Suggestioni di Vino

Suggestioni di Vino è la rubrica che racconta le persone del vino. Della loro storia, dell’amore, della passione che inoculano nel vino. Perché il vino è materia viva e le persone ne sono il nutrimento.

Le incursioni enoiche di Ivan Vellucci, ingegnere e manager per dovere, ma soprattutto Sommelier raccontano con passione e trasporto, territori e produttori d’eccezione.
Ivan ci porta a conoscere realtà prima di tutto umane, dove il sorriso e l’ospitalità dei vignaioli sono lo specchio dei vini che producono. La rubrica Suggestioni di Vino propone ogni settimana  suggestive esplorazioni e scoperte enologiche, narrate con trasporto e partecipazione. Al lettore parrà di accompagnare Ivan in queste visite speciali e sarà stimolato a fare lo stesso: vivere il mondo del vino come un bambino, con lo stupore negli occhi e la magia nel bicchiere.

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26 Luglio, 2024

Papalino. Di padre in figlio. Con entusiasmo

L’entusiasmo è quella forza che muove il mondo. L’energia vitale e propulsiva in grado di farci arrivare laddove non avevamo nemmeno idea si potesse. C’è chi ce l’ha innata e chi deve far ricorso ad aiuti più o meno leciti per farla propria. Solo che se si è in questa seconda modalità, finito l’effetto, altro che entusiasmo, si cade nella depressione.
Certo però che per creare e gestire una azienda, qualunque essa sia, l’entusiasmo da solo non basta. C’è bisogno, ad esempio, di soldi così come di capacità e professionalità. Oltre che una bella dose di fortuna. Per non parlare di tanta ma tanta forza. Erminio Papalino è una di quelle persone che racchiude in se tutte queste caratteristiche. Personalmente, lo definirei più propriamente un rullo compressore. Un pò come si immagina che sia un venditore di Folletto o di auto usate: provate a rimanere qualche minuto soli con un personaggio del genere e vi ritroverete con un aspirapolvere nuovo o una vettura usata.
Erminio sì magari vuole vendere le sue bottiglie, ma quello che prima di tutto vuole far emergere è il suo territorio e la sua azienda che ora è intestata al figlio Gabriele. Coinvolgendolo, integrandolo, contaminandolo con tutto il suo entusiasmo. Di padre in figlio L’azienda agricola Papalino nasce dall’idea di mio padre quando nel 1960 con le agevolazioni dell’epoca della Piccola Proprietà Contadina, ha acquistato tredici ettari a Castiglione in Teverina. Insomma un finanziamento le cui ultime rate del mutuo sono state estinte nel 1990. Ultime rate che ho pagato io. Quattro milioni e centomila lire. Ho ancora l’atto originale. Finanziamento a trenta anni. Centomila lire all’anno. Papà faceva il bracciante agricolo, il fattore di un “sor”, un benestante. È diventato proprietario. Lui ha sempre fatto produzione di cereali, olive e uva. I filari erano a coltura promiscua a 12 metri di distanza per avere le coltivazioni in mezzo. Le viti erano a stucchio ovvero maritate. L’albero veniva potato cosi che sui quattro rami venivano messe le trecci di filari. Un pò per volta. Mettiamo le cose in fila perché se avessi avuto una telecamera per filmare il nostro incontro avreste visto Gabriele ed il sottoscritto ammutoliti ad ascoltare il racconto di Erminio. L’entusiasmo appunto. Quello di un uomo che dal padre, con il padre e con il figlio, ha fortemente voluto valorizzare un investimento che aveva rappresentato lo smarcarsi dal lavoro sotto padrone.
Tredici ettari, diventati poi la metà alla morte del padre poiché divisi con la sorella, sono per Erminio prima, Gabriele poi, un cruccio. Tenerli senza valorizzarli non aveva proprio significato.
Storia comune. Già vista si direbbe. La solita storia di un figlio che gioca a fare il vignaiolo mantenendo il suo lavoro principale.
Sarà certamente la solita storia ma quando ti ritrovi così pochi ettari di terreno non è che puoi fare altrimenti. Al massimo vendi la terra e amen.
Ricordo che pure mio papà acquistò un pezzo di terra a Latina. Ne aveva tanta a Santi Cosma e Damiano, il paese nel quale era nato. Tanta con piante di olivi su terreno scosceso. Lavorare li era difficile e soprattutto lontano. Così un pezzo di terra vicino casa poteva essere un ritorno alle origini. Durò poco e il terreno rimase incolto fino alla sua morte. Con i miei fratelli lo vendemmo per evitare che il Comune continuasse a multarci perché diserbavamo in ritardo (però il Comune stesso lasciava le aiuole e i giardini pubblici come se fossero giungla). La terra del papà di Erminio era un pò così. Anche se non così incolta. C’erano le piante di olivo. Anche quelle trecento impiantate nel 1995, anno di nascita di Gabriele. Piano piano le forze del babbo sono venute meno. Ho sempre dato una mano ma mai a pieno. I filari di coltura promiscua, sempre meno redditizi, vennero estirpati. Rimanemmo con 5000 mq di vigneto. Ecco che l’entusiasmo arriva. Non lo vedi arrivare. Non te ne accorgi. Ti coglie come una folata di vento che sposta le tende arrivando a farti vedere fuori dalla finestra senza che lo hai veramente voluto. Gli occhi guardano e se hai l’entusiasmo, vai in una direzione. Altrimenti nell’altra. Cos’è che mi spezza il cuore tra canzoni e amore
Che mi fa cantare e amare sempre più
Perché domani sia migliore, perché domani tu
Strada facendo vedrai
Perché domani sia migliore, perché domani tu Il vigneto non era più sostenibile. Ho pensato di fare tre ettari di vigneto specializzato. Elevare la mentalità vecchia dell’azienda. Solo vitigni autoctoni. Sangiovese, Montepulciano, Grechetto, Malvasia, Trebbiano, Merlot. Nel frattempo il babbo se ne era andato. Mia sorella si è venduta la parte spettante e io sono rimasto con i miei sette ettari di terreno e il casolare preso con il conguaglio. Piuttosto che conferire le uve alla cantina sociale volevamo fare qualcosa di più redditizio. Abbiamo preso un enologo, Maurilio Chioccia, un personaggio importante che crede in ciò che fa e soprattutto ci siamo trovati. Io a causa delle mie dimensioni, non ho voglia di vendermi per quello che non sono. Con i miei tre ettari ti potevo dare solo la qualità e ciò che sono. Erminio l’entusiasta. Con il sorriso e gli occhi che gli sorridono ricorda quei tempi. Era il 2009. Ne parla come se fosse accaduto da poco. L’entusiasmo nel rivivere quei momenti è palese. Lui è un Caterpillar. Un fiume in piena che ha bisogno di raccontarsi e raccontare per far si che il suo entusiasmo possa fluire liberamente. Magari contagiando il figlio Gabriele che un pò si sente investito da una responsabilità importante non essendo ancora pronto (deve ancora laurearsi!). Perché ti serve la mia collaborazione? Guarda, fino al taglio dell’uva ce la faccio da solo perché sono un perito agrario, il resto, in cantina non sono in grado. Aò, guarda che io in cantina il vino te lo rovino e basta. Il lavoro lo devi fare tu in campo. Aiutami a mettere nella bottiglia le caratteristiche del vitigno e il territorio dal quale proviene. Ma tu lo sai cosa mi stai chiedendo? Sarà una impresa ardua perché il mercato non è pronto per capire cosa può raccontare un territorio. Maurilio io in testa ho questo. Vediamo cosa possiamo fare. Erminio che è si entusiasta, è si un Caterpillar, è si un idealista ma soprattutto è uno che non vuole fare le cose tanto per farle. Sa cosa vuole. Essere un rappresentate gli fa capire che nel mondo se vuoi avere successo devi differenziarti. Se poi sei piccolo, devi anche rappresentare qualcosa. Altrimenti chi ti calcola?
Esaltare le caratteristiche del vitigno e del territorio diventa non solo una esigenza stilistica ma l’unico vero modo di emergere. Nel 2014 abbiamo vinto la medaglia ai Vini buoni d’Italia come miglior Grechetto. Questo ci ha permesso di affinare di più la caratteristica di vini che somigliassero sempre di più al territorio di provenienza. Abbiamo concentrato le forze sul Grechetto. Vediamo cosa possiamo fare, ci siamo detti. Oggi facciamo una vendemmia a scalare ovvero con diversi stati di maturazione e concentrazione zuccherina anche in surmaturazione. Tre vendemmie con fermentazione in acciaio e una piccola parte in tonneau in media tostatura con rovere francese. Dopo l’assemblaggio di fermentazioni separate con prove e controprove. Poi affinamento sulle fecce fini per otto/nove mesi circa. In effetti l’Ametis che ho assaggiato (annata 2021) l’ho trovato davvero interessante nella sua semplicità. I sentori sono semplici è vero ma due cose hanno catturato la mia attenzione. Anzitutto la croccantezza dei frutti e la freschezza dei fiori. Poi la nota balsamica che è di quelle che ti invita a respirare a pieni polmoni.
Il sorso poi mi ha entusiasmato per l’estrema sapidità e la grandissima freschezza amalgamati da un agrume che pulisce la bocca in maniera egregia. Il finale lievemente ammandorlato identifica e marchia il Grechetto. Verticalissimo e pulitissimo richiama al morso qualcosa di carnoso come una aragosta così da bilanciare perfettamente il percorso che ha in bocca il vino: partenza morbida, salivazione abbondante, freschezza, pulizia di bocca, amarognolo finale. Fantastico e unico. Un pò forzatamente un pò per mezza passione ho coinvolto Gabriele che è il titolare dell’azienda. Si divide tra università ed il trattore. Anche con le scaramucce padre figlio. Mi da una mano sulle vendite. Lui si occupa del marketing. Gabriele Ringrazio il supporto del babbo ma il mio contributo si limita al marketing e alla comunicazione. Sul resto, ovvero la parte commerciale, sulla quale si dedica da trent’anni può insegnarmi molto. Sul campo sto muovendo i primi passi. A seguito del diploma scientifico girovago tra branding, storytelling, ecc. è importante ma il contesto è familiare e va adattato bene. Avere a che fare con un papà come Erminio non deve essere stato semplice per Gabriele. Non che sia invadente o pressante ma essendo un Caterpillar il rischio è di coinvolgere in maniera involontariamente dirompente. Il babbo anche per vicissitudini personali ha sempre cercato di coinvolgermi. Ricordo una scenata tipica tra mamma e babbo quando a quattro anni papà mi ha fatto salire sul trattore. Fino al 2004, abbiamo vissuto qui al casale. Poi ci siamo trasferiti ad Orvieto. Durante la vendemmia diamo una spolverata e dormiamo qui. A dieci anni mi ha costruito una casa sull’albero. Con la sega potavo qualche ramo sulla casa. Insomma tutto è avvenuto in maniera graduale. Diciamola tutta però, i lavori agricoli li sta portando avanti lui. Adesso la mamma non si arrabbia più perché sto sul trattore. Semmai perché non rispondo al telefono in quanto sul trattore. In cantina, quando io sono impegnato, fa anche lui. Ha bisogno di essere seguito perché gli manca la formazione tecnica. L’enologo ci da le dritte ma poi ci sono delle cose per estro, come per il Violone ovvero il Montepulciano della Tuscia. Finita la fermentazione il 25 ottobre abbiamo svinato ed è rimasto sulle fecce fino a marzo. L’enologo mi chiamava per invitarmi a svinare. Poteva andare in riduzione. Assaggiavo il prodotto ogni settimana e dicevo all’enologo: devi stare tranquillo. Il vino ha un’altro sapore rispetto all’anno precedente. È stata una sfida con il patema d’animo. Insomma ci mettiamo del nostro. Un vero duetto quello di Erminio e Gabriele. Me ne sto in silenzio e lascio che siano loro, padre e figlio ad esprimersi. Da un lato Erminio con la sua forza giocosa che con orgoglio coinvolge Gabriele. Gabriele che ha la voglia di non deludere il padre ma, soprattutto, l’umiltà per imparare piano piano. Una umiltà che è anche di Erminio. Non c’è niente in loro che sappia di diverso. Ho delegato la potatura due anni fa e non mi è piaciuto. Adesso la facciamo noi. Bello vederli insieme. Bello capire quanto questo progetto sia qualcosa di famiglia e quanto la terra possa unire padre e figlio. Costruendo senza fretta, nel tempo. Seguendo le vendemmie come si segue un figlio nella sua crescita. La terra, la vigna, il vino. È capace anche di questo. La forza dirompente di un amore che può unire come dividere. Senza mezze misure. Il Grechetto è quello dove ci mettiamo molto impegno. Una sfida. Poi Lazolum che è Procanico e Malvasia. È il vino più semplice nonostante ha i suoi 14 gradi. Un pò in controtendenza rispetto ai vini moderni. Un vino di struttura nonostante la sua complessità. Lazolum è un vino che è si strutturato per un bianco ma al contempo semplice e piacevole. Un bianco che sa di bianco. Diretto e senza fronzoli. Colore da bianco ovvero paglierino al limite del verdognolo. Sentori di entusiasmante mela verde Granny e pera Smith; lime, mentuccia e salvia. Insomma, freschezza e piacevolezza.
Sullo stesso piano si presenta in bocca con però la struttura che si fa sentire proprio nella croccantezza di quella mela scoperta al naso. Bellissima la sensazione agrumata che offre una eccellente pulizia di bocca e una inaspettata morbidezza finale che definirei vellutata. Fresco, secco, sapido e non particolarmente persistente. Insomma, molto ben equilibrato, molto semplice, molto piacevole. Morbido il giusto, fresco il giusto.
Con una pasta fredda al pesto e pomodorini sta da Dio. Ametis, Grechetto in purezza, che fa della semplicità, non banalità, la sua forza. I suoi sentori esprimono ancora la croccantezza della pera e della mela verde; la freschezza degli agrumi e dell’erba tagliata che diventa fieno. I fiori di campo sono così vivi da fornire la sensazione dell’incontro tra la brezza del mare e il venticello del campo dove sbocciano. Sentori delicati che si amplificano grazie a quel velo di balsamico che aggiunge alla semplicità, pienezza.
Il sorso è secco e fresco, caldo e così sapido da esaltare in bocca la pulizia che il senso di agrumi fornisce. Un vino fresco, verticale, che lascia la bocca pronta e vogliosa del nuovo sorso, impaziente di addentare qualcosa di carnoso come una aragosta. Il finale leggermente mandorlato (tipico del Grechetto) rende le sensazioni intriganti e non banali. Solidago, Violone in purezza. Fermentazione e affinamento in acciaio. Credo che rispecchi bene il territorio. Un rosso che rappresenta la zona. Ci sono ancora margini di miglioramento. Magari una riserva. Quest’anno è entrata in produzione una area di due ettari piantata da me e Gabriele. Tutto da soli nel periodo del covid. 6666 barbatelle. Una ammazzata. Questo l’abbiamo fatto noi. Arriviamo sempre lunghi con le lavorazioni perché entrambi abbiamo a fare. Siamo orgogliosi di dire che il vino che sta dentro questa bottiglia è garantito per il controllo della filiera. “Credo che rispetti bene il territorio”. Parto da questa affermazione di Erminio per descrivere il Solidago che ho assaggiato nella versione 2021. La Tuscia è un territorio semplice, scelto dagli Etruschi per il loro stanziamento. Pochi fronzoli e tanta concretezza condita da prodotti genuini ottenuti anche grazie alla lontananza dai grandi centri. Così è il Solidago. Un vino semplice, schietto, sincero, con pochi fronzoli. Non è necessario accompagnarlo con cibi particolari perché basta una tagliatella al ragù così come uno spaghetto al pomodoro; un tagliere di formaggi e salumi così come una carne alla brace.
Non serve mettere il naso a lungo nel calice per carpire chissà quale complessità nei sentori perché questi sono vivi di frutta croccante e non particolarmente matura (arancia, ciliegia, prugna); di fiori rossi senza strafare; di un leggero sottobosco; di un balsamico che fa ricordare come si è in aperta campagna.
Non serve ragionare tanto sul sorso perché fresco, secco, con il tannino maturo ma non invadente; morbidezze e durezze che si bilanciano armoniosamente e una struttura non altezzosa ma nemmeno banale; caldo, il giusto; un finale che timidamente vorrebbe andare verso l’amarognolo ma per mantenere la semplicità, non ci va proprio.
Insomma un bel vino, ben fatto, ben calibrato. Rappresenta la Tuscia a pieno nella sua semplicità e nel modo di non apparire. Con sostanza Il Senauro è il blend di Sangiovese e Merlot. Barricato. Abbiamo sei barrique in genere. Quest’anno quattro. 1780 bottiglie. Finito quello non c’è più. Il Grechetto a seconda della richiesta facciamo tremila duecento o seimila seicento bottiglie. Finito non c’è più. Se inizio ad andare ovunque non sono più io. L’enologo mi dice che devo essere credibilità. Tutto il business si basa sulla credibilità. Con tre o cinque ettari di vigneto non puoi avere tanti vini. Rubino con unghia granata nel calice. Non serve avvicinare il naso per sentirne gli effluvi. Avete presente quando Abus Silente agita la bacchetta nell’aria e da questa escono magiche scie? Ecco, questa è la sensazione avuta nel versare Senauro nel calice venendo avvolto nei suoi sentori di ciliegia e prugna matura. Sensazione arricchita poi dall’arrivo dell’immancabile violetta e di tanti fiori in potpurri. C’è sì dolcezza ma anche tanta freschezza così da creare una convincente avvolgenza. Tabacco, cannella e noce moscata sono la dolcezza; un che di vegetale, pepe e chiodi di garofano la pungenza. Piccoli spruzzi di balsamico allargano le narici e facilitano l’olfazione.
Nonostante i suoi 4 anni (ho aperto la versione 2020 che ha fatto 10 mesi di barrique), c’è al sorso una bella freschezza accompagnata da tannini maturi non invadenti. Secco, sapido e con un calore percepito inferiore ai 14.5° dichiarati. Persistenza buona, equilibrio raggiunto e, soprattutto, un finale di bocca molto gradevole che amplifica la voglia di continuare a berlo. Con una tagliatella al ragù, lo vedo perfetto Abbiamo la certificazione SQNP e siamo ecosostenibili. Ero sostenibile da quindici anni e non lo sapevo. Da dodici anni non uso più diserbo. Ho sempre cercato di fare qualcosa di naturale. Abbiamo il protocollo per il terreno e uno per la cantina. La scelta di Erminio e Gabriele è affidarsi per la distribuzione ad un partner di fiducia, Partesa che è sì un colosso ma di qualità. Legarsi in esclusiva può sembrare insolito, ma non per uno come Erminio che sa bene cosa voglia dire il mercato e la distribuzione. Partesa sta mettendo in piedi un team di wine specialist per aggredire il mercato con le peculiarità del territorio. Il vino di Papalino è rappresentativo di Viterbo e provincia. Quando sono venuti gli ho fatto assaggiare prima le vasche in modo da far sentire che non c’è tanta differenza. La base è la stessa. Sei assaggi di vasca, sei vini diversi. Non c’è un vino uguale all’altro. Così mi hanno detto. Tutto quello che gli avevo detto lo hanno ritrovato nella bottiglia. È stato bello perché hanno riconosciuto la peculiarità e la corrispondenza tra vasca e bottiglia. Un grosso vanto. Siamo una azienda che lavora correttamente e crediamo in quello che facciamo. È quando si parla di futuro che le differenze di vedute, figlie di generazioni diverse ma anche di formazione diversa, vengono (e meno male) fuori. Non divergenze ma approcci diversi. Che arricchiscono invece di provocare contrasti. Erminio che guarda Gabriele orgoglioso di ciò che dice e pensa. Anche se poi si fa come dice lui. Nella mia testa l’idea è di rendere questa azienda economicamente sostenibile. Abbiamo bisogno di aumentare le vendite ed essere presente sul mercato. Aumentare il fatturato insomma. Nel prossimo futuro aumentare la numerica delle bottiglie senza diventare un grandissimo produttore. Qualche situazione confinante da acquisire. Io più che sulla numerica delle bottiglie investirei sull’esperienza del territorio. Con il babbo ci litigo spesso su sta cosa. Io non credo che noi possiamo diventare l’Antinori della Tuscia. Castiglione è un posto piccolo e non si può tralasciare il territorio. Mi piacerebbe poter trovare il modo di riportare in vita due tre filari di quella vecchia vite e condurli come li conduceva il nonno. Ho un ricordo di nonno che andava a fare i vinchi legando i capi. Una esperienza da ripetere e da fare vivere. Potenziare il lato esperenziale e valoriale. In fondo, non è detto che l’una escluda l’altra. Certo, per fare quello che Gabriele ha in mente occorre la sostenibilità dell’azienda. O forse, per raggiungere quest’ultima, serve proprio la parte esperenziale. Una sfida che solo il tempo potrà validare. Di certo, questa azienda si basa su fatti concreti che sono principalmente la qualità dei prodotti per i quali Erminio ha voluto scegliere nomi evocativi. Se li è studiati e li ha fortemente voluti così. Un vero venditore! Per i bianchi Ametis e Lazolum, pietre preziose.
Ametis richiama l’Ametista la pietra legata al vino per via di Ametista, la ninfa che, perseguitata dalla corte e non gradita al dio Bacco, chiese disperata a Diana di trasformarla in cristallo. Bacco, adirato da questo le scagliò contro il suo calice pieno di vino dando vita al colore violaceo del cristallo. I Greci e i Romani credevano che proteggesse dagli effetti inebrianti del vino così che durante i banchetti offrivano quest’ultimo in coppe di cristallo.
Lazolum è la Lazulite che richiama il lapislazzulo, la stupenda pietra azzurra usata anche da Michelangelo per affrescare la Cappella Sistina. Scoperti più di seimila anni fa i lapislazzuli erano usati in Mesopotamia e dagli antichi Egizi per adornare gioielli e monili come simbolo di potere e immortalità. I Romani li usavano, in polvere, come afrodisiaco. Nel Medioevo, sempre in polvere, come pigmento per dipingere.
Solidago è la Verga d’oro, è una pianta la cui infiorescenza è così particolare da sembrare dorata. Cresce tipicamente nell’alto Lazio e in Toscana.
Senauro è il nome arcaico del Cinabro ovvero del minerale costituito da solfuro di mercurio dal tipico colore rosso. Si estraeva in grandi quantità sul Monte Amiata ed era la base di tutti i manufatti rossi nonché materia prima della pietra filosofale.
Calus infine. Erminio dice che significa per gli antichi Etruschi “buono, eccellente”. In realtà Calus per gli Etruschi era il mondo dell’oltretomba e degli Inferi. La scelta dei nomi dei vini è lo specchio della personalità di un personaggio come Erminio, di un entusiasta come Erminio, di un sognatore come Erminio. Ha contagiato Gabriele e contagerà anche chi si avvicinerà ai suoi vini che fanno della semplicità e schiettezza la loro forza ed unicità.
Perché per sognare, non occorre fare cose fantastiche ma solo semplici. Con entusiasmo.   Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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19 Luglio, 2024

Maurizio (Pio) Rocchi. Le mani, l'artista, il vino

Vino d’Artista. Io sono un artista che fa il vino con le proprie mani. Una volta, tanti anni fa, ero alla Biennale di Venezia e mi imbattei in un’opera di Lucio Fontana. Avete presente quelle tele con un taglio verticale?
Alla Biennale di opere di questo tipo se ne trovano tante. Diverse, strane, stravaganti. Eppure profonde. Con un significato non propriamente immediato. L’arte moderna è questa. Trovare il significato attraverso un percorso. Spesso non visibile. Quasi mai illuminato. Arrivare al significato scavando dentro di se. Trovare la risposta senza che sia qualcuno a fornirla. Ci si può anche ridere e scherzare su opere così. Nel 1978 Luciano Salce dirige nel film ad episodi, Le vacanze intelligenti, Alberto Sordi e Anna Longhi, di mestiere fruttaroli. che…semo fruttaroli?
Si.
Che cosa vuol dire fruttaroli che vi piace la frutta?
Che ce piace…No, no noi la vennemo la frutta Venivano letteralmente spediti alla Biennale e in altri luoghi culturali dai figli emancipati con il risultato di sentirsi, sempre, completamente fuori luogo. Mi sentii anche io così nel non capire il messaggio dietro quel taglio. Dietro. È proprio la preposizione giusta per il significato che Fontana voleva attribuire al risultato del taglio sulla tela. Non un semplice squarcio ma qualcosa oggetto di studio, prove, applicazioni (provate voi a fare un taglio sulla tela con un cutter e vedete cosa esce!). Dietro dicevamo. Voler scoprire ciò che appartiene allo spazio che non è quello immediatamente visibile. La ricerca dell’oltre. Oltre lo spazio. Oltre gli spazi.
Quante volte ci siamo chiesto cosa c’è dopo o semplicemente dietro? Quante volte abbiamo rifiutato l’idea di capirlo? Quante volte ci siamo accontentati di quanto immediatamente visibile ai nostri occhi? Maurizio (Pio) Rocchi mentre mi parla, prende un foglio, lo frappone tra di noi e dice Io non ti vedo. Poi lo strappa in due creando un frastagliata e casuale linea verticale e continua Adesso mi vedi. Questa è una frattura. È tanto grande quanto grande è l’interesse da parte tua, se c’è l’interesse, verso di me. Fratture è la ricerca del nuovo. Il vulcano ad esempio: la lava esce dalla frattura. Esce nuova roccia. È la voglia di rompere la pellicola che ci impedisce di guardare oltre. Nasce dalla mia infinita continua curiosità. Lo premetto, questa storia potrebbe virare da un momento all’altro nel corso della lettura. Ciò a causa del personaggio che incontro per caso ad una fiera del vino. Maurizio Rocchi. Anzi, per la precisione Maurizio Pio Rocchi. O forse ancora meglio Maurizio Ivan Pio Rocchi. Di professione… Ecco di professione difficile da identificare. Almeno in prima battuta. Maurizio è prima di tutto un artista. Poi un vignaiolo. O viceversa vallo a sapere. Sarebbe come risolvere l’eterno enigma se è nato prima l’uovo o la gallina.
Non credo sia possibile. Ti fa subito simpatia Maurizio. Alto, la barba incolta. Abiti normali, quasi grunge forse. Una faccia che ricorda, anche se molto più magro, quella di Carlo Verdone dei primi tempi. Lo guardi e ti fa simpatia. C’è poco da fare. Romano di Roma come si suol dire. Con alle spalle una storia di quelle che ti lasciano con il punto interrogativo sulla faccia. E forse ho proprio quello quando iniziamo la chiacchierata. Anche se al tempo stesso mi viene da ridere perché mi ricorda quel Manuel Fantoni del film Borotalco. Sempre con Carlo Verdone. Un bel giorno senza dire niente a nessuno me ne andai a Genova e mi imbarcai su un cargo battente bandiera liberiana.
Feci due volte il giro del mondo e non riuscii mai a capire che cazzo trasportasse quella nave, ma forse un giorno lo capii: droga! Sono nato a via dei Banchi Vecchi al numero 53 al terzo piano. Un bel giorno mia madre si presenta con l’uovo, il limone e il caffè dicendo: dobbiamo diventare coltivatori diretti. Tu sei il terzo di cinque. La prima domanda fu: ma perché proprio io? Perché dovevamo diventare coltivatori ancora non l’ho capito. Avevo 19 anni e adesso ancora non l’ho capito . Una famiglia normale. Di quelle di una volta. Figli, figlie. Papà imprenditore edile che dava lavoro a oltre 120 persone. Mamma casalinga che si trova ad ereditare le terre dal proprio padre. Quella casa con la terra intorno dove si andava in vacanza in estate per dovere o per intramezzare le giornate al mare. Avevo sessanta giorni di vita quando mi hanno portato per la prima volta li. Poi ci si andava d’estate dopo la scuola. Ho cominciato ad andarci sempre più spesso e nel 1978 mi sono fidanzato con una ragazza di Tuscania. I flirt estivi. Che ricordi. Che emozioni al solo ricordare quei momenti. Erano flirt che duravano poche settimane o si trasformavano in storie di una vita. Vi ricordate il film Sapore di sale? Ecco così erano le estati. Perfetta rappresentazione di quei momenti. Perché di momenti si trattava.
Quel “fidanzamento” per Maurizio (Pio) non rappresenta certo l’amore della vita. Quello arriverà dopo (abbiate pazienza nel leggere). Di certo segnò il suo destino. La mia prima piccola tela l’ho dipinta il 22 settembre 1979. Ero fidanzato con la nipote di un pittore di Tuscania, Giuseppe Cesetti. Cominciai a dipingere sulle tele che lui scartava. A scuola andavo molto bene e i miei disegni venivano esposti. Ognuno di noi nasce artista ma decide giorno dopo giorno se rimanere tale. La creatività la si mette in tutte le attività che facciamo. Ve l’avevo detto che questa storia poteva prendere una piega inaspettata. Maurizio (Pio) è artista. Nell’animo. Voleva e vuole tutt’ora fare l’artista. Voglia di studiare il giusto e necessità (della quale si deve ancora capirne il perché) di diventare coltivatore diretto. Fatto sta che frequenta la nipote del pittore fino al 1984 quando diventa ufficialmente coltivatore diretto imparando ad essere un coltivatore diretto in tutto e per tutto. C’erano 33 ettari all’epoca. Adesso non c’è più molto. C’era tabacco e tante altre coltivazioni.
Per tutta una serie di coincidenze negative ho comprato l’azienda di mia madre come contadino. Era il 1991. Non volevo smettere di essere artista ma dovevo fare l’agricoltura. Mi ero pure iscritto ad agraria e mi mancano cinque esami per diventare agronomo. Non me ne è più fregato niente. Uno sono! Uno solo ma con tante energie. Maurizio (Pio) fa pure l’attore al cinema. Per nove anni, tra il 1985 e il 1994 partecipa con piccole parti ad una serie di film. Piccoli ruoli. Parlavo. Ho smesso quando Christian De Sica mi disse per te c’è qualcosa e per la prima volta ho fatto la comparsa. Ho detto basta. Ho imparato molte cose. Le maestranza nel mondo del cinema sono artisti. Grazie a quelle esperienze mi sono girato tre video. Ho fatto incontri molto interessanti. No mi sono mai risparmiato. Quando vedo che le cose non marciano come voglio io, lascio. Ci mancava pure il cinema adesso per ingarbugliare la storia. Artista, attore, contadino.
Il vino?
Il vino Maurizio (Pio) inizia a produrlo veramente nel 1991 senza sapere come si facesse. Da bambino entrava nelle botti di cemento per pulirle. Poco altro. Prima mio padre faceva il vino da un ettaro e mezzo vicino casa e legato all’oliveto. Facevamo il nostro vino. Ho ripiantato le varietà che conoscevo. Barbera e Sangiovese per il rosso, Trebbiano, Malvasia e Moscato per i bianchi. Ho imparato tutti gli errori che commettevo dai contadini che lavoravano li. Volevo fare il vino di artista. La prima etichetta era dipinta a mano. Mandai la prima bottiglia ad un dirigente della Regione Lazio. Le prime edizioni delle bottiglie le firmavo e numerate uno ad una. Al primo Vinitaly mi sono portato le bottiglie e le etichette per firmarle e numerarle a mano. Ho scoperto poi finalmente la stazione mobile e non dover imbottigliare ed etichettare a mano è stata una svolta. Nel 94 ho partecipato al mio primo Vinitaly. Alla camera di commercio era rimasto un solo stand. Lo prendo io ho detto. Sono andato con 500 bottiglie di vino rosso fatte a mano. Ne ho vendute 200 ad un signore di Monaco. Grazie a lui ho fatto anche una mostra a Monaco. Grazie al vino. Li mi sono gasato perché funzionava. Ho fatto il secondo nel 1995 ed è stata una esperienza tragicomica. Nel mondo del vino i rapporti tra produttori sono sempre connotati da un filo di ipocrisia. Ma io sono piccolo e non me ne frega nulla. Al secondo giorno mi si presenta Sergio Mottura. Una persona che io stimo tantissimo. Il primo impatto non è stato tanto carino. “Mi fai assaggiare il vino bianco?”. Beve, fa un sorrisetto e se ne va. Dopo tre quarti d’ora torna con un suo amico. “Mi fai assaggiare il vino bianco?”. Bevono, si mettono a ridere e se ne vanno. Dopo due ore tornano in tre. Stessa storia. A quel punto gli ho detto: senti, c’è gente che compra le mie bottiglie a prescindere da quello che c’è dentro. Lui mi disse: voi siete il futuro dunque dobbiamo capire bene. Seppe che mia moglie faceva la grafica. Così è venuto in cantina, ha ribevuto il vino ed è stato zitto perché era veramente buono. Non dico che siamo diventati amici ma abbiamo iniziato a rispettarci. Io lo apprezzo e stimo per le cose che fa. Mia moglie gli ha fatto due etichette. Una è l’istrice che ti guarda. Mia moglie era molto brava poi come mamma ha un po’ smesso. Come può non farti simpatia uno come Maurizio (Pio) Rocchi? Impossibile direi. Lui è uno di quelli con il quale ti ci faresti le serate insieme solo per l’idea che possa raccontare aneddoti come questi. Pezzi di vita vissuta che non puoi non ascoltare ridendo a crepapelle immaginandoti li con lui.
La sua idea di vino è di quelle semplici e soprattutto senza alterazioni che non sarebbe nemmeno in grado di pensare. Io scrivo che sono vini veri. Noi cerchiamo di arrivare con la uva sana e poi assecondo solo la natura. Si aggiunge solo la solforosa per conservarlo. Meno di un terzo di quello che è consentito. Insomma, vini semplici, di quelli che si fanno senza nulla partendo da una agricoltura semplice e sana. Un pò perché è un puro, un pò perché non saprebbe nemmeno come fare diversamente. L’azienda biologica Vino d’Artista, che poi ha sede a Tuscania, ha in gamma solo tre vini: un bianco, un rosso e un rosato. Di farne altri non se ne parla proprio. Io sono con i piedi per terra. Sono un autodidatta. A forza di testate ed errori che mi sono costate anche economicamente perché il vino doveva essere quello mio non quello dell’enologo. Ho fatto talmente tanti errori che ho saputo correggerli. Al Vinitaly facevo domande a mezzo mondo. La cantina professionale mi ha messo sulla giusta via. Senza demonizzare la tecnologia. Insomma non sono un professionista del vino. Non faccio le bollicine perché non sono capace. Ho imparato a fare questo e ho capito che se dovessi evolvermi andrei ad infilarmi in un labirinto che sarebbe difficile. Non voglio smettere di fare l’artista. Ho voglia di sporcarmi con i colori. Mi sono sporcato anche di fango. Sporcarsi con i colori. È quello che fa Maurizio (Pio). Quando parli con una qualunque persona di un argomento e avrei voluto parlare di vino con lui, difficilmente ti trovi a parlare di qualcosa di completamente diverso. Quando capita occorre proprio essere rapiti dall’altro argomento per non avere voglia di ritornare al più presto al punto di partenza. Con Maurizio (Pio) è tutto più fluido. Si passa da un argomento all’altro senza soluzione di continuità. La verità è che lui fa il vignaiolo o il contadino che dir si voglia, solo per poter continuare a fare l’artista. Quella è la sua vera anima. Anzi, adesso ha pure ceduto totalmente l’azienda al figlio Enrico (che scherzosamente chiama “il boss”).
Ha trovato però il suo equilibrio. Nel vino e nella famiglia. L’uomo ha bisogno di un ancoraggio. Adesso che ho imparato a fare il vino voglio rimanere con questo. Potrei sperimentare ma perché? C’è una parte da estendere e una parte di stabilità. I figli sono persone delle quali andare orgoglioso. Con mia moglie abbiamo fatto un lavoro quotidiano. Non li abbiamo mai trascurati. Se non c’era lei, c’ero io. Anche la famiglia ti porta in una certa direzione. I miei fratelli mi prendono ancora in giro perché sono stato l’ultimo a sistemarsi. Le mie sorelle mi prendevano in giro ma io ero uno che telefonava alle ragazze in agenda fino a che trovavo una che usciva da me. Poi non ditemi che non vi viene in mente Carlo Verdone? Se non è così, per cortesia, di corsa a farvi una cultura cinematografica. Nel film “Un sacco bello” Enzo sfogliava la sua agendina chiamando a tutti gli amici per trovare un compagno di viaggio verso la Polonia. Per Maurizio (Pio) la famiglia è un elemento essenziale ed imprescindibile della sua esistenza. Qui punti fermi dei quali anche un uomo curioso e con la necessità di esplorare il “dietro” o il “dopo”, ha necessità. Mia moglie è olandese. Si chiama Petra. Petra – Rocchi è perfetto. Abbiamo messo una pietra enorme davanti casa. L’ho conosciuta in una galleria ad una mostra collettiva a Roma dove esponevo le mie opere. È stato un momento magico della mia vita. Sono andato li con la mia ex e lei con il suo ex. Non ci siamo manco visti. Sono andato a fare una mostra in Danimarca e la gallerista mi chiama per un finissage. Lei era sola, io solo e mi sono detto: chi è sta bionda. Lei stava parlando con un mio amico purtroppo morto, un bravissimo artista. L’ho guardata per trenta minuti fissa. Fino a che non si è separato da lui. Allora sono andato da lei, mi sono introdotto dopo di che sono scappato via. Lei poi mi ha detto che mi è corsa dietro ma non mi ha trovato. Poi mi ha richiamato, ci siamo visti e ci siamo sposati e tutto quello che he abbiamo fatto è stato insieme. Tutti i rischi che abbiamo corso insieme. Petra si occupa del bed&breakfast. Poi fa fotografia e lo fa molto molto bene. Sull’etichetta del rosato, che si chiama Petra, ci sono le sue foto. Adesso sta preparando una mostra a settembre alla camera dei deputati. Facciamo ancora i genitori perché abbiamo un figlio di 16 anni, il terzo. In mezzo c’è la femmina che vive a Roma e frequenta la Lumsa. Enrico è il boss ovvero il responsabile dell’azienda. È in mano a lui. Poi c’è Eloise Dies e Arno Marzio. Fa il portiere di calcio. È un personaggio pure lui. Lo seguo perché sono il suo manager. Parliamo tantissimo. Guardiamo le partite della Roma insieme. Arte e vino si mischiano ma non si contaminano. È come se Maurizio (Pio) le tenesse completamente separate. Il vino che serve per poter fare l’arte. Ma non che l’arte debba in qualche modo avere a che fare con il vino. Se non fosse per le etichette, vere opere d’arte, che cambiano di anno in anno, forse non ci sarebbe nemmeno il sentore di un qualche riferimento artistico. Il vino è stata l’arma di compromesso per continuare a fare agricoltura senza smettere di fare l’artista. È una cosa produttiva che mi fa sta bene con me stesso. In vita mia avrò piantato oltre diecimila alberi. Porto i miei figli nella sugheraia perché i sugheri mi fanno impazzire. Andavamo a portare le ghiande dove le piante non erano cresciute. Io faccio le mie performance che non sono sempre legate al vino. Non mi interessa più tanto fare le mostre. Mi piace il confronto con un altro artista come la danzatrice. Con la musica che è la prima arte. Poi con il pubblico, uscire dalla tranquillità dello studio. Le mie opere si intitolano fratture. Attraverso le fatture io sono futuro. Sono proiettato verso il futuro, verso il domani in una corsa verso il nuovo. La mia vita è sempre stata mettere in gioco quello che avevo creato una ora prima. Non avere paura e cercare qualcosa di nuova. Voglia e coraggio di guardare dietro l’angolo. Avere il coraggio di aprire una porta e se non ti piace chiuderla e aprirne un’altra. Quando si sente di avere un talento, occorre assecondarlo. Far si che abbia il suo sviluppo. Il suo corso. Solo che spesso non è semplice capire quale sia il proprio talento. Alle volte capita che lo si scopra per caso. Altre volte perché stimolati. L’importante, e lo dico da genitore, è di non confondere i propri desideri con quelli dei figli. Uno pensa che l’arte sia dipingere e basta. L’arte è qualcosa di profondo che va a finire nell’anima. Anche un bicchiere di vino ad esempio. L’arte la guardi e basta. Un bicchiere di vino lo guardi, lo annusi, lo assaggi. Quando tu cambi la temperatura di controllo della fermentazione, cambia qualcosa. Il vino lo trasformi e se non lo trasformi bene diventa aceto. La cantina di Maurizio (Pio) è piccola. Una bomboniera di 60 metri quadri dimensionata per fare non più di diecimila bottiglie. Di più, sia per via dei pochi ettari che sono in produzione (2.6) o di quelli che entreranno a breve (1.2), sia per la mancanza di necessità, non se ne vogliono fare.
Nessuna barrique. Solo acciaio. Cose semplici. Tuttalpiù il controllo delle temperature. I vini
Mercurio è il bianco da Malvasia di Candia, Trebbiano e Moscato. Già l’etichetta è bella. Quella del 2020 è diversa da quella del sito (che è del 2017) e da quella che sarà. Tutto cambia in fondo. Il colore è una pennellata d’oro e i sentori si lasciano permeare del Moscato. Poi c’è del miele e della frutta secca insieme a dell’uva passa e ad un pò di vedetele per stemperare ed impreziosire. La pera croccante Smith arriva insieme alla mela granulosa. Poi mentuccia, salvia, fieno. Una altalena di note dolci e pungenti a dimostrare come la sapiente scelta di vitigni a loro modo semplice, porta note di livello.
Il sorso evidenza ancora la nota del Moscato e della Malvasia lasciando al Trebbiano la capacità di essere fresco. In bocca si materializzano i sentori con una freschezza che non ti aspetti da un vino di quattro anni. C’è ancora del vegetale gentile ad impreziosire il sorso. Secco certo ma con la sapidità che irrora la bocca lasciando la bocca pulita e pronta, direi vogliosa, del prossimo sorso. Un gioco di dolcezze e durezze interessantissimo perché giocato su un filo che non si valica mai. Credo che Mercurio rappresenti una porta che si può o meno varcare, ma quando lo si fa, è perché c’è la voglia, anzi l’interesse, di scoprire qualcosa di diverso nella apparente semplicità. Petra, il rosato da Sangiovese e Barbera. Da quando il vino è sceso nel bicchiere, non ho smesso di guardarlo, affascinato da una colorazione che sa di arancia ambrata. Una pennellata di colore ottenuta mischiando del giallo, del rosso, del nero. Come se la luce giocasse donando sfumature di colore diverse. Da arancione diventa ambra per poi cangiare e virare sul mattone per tornare all’arancia. Se si chiudono gli occhi e si avvicina il calice al naso non si può fare a meno di pensare ad un colore proprio ambrato per poi concretizzarlo in una mela annurca, pastosa e intensa che vira verso la carruba rinfrescata dall’arancia. Poi anche l’arancia vira e diventa candita, come quella che si trova sulla cassata siciliana. Vira ancora diventando mandarancio. Timo e salvia insieme alle foglie di limone e mandorla nonché alla violetta, completano un bouquet dal quale non ci si vorrebbe mai staccare perché offre sensazioni diverse ad ogni olfazione. Ha un non so che di avvolgente, vellutato e sensuale come solo l’ambra può rappresentare.
Anche il sorso è definibile come ambrato. Chiudendo gli occhi e riempiendo la bocca di questo meraviglioso liquido, mi viene in mente il brandy. È una avvolgenza incredibile, pazzesca. Qualcosa che dona alla bocca pienezza e corposità. Spessore insomma. Fresco ma non troppo. Secco ma non troppo. Caldo. Sapido. Un insieme di sensazioni e sapori che richiamano perfettamente anche i sentori con la mela annurca e l’arancia, impreziositi da una leggera essenza di menta e liquirizia. Persistenza anche lunga con un equilibrio e chiusura di bocca, pazzeschi. Un vino decisamente memorabile. Ottenuto senza fare botte ma con tanta tanta arte. Rosso del Lupo è infine il rosso da Sangiovese e Barbera. Ho assaggiato il 2019, un vino che al pari degli altri fa solo acciaio. L’etichetta è di quelle che non si guardano, si ammirano. Capisco così perché quando Maurizio (Pio) me ne parlava attribuendola alla moglie Petra aveva gli occhi che brillavano. C’è una sorta di freccia che non, inizialmente, non capisco bene. Ho un déjà vu con le tele di Fontana. Poi, con il naso nel calice, capisco. È quella sensazione di balsamico celata dietro tanto altro. Non arriva, non subito, ma solo dopo ricercandola o meglio quando vuoi respirare dal vino. Incredibile.
Nel calice è rubino con riflessi granata. I sentori sono freschi di piccola frutta nera e rossa con una arancia sanguinella, rossa e polposa che emerge prepotente insieme al melograno. C’è spazio per i  fiori di violetta e peonia. Fiori che sembrano quasi in appassimento, come se il sole li avesse avvolti, cotti. Un flebile sentore vegetale dona poi freschezza. La sorprendente balsamicità  infine che fa scoprire anche la nota ferrosa e un indimenticabile Mon cheri.
Il sorso è fresco, meravigliosamente avvolgente con i frutti che diventano immediatamente maturi, quasi pastosi. Il tannino è come il lupo che ulula per poi ammansirsi, quasi a chiedere una carezza. La persistenza non è elevata e la bocca è incantevole per un bellissimo equilibrio tra un finale con nota dolce leggermente acidula. Non particolarmente caldo mi ha conquistato per la sua estrema bevibilità e la capacità di accompagnare in maniera egregia una bistecca alla brace. Tutti i vini sono caratterizzati da un incredibile equilibrio. Ancorché instabile. Come se fosse un equilibrista sul filo che oscilla senza cadere, dondola dolcemente come su un’amaca all’ombra di un grande albero. L’equilibrio trovato nel vino. Come la famiglia. L’uomo ha bisogno di un ancoraggio. Adesso che ho imparato a fare il vino voglio rimanere con questo. Potrei sperimentare ma perché? Maurizio (Pio) Rocchi è così. Prendere o lasciare. Amare o odiare. Io sono convinto che quel pezzo di carta che ha squarciato dinanzi i nostri volti è stato come un modo (o una scusa) per aprirsi e raccontare di se e della sua vita. Senza freni e senza paure. Con onestà e voglia di farlo.
Forse per molti aspetti la vita ha scelto per lui. La madre ha scelto lui diventasse agricoltore. Petra lo ha scelto rincorrendolo e richiamandolo. L’uva e la terra hanno scelto di essere plasmati da lui. Ma nella vita niente accade per caso e, generalmente, le cose accadono solo se in qualche modo si pongono le basi affinché accadano. Maurizio (Pio) Rocchi ha sempre guidato la propria vita e lo ha sempre fatto con l’ardore di esprimere e sperimentare la sua curiosità attraverso l’arte. Vignaiolo per necessità, artista per anima.
C’è però una cosa che per Maurizio (Pio) Rocchi è una costante irrinunciabile: la famiglia.
In fondo, l’ancoraggio del quale lui parla, è proprio la famiglia. Il resto, è arte.   Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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12 Luglio, 2024

Pertinace. Al buon senso degno di lode

Al buon senso degno di lode
È una frase scritta su un Sesterzio, antica moneta romana. Difficile trovarne una. È  dedicata all’Imperatore romano Publius Helvius Pertinax morto esattamente il 28 marzo 193. Assassinato dai pretoriani. Quegli stessi pretoriani che lui aveva comandato per anni nelle battaglie in giro per il mondo conosciuto. Assassinato tre mesi dopo essere stato nominato da Senato romano, Imperatore. Pertinace era il soprannome di Publio Elvio attribuitogli dal padre che lo vedeva eclettico, determinato, abile nel seguire le proprie orme nella vendita di legna e lana. L’essere di umili origini non gli impedì di riscattarsi diventando insegnante di grammatica prima, coraggioso ufficiale dell’esercito poi. La sua integrità morale ed il rispetto che i suoi uomini mostravano verso il Generale Pertinace gli valsero la nomina a Senatore da parte dell’Imperatore Marco Aurelio. Alla morte di quest’ultimo l’Impero Romano iniziò con il suo successore, il figlio Commodo, un periodo di decadenza. Quando Commodo fu ucciso dal suo istruttore di combattimento a seguito di una congiura toccò al Senato scegliere il nuovo Cesare. Scelse colui che era il migliore e che forse Marco Aurelio stesso avrebbe dovuto nominare alla guida dell’Impero: Pertinace. Pertinace iniziò un certosino lavoro dedicato a rendere l’Impero un luogo più giusto e, forse, proprio per questo venne ucciso. Tre mesi di governo furono pochi per risollevare, con la sua rettitudine, un Regno che non si risolleverà più. Riscatto nella integrità. Riscatto nel rispetto delle regole. Riscatto con il buon senso. Non serve riscattarsi venendo meno ai propri principi morali. Non serve riscattarsi per guadagnare inutili soldi. Ogni Sesterzio onestamente guadagnano potrà essere speso solo con un buon senso, esso stesso degno di lode. Spesso la storia di una persona influisce su tanti. In altri casi, su pochi. Perché pochi sono quelli che lo hanno conosciuto o ne hanno letto. Altrettanto spesso, le persone integerrime non hanno alcuna velleità di insegnare qualcosa e l’importanza che danno all’essere ricordati è pari a zero. Le coincidenze della vita però alle volte sono strane. Ci si sforza spesso di trovare un senso, un significato alle cose, ai fatti, agli avvenimenti. Ma non sempre c’è. Oppure c’è ed è così evidente che non ce ne facciamo una ragione. Publio Elvio Pertinace nacque in un paesino vicino ad Alba, Treiso. Tres come lo chiamavano i romani che lo fondarono. Pertinace è proprio il nome di una frazione di Treiso dove gli storici collocano la nascita di Publio Elvio il primo agosto 126. Essere sindaco di un paesino come Treiso negli anni ‘70, che oggi di abitanti ne conta 765, non era una di quelle cose che necessitasse tanto impegno. Abnegazione, rettitudine ed impegno, si. Mario Barbero oltre ad essere sindaco di Treiso continuava a fare il suo mestiere di informatore medico scientifico. Su e giù per i paesini ad incontrare i medici di famiglia e poi, nel tempo libero ovvero il fine settimana, a lavorare nelle vigne di famiglia.
Coltivare si ma non produrre vino. Non c’era il tempo. Non c’era la cantina. Non c’era la capacità commerciale. Le uve dunque era meglio venderle.
A quei tempi (in parte anche ora!) per vendere le uve ci si rivolgeva ai mediatori. Loschi figuri che facevano attendere i conferitori fino alla fine. Far stare i contadini sulle spine era un modo efficace per spuntare prezzi migliori. Al ribasso ovviamente.
A Mario la cosa non andava giù. Anche perché Treiso insieme a Barbaresco (comune dal quale aveva ottenuto “l’indipendenza” nel 1957) e Neive faceva parte, già dal 1966 della DOCG Barbaresco. Le uve non potevano essere pagate sempre a prezzi ridicoli. Mario capisce che l’unico modo per cambiare le cose è insieme. Insieme a qualcun altro. L’unione fa la forza insomma. Quale miglior cosa se non la cooperativa sociale? Con 12 amici trovarono a Treiso una cantina piccolina che veniva dismessa. L’hanno acquistata iniziando. 12 amici e lui 13. Al tempo per poter fondare una cooperativa occorreva essere minimo in 9. Oggi è 3. Hanno preso vicini di casa, contadini, ecc. C’erano fratelli e cugini. Insomma il gioco delle parentele per aumentare il numero dei fondatori. Cesare Barbero, figlio di Mario, è l’attuale Direttore della Cantina Vignaioli Elvio Pertinace. Un nome che venne in realtà abbreviato nel 2005 semplicemente in Pertinace. All’estero ci chiamavano solo più Pertinace. Alcuni non riuscivano nemmeno a dirlo tutto. Abbiamo deciso di abbreviarlo in Pertinace. Poi la storia di Pertinace è molto bella e i soci si sono immedesimati. Il figlio di uno schiavo che diventa imperatore. Una storia di riscatto. I contadini che hanno cercato il loro riscatto nell’unione. Pertinace poi è conosciuto per essere una persona corretta. Quando vado all’estero e devo spiegare la parola “pertinace” ne spiego il significato. Una persona pertinace è una persona che non molla e cosi sono stati i soci. Già non mollano. 13 persone che si riuniscono in una cooperativa portando in dote circa 30 ettari di vigne. Tutti conferitori che si impegnano per diventare produttori. 13 famiglie che cominciano una strada insieme e che fanno ritrovare insieme le loro seconde e terze generazioni dopo 51 anni. 13 soci oggi sono diventati 20 aggiungendo altri ettari per un totale di 110. Niente male davvero. All’inizio si vinificava solo uve per il Barbaresco e via via negli anni si sono aggiunte altre uve. Quando comprarono la cantina c’era già del vino dentro e solo la vendita di quel vino servì per pagare l’investimento. La prima vendemmia è del 1973 ma la prima etichetta è del 1969. Da bambino venivo qui con mio padre e mi ricordo le liti che facevano per pigiare. Tutto portato con delle ceste di plastica e pesato sulla basacula ovvero la bilancia a bascula. Salami, formaggi. Durante la pigiatura si faceva questo. Era una cooperativa goliardica, tra amici. Amici, parenti, compaesani. Mettetela come vi pare ma erano persone. Persone che volevano riscattarsi e dire la loro nel mondo. Senza prevaricare nessuno. Senza essere di intralcio. Rispettando il proprio ruolo e soprattutto gli altri. Gli anni ‘80 segnano l’inizio dei primi investimenti strutturali. Aumento soci e aumento delle superfici grazie agli stessi soci che si ingrandiscono acquisendo nuovi terreni. A dimostrazione di come la cooperazione possa davvero funzionare.
Le prime fiere. I primi investimenti commerciali. I Clienti nuovi, anche stranieri. Ma soprattutto l’imbottigliamento. Anche perché fino ad allora si andava in giro a vendere lo sfuso. Mio papà vendeva molto ai medici che andava a visitare. I nostri più grossi clienti erano i medici di paesi. Vendeva mentre era li a promuovere la medicina. Si era innescato un circolo virtuoso. All’inizio erano investimenti per vasche e serbatoi poi di terreni dei singoli soci e la cantina. Adesso produciamo oltre 8000 quintali di uve, ovvero 5000 ettolitri di vino, 750.000 bottiglie. Quegli inizi me li ricordo anche se abbiamo pochi documenti. Nessuno veniva a fare foto. Anche noi siamo stati poco accorti. Nemmeno si pensava di arrivare a questi volumi. C’era un pò di visione certo ma non tanto. Mia mamma dice che lei ogni volta che è uscito un articolo lo conserva. Magari lei ha qualcosa. Cesare ne parla con negli occhi la nostalgia di un bambino ormai cresciuto e un grande rispetto per quelle persone, papà Mario in testa, in grado di creare tutto ciò. Una azienda. Una prospettiva di vita. Una rinascita per quelle tredici famiglie, diventante venti oggi. Iniziarono a fare il Barbaresco perché c’erano le botti. Poi il Dolcetto e noi siamo una cantina conosciuta per questo. Poi viva via gli altri. Un tempo si faceva il Dolcetto Langhe e qualche vino di fantasia come “il vin che bevi” che era fatto con uve di seconda scelta. Un vinello con l’etichetta scritta a mano. O il farinel ovvero nebbiolo vinificato in bianco. Questo nome lo ha registrato un’altra cantina qui. Vuol dire bimbo allegro, bimbo giocoso e pazzerello. Il primo cliente straniero è negli anni 70. Uno svizzero che è stato nostro cliente per 40 anni. Adesso ha chiuso. Ha comprato un terreno adesso e fa del vino a Calosso. Ogni tanto ci sentiamo ancora. Grandi sacrifici, grandi sforzi. Ma anche grandi unioni. I soci, la parte fondante della cooperativa. Il loro affetto verso una azienda che è la loro. Ne supportano lo sviluppo. Ne promuovono la crescita. Ne condividono gli investimenti. Prima i 13, oggi i 20 soci, sono la vera e unica forza di Pertinace. La percezione della proprietà del socio è la chiave di tutto. Essere in grado di far sentire che tutto ciò che si fa per la cooperativa. Lo si fa per se stessi. Perché la cooperativa è di tutti i soci. Un concetto semplice. Così semplice che in Italia le cooperative ci sono dal 1854 e oggi ne contiamo oltre 41.000 in grado di generare un fatturato di circa 1.2 miliardi di € (fonte rapporto Euricse). La Costituzione italiana, ne sancisce, con l’art. 45 l’importanza sociale La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione
a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata.
La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei
e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità Ci è capitato che qualcuno si è staccato nel tempo. Ma chi è uscito non è mai uscito completamente. Un socio aveva due figli e solo uno dei due è uscito per mettersi in proprio. Tutti l’anno vista crescere e sanno che fa parte della loro vita. Gli investimenti per fare una nuova cantina sono importanti e chi lo fa deve partire piano piano con molti rischi. Non è un periodo cosi roseo. L’avere la sicurezza di avere un posto dove portare le uve e vedersele pagate bene è molto. Paghiamo sopra il 20/30% del prezzo medio di mercato. Nessuno ha il coraggio di togliersi. Ma è anche una questione affettiva. La forza di una grande cooperativa come Pertinace è avere una grande varietà di terroir in grado di assicurare una importante ed interessante diversificazione. Le vinificazioni separate consentono di esaltare i cru del Barbaresco regolati dal disciplinare. MGA Castellizzano, Marcarini e Nervo per tre vini identitari del territorio. Papà iniziò con i cru. Ne facevamo anche di più ma ora abbiamo ridotto a tre. Riusciamo a farla perché non c’è gelosia tra i soci. I cru vengono liquidati allo stesso modo per equità. Non c’è scontro, non c’è gelosia. Non c’è paura che uno prenda di più perché ha la vigna nel cru. La liquidazione dei soci come elemento necessario per la retribuzione. Certamente non il più importante per l’unione. Un elemento messo a punto in maniera democratica e che riesce a non creare gelosie. Si parte dalla base di mercato e sale. È raro che scenda. Devono essere uve che hanno avuto problemi. Sale secondo dei coefficienti che abbiamo deciso. Qualità visiva, qualità chimica. Più l’uva di qualità più il prezzo si alza in maniera più che proporzionale. Ci sono diversi punti percentuali. La certificazione SGQ è arrivata nel 2018. Con essa un agronomo che si occupa che tutto venga rispettato per la certificazione. Trasmette il calendario del trattamenti, i materiali consentiti. Ma rimane sempre il principio che le singole aziende si autogestiscono e per dubbi chiedono. Il conferimento è qui in cantina. Tutti i soci sono a conferimento totale per le uve rosse. Per le uve bianche noi non abbiamo un grande mercato quindi vinifichiamo quelle che ci servono e le altre le portiamo alle altre cantine collegate a noi. Abbiamo il moscato ma viene tutto conferito a chi interessa. Magari nel futuro. I vini di Pertinace sono decisamente rappresentativi del territorio. Io personalmente li ho trovati essenziali, puliti, vivi. Ecco, la parola migliore è vivi. Mi hanno ricordato e ricondotto in quella parte di Piemonte dove l’allegria sta nel vivere con gli amici a tavola. Quelle tavole dove magari c’era poco cibo. Non certo poco vino. Solo che doveva essere un vino da bere mica con pietanze complesse. Al contrario. Cose semplici. I nostri vini sono molto tradizionali. Sono molto simili a quelli di papà per tempistica di lavorazione. Cappello sommerso. Lunghe macerazioni e invecchiamento in botte grande. In continuità ma abbiamo limato i difetti anche con la tecnologia. Partiamo dal classico Barbaresco 2020. 18 mesi in grandi botti di rovere donano al Nebbiolo una pulizia e limpidezza invidiabili. Questo, come tutti gli altri vini di Pertinace sono contraddistinti dall’essere limpidi e puliti. Scarichi di colore tanto che la mano sotto il calice si vede, sempre, chiaramente, Scarichi di colore ma non certamente di altre sensazioni sensoriali.
Di questo Barbaresco ne ho apprezzato la qualità estremamente fine dei sentori. Un bouquet talmente raffinato da non volerne sentire altri. La piccola frutta rossa e nera quasi in confettura si mescola ai rigogliosi fiori rossi. Poi è un altalenanza di preziose note erbacee e spezie dolci. L’arancia rossa calda e succosa si unisce al cardamomo, alla cannella, ai chiodi di garofano, al pepe inebriando anche grazie al velo di balsamico. Un bouquet che si esala con il tempo. Un Barbaresco ha bisogno di aria e tempo per esprimersi ma quando lo fa, consente di respirare meraviglie. Il balsamico si accentua così che sembra di respirare una caramella alla frutta. Di quelle balsamiche ovviamente. Un accenno di ematite fa comunella con salvia e timo.
La bocca raggiunta dal sorso accoglie finezza e raffinatezza. Fresco e soave, caldo ma non troppo nonostante i suoi 14 gradi. Sapido ma non eccessivamente come si conviene ad un nobile. Secco ma non troppo per preservare il gusto. Persistenza giusta e una bocca che si inebria ed impreziosisce dei piccoli frutti rossi e neri. I tannini sono rimasti in disparte. Presenti ma non invadenti a dirigere le operazioni dalle retrovie. Bilanciamento eccellente e chiusura di bocca che definirei unica. Un vino che avvolgente e coinvolgente che, alla fine non è impegnato e al contrario risulta immediato tanto che con un pezzo di Parmigiano l’ho trovato sublime. Barbaresco Marcarini 2020. Il colore granata già evidenzia che qualcosa di diverso c’è nel calice. La frutta è polposa e decisamente cotta mantenendo una punta di acidità che induce il naso ad attendersi altro. Prugna, ciliegia, ribes, arancia. Il balsamico arriva ad aprirmi le vie aeree ed apprezzare il tabacco, la noce moscata, il pepe, il pellame, il goutron. Un lieve sentore di sottobosco e ferroso donano struttura. Il sentore di mela cotta mi fa venire alla mente quella che mi preparava la nonna: un infuso zuccherino con una parte acida a donare finezza.
Il sorso è immediatamente meraviglioso. Fresco, secco, caldo, decisamente sapido. La percezione di frutta arriva all’istante per poi essere sovrastata dai tannini: decisi, importanti, prorompenti. Il bilanciamento è insolito e interessante. Non arrivano prima le durezze ma al contrario le dolcezze creando la necessità e l’aspettativa di un nuovo sorso. Ecco che se il sorso viene accompagnato da un intrigante cibo, la sensazione che se ne ricava è eccellente. Chiusura di bocca meravigliosa e persistenza lunga. Potrei berlo anche da solo. Barbaresco Nervo 2020. Anche qui colore granata e assoluta finezza sono il biglietto da visita. La frutta cotta c’è. Il balsamico c’è. Tabacco, note ferrosa e sottobosco, ci sono. Qui c’è del pellame e i fiori che sono in potpurri insieme al melograno e alla viola. La complessità e la varietà olfattiva differenzia il cru. Incantando ancora.
Il sorso si evidenzia per i tannini setosi e rotondi che bilanciano la decisa freschezza aumentando la persistenza. La frutta rossa diventa più viva e polposa, stupendo per come si differenzia rispetto alle sensazioni olfattive. Bilanciamento perfetto con un equilibrio fuori dal comune. Questo è uno di quei vini che si iniziano a bere senza volere un accompagnamento. Perché è buono. Tanto buono che non si vuol mischiare con niente. Il calore c’è ma non si percepisce. E non so se questo è un bene o un male visto che la bottiglia si può tranquillamente finire. Ci si abbina un pezzo di salame e formaggio e il gioco è fatto.
Veramente ma veramente convincente per la sua dinamicità e immediatezza. Davvero unica per un Barbaresco. Davvero unica. Nebbiolo 2021. Qui siamo nel Piemonte godereccio. Quando oltre alla Barbera e al Dolcetto occorreva bere il Nebbiolo perché quello c’era. Ma mica si poteva aspettare tanto. Andava bevuto in fretta e in grandi quantità. Si un pò in botte ci deve andare perché sempre Nebbiolo è.
Il colore è rubino e la trasparenza è quella dei vini di Pertinace. Top.
Al naso c’è subito la percezione di una bella alcolicità che la balsamicità amplifica copiosamente. I fiori e i frutti rossi appaiono senza far aspettare. Sono i fiori a prevalere. Arancia e lamponi iniziano poi a virare verso il mirtillo. Il sottobosco non può mancare ad impreziosire. Così come il tabacco e il cioccolato, il pepe rosa e la rosa canina.
In bocca i tannini i presentanTipo una tagliatella al ragù. Ci vuole poco per arricchire il pranzo della domenica. Barbera d’Alba 2021. Barbera appunto. Non poteva certamente mancare. Il bellissimo colore rubino nel calice è un vero e proprio invito a berlo senza passare per i sentori. Non lasciamoci tentare perché ci perderemmo il cesto di lamponi e fragole. Di quei cesti che poi si espongono direttamente sulla tavola. Frutta fresca e croccante appena cotta dal sole ma bagnata dalla rugiada mattutina. Respirare queste sensazioni è inebriante. Una rosa e una peonia arrivano grazie alla consueta balsamicità. Così come l’arancia sanguinella e la prugna. Vivaci e genuini.
Il sorso me lo aspetto di importante freschezza e in effetti non mi delude. I tannini sono anche morbidi e la sapidità è spiccata, cosa questa che mi fa apprezzare maggiormente la frutta croccante che ho in bocca. La sensazione è quella di bere un succo di arancia con i frutti di bosco. Non c’è grande corpo ma la avvolgenza è comunque sì curata. Mi viene voglia di bere questo vino e berlo ancora, con semplicità, senza infrastrutture e senza la necessità di stare con il naso dentro al calice per cogliere chissà quali sfumature. Non voglio studiarlo. Voglio solo berlo. Datemi un piatto di pasta con del ragù semplice o una fetta di salame. Sto bene cosi. L’equilibrio questo Barbera lo raggiunge alla fine, quando le dolcezze sovrastano le durezze. La chiusura di bocca è fantastica e la persistenza non particolarmente lunga. La bottiglia si finisce! Se i 13 soci bevessero i vini attuali li apprezzerebbero anche perché per dirla tutta quel concetto di diradamento che è ben consolidato in quei tempi non era cosi scontato. La qualità del prodotto è dovuto alla qualità dell’uva. Il clima ci ha anche dato una mano. Negli anni 70 c’era grande alternanza qualitativa. 74 buonissima, 78 buonissima. 82 buonissima. 72 declassata. Uno dei motivi perché è stata fondata la cantina. Non è stato fatto ne Barolo ne Barbaresco.
Un bel segno di serietà anche per quei tempi. Qualità e serietà ben radicata sul territorio. I nostri vini seguono le annate però non c’è più quel divario che c’era in quegli anni li. Sono più annate simili adesso. Si possono andare a ricercare le differenze che ci sono ma non sono più quelle di quei tempi li. La forza e la bravura di una azienda è essere costante nella qualità. Pertinace da 51 anni è un riferimento nel territorio e non solo. Sono riusciti a produrre grandi quantità di vino ad una qualità mostruosa. Se siamo conosciuti per un certo livello qualitativo dobbiamo mantenerlo. In quel senso li c’è una standardizzazione verso l’alto. I nostri clienti delle Langhe capiscono che le annate sono diverse. Non vogliamo nasconderle. Non devono essere nascoste perché è una storia in più per ogni annata da raccontare. Valutiamo la qualità del prodotto che abbiamo in casa e decidiamo la destinazione. La forza della cooperazione è che è proprietaria dal vigneto alla bottiglia. Tutta la filiera. Pochi privati possono fare le selezioni che può fare una cantina. Possiamo tenere i nostri vigneti migliori e fare volumi importanti abbiamo la possibilità di selezionare tantissimo. Qualità e quantità si possono fare senza essere necessariamente in contrasto. Pertinace ne è la dimostrazione. La cooperativa e la cooperazione è sempre stata vista di basso livello. Si, magari con un buon rapporto qualità prezzo, ma niente di più. In realtà, il costare meno è, banalmente, una conseguenza che parte dalla possibilità di gestire masse più grandi e prezzi più bassi. Così le cooperative che lavorano bene riescono ad ottenere qualità ben superiore a ciò che si pensa. Siamo sette dipendenti. Io sono uno dei soci e il direttore. C’è un consiglio di amministrazione con presidente e vice presidente. Venti soci. Ci troviamo abbastanza spesso. Siamo una grande azienda o meglio una azienda per lo più familiare. Siamo tutti di Treiso e ci conosciamo da sempre. I confronti sono continui e non abbiamo mai avuto scontri tra fazioni. Non c’è mai stato in cinquantuno anni della cantina. Tutto diventa più facile da gestire. Qualche screzio ci sarà pure stato come è normale che sia. Ma è come litigare tra moglie e marito. L’amore non è bello se non è litigarello. Perché solo così si possono risolvere le cose. Parlando e parlando chiaro. Senza che nessuno si offenda perché non è mai una offesa verso la persona. Si parla, si discute anche animatamente. Ma poi l’azienda è di tutti e la si deve portare avanti. Senza personalismi. Senza la velleità di essere la prima donna. Il bene è per il bene di tutti non del singolo. La particolarità di Pertinace come azienda è la stessa di Publio Elvio Pertinace: si arriva da umili origini e solo la rettitudine può portare risultati. Non ci sono castelli. Non ci sono storie millenarie o nobili. Non ci sono tunnel con barrique lasciate dai bisnonni. Niente di tutto questo. Siamo dinamici e non vogliamo presentarci in maniera storica. Non abbiamo il castello o i tunnel. Abbiamo i vigneti e noi stessi. Questa cosa dei castelli mio papà lì aveva già messa nella prima etichetta. Una frase del tipo “non siamo proprietari di castelli o antiche tenute. Questo vino è frutto esclusivamente del nostro lavoro”. Una frase che riassumeva il pensiero di quei tredici che si sono trovati. Non siamo per i fronzoli. Siamo cosi. La nostra cantina non è vendibile. Quello che vendiamo non è che il vino. I toc. Quando ero in Fiat Auto a Torino i “toc” era chiodo di fisso di tutti. I pezzi. Bisognava fare i toc. Ogni minuto usciva dalla linea di montaggio una vettura. Un pezzo. Un toc. Ogni volta che la linea di produzione si fermava per qualche motivo, era un toc in meno. Un problema. Il piemontese somatizza il problema fino a che è in fabbrica. Poi a casa, un bicchiere di vino e ci si penserà, ai toc, l’indomani. Ma i toc devono uscire. Si pensa ad essere pragmatici sulla linea di montaggio e si pensa ad essere pragmatici a casa: perché tanto una volta andati a casa non è che si possa fare niente per la linea di montaggio.
Cose, se uno il castello non lo ha, si basa, pragmaticamente, sui propri prodotti ovvero sui propri vini. Noi dobbiamo ancora ringraziarli questi fondatori. Sono loro che hanno consentito di dare lavoro a venti famiglie. Per questo siamo molto attivi sul territorio e quando l’amministrazione comunale ha bisogno noi, noi ci siamo. Abbiamo in mente di fare un ampliamento della cantina e poi, quando realizzato, magari qualche nuovo socio. Non è semplice trovare soci in queste aree. Quando tutto va bene nessuno viene. Quando le cose vanno male, qualcuno viene a fare domande. Siamo nelle Langhe e anche chi ha un piccolo pezzo di terra ha il pensiero di mettersi in proprio. Una cantina. Una etichetta. Una attività. Normale in questo angolo di paradiso dove le terre ormai costano un patrimonio. Così come però è assolutamente normale che molti vignaioli continuino ancora a produrre e conferire l’uva. Molto meno stressante. Molto più immediato. In questo contesto cooperative come Pertinace, proprio per il rispetto che ha per i propri soci, paga più del prezzo di mercato attraverso un meccanismo in grado di pagare in funzione della qualità dell’uva conferita. Solo in questo modo si paga seriamente il lavoro svolto in vigna e si ottengono prodotti di eccellenza. Abbiamo bisogno dell’ampliamento per crescere perché siamo a tappo per la trasformazione. Abbiamo lasciato che i nostri soci crescessero e abbiamo cercato di crescere in proporzione. Però sono finite le stanze e allora abbiamo bisogno. La struttura della Pertinace è ai piedi della collina e si è ampliata fino al torrente. Aldilà del torrente stesso è stato acquisito un altro immobile per ampliarsi. Dove potevamo ampliarci lo abbiamo fatto. Abbiamo acquisito un immobile perché chi abitava li ha deciso di trasferirsi altrimenti non avremmo avuto modo. Oggi, cinquantuno anni dopo, i 13 di Terso, fondatori della Cantina Vignaioli Elvio Pertinace o più semplicemente Pertinace, troverebbero tanto di quello che hanno creato. Non già nelle strutture quanto nelle persone. Unite più che mai. Cresciute di numero. Cresciute nella voglia di fare, insieme, impresa per riscattarsi. Sempre che questo riscatto non sia già avvenuto. Cresciute nella rettitudine e nel merito. L’unica differenza con l’Imperatore Pertinace è l’avere avuto il tempo per costruire qualcosa che potrebbe tranquillamente essere riassunta con “Al buon senso degno di lode”. Mi piace terminare questo articolo con la frase posta a chiusura dell’atto costitutivo del 1973: “L’amore per la nostra terra, ci spinge ad affrontare insieme, con amicizia, fiducia e collaborazione, le difficoltà e i successi per il bene di ciascuno e di tutti” Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969 Ps nel mio dialogo con Cesare Barbero ho chiesto del perché non fossero citati da nessuna parte tutti i fondatori e tutti quelli che oggi portano avanti l’eredità di quest’ultimi. “Non ci avevo mai pensato” mi ha risposto. Però mi ha inviato questa lista che sento il dovere di pubblicare. I soci fondatori:
Barbero Mario, Vola Luigi, Rosso Luigi, Rapalino Michele, Stella Pasquale, Bongioanni Carlo, Perno Giancarlo, Flori Aldo, Fedele Carlo, Nada Fiorenzo, Dotta Eugenio. Sono 11 perché pochi mesi dopo si sono aggiunti Vola Rita e Ferrero Annibale. Le aziende attuali:
AZ. AGR. CORINO (CORINO DOMENICO)
AZ. AGR. BRICCO MARCARINI (VOLA ALDO E GABRIELE)
BARBERO CESARE
BIOAGRI
BONGIOANNI ANNA
BONGIOANNI ROBERTO
DACOMO GIULIANO
DELLAFERRERA PAOLO
DOTTA PAOLO
DRAGO ALBERTO
FERRERO PAOLO
FLORA MARINA
FLORI ERNESTINO
FLORI ROBERTO
PERNO GIOVANNA
PORTA SERGIO
RAPALINO FLAVIO
TERZOLO MAURIZIO
VOLA FRATELLI
VOLA ROBERTO
ZUNINO SILVANA
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5 Luglio, 2024

Rossella Cicalese. L’ultimo baluardo

Io pensavo a quante volte, ogni giorno, usavo sentire questa continua parola, in tutti i discorsi dei contadini. – Ninte, – come dicono a Gagliano. – Che cosa ha mangiato? – Niente. – Che cosa speri? – Niente. – Che cosa si può fare? – Niente -. La stessa, e gli occhi si alzano, nel gesto della negazione, verso il cielo. L’altra parola, che ritorna sempre nei discorsi è crai, il cras latino, domani. Tutto quello che si aspetta che deve arrivare, che deve essere fatto o mutato, è crai. Ma crai significa mai.
Niente e mai. Niente. Non c’è nulla da fare qui Mai. Tanto non cambierà, mai, nulla. Sono le parole tratte dal libro di Carlo Levi Cristo si è fermato ad Eboli. Levi, ancorché medico, era artista, scrittore e pittore, mandato al confino dal Regime Fascista. Da Torino al piccolo paese di Aliano, vicino Matera. Posto ideale per il confino visto l’isolamento e l’arretratezza di quei luoghi. Arretratezza che in parte, purtroppo, continua ancora ai giorni d’oggi.  La storia di questo libro, divenuto poi un film nel 1979, nulla a che vedere ha con Eboli che diviene, suo malgrado, simbolo di arretratezza (almeno per coloro che non hanno letto il libro o visto il film).  Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia. Quante volte ci sarà capitato di percorrere l’autostrada A2 (Salerno – Reggio Calabria), imbattersi nel cartello per l’uscita Eboli e pensare a quel titolo. Cristo si è fermato ad Eboli.  Eppure Eboli nulla ha a che vedere con l’arretratezza. Un paese con la sua storia che parte dalla preistoria e passa per gli antichi greci, i romani, i saraceni, i longobardi. Fino ad arrivare ai giorni d’oggi con i suoi quasi 37.000 abitanti. Il golfo di Salerno proprio dinanzi. Insomma forse Cristo si sarà pure fermato qui, ma male non deve essere stato. Rossella Cicalese ad Eboli ci è nata e vissuta. Una vita tranquilla. Di quelle che portano i ragazzi (adesso ha poco più di trenta anni) a vivere e studiare per garantirsi un futuro. Anche se Rossella un futuro lo avrebbe avuto nelle attività di famiglia. Ma preferisce studiare giurisprudenza. Si addice di più ad una brava ragazza.  Strana la vita. Una stranezza di quelle che fanno si che, quando meno te lo aspetti, te ne fanno cambiare il corso.  Quasi dodici anni fa avevo ventuno anni. Mio nonno aveva dei terreni agricoli ma data l’età, aveva quasi 80 anni, li aveva dati in affitto questi terreni. Stavano per scadere i contratti e non sapevamo cosa farne. Era il periodo dei bandi per aumentare l’agricoltura così che abbiamo iniziato questa avventura. Questa follia. Impeto giovanile. Incoscienza giovanile. Intraprendenza giovanile. Vallo a capire. Dalle aule e dai libri di giurisprudenza, Rossella si trova catapultata sui terreni del nonno a dover cominciare tutto da zero. Avete letto bene, da zero. Ero molto incosciente. Dissi di si senza pensarci. Nemmeno mio padre pensava che fosse cosi difficile. Ah beata l’incoscienza.  Nei terreni di nonno Donato, oggi arzillo novantenne, c’erano piante da frutto e ortaggi. La decisione presa era quella di impiantare una vigna.  Al tempo però. Non è che Rossella partisse avvantaggiata. Se voleva prendere in gestione i terreni del nonno, si poteva fare. Non fosse altro che di tutti i nipoti lei era l’unica che si era fatta avanti per gestirli. Servivano però i fondi. Senza soldi non si canta messa! Papà mi ha supportato con la banca per i finanziamenti. Ad una giovane non avrebbero mai dato i soldi. È penalizzante per i giovani. Poi mio nonno mi ha aiutato. Non avevo studiato per questo. Concimazione, potatura, ecc. poi ci siamo affidati a delle persone. Mi serviva però recuperare la tradizione Le tradizioni. Quelle di un tempo andato. Magari proprio quando Carlo Levi passava di qui per andare al confino in Lucania. Solo che allora Rossella nemmeno era in programma. Nonno Donato c’era e lavorava nei campi. Nei suoi campi. Che solo L’avanzare degli anni e la fatica accumulata non gli consentivano più di gestire.  I ricordi di Rossella bambina sono quelli dei giochi della domenica in giardino o in campagna con il nonno a raccogliere la frutta. Ricordi che si perdono nella memoria per poi riaffiorare nell’animo, negli odori di quelle domeniche in famiglia.  È stato bello stare con nonno tutto il giorno. Nonno ha insegnato tutto. Quando io ero piccola andavamo a raccogliere le pesche, le albicocche…non in vigna.  Con nonno Antonio andavo anche io in campagna. A Camigliano c’erano le piante di nocciole, di albicocche, di fichi. Ogni odore che è nella mia mente lo devo a lui. Ogni sensazione legata alla terra, ogni ricordo tattile ed olfattivo, parte da li. Le domeniche in campagna con nonno Antonio. Rossella mette da parte gli studi di giurisprudenza e inizia quelli della terra. Gli ettari da coltivare sono quattro e mezzo su due siti. Nemmeno poi tanto vicini. C’è quello di Eboli, in pianura. C’è quello di Perdifumo nel pieno del Parco del Cilento.  Siete mai stati nel Cilento? Vi consiglio caldamente di andarci. Gente meravigliosa. Luoghi meravigliosi. Cibo meraviglioso. Vino meraviglioso.  Oltre cinquanta chilometri separano le due vigne. Se già era follia partire da zero, partire con due vigne così distanti era follia al cubo. Rossella non è una che si abbatte per poco. Sarà pure incosciente come dice lei, ma tosta è tosta. Le idee ben chiare. La voglia di lavorare che non la spaventa. L’umiltà che non le manca. Ecco, l’umiltà. Quando sai che non sai, chiedi. Ma devi saperlo di non sapere. Si affida ad un agronomo per capire i terreni e ad un enologo per decidere cosa impiantare e che vini fare.  Eravamo vincolati dai disciplinari per i parametri da seguire. La Regione impone in qualche modo.  Abbiamo fatto le analisi del terreno per capire cosa fare. Ad Eboli il terreno era molto utilizzato per ortaggi e frutta. C’era dunque molta sostanza organica che ha consentito di entrare in produzione subito. A Perdifumo era incolto, dunque è stato più duro. Dalle barbatelle alla prima vendemmia i canonici tre anni. Duri e lunghi durante i quali Rossella in parte studia sui libri dell’università, in parte in campagna.  Dopo la banca abbiamo iniziato con nonno e il mio cuginetto piccolo in vigna. Era la terra dove ero cresciuta. Nonno prima non lo vedevo spesso. Prima ci andavo la domenica ma no durante i giorni.  Studia per la vigna. Si affianca ad una agronoma, sorella dell’enologo, poi a quest’ultimo. Piano piano cresce fino ad arrivare ad essere da sola in vigna. A cavarmela da solo. A riconoscere le patologie, a capire il tempo giusto per fare le cose. Ho fatto un corso da sommelier ma ora ne faccio un altro con una didattica più severa. In cantina c’è l’enologo ma io lo sto affiancando. I tratti del carattere forte e perfezionista di Rossella si delineano dalle sue parole. All’apparenza mite come forse “deve” apparire una donna del sud. Nella sostanza determinata e decisa. Sa cosa vuole per la sua azienda. Sa cosa vuole dai suoi vini.  L’azienda. Nemmeno poteva immaginare cosa potesse essere gestire una azienda. Nemmeno aveva idea di come si coltivasse una terra, una vigna. Nemmeno era nei suoi programmi essere una vignaiola. Adesso invece, da dodici anni, l’azienda che porta il suo nome, Rossella Cicalese, è una realtà. 12.000 bottiglie che nelle annate pre covid arrivavano a 17.000. 6 tipologie di vino con la scelta di rappresentare a pieno il territorio. Aglianico e Fiano dalla vigna di Perdifumo; Aglianico in due versioni di rosso (acciaio e botte), un rosato e una bollicina blanc de noir Charmat.  Il mio obiettivo è rappresentare il territorio. Infatti abbiamo scelto principalmente acciaio. Entrambe le vigne sono vicino al mare. Dunque i vini sono sapidi e fruttati. Siamo fortunati perché abbiamo delle condizioni che ci permettono poche lavorazioni in vigna. Anche la scorsa annata è andata bene ma ho dovuto lavorare tanto.  Evoli è il primo Aglianico che ho assaggiato. Un omaggio alla cittadina di Eboli il cui nome medioevale era proprio Evoli. Un colore scuro ed impenetrabile che torna anche nei sentori di frutta nera non ancora matura. Arriva la freschezza e la vinosità a rappresentare a pieno un territorio. Schietto e sincero tanto da pizzicare il naso e stimolare i sensi. Quanto è differente dai maestosi e duri Aglianico dell’Irpinia. 
Le ciliegie nere sono quelle del vicino Cilento, le more quelle dei rovi, il vegetale della natura circostante. Un non so che di speziato di pepe e liquirizia arriva a ricordare epoche saracene. Ma la ciliegia, quanto è buona la ciliegia che emerge prepotente!
Il sorso è fresco e i tannini hanno la loro importanza: è pur sempre un Aglianico in fondo. In bocca è evidente una certa pastosità. Una avvolgenza in grado di trasmettere il frutto dal naso alla bocca coinvolgendo i sensi. Ha certamente bisogno di un cibo per accompagnarlo ma per quanto è buono, per quel senso di frutta viva, polposa, quasi da mordere che arriva prepotente in bocca, lo berresti per risentire questa incredibile sensazione. Insomma, sa di buono. Ottimo bilanciamento e chiusura di bocca precisa. Non una grandissima struttura ma meno male che ci sono vini così! Poggio alle noci. Prende il nome dalla collina del poggio di Perdifumo da dove si domina il mare del Cilento. Riposa in botti di rovere da 500 litri per almeno un anno prima di passare in bottiglia. Colore rubino vivace. Sentori di frutta nera e rossa, polposa ma ancora non matura. Prevale il sottobosco con una nota di erbaceo che sa di fresco. La ciliegia polposa, quella del Cilento, si unisce alla prugna, alla arancia sanguinella e ai fiori rossi. Arriva anche un pò di balsamico ad allargare le narici. Il connubio tra l’agrume e la frutta polposa fornisce una bella sensazione di freschezza con il sottobosco ad impreziosire. Le note di noce moscata, cannella e pepe arrivano senza disturbare.
Il sorso è intenso e poderoso. Non sembra un Aglianico del Cilento, semmai quasi un Taurasi. Molto intenso, vivo, energico tanto da necessitare un giusto accompagnamento. I tannini sono maturi e impattanti ancorché mitigati dalla freschezza. Il calore percepito si nasconde nonostante i suoi 14°. La persistenza non è lunga e la bocca chiude bene.
In sostanza è un Aglianico vero. Non per tutti. Non per tutte le occasioni. Da solo è spigoloso ma abbinato a qualcosa di succulento diventa avvolgente, fluido, attrattivo a dimostrazione di come solo “insieme” la meraviglia ha inizio. Fluminè è il Fiano. Bello nel calice per la luminosità del giallo paglierino. I sentori sono immediatamente vinosi con una mandorla che si nasconde tra gli agrumi. Vengo catapultato immediatamente nel Cilento per via dell’aroma di limoni, tenue e non invasivo. La mela e la pera vengono invece avvolti nello iodio così che sembra di respirare il mare direttamente dalla riva. I fiori bianchi mi trasportano in un campo dove l’erba è appena stata tagliata e le balle di fieno sono in bella mostra. Il fiore di sambuco impreziosisce il tutto. L’olfatto lascia presagire freschezza e sapidità.
Il sorso in effetti appare immediatamente fresco, moderatamente caldo, secco e con quella sapidità che supporta un interessante equilibrio. La chiusura di bocca mi piace per un meraviglioso agrumato che pulisce il cavo orale in maniera raffinata. La voglia è quella di un nuovo sorso. Una voglia irrefrenabile.
Insomma, una espressione di Fiano non opulenta e dotata di giusta morbidezza e freschezza. Senza eccessi per una bellissima serata tra amici.
Purtroppo non basterà una bottiglia Angel è lo spumante da Aglianico. Rossella non me lo ha detto ma suppongo sia dedicato al papà. Angelo appunto. 
Non ci si aspetta tanto da una bollicina metodo Charmat della Campania. Nel calice i sentori sono di agrumi, di pesca a pasta bianca e di quel pane che qui generalmente si chiama “cafone” (ma quanto è buono!). Semplici e tipici delle bollicine di tutta Italia. In bocca però dimostra una certa finezza e freschezza. Mozzarella di bufala, una pizza con i friarielli (non sapete cosa sono??) o un “cuoppo” di fritti e avrete svoltato il pasto. Per intenderci i friarielli sono essenzialmente le cime di rapa che in Campania si friggono. Da qui il nome. Per rimanere in tema frittura, il cuoppo è il nome onomatopeico del cono di cartone nel quale vengono messi gli svariati ingredienti della frittura napoletana: la pasta cresciuta, la crocchè (crocchetta di patate), pesce, frittatina di pasta (dovrebbe essere tipicamente “avanzata” dal giorno prima ma vallo a dire ai NAS), verdure in pastella, mozzarelline fritte, fiori di zucca, ecc. Insomma una bella botta al colesterolo del quale, una volta ingerito il primo pezzo ce ne si dimentica senza rimpianti.  Vini di una azienda tradizionale che punta al biologico. Che sta voltando piano piano verso tecniche moderne puntando alla qualità.  Stiamo facendo la lotta integrale ma diventeremo biologici. È complicato anche perché le coltivazioni attorno non lo sono. Ho delle aziende come punto di riferimento e voglio diventare come loro. C’è una azienda del territorio che fa poche bottiglie ma riesce ad avere un prezzo medio alto. Due tre etichette di qualità e rappresentativa del salernitano (a Montevetrano). Un’altra è famosa ma non voglio diventare lui per le dimensioni ma per l’ottica di poter rappresentare il territorio per i prodotti oltre il vino: olio, confetture, ecc. dare un servizio al clienti ed offrire. Il contato con il pubblico mi piace molto. Una volta assaporata l’azienda e le possibilità del territorio, per Rossella l’appetito vien veramente mangiando. O bevendo. Di certo non si ferma Rossella. Ha capito che per valorizzare il territorio e la sua azienda c’è bisogno di farla conoscere. L’accoglienza ad esempio. Anche se il covid ha dato una vera mazzata all’economia locale e alle aziende. Nel 2019 la mia sembrava veramente una azienda. Esportavamo in Francia. Era positivo. Avevamo avuto un articolo su un giornale di Napoli. Dopo la prima vendemmia del 2015. Soddisfazioni. Poi il covid ha azzerato tutto. Facendo le corna quest’anno sta andando bene. La soddisfazione è quando iniziano a contattarti i clienti. Se continuasse cosi sarebbe ottimo. Adesso Rossella vive nella vicina Battipaglia con il suo compagno Gianluca che non si tira indietro anzi, da una mano in vigna e nella parte commerciale. Ha sposato la causa oltre che Rossella (ancora no ma mi sa che è questione di poco tempo…). Nonno Donato continua ad essere presente nonostante i tempi non siano più quelli di prima e lui non ci si ritrova tanto. Va con Rossella in vigna e penso gli brillino gli occhi a vedere una sua nipote che si prende cura delle sue terre.  Papà Angelo partecipa anche se lascia fare a Rossella. Ha la sua attività che gestisce insieme al fratello di Rossella.  Mio nonno ha sei nipoti. Anche da parte di mio padre erano agricoltori ma nessuno dei nipoti ha continuato. Sono l’ultimo baluardo dell’agricoltura. Sono pure l’unica che dovrebbe laurearsi. Manca solo la tesi. Questa scelta, comunque la rifarei perché. No posso negarlo. L’ultimo baluardo. Che meravigliosa visione. Forse Rossella non ci ha mai riflettuto sopra o forse l’ha fatto senza badarci più di tanto. Però la sua scelta ha evitato la fine di quel ciclo che portava un tempo le terre a rimanere all’interno della famiglia. Per il bene della famiglia. Per la continuità della famiglia. Difficile trovare oggi ragazzi che, come Rossella, virano completamente il corso della loro vita scegliendo di rimanere e scegliendo di impegnarsi nella terra. A queste persone, a Rossella, è dedicato il mio impegno e la mia voglia di raccontare queste storie. Grazie Rossella, per il dono che mi hai fatto raccontandomi la tua. Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia. Forse adesso, non è più cosi. Anche grazie a ragazze come Rossella Cicalese     Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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28 Giugno, 2024

Midia. Manuela, Gaia, Marsala, una nuova vita

A quattro anni dal covid ci si interroga ancora sugli effetti dell’isolamento cui siamo stati sottoposti con il lockdown. Aumento dell’ansia, disturbi del sonno, depressione solo per citare alcuni studi in materia. Per non parlare dei litigi e dei divorzi. O dei cambi radicali di vita che sempre divorzi sono.  Ogni tanto fermarsi a riflettere fa bene. Essere obbligati a farlo, per svariati mesi, forse è stato troppo. Chi non è incappato in problemi fisici o psicologici, forse ne è uscito più forte. O perlomeno più convinto della propria vita.  Più parlo con le persone e più mi convinco di come troppo spesso si facciano le cose per convenzione. Si sta con una persona perché si è sempre stati con quella/quello. Si inizia a fare un lavoro perché quello si è trovato. Non si ha la forza di cambiare anche se non piace. Passa il tempo e non solo le forze vengono meno. Viene meno la voglia e, in alcuni casi, anche il coraggio. Magari perché non si decide solo per se stessi.  Il lockdown se una cosa dovrebbe averla insegnata, è la possibilità di vivere con poco. Poche relazioni. Poco comfort. Poco svago. Poca possibilità di spendere. Solo l’essenziale includendo in questo anche le persone che vivono quotidianamente con noi.  L’essenziale è invisibile agli occhi. Sempre più vera come frase. Sempre più reale. Ci sono ricordi che si sedimentano in noi. Esperienze che quando le facciamo, viene voglia di non finirle più. Piuttosto che ritornare, non andar più via.  Quante volte ci è capitato di andare in vacanza in un posto del quale ce ne siamo innamorati e abbiamo detto a noi stessi: io mollo tutto e vengo a vivere qui. Tante. Davvero tante volte.  Poi però, il ritorno inesorabile a casa vuol dire ripiombare nella routine quotidiana. Torniamo ad essere i criceti che corrono sulla ruota senza mai chiedersi: perché sto correndo su questa ruota? Covid. Lockdown. Pensieri. Ricordi. Futuro. Speranza. Cambiamento Una apparentemente semplice (ma in realtà complicatissima) catena che in taluni casi ha sciolto le proprie maglie generando non un piccolo insignificante cambiamento ma un qualcosa di radicale e definitivo.  Io lascio il lavoro. Ma che dici? Si si io lascio il lavoro.  Immaginatevi questa conversazione in un piccolo soggiorno di un piccolo appartamento dei palazzoni del quartiere Laurentino a Roma. Alveari, in genere dormitori, che ne periodo del lockdown si trasformano in stadi di calcio.  Chi vuole lasciare, anzi, chi decide di lasciare il proprio lavoro è Manuela. Manuela Rendina. 36 anni. Single (nel senso di non sposata ma con una compagno fisso). Impiegata in una società che produce birra artigianale nella parte finance. Nata e vissuta a Roma. Nessun legame con la Sicilia. nemmeno amici. La Sicilia? Che c’entra la Sicilia.  Ah scusate. La Sicilia fa parte dei ricordi di Manuela. Un viaggio in macchina con degli amici. Una vacanza itinerante per scoprire la Sicilia e i suoi vini con particolare attenzione ai vini naturali. È qui in Sicilia e più precisamente a Marsala che scatta quel pensiero che coglie molti di noi in vacanza. Quell’innamoramento perlopiù effimero che non si trasforma mai in amore eterno. O quasi mai.  Ho conosciuto Vincenzo di Vita ad Ovest. Abbiamo fatto una degustazione insieme che sarà durata sei sette ore. Abbiamo parlato e bevuto e da li mi sono offerta per fare una esperienza in cantina. Durante la vendemmia prendevo ferie e davo una mano in vigna e in cantina.  È il 2017 quando accade questo. Per tre anni Manuela viene in questo angolo complicato ma meraviglioso della Sicilia per aiutare gratuitamente Vincenzo nella vendemmia. Lo fa semplicemente per amore. Amore di questa terra. Amore per le espressioni dei vini. Amore per le persone. Amore per il sapore di mare che il vento porta fin sulle uve. Amore per il sole che qui batte forte. Amore.  Scendevo qui invece di andare in vacanza. Chiedevo a Vincenzo se poteva darmi vitto e alloggio. Qui era bello. Mangiavamo insieme con i genitori di Vincenzo. Tutti insieme. Con gli operai. Era una famiglia allargata. Fino al 2020 quando decido di lasciare il lavoro dopo tre anni che venivo qui. Mi ero stancata del lavoro e ho detto proviamoci. Ho preso una vigna in affitto facendo la prima etichetta di bianco. 1800 bottiglie. Poi ho fatto la seconda annata ed è entrata Gaia in azienda. Lavorava anche lei a Birre del Borgo. Il 2020 segna per Manuela l’anno della svolta. La rinascita. La voglia di rimettersi in gioco.  Ho chiamato Gaia e le ho detto: Io lavoro fino a fine mese poi vado in Sicilia. Ho disdetto il contratto di affitto ho caricato la macchina e sono partita.  Leggerezza? Voglia di evadere? No, voglia di vivere. Il tono nella voce di Manuela è di felicità. Ricordare quei momenti la fa stare bene. Rivivere quell’esatto istante è vivere nuovamente la felicità, l’eccitazione, la grandezza di un momento che voleva dire libertà. Come un emergere dal buio. Un aprire gli occhi dopo tanto tempo passato a vivere una vita che non era la sua.  Sorride Manuela. Sorride non solo con il viso. Sorride con gli occhi. Gli occhi che sono tutto. Manuela ricorda con lucidità ogni istante associando ad esso il suo stato d’animo. Il racconto non è un semplice racconto. È un vivere ancora e ancora le emozioni provate. L’eccitazione. La preoccupazione. Lo sgomento. La felicità. L’impazienza. Gli addii. I ciao. Gli sguardi. I sorrisi. Le lacrime. La gioia. La speranza. La paura. E mo che faccio? Ho pensato. Avevo preso il traghetto da Napoli per imbarcarmi con la macchina. Avevo coinvolto anche mio fratello per un pranzo a Napoli prima della partenza. Sul traghetto mi dicevo: ma che ho fatto che ho fatto. Un salto nel buio con contratto a tempo indeterminato. Non è stato facile trovare una situazione di stabilità. Un bel passo. Difficile. Chi non è mai stato a Marsala non può capire un luogo dove il tempo si è fermato a parecchi decenni fa. La vita è rimasta semplice. Le campagne sono scarsamente popolate: vaste, assolate, difficili. I servizi praticamente assenti. Eppure, oltre agli anziani rimasti, brulica di giovani. Ragazzi provenienti da ogni parte di Italia e del mondo che hanno scelto, come Manuela, di vivere in queste zone. Lavorando. Rimboccandosi le maniche. Senza paura. Senza rimorsi. Con la voglia di fare qualcosa per una magnifica terra che aspetta solo qualcuno che la sappia raccontare e valorizzare. Ricordo la mia prima volta qui. Non era per il vino ma per fare kitesurf alla Riserva dello Stagnone. Me ne avevano parlato come un posto semplice, con il vento che spirava sempre forte e nella giusta direzione. Un paradiso per i kiters. Semplice non era esattamente l’aggettivo che mi venne in mente quando arrivai. Anzitutto il paesaggio. Uno di quei posti dove le cartoline non ne riescono a descriverne la bellezza. Provate ad andarci al tramonto e a conquistarvi uno spazio per assistere al calar del sole sulle saline dinanzi l’isola di Mozia. Sarà un tramonto che non dimenticherete più per il resto della vita. Così bello e suggestivo che non avrete neanche la voglia di smettere di guardarlo per fare una foto.  Le persone qui sono semplici. Vive e schiette. Non troverete alloggi fantastici ma una ospitalità che non ha pari. Ricordo un bed&breakfast proprio sulla laguna. Non certamente dotato dei migliori comfort anzi, direi abbastanza fatiscente. Però. Ecco, proprio però. Il proprietario era una persona così a modo, così coinvolgente, così disponibile che tutto il resto passava in secondo piano. Per non parlare della colazione: solo quella valeva più di un hotel a cinque stelle.  Il mare cristallino gode dei venti che arrivano dall’Africa miscelandosi con quelli atlantici che riescono ad attraversare lo stretto di Gibilterra. Avete mai notato, osservando la cartina, che la Sicilia si incastra perfettamente proprio nello spazio che divide l’Africa dall’Europa a Gibiliterra?Marsala si posizionerebbe proprio nel bel mezzo dello stretto.  Marsala ricorda a tutti il vino Marsala. Ma pochi, se non gli addetti ai lavori, sanno che il Marsala è un vino liquoroso prodotto con vitigni storici coltivati nelle campagne qui attorno: Grillo, Insolia, Catarratto, Ansonica, Damaschino. Vitigni che qui assumono espressioni uniche e diverse solo cambiando terreno. Il sale portato dai venti. La sabbia. L’argilla. Il calcare. Il sole. Ogni parcella di terreno sembra un diverso pezzettino di un grande puzzle la cui figura è ancora tutta da decifrare.  Torniamo a Manuela. La protagonista è lei in fondo.  Quando mi racconta la sua storia non posso che provare ammirazione per questa ragazza. Forse un pò folle. Lucidamente folle. Lascia una città dove ci sono i suoi affetti. Lascia un lavoro che le garantisce stabilità. Lascia una vita certa per qualcosa di completamente incerto. Incerto e dannatamente complicato.  Arrivo e predo una vigna in affitto. Durante l’inverno prima della vendemmia facevo su e giù con la Sicilia perché qui non riuscivo a mantenermi. Per qualche mese sono andata a vivere a Forlì per lavorare nella distribuzione del vino. Facevo su e giù Sicilia-Forlì. Dormivo a casa di un amico. Per avere uno stipendio. Un pò di lavoretti qui e la. Il vino ha cominciato ad ingranare anche se dovevo fare altri lavoretti. Aiutavo Vincenzo nella parte amministrativa perché tanto venivo da quello. Riuscivo non dico a sostenermi ma a ricominciare.  Applausi a scena aperte per Manuela. Mi vengono in mente i giovani che se ne stanno sul divano o protestano per uno stipendio adeguato. Giusto o meno, lo lascio commentare ad altri. Di certo non parto con una filippica sull’argomento per rispetto a Manuela. Dovrebbero parlare di lei e far parlare lei nel circo Barnum dei talk show. Dico solo che la fortuna, come ogni cosa della vita, non arriva se non la si cerca e non si investe su se stessi. Inseguendo un sogno. Manuela questo sogno lo sta ancora inseguendo con la sua compagna di avventure Gaia. Ha lasciato il lavoro sicuro, ha, hanno, investito i loro risparmi in un progetto, lavorano duramente per poter andare avanti. Devo aggiungere altro? La prima vendemmia di Manuela è del 2020. Una vendemmia con l’uva trovata nelle vigne che avevano appena prese.  Conoscendo tutti tramite Vincenzo sappiamo come lavorano. Si trovano tantissime vigne qui. Sono contadini che le hanno ma non riescono ad occuparsene.  Una vendemmia quasi carbonara perché l’azienda che verrà, Midia, si costituisce solo l’anno seguente, nel 2021. Una vendemmia utile a sperimentare l’idea che Manuela ha del vino. Una idea maturata nei suoi trascorsi con Vincenzo. Una idea che è più una filosofia di vita applicata, anche, al vino.  Volevo un vino di pronta beva. Apri e te lo bevi. Anche senza mangiare. Semplice ma che ricordasse il territorio. Senza pensieri a fine giornata lavorativa. Con una bassa gradazione alcolica grazie ad un solo giorno di macerazione. Dal 2021 ho pensato di dargli un pò più di ampiezza. Ho fatto maturare di più l’uva allungando la macerazione. Qui i vini sono caratterizzati da acidità e sapidità. Volevo dargli anche ampiezza però. Che fosse anche un vino bello. Se il primo era di pronta beva, dal 2021 abbiamo aggiustato il tiro. Vincenzo Angileri. È lui la persona che accompagna Manuela in questa meravigliosa avventura. Un consigliere. Un maestro. Un amico. Uno di famiglia.  Ho fatto tre anni con lui in cantina e mi ero fatta la mia idea. Quando ho iniziato a vinificare lui mi ha detto: sediamoci e parliamo. Già me lo immagino questo colloquio. Dinanzi ad un bicchiere di vino. Non un calice. Un bicchiere di quelli svasati che ricordano i pranzi con il nonno. Nonno Antonio aveva il suo bicchiere. Più cicciotto degli altri, svasato e con i bordi arrotondati. Era simile agli altri ma il suo era diverso e inconfondibile. Non si poteva farlo bere in un altro bicchiere.  Gli ho detto quale voleva essere la mia idea di vino. Per me è un confronto continuo con lui. Anche adesso che mi sono messa a studiare enologia all’università è un confronto continuo.  Meraviglia di Manuela. No solo cambia tutta la sua vita ma vuole fare le cose bene. Per bene e senza sconti. Enologia all’università. Mica una cosa semplice per una ragazza che arriva dal finance. Qui sta la meraviglia e la bellezza. Qui sta l’intraprendenza, la voglia di fare e di rimettersi in gioco. Rischiando sulla propria pelle e senza gravare sugli  altri.  Lui ascolta, ti da suggerimenti ma poi il vino te lo devi fare da solo. “Dimmi cosa vuoi fare e ti aiuto ad arrivare dove vuoi”. Se prendo una vigna in affitto lui passa, sta mezz’ora ma poi rimani solo e le cose te le devi fare da solo. Siamo noi attivamente che lavoriamo in campo ed in cantina.  Abbiamo comprato mezzo ettaro. Una bandierina. Adesso abbiamo iniziato un progetto di recupero di vigne che stanno espiantando o abbandonando. Ti finanziano per impiantare vigna nuova. Così si perde un patrimonio pazzesco perché ogni anno si espianta tanto.  Meritiamo davvero l’estinzione mi viene da dire. Le leggi possono anche avere un nobile fine ma poi si trova sempre la strada per sfruttarle al peggio. “Fatta la legge, trovato l’inganno” non è solo un detto. È un modo di essere tutto italico che non si debellerà mai. Si invita all’espianto offrendo soldi con il risultato che piante vecchie scompaiono. Solo per soldi. Ragazzi come Manuela e Gaia hanno scelto di vivere in un lembo dimenticato della Sicilia con lo scopo di valorizzare veramente il territorio e la sua storia. Estirpare qualcosa che appartiene proprio alla storia ed al territorio non è pensabile.  La riflessione che sorge spontanea è una domanda rivolta ai siciliani: ma deve venire uno straniero per tutelare la vostra storia e il vostro territorio? Meritiamo l’estinzione.  l progetto delle vecchie vigne. Io me le prenderei tutte. Non vorrei che si espiantassero. Gaia mi dice aspetta perché non riesce a venire giù e sa che da sola non ce la farei. Manuela è una romantica. Vive le piante come esseri viventi. Espiantare le vigne vuol dire uccidere esseri viventi che hanno una storia. Un sacrilegio che cancellerebbe proprio la storia di queste zone che si fatica a portare avanti.  Ufficialmente la società nasce nel 2021. Imbottigliamo da Vincenzo e lavorando nella distribuzione andavo in giro a vendere le mie bottiglie.  Il 2021 segna anche l’entrata in società di Gaia cosi che Midia diventa una azienda ancora più al femminile.  Siamo andati a bere una birra. In genere ci diciamo andiamo a fare un aperitivo e finisce dopo 8 ore. Mentre bevevamo birra e gin tonic le ho chiesto se le andava di entrare in Midia. A me serve una mano. Se ti va. Lei ha risposto: ma lo sai…si. Cosi è andata. La scelta di Gaia è di quelle ponderate. Non si è ancora licenziata anche se lo vorrebbe ma in due, senza la possibilità che Midia si sostenga da sola, non è possibile.  Manuela lavora e studia. In Sicilia fa la cameriera anche per sostenersi. Poi fa la spola tra Roma e la Sicilia e con l’università a Viterbo tanto per non farsi mancare nulla.  A Roma sto a casa del mio compagno che ha un locale a Roma e fa vino in Puglia. Sono quattro soci e lui si occupa della parte commerciale. Fa la manovalanza in vendemmia. La Cattiva. Così si chiama l’azienda. È un concorrente in casa.  Midia si ritrova con mezzo ettaro di proprietà, 2500 metri quadri di una vigna di Catarratto del 1993.  Abbandonata. C’era erba alta due metri. Ci siamo ammazzate per rimetterla in piedi. Poi mezzo ettaro di Frappato. Produciamo 2800 bottiglie di Frappato e 3500 di Midia. Il Catarratto è ancora in un tonneau di 500 litri.  Quando chiedo che cosa l’abbia fatta innamorare del vino, la risposta di Manuela è di quelle sincere, umili, vive. Le sue parole sono soavi, flautate, sorridenti. C’è un tale rispetto per le cose che mi confida che è per me un dono.  Io penso che questa tipologia di vino innanzitutto non sposi solo a livello di vino ma per la tua vita a 360 gradi. Se vuoi fare un vino artigianale non si limita a quello. Dai valore alle persone che ci lavorano, ai produttori, alla campagna. Sposi uno stile di vita. Dire naturale è riduttivo. C’è un etica che parte dal non sfruttare le persone che lavorano con te. Non è solo non mettere prodotti chimici in vigna o in cantina. Non compro una carne allevata male ecc. Le persone e il territorio fa tanto. Quando sono arrivata qui sono rimasta colpita dalle espressioni dei vini del territorio e dalla storia che si respira. Che un pò si è persa. In questa parte della Sicilia non sono riusciti a valorizzare la storia. Marsala non è solo vino marsala. Sposare un territorio è difficile. Io l’ho sposata questa causa. Ci sono tanti ragazzi che si sono messi in gioco. Ci sono tanti ragazzi che sono qui e lavorano. Le persone qui sono fantastiche è vero. I giovani, tanti, sono arrivati o sono tornati per fare qualcosa. Li ho visti aprire spot per il kitesurf allo Stagnone e li ho visti con la zappa in mano ad estirpare l’erba per recuperare vigneti. Li ho visti attorno ad un tavolo con il sorriso e la spensieratezza di chi sa di stare bene. Anche se i calli sulle mani prima, quando si viveva in città, non c’erano. Accogliere una ragazza o un ragazzo nuovo, non fa differenza. Magari la fa per gli anziani del luogo che mai avrebbero pensato che una ragazza com Manuela potesse resistere qui, a Marsala. Qui da dove tutti scappano e solo qualcuno ritorna. O arriva. Stando magari il tempo di una stagione.  Mi hanno accolto bene qui ma lavorando in campagna è sempre difficile. L’anno scorso ero in campagna da sola a zappare. Gaia lavora dunque non mi può dare una mano. Ero li e passa un signore con il trattore. Mi guarda e va via. Passa una, due volte poi ferma il trattore e mi dice: mi posso avvicinare? Certo rispondo io. Lui mi dice: guarda che non ti faccio niente. Ma che fai qui? Ho comprato vigna, sono una produttrice. Da dove vieni? Da Roma. Di dove sei? Romana. Ha sei rumena? No, di Roma. Mi ha guardato e non sapendo cosa dire mi ha detto: vuoi una sigaretta?Molti pensano che sarei rimasta pochi giorni. Devi farti valere un pò di più rispetto agli uomini. Ma siamo davvero una grande famiglia. Vinifichiamo tutti da Vincenzo poi. Alla fine ci diamo una mano tutti quanti.  Lavorare con etica. Lavorare con l’idea che un vino debba essere piacevole. Senza difetti. Altrimenti che piacere può dare. Tanta tanta ma davvero tanta attenzione in vigna. Pochi, essenziali, trattamenti dettati anche da un territorio che non ne richiede. Lieviti spontanei e un pò di solforosa prima dell’imbottigliamento. Non serve altro.  L’idea di fare l’università era approfondire le mie conoscenze ed evitare che ci siano problemi. Studiare, conoscere il processo è fondamentale. C’è quella parte teorica che ancora mi manca e per la quale mi affido a Vincenzo. Devo essere indipendente. Dall’altro avere una idea ancora più mia. Capire se il vino sta prendendo una certa piega cosa fare. Facciamo solo il controllo della temperatura perché qui fa caldo. La temperatura ci consente di conservare i profumi. L’idea di Manuela e Gaia è di allargarsi e crescere così da essere sostenibili dando anche a Gaia la possibilità di staccarsi dal suo lavoro. Una crescita legata essenzialmente alle vigne e a ciò che riuscirà a trovare in queste. Una idea romantica davvero. Nessuna voglia di espiantare ciò che troveranno ma valorizzando le piante e l’uva già presente. Il vino sarà una diretta conseguenza. Una vera valorizzazione del territorio. Volevamo partire con un progetto di recupero. Solo che non è sostenibile. La vigna di Catarratto ha necessitato di una potatura corta e necessiterà di due anni per andare in produzione. Abbiamo preso il Grillo per il Midia e rimaniamo con il Frappato. Poi parallelamente stiamo prendendo le altre.  I vini di Manuela e Gaia, al momento, sono due. Midia il bianco da Grillo e Zahia il rosso da Frappato. Midia che è anche il nome dell’azienda è il diminutivo di Emidia, la nonna di Manuela. Zahia, viste le influenze arabe proprie di queste zone, è un nome che porta con se bellezza luminosa e personalità affasciante. Perché devi sempre chiederti che sentori o che caratteristiche meravigliose abbia un vino? Un vino deve essere piacevole e inebriante. Semplice e schietto. Senza fronzoli. Anche perché si tratta “solo” di uva trasformata in altro. Stappi e bevi. Per piacere di farlo da soli o, meglio in compagnia.  Zahia è il Frappato che mantiene il suo vivo colore rubino con riflessi porpora e la capacità di meravigliare grazie a sentori di frutta ancora non matura: melograno, ciliegia, fragola, lampone. Frutta croccante, di quelle appena colte dall’albero. Qualche fiore di campo rosso a completare un semplice ma efficace bouquet. 
Secco in bocca. Fresco e moderatamente caldo. Sapido ovviamente. Un sorso che avvolge per la grande freschezza e soprattutto schiettezza che ricorda vini di altri tempi. Il sapore rimane in bocca il giusto tempo perché se ne possa assaporare un ulteriore sorso. Non serve berlo a temperatura molto elevata: direi tra i 12 e i 14°.
A me ha ricordato appieno la Sicilia. Un vino che sa di vino!!! Midia da Grillo. Colore giallo quasi dorato. I sentori semplici mi fanno piombare direttamente in Sicilia. Chiudo gli occhi e respirando sento chiaramente i fiori di zagara, le pesche, le mandorle, la salinità del mare e la dolcezza della Sicilia. I fiori di pesco, le ciliegie bianche, la pasta di mandorle che diventa frutta martorana. Le note dolci del miele. Le arance tarocco, i mandarini. Il finocchietto selvatico. In questi odori c’è tanto di Sicilia. Mi commuovo per il trasporto che sto avendo. Anche se capisco che bisogna esserci stati per capire. 
Il sorso porta con se i contrasti della Sicilia grazie ad una innata freschezza. Un sorso che ami o o che odi ma se lo ami o se ci convivi, non lo lasci più per il suo calore, per l’avvolgenza, per la sapidità portata dal vento del mare. Un vino che ti trasporta come il vento nell’entroterra siciliano, in quelle in quelle terre dove poi sentire l’odore del mare a ricordare che sempre su un’isola sei. Persistenza non elevatissima ma comunque buona per un vino vino bianco. Bilanciamento perfetto. Un vino non artefatto, non elaborato, semplice, diretto, schietto. Vivo. Di quei vini che sceglierei per bere con gli amici in una serata d’estate accompagnandolo con insalata di riso, una pasta ‘ncasciata, un pane cunzato o ancora meglio, con la pasta con le sarde condito con quel finocchietto selvatico che è lo stesso che ti sei trovato al naso. 
Davvero intenso. Davvero unico. Davvero mi piace. Brave, brave  Un compagno a Roma con vigna in Puglia. Manuela in Sicilia a far la trottola su e giù. Una vita difficile ma che la rende felice. Il suo sorriso è delicato. La sua espressione è di appagamento. Stanchezza tanta ma di quella stanchezza che ti fa voltare indietro apprezzando la giornata appena trascorsa. A volte penso di stare in un altro posto. Ma sono pensieri di momenti in cui si è stanchi. La mentalità qui è difficile e ti scontri con determinate cose. Trovi immondizia da tutte le parti e non te lo spieghi. Forse in un altro posto le cose sono diverse ma qui il territorio è pazzesco. La storia, il mare, le persone. Ogni tanto mi fanno arrabbiare ma poi sono splendidi. Come i giovani che sono tutte persone meravigliose. Io rimango sempre positiva e fiduciosa.  Sono parole di amore per la terra che l’ha accolta. Per le persone che le gravitano attorno. Per il vento che spira. Per il mare. Per il sole. Per la terra. Per gli amici. Per i sorrisi. Per le lacrime.  Spero di portare in giro il territorio attraverso i miei vini. Parlare di Marsala attraverso i vini. Nei miei vini come in quelli dei ragazzi qui, Marsala parla. I vitigni, il sole, il mare, il sale. Solo assaggiando i vini si sente la varietà del territorio. Da quelli che si affacciano sul mare a quelli dell’entroterra. La bellezza del territorio è la diversità dei suoli. C’è tutto qui. Siamo sei produttori che vinifichiamo da Vincenzo su terreni diversi. Il Grillo ad esempio è completamente diverso per ogni terreno. Annata e terreno fanno il vino. Insieme al sole.  36 anni Manuela, 35 Gaia. La realizzazione del sogno, del loro sogno, si concretizzerà nella seconda parte della loro vita. Sono la dimostrazione di come si sia sempre artefici della propria esistenza. Quando si ha una idea e un progetto, quando ci si crede veramente, quando si realizza che il sogno può diventare realtà, le cose accadono. Ma devi farle accadere tu. Ritrovandoti sotto il sole cocente e con una zappa in mano. Con il vento freddo e quello caldo. Con il sole che ti acceca e il sudore che ti fa appiccicare la maglia alla pelle. La ricompensa? Un sorriso e una meravigliosa, sublime, sensazione di appagamento. Null’altro che questo.     van Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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21 Giugno, 2024

Ca' Moranda. Serena, la forza di un sorriso

E niente, c’è poco da fare. Quando mi trovo ad incontrare donne che lavorano in questo settore non posso che constatare la marcia in più che hanno. Sarà che nel mondo contadino le donne hanno sempre avuto un ruolo marginale, di secondo piano rispetto all’uomo anche se comunque sempre attive in azienda. Non è un senso di riscatto quello che vedo. Non c’è voglia di rivalsa, di prendersi una rivincita, di far veder che si è in grado. Nulla di tutto questo. C’è solo la possibilità di guidare l’azienda che fu del nonno prima, e del padre poi. Nella serenità più totale. Con il papà super contento nel vedere la figlia competente e felice. Serena Montalto felice lo è anche lei tanto che dialogare è piacevolissimo per via di quel sorriso, vero e caldo, sempre presente. È felice. È felice così. Per la scelta di aver preso le redini dell’azienda. Prese senza lottare ma con quella decisione e fermezza che, agli occhi di un genitore, non può che voler dire: è pronta! I miei nonni E i miei bisnonni lavoravano nelle vigne. Come tutti nelle Langhe. L’azienda è sempre esistita. Vendevano l’uva e il vino sfuso. Da quando sono entrata io nel 2018 abbiamo iniziato ad imbottigliare. Siamo a Neviglie. Un paesino ad un quarto d’ora da Alba, un pò a margine delle Langhe, quelle dei grandi Barolo, delle vigne costosissime. Il vero Piemonte è questo però. Quello delle cascine dove ogni famiglia contadina vive e lavora la terra. Il Piemonte delle tradizioni che predilige cibo buono e vino schietto, genuino. Si comprava sfuso con le damigiane d riempiere dai carretti in piazza Savona ad Alba o direttamente in cantina. L’uva un tempo la si coltivava non per produrre le bottiglie che tanto non comprava nessuno perché i soldi erano pochi. La si coltivava per venderla al pari delle altre colture. Al massimo la si conferiva alla Cantina Sociale e quel che rimaneva, visto che ne rimaneva tanta visto l’abbondanza produzione, via nei fiaschi! Le vigne sono un pò a Neviglie e un po’ a Neive. Per un totale di 10 ettari. Sono le due cascine di mia mamma e di mio padre messe assieme. Non che fosse stato un matrimonio combinato quello di papà Dino e mamma Anna. Però capitava che ci si conosceva tra contadini. In fondo, i due paesi, dunque le due cascine erano distanti poco meno di sei km.
Anna e Dino. Sono loro che si occupano della cascina di Dino a Neviglie, unico dei sette fratelli a voler rimanere a lavorare la terra. Si occupano anche della cascina di Anna a Neive quando il papà non ce la fa più a portare avanti il lavoro. È proprio quando viene a mancare che occorre decidere cosa fare della cascina e delle terre. Mio nonno di Neive è mancato e si dovette decidere cosa fare della cascina. Prenderla noi, dividerla a metà con la sorella di mia madre. Venderla. Abbiamo preso tutto noi e visto che a Neive si può fare il Barbaresco mentre a Neviglie no, abbiamo fatto il barbaresco. Con la regione Piemonte abbiamo avuto degli incentivi per i giovani in azienda. Serena ha 32 anni. Quando ne ha 26 e una laurea in Economia e Commercio, magari qualche sogno nel cassetto, decide di prendere lei in mano l’azienda.
Le donne sono meravigliosamente così. Sanno di essere pronte o forse sono nate pronte. Magari se ne stanno in disparte per cultura o per rispetto. Quando però c’è da farsi avanti, sono dei treni che iniziano la corsa. Non si fermano, non hanno paura, non tentennano. Serena è così. A 26 anni non vuole perdere l’occasione di gestire lei l’azienda di famiglia. Giù senza paura. Quando uno nasce in questo mondo non è che torna. C’è sempre dentro. è stata solo una cosa di fermarmi a casa e dire che dovevo stare qui. Ho deciso io perché a me piace questo mondo. Ho detto io che volevo gestire. L’ho detto alla mamma perché figlia unica e le terre erano sue o potevano diventare sue. Serena è una di quelle persone, di quelle donne che ti fregano sorridendo. In senso buono eh!
Quello che voglio dire è che Serena sa il fatto suo. È tosta, sa prendere le decisioni, è determinata, precisa, puntigliosa. Ma ti dice le cose con il sorriso. Ecco perché ti frega. Ovvero ci sa fare e ci sa fare bene.
Il suo ingresso in azienda vuol dire mettere in piedi tante cose. Una dietro l’altra con una determinazione e una programmazione da far invidia ad una grande azienda.
Anzitutto la sovvenzione da parte della Regione. Serena si studia tutto e oltre a prendere i finanziamenti che usa per creare la sala degustazioni, si mette in graduatoria per trasformare la vigna di Chardonnay in Alta Langa. Con il Nebbiolo di Neive, inizia a realizzare il Barbaresco comprando botti, pigiatrice. Coibenta la cantina. Crea le etichette per i vini. Rimette a posto tutte le vigne convertendo le in biologico. Mica poco! In cantina ancora non siamo biologici perché dobbiamo fare tante scartoffie e sono sola. Con mio padre qualcosa è cambiato ma con me è cambiato proprio tutto. Lo sfuso ok ma con le bottiglie è diverso. Già devi studiare le etichette in un mondo dove ce ne sono migliaia. Ovviamente tiri fuori la tua storia con l’apostrofo, la foto di famiglia con mio nonno e mio zio che con il carretto attraversano le vigne negli anni 50. Tutte le bottiglie hanno un nome o di fantasia o della nostra storia. Il dolcetto Ottavio è dedicato a mio nonno che piantò le vigne. Sono nata nei filari, mi piace il vino. Sono contenta Le etichette sono davvero belle con l’accento sulla a di “Ca Moranda” si prende la scena contenendo comunque al suo interno la storia. Un accento che magari sta a porre l’attenzione su di lei. Un rafforzamento della propria presenza comunque legata ad una identità, una storia.
Quando le chiedo come mai non abbia studiato agraria o enologia la sua è una risposta che sembra scontata ma non l’ho è affatto. È però lo specchio dei tempi. Di una generazione che forse rifiutava il lavoro dei genitori, la terra, la fatica, le delusioni. Che mirava a qualcos’altro non sapendo che ciò che ti lega alla terra è un cordone ombelicale impossibile da recidere. Poi è anche vero che il movimento del vino oggi attrae molto. Ritornare può essere più semplice. O sembrare tale. Quando sei piccolino, quando scegli la scuola, non sai bene cosa vuoi dalla vita. Mi vedevo prima come veterinario, poi come notaio. Poi siamo passati a fare l’imprenditrice. L’amore per le vigne e il tuo lavoro te lo porta il fatto di esserci nato. In una azienda famigliare, qualunque azienda, l’amore ti viene. Quando ho visto uscire la mia prima bottiglia con il vino che a me piace, con l’etichetta che avevo creato, è stata una grande soddisfazione. È come un bimbo che nasce. Così quando ti chiedono quale è quello che ti piace di più, è difficile. Perché sono tutti bimbi tuoi. La delicatezza di Serena prende il sopravvento mantenendo comunque il suo sorriso. Quasi a rendere più leggero il discorso. L’atmosfera. In un contesto che comunque è difficile. Perché affermarsi è difficile in questo mondo.
Dieci ettari e poco più di ventimila bottiglie (continuando a fare lo sfuso) per una azienda dove lavorano comunque mamma Anna e papà Dino, sono comunque impegnativi.
A proposito. Quando scrivo questo articolo Serena si è appena sposata con il fidanzato storico, Claudio. Anche lui produttore di uva nell’azienda della famiglia e che ogni tanto da una mano a Serena. Sono dieci anni che ci conosciamo. Sin da piccola avevo deciso di sposarmi dunque mi sposo.
Vorrei andare in giro per il mondo a vendere il vino. Mi vedo come una famiglia normale, con i figli. Mamma e suocera per forza di cose mi daranno una mano. Una vita alla quale Serena non rinuncerebbe per nulla al mondo. Oggi, è palese la sua soddisfazione. Come si può toccare con mano la sua felicità che è anche quella dei genitori che vedono l’azienda andare avanti. In buone mani. Nelle Langhe vedere una donna al comando è sempre stato difficile. Le femmine dovevano stare dietro. Mio nonno Pietro diceva di una donna “È solo una femmina”. Oggi sarebbe molto contento. Gli ho dedicato il Nebbiolo. Serena è divertente e dolce. Sorride. Anzi ride. Di gusto. Leggiadra. Felice. Consapevole di aver fatto la scelta giusta. Consapevole della sua vita e del suo futuro.
Oggi in gamma sette etichette. Tutte identitarie del territorio. Un Dolcetto, una Barbera, un Nebbiolo, un Barbaresco. Poi due bianchi e un moscato. La Barbera mi rappresenta di più. Perché la Barbera per me è femmina. È stata dedicata alla mia bisnonna Catlinin, Caterina. Era una vera donna di una volta, quelle con il pelo sullo stomaco. Il moscato è invece è dedicato a me. perché dolce. Il Barbaresco è Ancermò che nella lingua piemontese vuol dire forza, la potenza. Quando l’ho bevuto mi è venuta in mente la figura di un ballerino che danza sulle punte con la capacità di muoversi toccando terra solo per il tempo necessario a spiccare il volo. Un vino elegantissimo al naso per le sue note che sanno di frutta ancora acerba e polposa. Prugna, ribes, arancia. Soprattutto fini note vegetali che lo collegano alla erra: fiori rossi di campo e castagno. La preziosità è quella del tabacco e del cioccolato amaro che scrocchia sotto i denti.
In bocca la danza si fa passionale ed intensa. Arriva subito la freschezza e sapidità che si uniscono ai tannini, forti e caparbi ma poi morbidi e sensuali. Segue la sensazione di arancia che arriva a danzare in bocca, non a riempirla, non a renderla pastosa, ma a bilanciare le sensazioni creando armonia. La parte inferiore della bocca è pervasa dagli agrumi mentre il palato continua a sentire i tannini aspettando cosi un nuovo sorso. Persistenza buona e chiusura di bocca al limite dell’eleganza. Un vino che ricorda il vero Piemonte per forza e freschezza e che abbinerei tranquillamente ad un formaggio. Una ottima interpretazione di Nebbiolo. Il prossimo anno uscirà un altro Barbaresco visto che abbiamo due menzioni geografiche. Ancermò è un blend tra le due menzioni. Dal prossimo anno uscirà il Bricco di Neive. La differenza sarà dal tempo di permanenza in legno e dalla grandezza di questo. La vigna di Neive è più alta e cambia anche l’esposizione. Sarà un vino diverso. Catlinin è la femmina, la Barbera d’Alba. La Barbera ha più struttura e grado alcolico di un tempo perché diradiamo e la raccogliamo più avanti. Non facciamo il legno perché la terra di Neive rilascia la morbidezza senza legno dunque senza essere Superiore. Fa un anno di bottiglia. Anche se non me lo avesse detto Serena, questa Barbera sarebbe stata femmina. La doppia anima di eleganze e sinuosità che si unisce a semplicità e leggerezza.
Quando lo verso nel calice è così limpido e trasparente che vedo distintamente le mie dita. I sentori sono immediatamente vinosi come si compete ad una Barbera. Sentori che sanno di freschezza con fiori rossi e sottobosco ancora verde. Si la frutta non particolarmente matura, certo, ma questa vivacità lo rende brioso.
Il sorso, in perfetta continuità con il naso è fresco, caldo, secco. Soprattutto avvolgente con una setosa sensazione di frutta grazie a tannini delicati e maturi senza per questo essere banale e scontata. Persistenza decisamente buona ma non lunga così che per una merenda o un pranzo domenicale ci sta alla grande. Lo berrei anche senza alcun accompagnamento.
Una Barbera che sa di Barbera e della quale nonna Catlinin ne sarebbe fiera. Il Nebbiolo Pietro II dedicato al nonno. Il Nebbiolo che non diventa Barbaresco e che si differenzia da questo in maniera concreta e decisa. Un vino determinato che si contrappone all’Ancermò ma senza sfidarlo, senza essere contro. Anzi, a rafforzare il concetto di Nebbiolo. Non ha la finezza del Barbaresco ma di questo mantiene la vigoria. Il Nebbiolo vien lavorato diversamente dal Barbaresco. In quest’ultimo facciamo una parte in acciaio poi botte grande e tonneau per 15 mesi circa poi bottiglia. Nell’imbottigliamento facciamo il taglio. Il Nebbiolo rimane circa un anno nel tonneau. Le vigne sono vicine al Bricco di Neive e al Bricco Micca. Sono vicini come vigne dunque ciò che cambia è la cantina. Raccogliamo tutto a mano dunque l’uva arriva sana in cantina. Lo Chardonnay Bon’imor ovvero il buon umore. Un vino semplice ma efficace. Di quelli che si bevono senza pensieri e senza tante sovrastrutture come a dire che il vino è buono anche così. Semplice nel colore paglierino con riflessi verdognoli. Semplice nei sentori di mela verde, prugna gialla acerba e pera; fiori di biancospino ed erba appena tagliata. Semplice nel sorso fresco e moderatamente caldo con la sapidità che dona leggerezza e spensieratezza. Un finale amarognolo che ti proietta in un campo erboso di una giornata di primavera. Ecco, con un vino così ci si può immaginare su un plaid a quadrotti a fare un picnic in una assolata, ma non calda, domenica di aprile. Sorseggiare un fresco calice di Bon’imor, mangiando anche un panino o una insalata di riso, rende felici e spensierati. La pulizia di bocca sarà meravigliosa e la bottiglia, da sola, non basterà. Occorre una piccola scorta! Il Dolcetto Ottavio. Il Dolcetto piemontese, quello semplice, schietto, vero. Il suo colore rubino, non intenso, non strutturato lascia intravedere l’immediatezza di questo vino. Il naso nel calice identifica facilmente la ciliegia e la rosa, la prugna e la peonia. Poco altro perché un Dolcetto deve essere semplice, non strutturato. Non certo “amabile” ma senza dubbio immediatamente fruibile. Pronto appena si stappa per versarlo nei calici senza perdere tempo. L’Arneis Bon’ora (dal nome della vigna) è il classicissimo Arneis. Un olfatto semplice di pesca bianca e fiori bianchi di campo. Una freschezza che si ritrova anche al sorso. Conquista per la sua schiettezza e semplicità risultando un vino che si beve con piacere dall’aperitivo alla tavola senza soluzione di continuità. Una bottiglia si finisce e anche in fretta. Mai averne una sola disponibile! Il Moscato d’Asti Duenovedue Serena se lo è dedicato. L’ha dedicato alla sua dolcezza. Impossibile darle torto. Duenovedue è la sua data di nascita dunque fatele gli auguri ogni quattro anni! Presto arriverà l’Alta Langa che Serena aspetta tanto. C’è un enologo. Alcune leggi le detta lui altre noi. Io una cosa che voglio sia cosi è che ci siano pochi solfiti perché anche io ne soffro la presenza. Il Barbaresco deve stare nove mesi ma noi lo facciamo stare di più. Poi acciaio. Ferma, decisa, dolce. Idee chiare. Tanta voglia di vivere. Questo è Serena. Questa è Ca’ Moranda. Serena ha reso questa giovane azienda sostenibile e dinamica. L’ha portata ad una dimensione imprenditoriale con la voglia, non la semplice speranza, di farla crescere. Sono assolutamente certo che ci riuscirà perché è una ragazza, una donna forte ma che sa prendere la vita con il sorriso. Vai Serena vai!     Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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14 Giugno, 2024

Komjanc Alessio. La famiglia. Družina

Non parlo sloveno. Sono italiana. Anche se ora dalla finestra vedo le case della Slovenia. Italia. Slovenia. Confine. Terre di confine. Popoli che si uniscono o si dividono. Confini fisici che non sono quelli delle persone. Non esistono se non sulle carte geografiche, nelle competenze degli enti locali, degli stati sovrani. Mentre le persone, attraversano e attraversavano il confine nazionale senza curarsi della diversa nazionalità o etnia. Come se la nazionalità poi fosse un muro divisorio di culture: io di qui, tu di li. Diversi. Ma perché?
Solo una guerra può costringere le persone a restare da una delle due parti. Magari a combattere l’amico aldilà di quello stupido, imposto, confine. Magari invece a resistere. Insieme. Un uomo nato in Italia da madre italiana e da padre ignoto che cos’è?
Aspetti un momento mi lasci riflettere…nato in Italia..madre italiana…padre ignoto..è italiano!
Arrivederci
È sicuro che è italiano?
Sicuro
Ma se alla nascita è stato dichiarato al municipio francese, che cos’è?
Questo è un pochino più difficile. Nato in Italia…madre italiana…padre ignoto…ma dichiarato al municipio francese…è francese
È francese! Hai visto? La legge è legge, è un film del 1958 con gli indimenticabili Totò e Fernandel. Nel paesino immaginario di Assola, con la via principale a fare da confine tra Italia e Francia, i due nemici amici danno vita ad una spassosissima storia all’insegna proprio del rapporto tra persone di confine. Una guardia, l’altro ladro. Pur sempre persone. Che si conoscono da una vita. Indipendentemente dalla nazionalità.
Francia, Slovenia, Austria, Svizzera. Che cambia? Quando c’è un confine, tutto si miscela. Tutto diventa più sfumato. Filo spinato. Fiumi. Muri. Tutto si supera. Il confine con la Slovenia vuol dire Collio. Un meraviglioso territorio melting pot di due popoli in grado di produrre fantastici vini colmi di mineralità, eleganza, finezza, profumi e freschezza. Identità.
Un territorio incastonato tra le alpi e il mare, conteso da chi passava di li. La Grande Guerra a fare da spartiacque temporale: l’Austria prima, l’Italia dopo. I tedeschi nella Seconda Guerra Mondiale, le milizie di Tito e la nascente Jugoslavia poi. Repubblica Slovena e Italia alla fine. In pace. Così come la pace che regna in queste zone. Anche se per alcuni essere italiani, non sloveni o sloveni, non italiani è un vanto. Un orgoglio. Alessio Komjanc oggi ha superato gli ottanta anni. È lui la seconda delle tre generazioni della famiglia che produce vino. Famiglia. Družina.La famiglia che c’è e ci sarà. Qui a Giasbana, piccola frazione di San Floriano del Collio, a pochi metri dal confine con la Slovenia, l’azienda Alessio Komjanc e figli è davvero una azienda di famiglia. Di quelle che fanno tutto da loro. Che si sono strutturati per fare le cose da se. In famiglia. Siamo una famiglia da sempre e vogliamo rimanere tali. Siamo qui da inizio 800 e siamo da sempre viti viticoltori. Fino agli anni 70 questa era una azienda promiscua. Così erano le realtà e non solo nel Collio. Nessuno produceva vino per venderlo. Almeno in Italia dove le campagne si spopolavano.
Neanche lo si imbottigliava. Damigiane o sfuso. Per riempire le damigiane. Mio suocero negli anni 70, dopo aver lavorato con il padre e ricevuto da questo qualche appezzamento, decise di mettersi in proprio partendo con la viticoltura. Impianta i primi vigneti con l’idea di una azienda di sola viticoltura. Costruisce poi la cantina e ai primi anni 80 inserisce la linea di imbottigliamento per completare tutta la filiera. La prima bottiglia che abbiamo trovato è del 1973. La lungimiranza di una persona semplice che ha alle spalle l’esperienza della famiglia ma non gli studi. Studiare era per pochi e se abiti in una terra di confine, ancora per meno.
Alle viti aggiunge, negli anni 80, gli ulivi abbandonati nel Collio dopo il 1929.
Fino a quella data qui c’erano frutteti, vigneti ed oliveti. Il 1929 segna per l’Europa una delle ondate di freddo, intensa e inaspettata, più severe del secolo scorso (forse anche di quello attuale). Si ripeté in maniera simile solo nel 1956 e nel 1985. Arrivarono 30 cm di neve a Roma, 20 a Napoli, 70 a Bari. Figuriamoci qui nel Collio, porta di accesso all’Europa continentale e balcanica. Le coltivazioni furono devastate aggiungendo così alla macerie della guerra e della successiva crisi economica, solo altra povertà. Le persone erano già scappate per via della guerra e le gelate diedero la mazzata finale a chi rimase. Solo nel 1970 i monaci dell’Abbazia di Rosazzo provarono a reimpiantare qualche pianta di olivo per capirne la resistenza. Con la speranza, magari accompagnata da qualche preghiera, di non rivedere più quel freddo Mio suocero ha sei figli. Provò ad impiantare gli olivi dicendo “al limite faccio l’olio per la famiglia”. Adesso ci sono circa 2000 piante. 24 ettari a vite, 52 ettari ad olivo, 2 ettari a bosco. Una azienda, quella di Alessio, cresciuta nell’ottica della sostenibilità. Abbiamo avuto da sempre i vigneti inerbiti ed il bosco. Va di modo la sostenibilità, la biodiversità. Ma qui non hanno mai estirpato nulla. Mai tagliato i boschi per coltivare la vite. Non hanno impiantato selvaggiamente. Ci sono molti cacciatori anche in famiglia e ci tengono. Tutto serve a mantenere un certo equilibrio. Un legame con la terra. Un legame con le persone. Un legame all’interno della famiglia. Tutto per la famiglia.
Qui ogni legame è forte e duraturo. Si lavora e si lavora tanto. Senza mai tirarsi indietro. Perché solo così, con il lavoro, si cementano i rapporti all’interno della famiglia.
La famiglia.
Alessio è una di quelle persone che ha lavorato tanto desiderando tanto. Non per se. Per la famiglia. Numerosa. Come erano le famiglie di un tempo nelle quali servivano braccia forti per mandare avanti l’azienda. Sei figli. Quattro maschi: Beniamin, Roberto, Patrik, Ivan che nel 2004 si cementano per mandare avanti l’azienda di famiglia.
La famiglia.
L’intelligenza e la lungimiranza hanno posto le basi per una ripartizione di compiti. Difficile pensare di mandare avanti l’azienda con tutti a fare tutto. Evitare i contrasti attraverso specifici ruoli e rispetto reciproco. È cosi che Beniamin, Patrik e Ivan si dedicano alla terra aiutando papà Alessio; Roberto in cantina e la parte commerciale. Quattro figli a casa possono rappresentare una difficoltà. Nati qui in questa azienda, che è casa. Ci si sente a casa con la voglia e la libertà di dire tutto ciò che si vuole. L’intelligenza del dividere i compiti. La sensibilità e l’ulteriore grande prova di intelligenza, di tutti, nel rispettarli. Le decisioni importanti si prendono insieme ma poi ognuno nel proprio ambito È qui che entra in gioco Raffaella, la moglie di Roberto. È con lei che parlo. È lei che mi guida. Una donna venuta dal Friuli e che incontra l’amore, Roberto, a Milano. Entrambi studiano all’università. Roberto agronomia, Raffaella lingue. L’amore e il sogno di fare qualcosa insieme si legano alla difficoltà di due facoltà che poco hanno da spartire. Io vengo da studi linguistici a Milano e lavoravo con le lingue. Poi ci siamo sposati. Da studenti l’idea era di lavorare insieme. Lui faceva agraria, io lingue e ci sembrava un pò difficile. La fortuna era che lui aveva l’azienda a casa e ci siamo buttati. Buttati. Altro che buttati. È un salto quantico. Una sfida che ha in se due forze incredibili. La prima è ovviamente l’amore tra Roberto e Raffaella. La seconda è lo spirito di Raffaella che la porta a compenetrarsi così tanto nell’azienda e nella famiglia Komjanc che diventa parte di essa. Alessio aveva lasciato un pò andare la parte commerciale. Un figlio solo che lavorava in azienda ma in campagna. Erano gli anni 90, quelli nei quali molti nascevano molte aziende per via della fine della mezzadria. Alessio si è sentito in difficoltà. Roberto è intervenuto dicendo che l’azienda era seduta sull’oro del Collio e occorreva sfruttarlo. Abbiamo rinunciato entrambi a qualcosa. La donna con la quale parlo è una della famiglia. Lei non parla con il benché minimo distacco. Vive l’azienda e la famiglia come se ci fosse nata. Non ci sono tentennamenti. Non c’è nulla che possa far apparire, neanche minimamente, una incertezza. Mancano due sorelle che non lavorano in azienda. C’è anche qualche cognata che occasionalmente è in azienda. Siamo cinque famiglie che lavorano in questa azienda. Ci teniamo a rimanere azienda familiare perché per noi è un valore. Per quanto si voglia mantenere una certa filosofia, con altri dipendenti si perde quello spirito. I vini sono un omaggio ai vitigni autoctoni. Ci sono, come è tradizione in queste zone, tutti i bianchi consentiti dal disciplinare della DOC mentre per il rosso lo Schioppettino, autoctono ma non nella DOC. Dunque IGT. Poi il Pinot Nero, presente già negli anni 70. Nei documenti del Collio di inizio 900 il Pinot Nero era presente. Dunque è stato mantenuto. Noi siamo imparentati con l’Alto Adige e quella cultura. In effetti, i conti di Gorizia annetterono alla Contea, nella metà del XIII secolo, il Tirolo creando legami solidi anche con il vino e i vitigni. Legami solidi che si aggiunsero alla mescolanza del confine. Il Pinot Nero è stato impiantato negli anni 70. Le vigne sono esposte a nord ovest nella parte bassa della collina ai margini di un bosco. Una zona molto fresca che bene si addice al vitigno. Diciotto sono le tipologie di vino. Tanti? Forse si, forse no. Alessio, mio suocero desidera sempre avere tanto. Tanti ettari, tanti figli, tanti vitigni. Dunque tanti vini. Lui nasce nell’epoca dove ha fatto anche la fame. La sua mentalità era anche produrre tanto ma noi siamo riusciti a ridurre drasticamente la produzione per ettaro. Con la consulenza enologica che abbiamo, vengono bene dunque, perché dismetterli? Diciotto tipologie di vino rappresentano a pieno la capacità espressiva del territorio. La mescolanza porta frutti meravigliosi come a dire che le differenze, arricchiscono. Specialmente in una terra, il Collio, in grado di far esprimere al meglio anche varietà differenti. Con tutte le difficoltà del caso. Una difficolta e una fatica. Iniziamo la vendemmia, negli ultimi anni ad agosto, con Sauvignon, Pinot Grigio e Pinot Nero, la finiamo con lo Schioppettino, 45 giorni dopo. Se aggiungiamo pure il Picolit, che facciamo passito, un anno lo abbiamo pressato alla vigilia di Natale. Una fatica! In ognuno dei vini di Alessio Komjanc e figli c’è eleganza e tipicità. Tipicità nel lavorare vitigni autoctoni rispettando ciò che il Collio riesce ad esprimere. Rispettando la natura. Senza eccessi e con intelligenza. Rispettando la famiglia. Roberto, che si occupa anche del campionamento, quando assaggia l’uva nel momento migliore, dice: da sempre io voglio ritrovare nel bicchiere quello che sento nell’acino quando è matura. In cantina occorre rispettare questo. Siamo in agricoltura integrata dettata da una scelta oculata. Attaccati al territorio, siamo i primi consumatori e non vogliamo porcherie. La zona è abbastanza piovosa e grazie alla escursione termica, l’aromaticità è una componente essenziale. Fare biologico vorrebbe dire eseguire dei trattamenti con rame che potrebbero abbassare l’aromaticità dell’uva nei vini. Vogliamo mantenere vini nei quali si esprimano bene gli aromi primari. Siamo dunque una via di mezzo come agricoltura. Noi facevamo già quello che prevedeva il disciplinare dell’agricoltura integrata. Ci siamo accorti che non ci discostavamo. Il biologico ci limita. Proprio da parole come questo si capisce come Raffaella sia compenetrata nell’azienda. Sembra appartenere alla famiglia e alla storia. Parla dei familiari con rispetto passione ed amore così che la storia è anche sua. Avremmo voluto fare il Pignolo. Non l’abbiamo fatto perché ci spaventava. Tutti ci hanno sconsigliato. Dicevano che era da diventate matti. Ci attrae però. Anche il Pinot Nero ci sta facendo impazzire perché non tutti gli anni si raggiungono gli obiettivi che ci siamo posti. L’enologo è Gianni Menotti. Figlio di questo territorio dove conserva la anima. Da qui e per qui ha inanellato per le sue creazioni premi su premi. È una consulenza esterna. Lui nasce agronomo dunque ci fa supporto anche nelle vigne. Con lui abbiamo fatto un salto davvero. 80.000 bottiglie. 18 vini. 9 vitigni a bacca bianca. 4 a bacca rossa. Un immenso patrimonio di culture riunito nelle nuove etichette studiate, anzi, lasciate studiare per loro. I vini
Partiamo dal Pinot Nero Dedica. Il più internazionale e il più locale al tempo stesso. Qui assume colore e sentori finissimi anche grazie ai due anni di affinamento in tonneaux. Piccoli frutti rossi ancora non matura che si uniscono ad arancia e prugna per poi lasciare spazio al sottobosco erbaceo, ai fiori di peonia e rosa. Il balsamico ci ricorda a pieno dove siamo preparandoci a percepire le note speziate di pepe che pungono il naso. Poi nasce moscata e cannella per un bouquet di rara finezza.
Il sorso è caldo, fresco, secco con buona mineralità. I tannini maturi non aggrediscono anzi, contribuiscono a sottolineare la sensazione di finezza. Bilanciamento ottimo e persistenza non particolarmente lunga con una frutta che rimane a far compagnia senza essere invadente. Elegante! Bratje in lingua slovena significa fratelli. Roberto, Ivan, Beniamin, Patrik sono i fratelli Komjanc. Chardonnay, Riesling Italico, Friuliano, Pinot Bianco i vitigni che compongono Bratje. La sequenza non è a caso: ogni vitigno rispecchia la personalità di ognuno e la loro fusione in acciaio, con il solo Pinot Bianco che che affina in tonneaux per 12 mesi, da vita ad un vino interessantissimo.
Un vino che è un vero abbraccio tra fratelli: caldo e caldo (ovvero ad almeno 10°) va bevuto così che i sentori possano arrivano nella loro completezza alleviando tutte le spigolature.
Il naso è di pera, frutti tropicale, agrumi, vaniglia e cera d’api. Morbidezza di velluto che solo una scorsa di limone candito prova a scalfire con un pizzico di brio. La sensazione è di sentori dolci accarezzati da una fresca brezza.
In bocca è fresco e secco ma soprattutto caldo, morbido e con una grandissima mineralità. La sensazione di morbidezza lascia il campo ad una astringenza che deve essere compensata con un qualcosa di succulento. Con lo scaldarsi la persistenza aumenta e la bocca rimane pulitissma con le note di frutta che diventano spezie. Torna l’agrume del naso che abbraccia morbidamente la bocca. Un vino complesso, particolare e identitario dell’azienda. Verticale ma solo quando la morbidezza lo consente. Ho ritrovato dentro il Collio e, soprattutto, il confine tra morbidezza e durezza che fondendosi aiutano a far capire quanto in famiglia i confini, non esistano. Chardonnay Dedica 2021. Non un semplice Chardonnay ma un elegante bouquet di fiori e frutta che spiazza e meraviglia. Fine, complesso, unico anche grazie ad un passaggio a metà fermentazione e per 12 mesi in tonneaux.
Al naso mi ha spiazzato. L’etichetta recita Chardonnay, il naso dice altro per via degli agrumi che si miscelano alla pera, alla pesca di mio padre messa nel vino, alla banana e, soprattutto, a salvia e mentuccia. Poi arrivano i fiori freschi che danno una ventata di campo fiorito: lavanda, margherite e fiori di camomilla che arrivano ad essere miele al limone. Difficile voler togliere il naso dal calice.
Il sorso è secco e morbido. Perfettamente in linea con lo stile della Komjanc. Grande avvoglenza e un finale di bocca molto ma molto convincente. La mineralità anche qui è presente in maniera evidente. La bocca si bea di una ampiezza iniziale che si trasforma poi in verticalità spinta con la mineralità che continua legandosi ad una sensazione di calore non eccessiva ma vivace (nonostante i suoi 15°). La temperatura di servizio non può essere superiore agli 8° altrimenti l’alcol si sentirebbe troppo.
Insomma, le sensazioni che questo vino fornisce sono indubbiamente eleganti e fine. Mi è piaciuto per la sua “vivibilità” e per essere uno Chardonnay atipico ma nobilitato. Non si può non finire la bottiglia. Malvasia IGT. Identitaria, pulita, memorabile. Mi è piaciuta e molto già al naso per le note olfattive semplici ma pulite. La pesca bianca, la pera, l’arancia (quella arancione con la buccia sottile), i fiori di camomilla e le margherite di campo. Niente è banale. Niente è complesso. Ma tutto preciso, puntuale, identitario.
Altrettanto il sorso niente affatto banale. Deciso e fine senza essere grandemente aromatico come magari ci si aspetterebbe da una Malvasia. Niente di opulento o sovrastrutturato. Bella freschezza, bella pulizia di bocca, bella sapidità. Il calore? Non si sente ma è traditore.I suoi 14° sono celati, nascosti dietro una superba morbidezza mai stucchevole, dietro una ampiezza di bocca ammirevole, dietro un suo essere buono ma buono. Proprio questo abilita a berne e berne ancora così che poi, gioco forza, i gradi si sentono tutti. La persistenza con il calore si allunga ma attenzione alla temperatura di servizio ovvero a non farlo scaldare troppo perché potrebbe dare un finale verso l’amaricante. Ma non credo si corra questo rischio! Sauvignon 2022. I frutti qui la fanno da padrone. Pera, mela, melone, pesca a pasta bianca, ananas, mango, albicocca. Poi agrumi. Frutti vivi e polposi che inebriano e conquistano. I fiori di biancospino e le note balsamiche donano freschezza consentendo al naso di percepire meglio i sentori. Insomma, sentori molto ma molto piacevoli grazie ad una altalenanza di freschezze e morbidezze. Mai stucchevoli. Piacevolmente estivi.
In bocca la prima sensazione è quella dell’agrume misto alla pesca. Che piacevolezza! Fresco, secco, estremamente sapido da subito e un calore che non parte immediatamente ma è progressivo. In fondo, sempre 14° ha questo Sauvignon. Ottimo equilibrio e una bocca che chiude piacevolmente. Un vino estremamente verticale che si lascia bere soprattutto per una non stucchevolezza. Lascia in bocca la giusta secchezza che merita di essere accompagnata con una pasta al pesce o con vongole ad esempio. Di grande carattere insomma. Di seria identità. Pinot Grigio 2022. Già il colore paglierino al limite del dorato lo differenzia dagli altri. Mantiene però il carattere dei Komjanc: riservato, semplice, non banale.
Non ci sono grandi sentori ma quelli che trovo, rinfrancati da una evidente, continua, sempre presente, mineralità, sono vivi. Puliti Semplici. Rigeneranti. Anche per via del balsamico che comunque mi ha accompagnato in questa degustazione. Roteando il calice però scopro inaspettatamente anche degli aghi di pino.
Fresco al naso con una pungente dovuta alla mineralità. La frutta è a pasta bianca non matura e i fiori sono, manco a dirlo, bianchi. Semplice ed efficace.
Ci si sarebbe aspettato un sorso semplice. Invece è proprio qui che arriva la meraviglia. Altra caratteristica dei Komjanc: pragmaticità. Estrema mineralità anche in bocca che si trasforma In sapidità. Secco e fresco dunque con un calore che si percepisce in maniera evidente. Mi viene da dire che stavolta i Komjanc non si sono risparmiati. Anche questo vino fa 14°. C’è sostanza! Il marchio di famiglia continua ad esserci: partenza morbida, poi secchezza, infine sapidità. Grande forza in questo Pinot. Lunga persistenza. Ampia avvolgente ed equilibrio raggiunto. Un vino che va abbinato per poterlo gustare al meglio. Ma basta un bel formaggio non stagionato per farlo esaltare. Non smetterei di berlo perché intriga ad ogni sorso anche grazie ad un finale piacevolmente vegetale. Abbiamo trovato un bravo grafico per un progetto importante sul quale abbiamo investito. Volevamo una etichetta che ci rappresentasse, che parlasse del Collio e della famiglia. Il grafico dopo aver assaggiato il vino e a parlare con noi ha colto le nostre anime e ci ha prodotto le nuove etichette. Nel 1988 una commissione austriaca venne qui per cercare una selezione di vini per il quarantesimo di Francesco Giuseppe. L’unico vino ritenuto “buono e perfetto” fu quello di Florian Komjanc. In etichetta abbiamo proprio messa questa notizia. La necessità e la voglia di continuare come famiglia. Anzi, cinque famiglie. 14 nipoti 9 dei quali figli dei fratelli impegnati in azienda. 20 persone di famiglia impegnati in azienda. Nessuna voglia di pensare ad un futuro diverso da questo status. Famiglia è oggi, famiglia sarà domani. C’è posto per tutti a casa Komjanc. Chi vuole può rimanere e dare una mano. Chi ambisce ad una esperienza esterna ha l’incondizionato supporto della famiglia pronta a raccogliere senza chiedere nulla in cambio.
Questa è famiglia. Famiglia o Družina, poco importa.     Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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7 Giugno, 2024

Molino, Bergadano. Famiglie unite del Barolo

Possedere una terra è sempre stata una grande fortuna. Almeno per coloro che della terra e dalla terra ne ricavano i frutti così da viverci. Anche un piccolo pezzo di terra poteva essere di ausilio alla sopravvivenza. Piccolo o grande che fosse, prima o poi arrivava, inesorabile, il momento della successione. Solo che dividere tra i figli significava ridurre, di fatto, la superficie della terra. Riduzione che continuava ad ogni cambio di generazione. Per ovviare a questo, il pater familas oltre a escludere a priori le figlie femmine dalla successione, trasmetteva il patrimonio terriero al solo primogenito. Con l’onere di assumere il ruolo di capo famiglia offrendo lavoro ed ospitalità anche agli altri componenti della famiglia. Primogenitura. Una pratica adottata sin da tempo degli antichi ebrei e per fortuna scomparsa ai giorni d’oggi (forse). In questo contesto, i matrimoni di convenienza, ovvero con la scelta della consorte tenendo conto del patrimonio posseduto dalla famiglia, diventavano un metodo per incrementare la dotazione “familiare” delle terre. Quando si parla di vini e non solo di vigne però, le cose cambiano. O meglio, cambiano se si è intelligenti e lungimiranti. Quando una famiglia produce vino e vino pregiato, in una zona altamente vocata a questo tipo di produzione, una divisione o una unione andrebbe sempre fatta con intelligenza e lungimiranza. Tutto può sembrare facile in un territorio meraviglioso e unico come quello delle Langhe, in Piemonte. Avere per le mani un vino come il Barolo e ricavarlo da vigne situate in territori identitari, è una di quelle fortune che non si può e non si deve in nessun modo gettare al vento. Ma sempre intelligenza e lungimiranza ci vuole e non è che questa si trovi sotto i sassi. Bergadano e Molino sono due famiglie che producono Barolo dall’inizio della storia di quest’ultimo. Piercarlo (Bergadano) e Silvana (Molino) si uniscono in matrimonio e fin qui nulla di strano, se non fosse che decidono che la loro unione non include i marchi, i vini, le vigne, le lavorazioni di cantina. Va bene l’amore, va bene la famiglia ma non certo la propria storia. La nostra storia parte da cinque generazioni fa. Io sarei la quinta. Michele Bergadano con la sorella Francesca rappresentano la quinta generazione di vignaioli. Siamo nella culla delle Langhe, a La Morra, in provincia di Cuneo. Qui sorge Cascina Rocca, punto di incontro tra le due famiglie. Il fondatore non è sempre stato nel nostro territorio. Comprava e rivedeva le proprietà nel Piemonte. Nel 1800 acquistò l’attuale cascina con annessa una vigna. Li si decise di cambiare vita insediandosi nel territorio. Bisnonno e nonno lavoravano la terra. Nonno Dante iniziò a vinificare e nel 1965 produsse il primo Barolo. A quel tempo non è che si vendevano le bottiglie come ora. Il Barolo lo si metteva nelle damigiane o si vendeva sfuso. Altri tempi. Altra cultura. Altro modo di vedere le cose. Un mondo dove la genuinità prevaleva su tutta l’infrastruttura di marketing creata successivamente su queste terre. Dire se le cose siano cambiate in meglio o in peggio, è complicato. Di certo oggi è arrivata la ricchezza come, sempre di certo, si è persa la genuinità di molte, non tutte, le persone. Si produce, forse, come una volta. Si vende il vino a prezzi maggiori rispetto ad una volta. Si accolgono le persone con tanta attenzione e professionalità ma non certamente (in molti casi) con lo stile di queste terre. Nonno comprò altre vigne. Poi mamma e papà iniziarono a lavorare con l’export la Germania e  l’America. Negli anni l’azienda 80 si è ingrandita puntando sulla qualità. Era il periodo in cui c’era la fuga dalla nostra zona. Chi comprava le vigne era un pazzo. Dagli ani 90 cambiò tutto. Chi investi all’epoca oggi vede i risultati Michele anche se non ha vissuto quel tempo, sa di cosa si parla. I racconti dei genitori hanno fatto breccia nella sua anima. Le Langhe come le vediamo ora non sono sempre state così. Le stupende colline con i filari a fare da cornice, le cascine sistemate come alberghi di lusso con tanto di spa, i ristoranti con piatti gourmet, le cantine. Tutto questo prima degli anni 90, non c’era. Da qui, come da tutti i luoghi dove l’unica possibilità era fare il contadino, la gente scappava. La città, il lavoro in un ufficio o in fabbrica, le luci, le comodità. Perché mai rimanere in un luogo ameno, freddo e nebbioso? Però, proprio le Langhe, sono la dimostrazione di come si possa valorizzare un territorio facendo sistema, investendo nella riqualificazione e non puntando solo per ad un prodotto. Per generare ricchezza. Per tutti. Non siamo una azienda grande ma abbiamo le vigne nei vari comuni. 11 ettari con 50 mila bottiglie. Barolo e La morra. Poi Villero a Castiglione Falletto. Ah però mi viene da esclamare. Le migliori zone per produrre Nebbiolo. Ciò che serviva però era un punto di incontro tra le due realtà. Da un lato Bergadano, dall’altro Molino. Vigne sparse nelle Langhe. Prodotti diversi. Storie diverse. Ecco che nella lungimiranza e nella intelligenza nasce  Cascina Rocca proprio come punto di incontro tra le due famiglie. Ristrutturata nel 1999 per farne qualcosa di valore. Era quasi una stalla. La rifecero da zero preservando le parti essenziali. La cantina per la vinificazione in legno venne conservata. Rocca deriva dalla zona della rocca dove sorge la cantina. Negli ultimi cinque, sei anni mio papà si è occupato più della produzione, mamma delle vendite curando anche l’agriturismo. Non ce la faceva più ad andare in giro peri l mondo. Adesso l’agriturismo è migliorato tanto lasciando da parte la cantina. Io e mia sorella invece ci stiamo occupando più dalle cantina. Un conto è Molino, un conto Bergadano. Non facciamo confusione. Franco Molino è l’azienda portata da mamma Silvana e oggi gestita da Michele e Francesca. Bergadano, due ettari e mezzo con circa 10.000 bottiglie, portata e gestita da papà Piercarlo. Nel 1999, insieme alla Cascina, si sono unite anche le aziende. Lasciando tutto separato per preservare l’identità e lo stile dei singoli vini. Intelligenza e lungimiranza. L’idea non è avere due linee diverse ma due stili, due modi di vedere i vini del territorio. Franco Molino con base La morra e Rocca dell’Annunziata con Villero a Castiglione. Lo stile dei vini resta più floreale e c’è tanta freschezza. Barolo con botte grande. Passaggi non troppo concentrati. Bergadamo nel comune di Monforte e Barolo. Suoli più tenaci. Utilizzo di barrique. Legno, corpo, forza nei vini. Insomma, due prodotti decisamente diversi. Due filosofie diverse che portano Molino ad identificarsi come azienda classica, Bergadamo come una piccola azienda di alto livello capace di produrre veri cru. L’azienda rimane comunque a carattere familiare. Cosa non è di poco conto in una zona dove le grandi aziende si impossessano delle vigne. C’è sempre stata la possibilità di stare in vigna con papà. Una vera fortuna. I miei compagni che non hanno avuto la fortuna di avere una cantina sono un pò indietro. Avere una idea di come funzionasse già il lavoro, la passione. Seguiamo tuto per voglia e no per costrizione. È una passione nata di conseguenza. Michele è stato dietro al papà e al nonno dai quali ha assorbito l’arte della vigna e la passione per questo mestiere. La scuola enologica che frequenta sta aggiungendo le nozioni tecniche necessarie. Non diamo per scontato che un ragazzo e una ragazza vogliano rimanere a fare i vignaioli e a gestire una azienda agricola solo perché siamo nelle Langhe! Sto valutando di fare l’università. Mia sorella è sempre stata più mirata all’aspetto commerciale. Ha fatto il linguistico con delle esperienze all’estero per migliorare le lingue. Michele e Francesca sanno di avere per le mani qualcosa di importante. Con l’onere di non poter e non dover mettere in pericolo l’azienda. La passione, la loro passione, non è qualcosa che si acquisisce per potere divino o per usucapione. Devi averla e devi al contempo coltivarla. Con la fatica e con lo studio. Con la applicazione pratica e con gli errori. Rispettando le tradizioni e ascoltando chi ne sa più di loro. In vigna non c’è un tecnico perché facciamo noi direttamente. Siamo noi 4 della famiglia più qualcuno che ci aiuta in vigna e cantina. Le scelte le facciamo noi. Esperienza e studio. In cantina abbiamo un cantiniere con un consulente esterno che poi è pure un parente. Si chiama Molino. Parenti e vicino di casa. Viene spesso in cantina quando c’è da fare delle scelte. Facciamo tutto a modo. Una famiglia che sta insieme con la voglia di stare insieme uniti. Progetti e sogni per il futuro tanti e ben concreti a significare quanto ci si tenga a rimanere ben ancorati al territorio. Che è in parte anche loro. Mi piacerebbe avere una vigna nel territorio di Serralunga per uno stile di Barolo che mi piace tanto. Faremo una cantina nuova perché la cantina che abbiamo adesso è divisa in tre parti cosa questa che ci obbliga a fare delle scelte sull’invecchiamento o imbottigliamento. Non forziamo alcun passaggio ma alle volte dobbiamo imbottigliare per forza. Sul mercato italiano non abbiamo molto poi. Lavorano tutti con i grandi nomi. Mi piacerebbe avere qualche sbocco. Questo è un punto saliente delle due aziende Bergadano e Franco Molino. Andando sul web o cercando in giro, sembrano due brand che non esistono. Se non in qualche recensione estera. Eppure sono vini fantastici. Espressioni di Barolo, Barbera, Dolcetto, Nebbiolo a dir poco meravigliose. Uve provenienti dai templi delle Langhe e lavorate con metodi giusti. Quando Michele parla dei grandi nomi appare evidente come per un piccolo eccellente produttore sia difficile emergere nonostante la qualità eccelsa dei prodotti. Che mondo strano. I nostri Barolo non sono quelli da 100 punti che fanno tre anni di barrique. Sono Barolo, Nebbiolo e Barbera che rispecchiano le vigne di provenienza. Manteniamo la singola vigna. Lavoriamo su uno stile con l’invecchiamento mirato sulla zona. Il Villero fa un passaggio più strutturato perché non ne risente. Viene influenzato ma non stroncato. Il Nebbiolo fa un passaggio di 12 mesi in legno grande. Due barbera. Superiore e base. Superiore 18 mesi in barrique: ma non sa solo di barrique. Intensità ed equilibrio rispettando molto gli aromi. Mio papà è sempre stato contrario al legno. Ha sempre cercato di farne un uso corretto in tutti i vini tranne il dolcetto. Ha scelto legni e tostature giuste. In effetti tutti vini Franco Molino sembrano vini vecchio stampo. A mio modo di vedere rappresentano il Piemonte a pieno. No sono artefatti. Non sono una bomba al naso nonostante abbiano anche sentori complessi. Vediamoli i vini che ho assaggiato, partendo dai tre Barolo. Diversi, identitari, territoriali. Degustarli vuol dire viaggiare nei territori iconici delle Langhe e di Sua Maestà il Barolo. Partiamo dal top di gamma. Il Barolo DOCG Villero Riserva 2012. Siamo nel territorio di Castiglione Falletto dunque, suolo Elveziano. Nonostante i 12 anni di invecchiamento tra barrique (24 mesi), acciaio (12 mesi) e bottiglia (24 mesi prima della messa in commercio poi il resto) per colorazione e naso sembra ancora un giovanotto. Io l’ho trovato rubino con riflessi granata! Sentori complessi con praticamente tutto dentro. Ogni cosa che si studia nei corsi da Sommelier, qui c’è. Niente prevale e tutto si bilancia. C’è un sapiente equilibrio di note dolci e pungenti. Più si rotea il bicchiere e più si scopre qualcosa.
In bocca è sublime specialmente per l’elegante chiusura di bocca e per i frutti che tornano prepotenti nel finale ad addolcire il sorso quando i tannini, certo ammorbiditi, rimangono belli attivi. Un vino intrigante e misterioso che quando pensi di aver capito, stupisce con nuove sensazioni. Una vera droga. Se non posso dare 100 punti, ci manca davvero poco. Barolo Rocche dell’Annunziata 2017. Cambia il territorio e cambiano le caratteristiche. Da Castiglione ci si sposta nelle vigne di La Morra su suolo Tortoniano. L’affinamento è di 24 mesi in legno dividendo a metà le masse per sfruttare barrique e botte grande. Poi 12 mesi in acciaio e 6 in bottiglia. Il legno si fa sentire un pò di più ma manco tanto. La pulizia di questo vino è la medesima di tutti i vini della casa. C’è una finezza e trasparenza che abbagliano. I sentori si fanno più polposi, vivi, intensi, caldi. Prevale una bella balsamicità alcolica. La frutta è matura ed è data ai fiori il compito di mantenere freschezza e pungenza. Il sottobosco dona una piacevole nota verde. Le spezie sono rotonde, mai dolci. Se non per una punta che rende ammaliante i sentori. Il pellame è liscio; il tabacco trinciato.
Il sorso appare decisamente caldo, secco, molto avvolgente e con un perfetto bilanciamento che lascia in bocca una sensazione meravigliosa. Un vino armonioso, sinuoso, caldo che riesce comunque a mantenere inalterata la sua fresca austerità incontrando le esigenze di necessita finezza a quelli che amano la morbidezza. Barolo Selezione Cascina Rocca 2018. Rimanendo nelle vigne de La Morra questo vino affina 24 mesi in botti grandi per poi passare ulteriori 12 mesi in acciaio. Incredibile come qui, rispetto al precedente, cambi tutto presentandosi come un Barolo pronto e fresco. Uno di quei vini che aprirei per la merenda sinoira. Certo, una merenda di classe. La caratteristica è la finezza dei sentori molto lineari e distinti. Non particolarmente complessi ma ben definiti. I frutti sono più di bosco con la parte acidula a prevalere. Quasi un pomodoro che si unisce alla cannella e al pellame. Il sottobosco ben definito. I fiori rossi omni presenti.
Il sorso è pieno con i tannini presenti e maturi ancorché non aggressivi. Grande avvolgenza, grande freschezza e un, consueto direi, ottimo bilanciamento. Un fine retrogusto di frutto che pian piano comincia a prendere forma grazie anche ad una lunga persistenza. Piacevolmente morbido, piacevolmente fresco. Nulla prevale e tutto si bilancia con una bocca che chiude in maniera elegante. Barbera d’Alba Superiore 2019. Prodotto sempre a La Morra ha un lungo affinamento per essere una Barbera. 18 mesi in barrique, 12 in acciaio, 6 in bottiglia. I sentori sono i frutta cotta. Evidente e molto la ciliegia marasca e l’accenno di arancia. Evidente il sottobosco che sa quasi di muschio. Evidente la nota minerale che in maniera sfacciata tende ad essere preponderante. Evidenti i fiori rossi. Evidenti le note speziate di noce moscata, cardamomo, pepe e chiodi di garofano. Evidenti il pellame, il tabacco e la nota di cioccolata. Per essere un Barbera, è complesso e quasi aristocratico. In bocca torna ad essere il Barbera della tradizione che strizza comunque sempre l’occhio alla eleganza. Secco, fresco e caldo con i tannini che si sono già ammorbiditi conservando comunque un che di vegetale. Come se potessero ancora esprimersi nel tempo. Freschezza e basso alcol percepito sono i punti di forza. Bocca che chiude in maniera precisa, persistenza non particolarmente lunga, ottimo equilibrio. Questo Barbera non è, ed è bello che sia così, un vino ampio. Anzi, è un rosso quasi verticale, morbido e pungente in bocca, per certi versi civettuolo così da renderlo adatto a far avvicinare a questo fantastico vitigno, persone che cercano una maggiore rotondità. Ovviamente non piemontesi. Barbera d’Alba 2019 dalle vigne del comune di Barolo. 12 mesi in botti grandi e un breve passaggio in acciaio per donare a questo Barbera l’aspetto di un vero Barbera. Brillante già nel calice. Questo per la merenda, dei piemontesi, va benissimo. Langhe Nebbiolo 2020. Sempre a Barolo e stesso affinamento della Barbera per un vino che rispetto a quest’ultimo è più pungente. D’altronde se si vuole addomesticare il Nebbiolo occorre aspettarlo. Ma si otterrebbe un Barolo. Convincente perché quasi un vino, nobile, da tutti i giorni. Dolcetto d’Alba 2022. Un mix di Barolo e La Morra che non può e non deve fare legno per preservare la peculiarità di un vino da bere subito e a tutto pasto. Gli odori di frutta fresca inebriano e invogliano a berlo. Vellutato in bocca pur mantenendo una bella freschezza. Occhio solo al finale che può essere leggermente amarognolo. Ma buono proprio per questo. Magari quelli da 100 punti ne bevi un bicchiere poi non so. Queste bottiglie si finiscono. Non sono baroli impegnativi Qui ritrovo tutta la filosofia piemontese. Quella che consente di sedersi intorno ad un tavolo a fare la merenda sinoira: mangiare un pò di salame e bere un bicchiere di vino. In compagnia. Oddio, un bicchiere proprio no. Magari qualcuno di più. Ma non nel calice. Proprio nel bicchiere. Aprire una bottiglia per finirla ma solo se sei in compagnia. Perché questa è la vera essenza del vino: bere in compagnia. In Piemonte si fa così. A Cascina Rocca si fa così. Il vino è fantastico, di grande livello, ma non lo si vuol dare a vedere. Non si vuol portare quello che è vino e condivisione ad un livello così alto da snaturarne l’essenza. In questo sta la forza di una famiglia. Anzi due. Mai come in questo caso, l’unione fa la forza. Ma solo grazie a intelligenza e lungimiranza.   Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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31 Maggio, 2024

Emiliano Fini. Semplicità ed umiltà

Non c’è vino senza ingegno La terra. Tutto nasce dalla terra. Tutto torna alla terra. Un ciclo chiuso. Un anello che si chiude da dove aveva iniziato.
Ognuno ha una sua origine. Ed è li che torna. Sempre e comunque. Non c’è nulla da fare. L’elemento dal quale si è nati, nel quale si è vissuta la fanciullezza, i primi passi, le prime esperienze. Li si torna. Prima o poi si torna.
Il mio probabilmente è il mare. Senza il mare, l’odore acre dello iodio, lo sciabordio delle onde, la sabbia sotto i piedi. Non saprei neanche il mio nome senza di questi elementi.
Per Emiliano, Emiliano Fini, è la terra. La terra acquistata da papà Anacleto che, figlio di contadini, aveva lasciato la sua origine per fare l’ingegnere. La terra. La terra. Come fai a rimanerne lontano. Non la deve solo coltivare. Non la deve usare come unico strumento di sopravvivenza. Ma perlomeno la deve avere. Per coltivarla. Per viverci.
Su quella terra Emiliano scorrazzava felice con la moto da trial. Guidava il trattore dello zio. Si divertiva. Era il mio giocattolone. Un giocattolone per un bambino. Un impegno per un adulto. Un rimanere attaccato a qualcosa per papà Anacleto. Dieci ettari, 7 dei quali vitati. Una casa. Quella per viverci anche continuando a fare la professione di ingegnere. Così papà Anacleto. Così Emiliano. Tale padre, tale figlio.
Papà Anacleto non poteva che conferirla l’uva. Difficile fare il contadino a tempo perso. Vanno bene i sogni ma poi la realtà è ben diversa. Mio nonno faceva vino. All’epoca si faceva in modo diverso. Era un alimento principalmente. Mio nonno era agricoltore. Mio padre Anacleto ingegnere anche lui con il pallino dell’azienda agricola. Nel 1988 abbiamo questo terreno nei pressi di Campoleone, nel comune di Aprilia, alla base dei castelli romani. Siamo per 200 metri nel comune di Aprilia. Terreni piroclastitici e pozzolana. Emiliano è ingegnere. Papà Anacleto è ingegnere. Lavorano insieme. Progettazione edilizia. Strutture.
Emiliano solo a vederlo ti fa una gran simpatia. Un sorriso innato, spontaneo e sornione che si espande su un viso dove non ci sono capelli a modificarne l’ovale. Lui sorride di felicità quando parla della sua avventura che è grande passione. Continua a sorridere quando versa il vino. Continua a sorridere quando parla di sua moglie Michela e dei suoi figli.
Capisci quanto un uomo possa essere completo con una famiglia, un lavoro e una passione. Che magari un giorno sarà anch’essa lavoro. Mi sono appassionato e avvicinato al mondo del vino perché partecipammo ad un corso, di quelli veloci da 8 lezioni con Marco Cum. Abbiamo iniziato ad andare in giro con lui nelle Langhe. Bellissimo. Siamo sempre andati da cantine di un certo livello. La mia prima cantina è stata Contermo, la seconda Mascarello Giuseppe. Mi sentivo raccontare….”Noi abbiamo il terreno vulcanico”. “Noi abbiamo l’influsso del mare”. “Qui c’era il mare”. Ma queste cose le abbiamo anche noi. Avevo sempre pensato che sì abbiamo una cantina, ma che non non avesse chissà quali potenzialità. Così è nel Lazio e così è sui colli Albani. In queste zone il vino si è sempre fatto. Per casa. Per venderlo sfuso o un tanto al kg, pardon, litro, agli osti di Roma, ai fraschette, alle taverne. Chi aveva ettari di viti, quelle che danno vino quant’abbondanza c’è, le vendeva alle cantine sociali o a quelle grandi. Tanto, di mettersi a produrre vini che nessuno avrebbe mai comprato in bottiglia, non era il caso. Terra di bianchi questa. Suoli di matrice vulcanica che si incontrano con quelle che erano le paludi. Fertili e minerali. Un giusto mix per avere vini sapidi e fini ma con poca la struttura. Anche perché di vitigni autoctoni, interessanti e identitari sì, ce ne sono pure, ma la loro fragilità o comunque la necessità di grandi produzioni, li hanno snaturati.
La Malvasia Puntinata ad esempio. Quella riconoscibile per la macchia sull’acino. Uva tanto meravigliosa quanto delicata. Così delicata che si preferiva sostituirla con quella di Candia. Tanto, sempre a litri doveva essere venduta.
O il Bellone, detto pure Cacchione. Vino in quantità ma solo se trattato come una uva di serie B.
Anche il Trebbiano qui trova le sue interpretazioni più popolari e di massa. Certo, nel Cannellino di Frascati ci stava pure bene ma vuoi mettere la differenza a chiamarlo Ugni Blanc o per fare l’Armagnac? Avevamo trovato qui, vecchie piante di Trebbiano toscano e Malvasia di Candia. Piante con circa 50 anni. C’erano 1.2 ettari di Merlot che serviva per la DOC Colli Albani. Nel 1992 piantammo 1.7 ettari di Chardonnay perché mamma insegnava francese e voleva qualcosa del genere. Dava pure ottima uva ma la mia intenzione è di non fare vini internazionali e infatti saranno i primi che salteranno. È nel 2017 che Emiliano si decide a vinificare. Timidamente, come è lui. Quasi in punta di piedi. Con timore reverenziale ma senza paura. Un timore dettato dall’essere completamente all’oscuro di tutte le pratiche vitivinicole. Nei campi ci aveva solo scorrazzato e il vino lo aveva visto fare. Certo, da ingegnere, e se sei ingegnere devi avere una certa predisposizione fin da piccolo, il perché delle cose te lo chiedi sempre. Ma farle….Beh farle è tutta un’altra storia. Iniziammo a frequentare Marco nel 2014 e nel 2017, proprio a casa di Marco mia moglie Michela mi dice “ma perché non imbottigliamo?” Ero un pò scettico perché avevamo già provato ad imbottigliare ma avevo dato delle uve bellissime ad una cantina sociale della zona e mi avevano ridato un vino di quelli con il punto interrogativo. Una usanza purtroppo abbastanza comune nella zona. Ci si mette poco a capire poi perché nessuno imbottigliava in queste zone. Marco mi presentò Damiano Ciolli con la moglie Letizia che è enologa. Sono venuti in azienda. Ho spiegato loro quello che volevo fare. Era giugno 2017. “Compra due serbatoi e li appoggiamo in cantina da me” così mi disse Damiano. Cotto e mangiato. compro due serbatoi e li porto ad Oleavano Romano in cantina. Il 2017 era stata una andata facile. Calda, con zero malattie. Mi dissero di raccogliere bene l’uva e di portare grappoli sani perché loro lavoravano solo uva sana. “O il vino viene male o devi ricorrere alla chimica ma noi non lo facciamo. Porta solo uve buone”. Porto allora solo uve perfette e loro mi dicono “Allora il vino è fatto”. Come è fatto? “Tre quarti della difficoltà sta nel portare le uve in cantina sane. Poi non devi sbagliare”. Loro il vino lo sano fa E quindi è cominciata così. Damiano Ciolli e la moglie Letizia sono quasi una istituzione in zona. Damiano è alla terza se non quarta generazione di viticoltori. Biodinamico manco a dirlo. Emiliano in ogni modo, ragionando da ingegnere e non da viticoltore, non riesce a capire come si possa fare il vino in maniera così facile. L’annata è stata buona e come inizio, gli è andata più che bene. Non credo si aspettasse qualcosa di così rapido e ben riuscito. Ha stupito in primis a me. Soprattutto la Malvasia che era un pò scorbutica. Aveva bisogno di tempo per esprimersi. Era pimpante, molto sapida. Mi piaceva. Per ignoranza mia mia, non ero molto ferrato sui vini del Lazio come Grechetto e Malvasia Puntinata. Una volta assaggiata ho detto “però però”. Piacevano a me per prima. Adesso sono un fan dei miei vini. Abbiamo continuato. Emiliano è un ingegnere che fa strutture ma soprattutto è un ingegnere ovvero uno di quelli che deve fare le cose da se, dall’inizio alla fine. Da Damiano e Letizia rimane giusto il tempo di farsi la cantina investendo oculatamente e riuscendo a prendere qualche finanziamento. Ci ho messo un pò di tempo per richiesta di finanziamento, bandi come ocm….prima che te li approvano. Nel 2022 ho prodotto 10.500 bottiglie. Nel 2023 mi sono abbastanza salvato anche se siamo in regime biologico. Siamo stati tempestivi anche se la perdita è stata del 30% di perdita. L’attenzione al biologico della famiglia Fini c’è sempre stata. Prima con i kiwi che in queste terre hanno rappresentato l’Eldorado, poi, senza soluzione di continuità, con la vigna. La terra è il giardino di casa dei miei dunque la trattiamo bene. Non abbiamo mai usato prodotti impattanti. Dagli anni 90 quando c’era la 2078 siamo stati in regime biologico. Per me è la stessa cosa. Nelle prime due annate non abbiamo usato lieviti selezionati. Poi abbiamo cominciato ad utilizzare accortezze in vigna e solo sovescio così sono partite con le fermentazioni spontanee. Dal 2022 l’azienda è certificata biologico. Ho scoperto, per ignoranza mia, che per mettere il marchio biologico deve essere certificata la cantina. Ho perso un anno così che dal 2023 anche le bottiglie recheranno il marchio. Lieviti naturali nell’ottica di fare un vino il più naturale possibile. Non per moda ma per giusta conclusione di un ciclo di grande attenzione in vigna. La maniera corretta di fare le cose per una piccola azienda che vuole rispettare la tradizione e i vitigni locali. La terza cantina che visitammo nelle Langhe fu Cavallotto. Faceva la lotta integrata in vigna da tanto tempo. Mi ha sempre affascinato la cosa ma avevo paura delle fermentazioni spontanee. Prima erano in pochi e ti davano del pazzo. Anche oggi mi danno del pazzo. Avevo un pò di timore ma Letizia mi confortava. Faccio vino naturale come conseguenza non come fine. Un lavoro che deve essere fatto bene dall’inizio alla fine. Il vino naturale deve essere buono ma senza difetti. Anche perché se ci sono i difetti, può far male più della chimica. Il pragmatismo di un ingegnere insieme all’amore e alla passione di una persona che ha ritrovato nella terra non una valvola di sfogo, ma quasi un elemento indispensabile della propria esistenza. Anche perché Emiliano è consapevole di avere altro che gli da da vivere. Non biasima chi agisce in maniera diversa. Lui sa che si può permettere di non vivere senza compromessi. Avevo pure comprato due libri di enologia ma ho rinunciato subito perché tutta chimica. Troppo complicato. Applico il rigore ingegneristico e ottengo uve sane. Cerco di capire il perché delle cose. Ecco l’Emiliano ingegnere. C’è poco da fare. Non ho mai trovato un ingegnere in grado di snaturare la sua essenza. Lui ascolta, impara. Poi agisce. Anche se per sua stessa ammissione c’è poco da fare in vigna e in cantina. Un pò dissacrando e smentendo coloro che usano la chimica per difendersi. È anche vero che qui i terreni sono particolarmente facili e le condizioni atmosferiche non sono mai proibitive. Come ingegnere sono progettista strutturale. Cemento armato, pratiche edilizie, consulenze, computi metrici. Mi porto da questo lavoro l’attenzione, la prevenzione e il saper di non poter sbagliare. In cantina faccio tutto perché Letizia e Damiano non vengono più. Seguo le loro indicazioni che popi sono quattro cose: rimontaggio per muovere le fecce e finche non puzzano le tieni li. Poi affinamento. La parte enologica è cosi semplice che non stiamo a fare cose strane. Solo nel 2018, annata fredda, abbiamo fatto con il Grechetto quello che facciamo con la Malvasia ovvero un contatto tra buccia e mosto dopo la diraspatura e prima della pressatura e fermentazione per prendere estratto dalle bucce. Nelle annate normali non lo puoi fare altrimenti sarebbe troppo amaro. Non facciamo niente di più. Insomma una vinificazione semplice. Poche cose con la voglia di capire il più possibile. Nel caso c’è sempre Letizia alla quale fare domande. Senza vergognarsi. Perché Emiliano si sente sempre un neofita. Ed è questa la sua vera forza. Semplicità ed umiltà. In vigna ho fatto il corso di potatura e mi piace molto. Sono un paio di anni che non riesco per mancanza di tempo. Ci tornerò quando i bambini cresceranno. C’è una lotta culturale con le persone che lavorano. Ti prendono per pazzo. Avevamo una fresa e gliela ho fatta buttare. C’è sempre stata la mentalità che il terreno non lavorato ovvero incolto non va bene ma è il contrario.
Non facciamo cultura intensiva ma inerbimento e sovescio e non abbiamo bisogno di concimare. Mamma Giorgia a dare una mano con il tempo inizia a farsi sentire. Papà Anacleto che a 79 anni continua a fare l’ingegnere anche se stufo di correre dietro la burocrazia. Sta più in azienda e gli piace più la parte amministrativa. In vigna non c’è mai stato anche perché mi dice che lui ha le sue idee date dal padre e non vuole andare in contrasto. Per i vini, Emiliano è un bianchista convinto. Convinzione che deriva anche dal pragmatismo di una persona che sa cosa si può ricavare dal suo territorio. Vocato ai bianchi autoctoni e impossibilitato a generare rossi importanti. Negli anni 90 avevamo piantato i kiwi. Nel 2006 abbiamo deciso di piantare vigna ma non c’era idea di vinificare. L’agronomo ci suggerì Malvasia Puntinata e Grechetto. Mi sono convinto che noi abbiamo cose importanti che nessun altro al mondo ha. Tra i miei vitigni ho scelto di fare quelli autoctoni. Ci piaceva il Grechetto anche logisticamente vicino alla Malvasia così che si poteva controllare meglio. Nella mia prima parte di approccio al vino erano solo vini rossi. I bianchi che mi facevano impazzire erano pochi. l rossi qui verrebbero poco strutturati e poi lo fanno bene poco lontano da qui. Le espressioni di rossi locali mi hanno fatto strappare i capelli che non ho. Due le etichette, di bianchi ovviamente, prodotte. Cleto, dedicato a papà Anacleto per il Grechetto, Lavente perla Malvasia. Due vini identitari, pieni e caldi. Minerali e goduriosi. Non tante bottiglie perché Emiliano non vuole crescere tanto. Arrivare alle 25.000 bottiglie prima, 40.000 poi. Da ingegnere capisce che questi sono i potenziali della terra e della cantina. Perché rinunciarci? Perché non puntarci? Mi è capitato di bere dei vini importanti come il Don Chisciotte di Zampaglione e mi è piaciuto. Mi piacerebbe fare con il Trebbiano un vino macerato. Non perché vanno di moda ma ne ho visto le potenzialità. Lavente è la Malvasia, Puntinata. Non quella di Candia. L’ho aperto e ne ho apprezzato il colore semplice come quello del sole la mattina, la trasparenza di un mare cristallino (ma quello del Lazio dove la sabbia restituisce colori chiaro/scuri). Sentori anch’essi semplici ma rotondi ed avvolgenti. La pesca, i frutti tropicali, i fiori di camomilla, il biancospino. Pochi ma buoni si direbbe. Sentori che diventano caldi abbracci roteando il calice. Avviluppanti, morbidi, suadenti. Sentori che si completano con elementi di freschezza: agrumi, salvia, mentuccia, maggiorana e iodio a bilanciare perfettamente quella morbidezza.
Quando il vino arriva in bocca, la sensazione di piacere continua. Un liquido fresco e morbido, caldo e sapido che ammalia e stupisce. Una insolita nota di sottofondo attrae l’attenzione. Non è immediatamente comprensibile così da obbligarti ad un nuovo sorso. Poi la si mette a fuoco e appare una mela cotogna che diventa cotta così che il sorso diventa ampio e avvolgente per poi diventare verticale. Non puoi fare a meno di berlo ancora perché la sensazione di grazie della bocca è un richiamo irrinunciabile. Alla fine rimane il gusto impresso per molto tempo. Ma ne necessiti comunque ancora Cleto, papà Anacleto. Un Grechetto che sa di Grechetto ma con una inesorabile marcia in più. Sarà perché quando lo porto al naso, pur riconoscendo il Grechetto (quello buono e ben fatto) vengo stregato da sentori che non mi fanno bere subito. Anche se vorrei. Tanti fiori miscelati alla frutta. Sensazioni che inebriano per via degli agrumi mischiati alla pesca e alla banana ma rinfrescati dalla menta. Sembra un cocktail inusuale. La cera d’api che sa di ambrato spiazza. La salinità quasi salmastra adesso si unisce a mela e pera, al frutto tropicale e alle erbette di campo generando un non so che di piacevole. Ho la sensazione di essere un’ape che svolazza nei campi.
Il sorso è da vero Grechetto. Non banale. Non scontato. Deciso, fresco, armonico, bilanciato. Un calore percepito bene e una sapidità che lascia armoniosamente inalterati tutti i sapori. Morbidezze e durezze si uniscono donando alla bocca una incredibile piacevolezza. Non fruttato, non civettuolo. Persistenza anche lunga. Potrei berlo anche da solo ma in un aperitivo sono certo che conquisterà. La progettualità è tutta nella mente di Emiliano. Aumentare le quantità con il Grechetto e la Malvasia. Espiantare lo Chardonnay. Sfruttare a pieno la cantina. Anche se lui dice che per ora non è un piano, nella mente di un ingegnere c’è sempre un piano. La mia progettualità non è ampia e io sono soddisfatto di quello che faccio. Mio suocero i primi tempi diceva: “c’hai la azienda agricola ad Aprila…li fanno i vinacci schifosi. C’hanno le uve schifose”. Adesso si sta ricredendo. Queste sono le piccole soddisfazione che mi piacciono. Sono soddisfatto già cosi. Ride Emiliano. Ride di gusto. Di quella felicità che immagino avesse quando a 11 anni scorrazzava per le terre di papà Anacleto. Il giardino di casa. La felicità di un ritorno alla terra che forse ancora non ha percepito in pieno. Ma sta montando. Piano piano. Ha solo bisogno di un pò di convinzione in più. Di qualche riconoscimento o di qualcuno che gli dica che sta facendo veramente bene. Emiliano, un puro e un entusiasta. Una persona che crede nel suo lavoro. Pragmatico. Solare. Vuol dar lustro alla sua terra. Con semplicità. Senza artefazioni. Come i suoi vini, meravigliose espressioni del territorio. Vai Emiliano, vai!
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