingue. Ecco perché Flavio ed Alessandro non accettano compromessi. C’è bisogno di materie prime che siano di qualità. Siamo partiti con quattro prodotti: chinotto, cedrata, spuma, gazzosa. Quelli che pensavamo potessero funzionare. Adesso ne facciamo otto. Trainati dal mercato e vendendo che ci sentivamo consapevoli. Abbiamo aggiunto ginger beer, soda, tonica e limonata. Partono bene i ragazzi. L’animo è quello giusto. I genitori a vigilare ci sono. Anche il produttore, Giovanni, è sempre pronto a dar consigli. Insomma un bel mix che non può che portare a risultati eccellenti. Se ne accorgono pure quelli dell’Expo di Milano. Lo ricordate? Era il 2015. Il titolo era “Nutrire il pianeta”. Bellissimo. Anche se ricordo le code infinite…. Ci chiamano dall’Expo perché assaggiano i nostri prodotti e volevano portarci nella gamma degli sponsor. Per noi era un onore. Sta funzionando bene allora. Fissiamo appuntamento con gli organizzatori, accettiamo la proposta iniziando a programmare. Tra i padiglioni dell’Expo ce ne era uno sviluppato per Birra Moretti, brand del gruppo Heineken. Birra Moretti-Bibite Moretti…..il pasticcio è servito. Multinazionale la prima. Piccolo produttore il secondo. Non può che nascerne una novella disfida Davide contro Golia. Solo che non siamo nell’Antico Testamento ne tantomeno nelle favole. Carte bollate, tribunali, differenti paesi (Heineken ha sede ad Amsterdam) e, soprattutto, una sproporzione di mezzi economici fornisce un esito scontato. Heineken ci fa scrivere da uno stuolo di avvocati per l’utilizzo del marchio. Ma era il nostro cognome e non facevamo prodotti alcolici. Facciamo parlare i nostri avvocati che nemmeno riescono ad imbastire un discorso. Non volevamo cambiarlo. Spendiamo soldi in consulenze. Ma la sfortuna voleva che dagli anni 80 al 2010 abbiamo smesso di fare il prodotto. Senza la continuità avremmo potuto far cambiare il nome a birra moretti. O saremmo diventati miliardari. Il caso ci mette ancora lo zampino. Se avessero continuato a produrre le bevande sarebbe stato il colosso Olandese a dover pagare per l’uso del marchio Moretti.
È anche vero però che avremmo comunque, in qualche modo, la birra ma certamente non avremmo più bevuto le bibite di Flavio ed Alessandro.
Insomma, Davide si arrende a Golia. Una resa che fa male e brucia. Così tanto che si smette anche di produrre le bibite. La sconfitta non è l’aver perso contro qualcosa o qualcuno. È non poter usare il proprio cognome. Continuare qualcosa. Ma tant’è. Non si può far altro che ammettere la realtà dei fatti. Aò ma er chinotto che me davi ‘na volta…‘ndo sta?
Ma ‘a cedrata?
Senti, ma ‘a spuma? E ‘a gazzosa?
Ma perché non le rifate? Quante se lo saranno sentito dire Flavio e Alessandro in quel periodo?
Tante ma tante. Non volevamo più farla perché senza nome non ci sembrava il caso. Ma le persone sia in italia sia all’estero ce la chiedevano. Insomma, metabolizzata la sconfitta e ingoiato il rospo, la mente inizia a ragionare. Chissà, forse pure un senso di riscatto vallo a capire. C’era tutto per ripartire. Tutto tranne un nome. Lasciamo il nostro logo dei due mori (Moretti distribuzione) e facciamo un pò di prove tra i quali “li mori” i mori. Diamo una veste moderna ma legata al vintage. Svecchiata. Ad oggi ringrazio ancora Heineken per averci fatto cambiare nome perché molti clienti ci compravano solo per associazione con la birra. Magari era buono però non lo vedevano come un prodotto artigianale. Sono tante le storie e gli aneddoti di come nasce un marchio ma questo è unico. Ci si prende in giro. Si ride e si scherza in famiglia e nasce qualcosa di unico. Partiamo con Limori e anche i clienti che non la lavoravano prima iniziano a lavorarla perché capiscono la artigianalità. Adesso lavoriamo tanto a Roma, in Francia e in Lettonia. Stiamo prendendo accordi per portarlo in altre zone del mondo. Nel 2022 arrivano i premi del Gambero Rosso e per tre anni Limori vince il premio come migliore spuma e cedrata. Orgoglio e riconoscimento. Non lo dice solo Flavio Moretti che è bono ma anche altri. Di scherzare non hanno finito i Moretti.
“Quando si scherza bisogna esse seri” diceva il Marchese del Grillo.
Così, per scherzo nasce anche il nome per la limonata. Noi facciamo tonica e limonata però una limonata che può essere accoppiata anche con la tonica. Si può bere assoluta o miscelata a qualcosa. Un giorno per scherzare con mio cugino Alessandro, mio padre si chiama Fernando ma per tutti Nando, faccio una battuta e dico: ma perché non facciamo una Limonando? Mi faccio fare Una etichetta con la faccia di mio padre (mia cognata ha una scuola d’arte). Avevo un tir di limonate, ho preso un bancale che è diventato tutto di Limonando. Quando arriva il bancale sono state più le risate che altro. Dura due giorni. Tutti i clienti me la chiedono. Non faccio più la limonata ma la Limonando è quella che si vende più di tutti. Insomma aveva ragione il Marchese. Cosa c’è alla base di tutto questo. La qualità senza dubbio. Ingredienti naturali. Non più sciroppi zuccherosi ma frutta. Limonata? Limone. Spuma? Rabarbaro. Chinotto? Chinotto. Ginger beer? Zenzero. Si sente tanto lo zenzero? Ovvio, c’è lo zenzero. Costa un pò di più magari, ma la qualità richiede questo. Così come richiede di distribuire queste chicche nel modo più opportuno. Senza disdegnare la grande distribuzione. Possiamo pure metterlo in grande distribuzione ma il prezzo non può cambiare. Non voglio svenderlo perché tanto non è il mio business principale. Limori non è un giocattolo per i Moretti. Nemmeno un oggetto di puro business visto la produzione non certo elevata (attualmente 80-100 mila bottiglie l’anno). Non è un passatempo visto il tempo e la passione che ci dedicano. È la loro storia anche se non più con il loro cognome.
Limori è la linea di continuità tra passato, presente, futuro. Il futuro nel quale ci sarà magari anche quell’aranciata già presente nelle ricette del bisnonno. Soprattutto continuerà ad esserci quella qualità e quei gusti che non possono più mancare. Se non altro per evitare l’oblio. Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
3 Gennaio, 2024
Andrealetizia e Nicky: amici, amanti, chef
Erano i primi giorni del lockdown dovuto al COVID. Tutti rinchiusi in casa ci siamo scoperti runner, amanti dei cani, chef. Anche i più improbabili si armavano di tute fantozziane e logore scarpe sportive pur di uscire di casa magari a rischio di infarto. Chi aveva un cane, lo faceva uscire molto di più delle canoniche due volte tanto che poi i poveri animali erano sfiniti e crollavano sul divano. Infine, voglio proprio vedere chi non si è sentito chef o pizzaiolo in quei fantastici mesi. Ricordo di essere andato in un supermercato chiedendo, ingenuamente, un panetto di lievito di birra per sentirmi rispondere “aò senti questo che vole…il lievito….qui appena lo metti…scompare”.
Andrealetizia e Nicky vivono a Londra. Ebbene sì, anche a Londra c’era il lockdown. Vivono insieme da coinquilini con altre persone. Quattro amici per un appartamento. Ognuno con la sua stanza. Ognuno con la propria identità. Accomunati da un senso di famiglia che diventa necessario quando si è a Londra per lavorare (o studiare). Così come diventa necessario vivere insieme per limare i costi.
Difficile insomma vivere a Londra (come in ogni altra città) per due ragazzi alla prima esperienza. Difficile ma non impossibile. Occorre fare sacrifici senza pensare di avere tutto e subito. Si investe nel proprio futuro anche così.
Andrealetizia lavora come project manager in uno studio di postproduzione fotografica senza essere propriamente soddisfatta. Nicky anche. Nel senso di essere insoddisfatto del lavoro (designer). Quella insoddisfazione latente che non sai mai cosa sia. Che non dipende da quanto stai facendo che magari ti piace anche.
Andrea è di origini emiliane.
Dopo le superiori mi sono trasferita. Un pò all’avventura. Non sapevo cosa fare. Non volevo studiare. Ho lavorato per il primo anno e stavo cercando un corso di fotografia finendo per iscrivermi all’università di fotografia. Alla triennale. Mentre studiavo, lavoravo perché mantenersi a Londra è impegnativo. In uno studio di postproduzione dove facevo il project manager. Mi trovavo bene, a mio agio ma non sentivo che la vena creativa potesse andare da nessuna parte. Durante il lockdown il lavoro era pochissimo e mi hanno offerto una posizione più bassa nonostante stessi aspettando la promozione. Cosi mi sono licenziata. Ho iniziato un periodo dove non sapevo cosa fare.
Nicky è di Roma da famiglia cingalese.
A 20 anni dopo il liceo mi sono spostato prima a Manchester dove ho studiato ingegneria informatica per poi fare un master in design (interazione uomo computer). Quindi ho trovato lavoro a Londra.
Eccoli due giovani con la testa sulle spalle. Si certo, qualche pensiero. Qualche insoddisfazione. Ma chi non ce l’ha? Ragazzi che non hanno il mito del posto fisso. Che non hanno paura di rischiare. Che vogliono, desiderano, ardono trovare la propria strada.
Il lockdown arriva al momento giusto in qualche modo. Tempo per pensare, capire, programmare il futuro ce ne è. Anche troppo.
Chissà quanti in quel periodo hanno riflettuto sul futuro, fatto progetti. Quanti sogni costruiti e mai realizzati. Energia creativa per alcuni. Energia sprecata per altri.
Andrea e Nicky danno sfogo alla loro passione: la cucina. Lo fanno insieme. Prima come amici poi come coppia. Si completano in fin dei conti. Precisa, puntuale, attenta Andrea; estroverso, creativo, caotico Nicky. Un bel connubio insomma. Tanto bello che capiscono che la loro forza è lo stare insieme. Tra gli spazi angusti della cucina il sincronismo e l’alchimia che creano li porta, sempre insieme, a credere in ciò che stanno facendo.
Il lockdown ha cambiato le priorità con il tempo dedicato alla cucina e ci ha fatto capire quanto ci piacesse. Ma soprattutto quanto ci unisse.
Lei era molto più appassionata di cucina di me.
Era più sopravvivenza nel senso che vivevamo da soli e non c’era mamma e papà che ti facevano da mangiare. A casa mia si è sempre mangiato bene e a noi piace mangiare. Una necessità che si è trasformata in passione.
Per me lei è sempre stata quella che ne sapeva di più. Suo padre cucina tantissimo mentre a casa mia è più cucina cingalese e un po’ italiana. Quando ho incontrato lei ho scoperto un sacco di piatti nuovi dei quali avevo solo sentito parlare. Con il lockdown, con tutti i locali chiusi ci siamo messi a fare la pizza e a grande sorpresa, dopo la terza pizza vediamo che era uscita bene. Il provare è diventata una ossessione. Da allora è quasi una ossessione verso la cucina. Non ho mai smesso di pensare a qualcosa di nuovo. Anche quando sogno, sogno di preparare qualcosa di diverso.
Provare, cimentarsi, anche sbagliare. Solo così si capisce se qualcosa ti piace davvero. La fortuna di poter sbagliare senza paure.
Andrea lascia il suo lavoro già prima del COVID. Deve capire cosa fare da grande. Ha la voglia di fare qualcosa per gli altri prima che per sé stessa. Solo che non è facile inventarsi. Reinventarsi. Così un giorno decide che vuole iscriversi a Masterchef. Una scelta non per noia ma come unica opzione. Una sorta “o la va o la spacca”. Tentare qualcosa non tanto per farlo quanto per cimentarsi con se stessa. Capire se ce la si può fare in qualcosa che anche gli altri vedono in te.
È stato mio padre che continuava a dire: non fate altro che cucinare. Andate a Masterchef. Poi ero così in crisi che non avevo nulla da perdere. Così ho cominciato a crederci. Era un periodo dove davvero non sapevo cosa fare.
La sua chiave di lettura nella vita è rendere felici e far star bene altre persone. C’era la medicina e poi c’era il mondo del food. Io non avevo le mie soddisfazioni. Così dopo che mi hanno preso a Masterchef mi sono preso l’aspettativa al lavoro. Quei mesi mi hanno cambiato la vita.
Insieme in cucina. Insieme nella vita. Insieme compilano la richiesta per Masterchef. Insieme entrano nella cucina del reality. Insieme è una costante della vita di Andre a Nicky.
Per due semplici appassionati, due che cucinano per se stessi e gli amici, entrare nella cucina del più importante reality show food non è un passo di poco conto. C’è da studiare. C’è da impegnarsi. C’è da faticare e tanto. Magari non lo sai prima. Magari te lo dicono durante le selezioni. Li dentro però, è tutto diverso.
Il nostro background, ha aiutato il senso estetico. Oltre che buono deve anche essere bello. Noi siamo arrivati a Masterchef molto acerbi e il percorso ci ha aiutato a capire che lo volevamo fare veramente. Dopo il programma, siamo andati dopo a lavorare, insieme, in un ristorante in Corsica, per capire bene circa il futuro. Li ho avuto la conferma che volevamo fare questo per la vita ma non lavorando per altri chef.
Noi venivamo visti come i privilegiati. Io da donna mi vivo questo ambiente super maschilista a livelli estremi. Mettendosi a confronto con le cucine degli altri ti rendi conto di un ambiente dove non mi piacerebbe stare. Facendo gli chef a domicilio, magari è limitante, ma a livello di benessere mentale è molto meglio.
Io ho scelto di seguire la cucina perché avevo delle mancanze a livello creativo. Per il resto il lavoro da designer mi portava più che una pagnotta a casa. È stata una decisione di cuore ma non voglio essere triste perché obbligato a fare certe cose. Cucinavo e dicevo ad Andrea: impiatta. A Masterchef era obbligo impiattare e li ho capito il bilanciamento all’interno del piatto. Generalmente sono bravo in molte cose che faccio però non superavo mai il mediocre perché facevo tante cose. Non eccellevo in niente. A Masterchef ho dovuto smettere di fare le mille cose che faccio concentrandomi solo sulla cucina. E mi sono innamorato senza stufarmi.
A me ha dato il coraggio. Avevo bisogno di trovare certezze dentro di me, trovare autostima.
Fermiamoci un momento.
Masterchef. Un reality. Tre, quattro mesi, relegati a cucinare, a provare e riprovare i piatti per poi sfidarsi a duello. Ritmi massacranti. Tanta competizione. Tante luci che poi, alla fine, inesorabilmente, si spengono. Dopo la fine del programma gli sponsor ti cercano perché sei diventato, nel bene e nel male, un personaggio da sfruttare a fini commerciali. Poi anche quello svanisce. A meno che. A meno che quella esperienza non sia stata davvero formativa. Non abbia scosso la coscienza aiutando a trovare quella strada che cercavi da tempo.
Ascoltando Andrea e Nicky capisci quanto ai ragazzi, spesso, manchi non la luce dei riflettori quanto quella che illumina loro la strada. Anche se poi c’è bisogno di volerla percorrere la strada. Il che consta sacrificio e tanta forza di volontà. Non bastano i follower. Non bastano i like. C’è bisogno di molto di più. Così come c’è bisogno di vivere il dopo. Dopo che hai imparato. Dopo che devi fare tutto da solo (o soli nel loro caso).
Andrea e Nicky capiscono che non vogliono lavorare in un ristorante. Hanno bisogno di qualcosa di loro. Qualcosa che oltre a farli stare insieme non sia propriamente “stabile”. Stare nello stesso posto, fare le stesse cose, non è nelle loro corde.
Quando avevo 18/19 anni mia sorella mi chiese cosa volessi fare da grande. Io risposi “voglio fà i soldi”. Lei si schifò della risposta dicendomi di ritornare dopo una settimana con la risposta. Stavo alla ricerca del futuro. Anche facendo il designer, qualcosa mancava. Dopo questa esperienza ho scoperto cosa volessi fare da grande e io voglio fare questo fino alla morte. Questa è la cosa più grande. Creare le cose senza alcun limite.
Per fare questo non devi aver paura di osare. Di volare senza paracadute. Anche se poi uno dei loro desideri primari è acquistare una casa. Va bene l’instabilità ma fino ad un certo punto!
Molto spesso ci veniva chiesto come vi trovate a trovarvi uno contro l’altro. Noi ci siamo trovati bene perché stiamo bene insieme. Se una competizione del genere mette in crisi una relazione allora la relazione non è seria. Competere con il sostegno dell’altro è stato bellissimo.
Li dentro noi avevamo l’un l’altro e stavamo bene.
Quando sei in un tritacarne come quello di un reality, non hai tempo per pensare a nulla. Sei immerso n questa cosa, prosciugato dall’esperienza. Sei confuso e non hai la lucidità per pensare a ciò che succederà dopo. Però, appena usciti la prima cosa che hanno fatto, identifica chiaramente quello che volevano essere: Andrea ha comprato un libro di cucina, Nicky ha cucinato.
Non vedevo l’ora di cucinare come voglio io. A casa ho tutta l’attrezzatura. Era quasi liberatorio.
Masterchef ci ha ripagati almeno all’inizio perché ci sono persone che ti chiamano e vogliono provare a fare qualcosa. Così ti senti spronato a fare qualcosa. Poi no. Abbiamo lavorato non per il nostro nome ma tramite delle app e dei portali.
Una volta fuori cambia tutto. Se vuoi che cambi. Altrimenti la vita diventa come un elastico che ti riporta esattamente al punto di partenza.
È cambiata la quotidianità perché penso al privilegio di avere la possibilità, faticando, di gestirsi la vita. Fare il libero professionista non è semplice. Pensare alla cucina da quando mi sveglio fino a quando vado a dormire. Sono cresciuta tanto scoprendo le potenzialità che avevo. L’esperienza è stata traumatica ma ci ha fatto capire tanto. Lo rifarei mille volte.
Ci ha solo aperto gli occhi su quanto volevamo fare. Il termine giapponese ikigai racchiude il senso della cucina. Quella cosa che combacia a livello lavorativo e di passione che può portare qualcosa al mondo e che nutre te stesso. Chi trova l’ikigai non aspetta la pensione.
Andrea Letizia e Nicky sono due ragazzi, due chef con la testa sulle spalle. Una coppia nella vita e una coppia in cucina. Cucinano e si divertono. Oggi fanno gli chef a domicilio con Nicky che si diverte a cucinare e a gestire i suoi canali social facendo lui stesso le riprese (si è attrezzato pure uno studiolo). Cucinano portandosi dietro le loro origini. Fondendole nei piatti. Mantova, Roma; Italia, Sri Lanka. La vera integrazione è qui.
Non avrei mai pensato di portare tutte le mie origini nella cucina. Parmigiano, pasta fresca, aceto balsamica. sapori Dolci, rotondi. Nicky invece cerca sempre sapori decisi, piccanti, decisi, pungenti.
Nonostante io abbia origini dello Sri Lanka sono vissuto a Roma con piatti romani che ti spaccano il palato in maniera positiva. Nello Sri Lanka con le spezie hai tantissimo sapore in bocca. Anche se delicato, il piatto deve avere una esplosione di gusti. Se non c’è non sono felice.
Il successo non li tocca o comunque sembra non toccarli. Hanno tempo per evolversi e imparare. Non hanno bruciato le tappe. Se lo sono guadagnato e meritato. Certo, Masterchef ha aiutato ma poi quel di più ce lo hanno messo loro.
Facciamo gli chef a domicilio da quasi anno. Siamo tranquilli ora nel portare cene anche a trenta persone. Sono felice e il motivo è perché non ho mai smesso di cucinare.
Due ragazzi sereni. Due persone che, nelle mille difficoltà (perché non sempre è oro ciò che luccica) si completano vicendevolmente. Stare sempre insieme, anche negli spazi angusti di una cucina, dosare, preparare, cuocere, impiattare, non è semplice. Proprio nella diversità funzionano.
Insomma, Andrea ha trovato la sua strada. Nicky può finalmente dare una risposta alla sorella. Li vedi felici e realizzati anche se il loro percorso è solo all’inizio. Non pensano ad un lontano futuro. Si concentrano sul migliorarsi giorno dopo giorno, sperimentando senza sognare (anche se Nicky confessa di cucinare anche nei suoi sogni). Senza pensare a cosa sarà il futuro. Hanno fiducia in loro stessi, nelle loro capacità, nella loro tenacia. Magari con un pizzico di stabilità in più che non fa mai male.
Trovi sempre un meraviglioso sorriso sui loro volti. Quel sorriso che è trasposto direttamente nei loro piatti perché realizzati con tutta la loro anima.
In bocca al lupo ragazzi.
Ps Per una esperienza culinaria con loro potete far riferimento al sito internet: Andrealetizia & Nicky Brian Chef A domicilio (andreaenicky.com)
Ivan Vellucci
ivan.vellucci@winetalesmagazine.com
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