Suggestioni di Vino

Suggestioni di Vino è la rubrica che racconta le persone del vino. Della loro storia, dell’amore, della passione che inoculano nel vino. Perché il vino è materia viva e le persone ne sono il nutrimento.

Le incursioni enoiche di Ivan Vellucci, ingegnere e manager per dovere, ma soprattutto Sommelier raccontano con passione e trasporto, territori e produttori d’eccezione.
Ivan ci porta a conoscere realtà prima di tutto umane, dove il sorriso e l’ospitalità dei vignaioli sono lo specchio dei vini che producono. La rubrica Suggestioni di Vino propone ogni settimana  suggestive esplorazioni e scoperte enologiche, narrate con trasporto e partecipazione. Al lettore parrà di accompagnare Ivan in queste visite speciali e sarà stimolato a fare lo stesso: vivere il mondo del vino come un bambino, con lo stupore negli occhi e la magia nel bicchiere.

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19 Aprile, 2024

Andrea e Nicolò. Due amici

Due ragazzi del borgo cresciuti troppo in fretta
Un’unica passione per la bicicletta
Un incrocio di destini in una strana storia
Di cui nei giorni nostri si è persa la memoria
Una storia d’altri tempi, di prima del motore
Quando si correva per rabbia o per amore
Ma fra rabbia ed amore il distacco già cresce
E chi sarà il campione già si capisce. Francesco De Gregori cantava così la storia dell’amicizia tra il bandito Sante Pollastri e il campione di ciclismo Costante Girardengo. Cresciuti insieme fino a quando le loro scelte, ma anche la vita, li divise. Fino al punto di incontrarsi di nuovo in un’aula di tribunale quando Costante dovette testimoniare contro l’amico Sante.  Due amici cresciuti insieme anche se non proprio da piccoli. Due amici che si incontrano per caso studiando enologia ad Ancona. Due amici che si trovano senza poi lasciarsi più andare. Nel bene e nel male. Nel lavoro e nel gioco. Nella passione e nella vita.  Andrea Giorgetti e Nicolò Marchetti. Nicolò ed Andrea. Invertendo l’ordine degli addendi, il risultato non cambia. Anche se l’azienda, che insieme hanno voluto, prende il nome da Andrea, poco importa. Il loro patto segreto e silente vale più di mille atti notarili. Andrea Giorgetti è l’azienda. Andrea e Nicolò ne sono l’anima (ma guai a dimenticarsi di Giulia, la sorella di Andrea, senza la quale la accoglienza e la vendita in azienda non ci sarebbe proprio!). Io ho studiato Viticoltura ed Enologia all’università di Ancona e mentre studiavo ho conosciuto Nicolò. Lui è più piccolo di un paio di anni. Ci siamo conosciuti a qualche corso che ho lasciato un pò indietro.  Il papà di Andrea, Sante, gestiva un distributore di carburanti in autostrada. I fine settimana Andrea lavorava li. Nicolò che aveva bisogno di un lavoro chiese all’amico appena conosciuto di poter lavorare anche lui al distributore.  Papà ha assunto anche lui. Da li è iniziata la nostra amicizia. Lavoravamo e studiavamo insieme. Facevamo tutto insieme. Ci siamo conosciuti che avevo venti anni. Le amicizie nascono per caso e continuano per volontà. Stare bene insieme. Supportarsi a vicenda. Esser pronti ad esserci quando serve. Una parola, uno sguardo, una risata, un abbraccio. Ogni gesto cementa sempre più il rapporto che resiste al tempo, agli amori, alla vita dei singoli. A volte può sembrare che uno dei due dia più dell’altro. Ma non è così. L’amicizia va oltre qualsiasi materialità. Va nel profondo del nostro animo. È come se fosse un amore che non può e non deve esternarsi in altro modo. Così Andrea e Nicolò. Sempre insieme. Andrea ha tre figlie. Nicolò due. Ammettere quanto fossero matti a vent’anni non è possibile. Matti e caciaroni. Pur se con l’animo di chi ha i piedi ben piantati nella terra dove è nato. Nato cresciuto in campagna Andrea. Con i nonni (ah i nonni!) che badavano ad Andrea e Giulia sopperendo ai genitori che lavoravano al distributore. Una vera famiglia di un tempo quelle dei nonni. Si direbbe a “ciclo chiuso” quando si faceva tutto in casa.  Era tutto magnifico. In campagna sapevo fare un pò tutto. Arrivato a venti anni, con la terra il grano non poteva andare. Qualcuno metteva erba medica o oliveto. La scelta era o olivi o vigna. Ho scelto la vigna e di studiare enologia anche se di vino non se ne era mai parlato a casa mia.  Due amici. Due studenti di enologia. Un pezzo di terra. La voglia di divertirsi e sperimentare. Et voilà! Sembrano le condizioni ideali per la creazione di una vera associazione a delinquere. Nel senso buono ovviamente! Le condizioni c’erano tutte e non si può non immaginare di non impiantare qualche filare! Ci piaceva un vino della Cantina Le Terrazze che sta qui vicino. Chaos, a base di Montepulciano, Merlot e Syrah. Volevamo ricrearlo in questi quattro filari che avevamo messi. Siamo andati da Le terrazze a chiedere informazioni.  Quando Andrea, sorridendo, mi racconta di questa cosa, nella mia mente, non chiedetemi per quale motivo, la scena che visualizzo è quella di Totò e Peppino che chiedono al vigile in Piazza del Duomo a Milano, informazioni su la Scala. Due studenti di enologia che vanno presso una delle cantine più blasonate della zona e chiedono come si fa un vino. Meraviglia da lacrime agli occhi. Abbiamo messo dunque gli stessi uvaggi nelle stesse percentuali nei quattro filari. Così da fare le prime prove. Non avevamo la cantina ma una stalla. Raccoglievamo sei o sette quintali di uva. Era bello perché venivano gli amici ad aiutarci. Le barbatelle, i pali di cemento..tutto a mano avevamo messo. Un lavoro enorme. Ma venivano gli amici e facevamo festa. Ridendo e scherzando il vino gli veniva bene. Magari un pò di fortuna o gli studi applicati bene. Di certo la vicinanza al mare con i venti, sempre presenti a mantenere l’uva perfettamente in salute, li ha aiutati un bel pò.  Siamo in Contrada Monte Priori a Potenza Picena (MC), proprio sulle colline che si affacciano sul mare Adriatico (in cinque minuti da qui si è in spiaggia!). Vigne esposte a nord il che vuol dire prenderseli tutti i venti del mare. L’uva non poteva (e può) che essere di grande qualità.  I vini venivano bene. Abbiamo detto: andiamo avanti. Avevo quattro ettari ma su uno ci sono olivi secolari. Essendoci i PSR, i fondi europei, abbiamo detto: facciamo la domanda, se ce la accettano andiamo avanti altrimenti lasciamo perdere tutto e continuiamo a fare i quattro filari. L’hanno accettata e siamo partiti con questa avventura.  I segni del destino sono spesso inequivocabili. Da quando fai una cosa per scherzo a quando ti tocca farla sul serio, il passo può essere lunghissimo o brevissimo. L’accettazione della domanda PSR può sembrare una svolta o rivelarsi una condanna. Una volta vinto il bando infatti occorre preoccuparsi della restante parte dei soldi necessari per iniziare l’avventura. Il 60% della cifra, qualunque essa sia, per due studenti, è sempre troppo Mio papà che non c’è più era quello che credeva in questa avventura. Il 40% l’ha messo la Regione e il 60% papà. Siamo andati avanti grazie a lui. Abbiamo poi fatto l’investimento della cantina. La casa dove vivo adesso aveva una taverna nata per fare le cene con gli amici che si è trasformata in cantina. Mantenendo una parte per le cene con gli amici! Andrea ha questa meravigliosa parlata marchigiana che lo rende schietto e vero. Pronto alla risposta ma pronto anche a vergognarsi quando vorrebbe mordermi la lingua per quello che ha detto. Anche se non dice mai nulla di fuori posto. Il sorriso sornione e spontaneo. Il cuore che gli si apre quando parla di Nicolò e della sua famiglia. Anche le difficoltà sono motivo di allegria.  La passione che condivide con Nicolò, riempiva i momenti di allegria con gli amici. Però poi, quando la famiglia cresce, di tempo ce ne è sempre meno. Tre figlie, un lavoro che deve comunque esserci perché la vigna non basta (Andrea insieme alla sorella Giulia hanno continuato l’attività del padre alla stazione di servizio), lasciano poco, davvero poco spazio al vino. Eppure continua. Anzi, continuano. Perché non si fa un rimontaggio se non lo si fa insieme.  All’inizio abbiamo messo la Ribona. Un vitigno dannato. Tutti ci scoraggiavano perché considerato un vino di serie B. Nessuno riusciva a fare un vino buono. Io ho la testa dura ma l’ho voluta mettere per una questione di principio. I primi anni ci ha scoraggiato. Ci mettevamo tutto il nostro impegno ma il vino non veniva bene. Lo sconforto era arrivato. Nel frattempo ci siamo laureati e abbiamo fatto esperienze all’estero e nelle cantine della zona. Da li la qualità è aumentato. La Ribona dal quarto quinto anno in poi ha fatto anche un cambiamento pazzesco. Sangiovese e Montepulciano già dal terzo anno sono andate bene.  Dimenticavo la testa dura di Andrea. Tipico anche questa dei marchigiani. Ricordo una mia amica, di Macerata, che diceva sempre “dalle e dalle, se piega pure le metalle”. Ecco, Andrea non è da meno. Si erano innamorati di un blend e scelgono di partire con la Ribona. Sapete perché? Perché è complicata e non ci riusciva nessuno. Volevano essere i primi. Ci siamo attrezzati con una cella frigorifera perché abbiamo capito che la Ribona ha necessità di essere conservata. C’è poco da fa. L’abbiamo adattata perché era il tunnel di ingresso alla cantina e due settimane all’anno diventa cella frigorifera. Non c’abbiamo più una lira dunque adattiamo. Con il freddo e un pò di studio in più i due buontemponi iniziano a fare la Ribona con criterio arrivando a prendere nel 2020 un premio con Berebene Gambero Rosso. Poi anche con il Rosato Aganita.  Da li abbiamo iniziato a vedere qualche soldino. Importante per pagare i mutui. Fino li avevamo solo messo soldi.  Insomma, nel 2005 impiantati i primi quattro filari. Dieci anni dopo nel 2015 le prime vendemmie serie. Nel 2020 finalmente qualcosa di buono.  Nelle zone nostre sono tutti vecchio stile. Conti qualcosa se vinci qualche premio. I rossi già dal 2018 li facevamo interessanti. La Ribona si è fatta attendere al 2020. Il rosato lo abbiamo fatto per scherzo.  Quando il cuore di un papà è grande e soprattutto tenero, lo si vede da tante piccole cose.  Il primo rosso si chiama Adele come la mia bimba. Nascevano insieme nel 2017. Il mosto era quasi vino, gli ultimi travasi. Stava per nascere mia figlia e ho dovuto per forza chiamare il vino come lei. Poi sono arrivate altre due bimbe, gemelle, e dovevo per forza dedicare qualcosa anche a loro. Abbiamo pensato a questo rosato e non pensavamo che il rosato venisse bene in queste zone. Qui non c’è la cultura del rosato. Non se ne parlava. Lo abbiamo fatto con criterio in blend tra Montepulciano e Sangiovese. Lavorazione a freddo, riduzione estrema. Facilità di beva, freschezza. Il Gambero Rosso ce lo ha premiato subito. Inaspettato. Ci ha fatto pensare che stavamo andando nella direzione giusta. Adesso sono conosciuto in questa zona soprattutto per il rosato. Si chiama Aganita come le mie bimbe Agata e Anita. Il panorama che si gode da qui è bellissimo. C’è una atmosfera magica e nell’aria quella spensieratezza di due ragazzi che hanno messo in un progetto i loro anni più belli. Una quercia grandissima domina i vigneti e non può che essere questo il luogo ideale per le degustazioni guidate da Giulia.  Il Rosato lo vendiamo tutte qui. Delle 7000 bottiglie prodotte, 4000 ne vendiamo qui. Una manna dal cielo che non pensavo mai. Siamo poveracci ma ci si diverte.  Andrea ha investito tutto in questa avventura. In questo suo sfogo naturale. L’area di servizio, presa in gestione nel 2015 quando il papà è venuto a mancare, è un grande impegno. Anche per la responsabilità dei 12 dipendenti e delle rispettive famiglie. È un lavoro grosso. Non centra nulla con questo. Magari destinato a morire perché la figura del gestore è destinata a morire. Questo che è il piano B diventerà magari il piano A. Nicolò sembra defilato in questa storia. Lui che dopo gli studi inizia a fare consulenze in zona come enologo per poi approdare ad una azienda che produce prodotti enologici. Lui che lavora in cantina e non ha grande voglia di emergere. Non gli interessa se l’azienda porta il nome dell’amico. È un amico. È suo il papà grazie al quale ha guadagnato qualcosa durante gli studi. Colui che ha creduto in questa avventura mettendo anche gran parte dei soldi. C’è tanta riconoscenza che però da sola non può minimamente spiegare la profonda amicizia che lega Nicolò ad Andrea ed Andrea a Nicolò.  Nicolò mi ha sempre dato una grossissima mano. In etichetta gli ho dato la nomina di enologo. Il patto è che si fa tutto a metà. Una regola non scritta ma che vale più di mille notai. Se devo fare un travaso aspetto Nicolò. È nata cosi e sarà cosi. Anche le lavorazioni in vigna. È un legame forte che non finisce. Le cose si fanno insieme e se può solo uno non si fa. È un modo per stare insieme. All’università eravamo festaioli. Eravamo un pò cosi. Siamo completamente cambiati perché quando si tratta di vendemmiare siamo seri estremi. Pignoli. Chi vendemmia con noi ci dice “siete sempre voi”?. Ci teniamo. Non dobbiamo sbagliare nulla. Eravamo conosciuti per quelli “tanto è uguale” mentre siamo diventati due estremi.  Dai 3.5 ettari vitati i due ragazzacci producono quattro vini. Tre di questi portano il nome di qualcuno della famiglia Giorgetti. Adele è il blend di Montepulciano e Sangiovese al 50%. Solo acciaio per un vino da tutto pasto. Fresco e generoso. Per nulla impegnativo e adatto ad essere bevuto sotto la quercia nelle serate di primavera. Quando ancora non fa troppo caldo. Aganita è il rosato da Sangiovese (90%) e Montepulciano. Un rosato che non ti aspetti perché dotato di una vena balsamica forse fornita dal tanto iodio che arriva dal mare. Ma è fresco di frutta fresca, delicato ed elegante. Poi c’è Sante. Papà Sante.  Per ringraziare il mio papà. Il rosso di maggior pregio che fa un passaggio in legno di rovere.  Tonneau e barrique di due tostature diverse. Ci siamo concentrati parecchio: selezioniamo le uve, lo facciamo solo in annate particolari e non ci deve essere un solo chicco rovinato. È un rosso che come dico a tutti lo facciamo perché ha una storia e un valore affettivo. È un rosso che però in queste zone si beve poco. Siamo conosciuti per la freschezza e la bevibilità mentre Sante è da meditazione. Anche io bevo raramente. È interessante assaggiarlo durante il percorso che fa in bottiglia.  Infine il Ribona Flosis che prende il nome dal fiume che scorre qui vicino e che in epoca romana si chiamava cosi. Da qualche carta geografica trovata in comune, il fiume scorreva quasi qui sotto la cantina nostra. Con i millenni magari ha contributo a creare i terreni. Facciamo le fermentazioni lunghissime. Le temperature controllate allo spasimo. Il grosso lo facciamo in campo e in fermentazione. Poi non facciamo più niente. Abbiamo capito che in bottiglie evolve tantissimo. Pensiamo di darlo alle guide l’anno successivo.  Un vino il Ribona, recensito sul mio blog Instagram, che stupisce davvero. I sentori sono di frutta fresca a pasta bianca accompagnato da note erbacee. Ananas, acacia e un leggero iodio. Fieno tagliato e frutti tropicali si rincorrono. Quando pensi di averlo capito ti stupisce con le note sgrumate e una nota idrocarburo. Sorso secco e con una bella avvolgenza che non stucca ma arricchisce il sorso. Sembra che sia morbido ma poi scende giù con una verticalità meravigliosa!Un bel retrogusto di limone delicato che pulisce in maniera egregia la bocca.Persistenza non lunga e bellissimo bilanciamento che invita a berlo e berlo. Semplice e genuino. Schietto e vivo. Convincente ma tanto. Un bellissimo lavoro dei due ragazzacci! Due amici che fanno vivere la loro amicizia nel modo più alto e puro. Non serve neanche parlarsi alle volte. Non serve una società con quote e notai. Forse il vino buono viene anche da questo.  Io copro gli errori suoi e lui fa cosi con me. Magari litighiamo ma in maniera dolce. Alla fine ammettiamo chi ha ragione. È bellissimo e importantissimo. Tutto davvero molto bello. Pensare al futuro sembra un obbligo ma nemmeno ci pensano. Forse per non rovinare tutto. Guardare al presente con la speranza di arrivare a guadagnare di più. Monetizzare diventa importante anche se non prioritario. Espandersi diventa complicato. L’essere vicini al mare è un vantaggio certo ma anche un problema. Chi ha terra non la venderà mai.Il vino ce lo finiamo subito. A natale l’ho finito. Non vogliamo acquistare l’uva. Il futuro, a meno che non cambia qualcosa che ci piacerebbe continuare così magari guadagnando qualcosa in più. Non ci possiamo allargare. Ci piace il discorso che ognuno ha lavoro suo e questo lo facciamo insieme.  I due ragazzi del borgo, cresciuti troppo in fretta come dice De Gregori non hanno bisogno di altro se non continuare la loro amicizia. E la loro avventura.  In mente la voglia di guadagnarsi un riconoscimento come i Tre bicchieri del Gambero Rosso. Un pò perché, come dice Andrea, in queste zone se non hai un premio non ti si fila nessuno; un pò perché, secondo il mio parere, avrebbero bisogno di sentirsi dire che sono bravi. Che ce l’hanno fatta. Una pacca sulla spalla. Mi viene in mente papà Sante che ha tanto creduto in loro e nel loro progetto. Magari sarebbe bastata la sua approvazione. Il migliore dei premi possibili.    Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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12 Aprile, 2024

Daniele Rota: io sto bene al mondo

C’è chi l’amore lo fa per noia
Chi se lo sceglie per professione
Bocca di rosa né l’uno né l’altro
Lei lo faceva per passione Fabrizio De Andrè così cantava Bocca di Rosa. Non era una prostituta ma una donna alla quale piaceva far l’amore. Per passione. Perché era felice in questo modo. Perché quello era il suo equilibrio. Perché, semplicemente, stava bene al mondo.
La leggerezza nella vita. Il sorriso. Il sapere di essere su questa terra per poco tempo le dava la voglia e la gioia di vivere. Non ambiva a possedere un uomo ma solo a volerlo per il tempo necessario a provare gioia e piacere. Una visione di vita che ai più può sembrare scriteriata. Ai più come alle donne del paese di Sant’Ilario che alla fine E quelle andarono dal commissario
e dissero senza parafrasare
“
Quella schifosa ha già troppi clienti
Più di un consorzio alimentare” Cosa diavolo ora c’entra Bocca di Rosa con il vino?
Quando incontro Daniele Rota, incontro una persona che non solo sembra in pace con se stessa, ma che lo è realmente e riesce a divertirsi con ció che fa. Non che sia una persona poco competente. Al contrario è una delle persone con maggiore esperienza che io abbia mai incontrato nel mondo del vino. Solo che affronta le cose con leggerezza.
Finta leggerezza che cela grande rigorosità. Con se stesso prima, con gli altri poi.
Anche perché l’azienda che gestisce non è che sia propriamente piccolina.
Poco importa. Lui, nella sua casa immersa in undici ettari di vigneto, ci vive da scapolone. Entrando nel suo salone potrebbe risultare finanche un tipo eccentrico. Magari perché non si può fare a meno di notare le moto e il sidecar parcheggiate accanto ai divani. Si avete letto bene: parcheggiate li tra i divani. Vi assicuro che non è per nulla eccentrico. È solo fatto così e fa quello che gli passa per la testa. In questo caso, probabilmente, voleva solo circondarsi delle cose che ama e lo fanno stare bene.
Magnifica leggerezza di una persona che sta bene al mondo. Io ho sempre avuto la passione del vino e di far il vino. A 14 anni volevo fare l’enologo. Ho sempre avuto la possibilità di farlo mentre studiavo così come di scegliermi la strada senza che nessuno mi rompesse le scatole. Il che non ha funzionato benissimo. Perché è poi diventata anche la mia dannazione e malattia. Mio nonno aveva una cantina e si faceva lo sfuso.
Siamo grandi produttori ma mai stati grandi imbottigliatori. Da ragazzino mentre facevo l’università ci ho pure lavorato nella cantina di nonno. Sono stato un grandissimo paraculo. Facile fare l’università e lavorare per quello che studi. Era pesante certo però non studi. Impari. Daniele si esprime in un simpaticissimo e goliardico romagnolo. Non per altro, siamo a Reggio Emilia, più precisamente a Sabbione. Terra di Lambrusco. Terra anzi, terre di grandi produzioni. Perché qui se non hai almeno cento ettari non sei nessuno.
Il nonno di Daniele di ettari ne aveva comprati 300. Direttamente dal Commendator Davoli, un ricco commerciante di ferro degli anni 30. Sua la tenuta insieme alle stalle, alla cantina, al mulino, al caseificio, alle stalle per tori, i maiali si era fatto costruire anche la casa padronale dall’architetto Bottoni, uno dei maggiori interpreti del Razionalismo italiano. Villa Davoli. Che diventa poi il nome della azienda di Daniele. Questa era la sua tenuta. La casa di campagna. Un mezzo latifondo. C’erano 300 persone che lavoravano per lui che non c’era mai. Il nonno di Daniele prima compra 40 ettari della tenuta poi la rileva totalmente pur non essendo ricco di famiglia. Aveva però il fiuto per gli affari.
Siamo nella terra dei motori e lui acquistava in Italia le auto sportive che uscivano di produzione per rivenderle in Sud America con un sicuro guadagno. Ci sapeva fare il nonno! Nonno l’ha comprata tutta nel 74. Poi venne divisa tra i cinque fratelli. Si era sposato con mia nonna che era nobile. I genitori non volevano che si sposasse perché non aveva una lira. Erano dunque scappati…Mio papà era del 48, nonno del 17. Si sono sposati a 21/22 anni. Erano tempi diversi. Non so perché ma ho idea che in famiglia si ridesse un sacco. Gente determinata e ben decisa ma con il sorriso che non poteva mancare. Mai. In Emilia si può essere scanzonati e goliardici, con la voglia di divertirsi e far baldoria e ogni occasione è buona, ma certo mai poco attenti o senza capacità. Perché senza capacità non vai da nessuna parte. Qui maggiormente. Qui dove i volumi sono alti e con questi le responsabilità. Daniele è uno che si diverte e si sa divertire ma non è certo uno sprovveduto. Già da giovane si rende conto e sa che se vuole gestire l’azienda, di strada da fare e cose da imparare ne ha. È per questo, ma anche per divertirsi altrove secondo me, che se ne va in giro per il mondo. Nel 2002 sono andato a lavorare in una cantina in Sicilia che non esiste più. Calatrasi. Facevano prodottini bianchi e rossi molto interessanti. I Catarratti erano molto buoni. Erano venduti in Inghilterra dunque erano molto influenzati dal legno. La cantina aveva una filiale in Puglia dove sono finito due anni dopo. Manduria. Nel frattempo era cambiato proprietà. Poi in Cile dove sono stato sei mesi. Non mi lasciavano mai andare. Mi sono trovato bene io e si sono trovati bene loro. Mi avevano offerto di restare e mannaggia a me che non ci sono restato. Eccolo Daniele. Buontempone, guascone, spaccone. Ma c’è poco da fare. Mi sta simpatico a pelle. Ti guarda, ti sorride e ti dice le cose. Quando pensi che ti stia prendendo in giro, eccolo che ti frega perché ti sta dicendo proprio la verità. Dal Cile mi avevano offerto una cosa in Francia ma non ho avuto cuore di andare ad imparare il francese. Italiani e francesi più di tanto non possono lavorare insieme sullo stesso vino. Allora sono andato a lavorare in Toscana. Anche li non esiste più. Vicino Certaldo. Posto spettacolare.
Nel frattempo spippolavo nella azienda agricola ma non in cantina. L’azienda era gestita da mio papà perché nel frattempo nonno era venuto a mancare. La sua cantina è andata in mano a mio zio che sta trasformando buona parte della cantina in un agriturismo con successo. Vitivinicola Rota è di mio zio. Dalla Toscana Daniele ritorna in Puglia mettendo le mani in pasta nel Primitivo che cominciava a decollare proprio in quel periodo. Poi in Veneto dove lavora per Cielo e Terra. Un salto importante che da solo fa capire quanto Daniele avesse già acquisito, o implementato, il suo bagaglio culturale e di capacità nel mondo vitivinicolo. Cielo e Terra è una azienda grande e con Daniele cresce ancora di più. Quando sono arrivato io erano a 7/8 milioni di bottiglie. 5 erano di vino Freschello che è un prodotto da supermercato e poi 20 milioni di brick. Con questi era davvero dura. Mi sono rotto i coglioni li e sono andato a lavorare per la Contri Spumanti dove ho fatto un bel progetto. Mi hanno dato dieci milioni di euro e gli ho costruito la cantina a Campogalliano: dal pavimento alle prime dieci milioni di bottiglie. Ero il direttore di stabilimento. Per far funzionare un impianto da 18 mila bottiglie ora devi sapere anche dove passano i cavi. Dicevo alla gente cosa fare per farlo funzionare. Sono soddisfazioni. Non sono tante le aziende che fanno cantine ex novo. Loro avevano scelto le macchine per imbottigliare e le ho installate tutte. Sono portato a far funzionare le macchine. Rimpiango gli stipendi. Darsi le arie non è tra le caratteristiche di Daniele. Non è di quelli spacconi che dicono le cose tanto per vantarsi. Lui è uno di quelli che dice la metà di quello che è o ha fatto. Timidezza? Ma no. Ci mancherebbe altro. Riservatezza? Giammai. Parla anzitutto con i fatti e poi, cosa più importante, fa le cose perché gli piace farle. Certo, il tornaconto è importante, ma lui se non si diverte nemmeno si alza la mattina. Finisce le esperienze nell’Oltrepò Pavese prima di decidersi ad occuparsi della sua azienda che, a causa delle varie divisioni ereditarie, era arrivata a contare 36 ettari di terreno con 26 di vigneto. Le uve? Conferite ovviamente. Mica aveva il tempo di stare dietro a qualcosa di diverso lui.
Finire le esperienze e smettere di andare in giro non è propriamente uno smettere di bighellonare come lo è per molti. Per Daniele è quasi un segnale a se stesso per cercare di far qualcosa di diverso, di personale. Nessuna voglia di emergere. Nessuna voglia di fare qualcosa per qualche altro. Per se stesso. Per mettere a frutto ciò che ha imparato. Magari per smettere di conferire le sue uve e fare finalmente una sua bottiglia. La mia azienda intanto andava avanti. Il prodotto lo conferivo in cantina sociale. Era già un miracolo riuscire a fare questo. Bazzicando parecchio il veronese per lavoro, per amicizia e anche per donne, vedevo che c’era la necessità di alcuni prodotti che nessuno si prendeva mai la briga di fare. Non ho mai capito se non volevano farli perché c’era da sbattersi, perché non erano capaci o perché non valesse la pena farli. Il mondo del vino è davvero particolare e variopinto. Trasmissioni come Report hanno avuto il grande merito di portare alla luce dei riflettori (quella che si spegne appena qualcos’altro viene illuminato) ciò che qualcuno fa (o non fa). Il racconto di Daniele è sferzante, vero. Nessuno più di lui sa cosa accade. Lui che conferisce l’uva e non una uva qualsiasi ma l’Ancelotta, generalmente utilizzata come taglio. L’Ancellotta è come un diamante grezzo: è chi taglia il diamante che crea una opera d’arte. Quando tu la tagli con la forma giusta diventa un diamante o un brillante. Ma qui sono abituati a lavorare con il badile. Così ho cominciato a far appassire un pò l’uva. Esperimenti sulle mie spalle. Con il biologico è complicato. Daniele, grazie anche alla sua esperienza, capisce che l’uva che lui e il padre hanno sempre coltivato, potrebbe essere trasformata e gestita in maniera diversa. Vinificarla “normalmente” non avrebbe portato a nulla, ma messa, ad esempio, in appassimento, così come tradizione del veronese, forse forse qualcosa di speciale avrebbe potuto dare. Ho cominciato a far appassire le uve.. Il primo anno nel mio ufficio con il ventilatore. Il secondo anno ne ho fatto 40 quintali. L’anno dopo 100. Questa roba che sembrava una follia, follia non era. Mi ha creato delle uve di qualità. Allora mi sono detto: perché non provo a buttarci sopra un Lambrusco e vediamo cosa viene fuori? Al massimo se va male lo vendo come sfuso.
L’anno prima l’avevo fatto 100 litri con un rosato. Poi l’ho fatto con il Lambrusco. Dopo l’esperienza ho indiziato a venderli in giro. Una volta spiegato ai clienti, questi tornano. Ho fatto dei mercatini e la gente tornava a comprare. Tutti contenti. Un mito Daniele! Capisce cosa ha in mano e capisce che nessuno prima di lui ci aveva ne pensato ne tantomeno provato. La sua è zona di grandi vigneti i cui proprietari preferiscono conferire piuttosto che vinificare. Soldi facili e soprattutto sicuri. Che senso ha vinificare? Già. Ma se sei uno come Daniele, eclettico, dinamica, persino stravagante, di quelli che non se ne stanno stare ferme e che ambisce a far si che la sua azienda rappresenti pur qualcosa di diverso, ecco che la vinificazione assume significato profondamente diverso. Intuizione, conoscenza, spirito di iniziativa. Senza elementi come questo sarebbe stato solo una autocelebrazione. Invece Daniele fa le cose per bene. Con rigorosità. Anche se l’aver messo le uve ad appassire con un ventilatore nel suo ufficio fanno venir fuori il suo carattere. Ho piantato un pò di bianco. La Spergola con un pò di Malvasia. Tipicamente reggiano. Non sono amante del Lambrusco anche se mi piace il Sorbara. Vorrei farne una bollicina ma ci sto studiando. Con l’Ancellotta faccio anche l’aceto. Sia il balsamico sia l’aceto. Per il balsamico di Modena ci vogliono sessanta giorni. Il disciplinare è una fregatura. Perché basta miscelare i prodotto e metterli sessanta giorni in contenitori di legno. Non botti. Contenitori. Anche sui disciplinari Daniele non he ha per nessuno. Parlare con lui vuol dire scoperchiare di tutto e di più magari fornendo altro materiale per le chiacchiere. Forse è meglio tenermelo come bagaglio culturale senza essere troppo espliciti. Anche se sono sicuro che lui lo direbbe pure con il megafono. Travolgente! Tre le etichette che Daniele produce e i cui nomi sembrano usciti da un cartone animato. A pensarci bene, osservando Daniele, anche lui sembra uscito da un cartone animato: grande stazza, viso tondo e sorriso che coinvolge.  Me lo immagino con la sua moto disegnato!
Ti fa simpatia a pelle per poi continuare a volergli bene ogni volta che parla. I tre vini dicevamo: Indelebile, Impossibile, Infinito.
Indelebile (che ho recensito sul mio blog) è prodotto con appassimento dell’Ancellotta. Un vino che ti segna in tutti i sensi. Lo bevi e sai già che la lingua ti si sarà colorata. Sa di scuro. Di profondità, di potenza e vigore. Il passaggio in botte lo rende morbido ma è un inganno. Se non lo bevi non sai cosa ti perdi. Se lo bevi ti coinvolge e ti convince. Ma occhio alla gradazione (15°) perché traditore! Impossibile è il ripasso in salsa reggiana. Stesso procedimento del Ripasso veronese ma sulle vinacce esauste dell’Ancellotta. La follia della follia che però restituisce grande forza. Molto più forte del Ripasso originale e non poteva essere altrimenti. Il passaggio in botte tenta di domarlo e di ingentilirlo. Ma la sua anima resiste. Determinato, pieno, deciso. Folle. Infine Infinito, un vino ancora deciso, stavolta preciso e che si lascia bere come pochi. Sarà per quella sua sapidità in bocca o per il bouquet di frutta fresca a pasta gialla. Da bere e da bere all’infinito. Vini fatti per stare in compagnia. Per accompagnarli con i prodotti tipici del territorio. Quelli grassi e corposi. Quelli che servono per mangiare e mangiare bene. Senza fronzoli. Indelebile si chiama cosi perché il vino è fatto con Ancellotta che colora in maniera indelebile. Lo puoi usare per scrivere con la carta. Impossibile anche se il labirinto è possibile perché non si può fare un ripasso con il Lambrusco. Infinito perché mi piaceva. Piaceva a mia mamma che era malata e in ospedale. “Dammi un nome che suoni bene anche in inglese” le dissi.. Ne ho degli altri in mente. La bollicina si chiamerà Incredibile oppure Sciampo. Perché in gergo è lo Champagne. Non serve aggiungere altro alle parole di Daniele. La scelta dei nomi la dice lunga sul suo modo di pensare. Sul suo credo. Sulla sua vita.
L’allusione al labirinto però va spiegata però. Per comprenderla occorre vedere l’etichetta dell’Impossibile: c’è un labirinto che conduce ad una casa, quella progettata nel ’32 dal grande architetto Bottoni. La scelta voleva essere un simbolo senza essere un simbolo. La capacità di produrre un vino insolito, anomalo, folle. Impossibile uscirne a meno che non si osi, non si sperimenti. La casa, simbolo del Razionalismo con intorno 11 ettari di vigneto, non poteva che essere il giusto sigillo. Eppoi è anche la casa di Daniele. Insieme ad un pazzo grafico che si chiama Rinaldo Maria Chiesa e che abita in una chiesa in toscana (è più fuori di me) abbiamo preso i disegna della casa ed adattarli per le etichette. Da li i nomi dei vini sono venuti in mente a me. La mia azienda si chiama AgriRota però non volevo portare il mio cognome sulle bottiglie perché ci sono i miei parenti che fanno qualcosa ma anche perché doveva essere qualcosa di non personale. Nella mia testa devono rimanere di nicchia. In ogni parola di Daniele emerge sempre la nota goliardica mista a leggerezza tale da ingannare i più ingenui. Daniele ci gioca, si diverte. Lui che è competente e attento capisce chi può prendere in giro, chi no; con chi può confrontarsi, con chi no. La spensieratezza insieme alla goliardia è quella che vuole trasmettere tramite i suoi prodotti. Senza fronzoli, pienamente studiati. Frutto di sperimentazioni e capacità.
Uno dei casi nei quali i vini rappresentano a pieno il produttore.
Spensieratezza? Provate a chiedergli cosa vorrebbe fare tra vent’anni e vi sentirete rispondere Mi vedo in Thailandia a non fare un cazzo. Per poi aggiungere (qui il Daniele vero e concreto) Mi piacerebbe far funzionare la vendita delle bottiglie e non vendere più l’uva sfusa. Sempre che sia la bottiglia la confezione del futuro. Sto lavorando come consulente sul vino senza alcol. Mi piacerebbe trovare una alternativa più ecologica delle bottiglie. Ho fatto uno studio sulle lattine.
Iniziamo una discussione sui tappi e dimostra tutta la sua conoscenza. Daniele miscela le sue personalità con l’amore e la passione per questo mondo; la sua vita e il suo essere. Prendere o lasciare. Non ci sono mezze misure. Non si fanno prigionieri. La sua vita è fatta di concretezze e frivolezze. Devono convivere e se non convivessero ci penserebbe lui a far si che accada. Scegliere? Perché mai. Se voi voleste scegliere, diventerebbe solo affar vostro. Non suo. Sarà sempre e solo nelle vostre mani. Lui, Daniele è e rimane una di quelle, poche persone, che può permettersi di dire, senza fronzoli e senza tentennamenti: io sto bene al mondo!       Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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5 Aprile, 2024

Michele Petri. Tra i grandi Supertuscan, ci sarà il mio

Cosa facevo io a 25 anni? Ero a Torino a lavorare da mamma Fiat. Come ingegnere, ancorché aeronautico, lavorare per Fiat era un onore. Bellissimo periodo della mia vita. La prima esperienza lontano, l’addio a casa di mamma e papà, la grande città dove tutto è nuovo e bello, un lavoro fantastico, dei colleghi accomunati dagli stessi obiettivi. Insomma una vera figata. Anche perché andavo in giro a scoprire il mondo. Non solo Torino.
Il ragazzo che ero voleva conquistare il mondo. Aveva il carattere e la preparazione per farlo. Aveva l’energia e la voglia. Aveva soprattutto il tempo per farlo. Michele Petri ha anche lui 25 anni e il suo obiettivo è quello di portare i suoi vini allo stesso livello di quelli più blasonati. Vorrei arrivare che tra i grandi Supertuscan ci sia anche il mio. Per ora è un segreto. Non credo sia impossibile ma credo che la strada sia tanta. Guadagnare, vivere bene, avere una vita felice. Certo. Ma la soddisfazione lavorativa è pensare che c’è il Sassicaia, il Solaia, il Tignanello, l’Ornellaia e poi il mio. Questo mi scalda il cuore. Sognare non costa nulla. Sognare è qualcosa che se manca rende la vita piatta e stanca. Il sogno invece arde dentro di noi e ci porta a lavorare per questo. In maniera forte e determinata. Senza patemi magari ma lottando per raggiungere un risultato. Senza questo cosa saremmo se non persone che affrontano l’oggi solo perché passi? Michele ha solo 25 anni. Terzo di tre figli (Sofia e Pietro) è quello che si potrebbe definire figlio d’arte. Papà Alessandro è agronomo e prima di mettersi a fare il docente all’istituto agrario di Portoferraio è stato per oltre trent’anni il responsabile agronomo di Tenuta San Guido. Non “uno qualsiasi” insomma. Mamma Anna, agronoma pure lei, tiene in piedi la tenuta di famiglia, Azienda Agricola Lombardi Anna in quel di Suvereto (LI): 4 ettari e mezzo di vigna, 8 di uliveto, 4 di seminativo. Tanto per non farci mancare niente anche Sofia è agronoma e adesso cura l’uliveto.
Cosa può studiare uno che proviene da una famiglia del genere? Enologia ovvio! La terra che lavoro io è di mia madre. Arrivata a lei dal nonno che l’aveva comprata ad un’asta giudiziaria. Nicolò Incisa della Rocchetta, il terzo genito di Mario chiese di impiantare dell’uva a casa nostra. “Abbiamo bisogno di uva per fare le difese. Te la pianteresti a casa tua?”
Mio padre era interessato. Più che del vino della vigna e della sua coltivazione. Si decise di piantarla. La vera colonna portante era mia madre che da sola coltivava tutto per tutto l’anno dedicato. Per me era una cosa eroica. Con una famiglia così (solo Pietro ha scelto di fare altro, il musicista) non puoi che respirarla la vite ed il vino. Magari può non piacerti a tal punto che vuoi scappare. O puoi innamorartene perpetuamente così da far diventare l’amore, la tua stessa vita. E se fossero entrambe le cose? Facevamo poca roba a livello di casa. 300/400 bottiglie. Mia zia ha 12 figli. A natale siamo in 50 e serviva il vino. Così mi sono appassionato alla vera enologia. Vedere l’uva nel tino, la fermentazione roboante che però da vita a qualcosa di elegante. Mi affascinò. In casa mia si è sempre parlato di vino e papà portava a casa anche vino dalla Francia. Anche se i princìpi a casa ci facevano stare sempre con i piedi per terra. I valori erano alti. A 14 anni Michele non può che stare in cantina con il papà. Ve li immaginate padre e figlio a sperimentare, provare? Un modo per legare. Per creare un rapporto meraviglioso, quel legame padre-figlio che può diventare indissolubile. Michele, come tanti ragazzi nella sua stessa situazione, impara, si pervade di una cultura che diventa sua. E cresce. Io spendo tanto in vino. Se trovo un Sassicaia me lo compro. Per fare un vino super devi assaggiare vini super altrimenti non hai in bocca il gusto di ciò che deve i creare. L’intelligenza di Michele arriva a fargli capire che se vuole essere annoverato tra i grandi del vino deve prima conoscerli. Non si può e non si deve essere autoreferenziali. C’è bisogno di confrontarsi. Lavorando e lavorando tanto. Il lavoro è un modo di unire le persone. Come toscani non andiamo sempre d’accordo ma la visione è la stessa. Fare un prodotto eccellente che rispetti le cose dette. Facciamo 6000 bottiglie e non vogliamo prendere in giro nessuno. Io mio occupo della parte di cantina e di commercializzazione. Faccio tutti i processi di cantina. Faccio le pubbliche relazioni. Poi manovalanza quando ce ne è bisogno. Siamo una cantina familiare. Bisogna fare le cose manuali. Forse non tutti capiscono cosa voglia dire lavorare in vigna ma quando entri in un vigneto e in fondo alla fila ti giri e vedi tutto sistemato pensi: questo l’ho fatto io. Ti stai prendendo cura di qualcosa. Questo è legato alle persone che usufruiranno del tuto prodotto. Questo è il bello. Un ragazzo molto maturo per la sua età. Si racconta con un tono che sa di gioia nell’avere qualcuno cui poter raccontare di ciò che prova. Sa che quello che lo aspetta è un percorso lungo e faticoso. Ma ce la può fare. Ha il tempo e la voglia dalla sua. Mamma ha 61 anni. È una vita che spero continui per poco. Se stai in ginocchio in vigna il fisico ti dice basta. Papà insegna all’agrario a Portoferraio. È un divulgatore per eccellenza. Non sa stare zitto. Deve cercare qualcosa dove la gente lo ascolta. Poi aiuta in cantina. La cosa che mi spaventa è che ha sempre dato molto spazio. Quando vado a chiedere un consiglio mi dice “fai te”. Questo fai te un pò me la fa fare sotto. Vuol dire sia “mi fido di te” sia “sei grande e la responsabilità” è tua. Ho fatto i miei errori, ho avuto le mie delusioni, ho detto basta questa cosa non la faccio più, rinuncio e punto a capo sono qui a combattere. Michele fa il capo scout. Ha a che fare con ragazzi dagli undici ai sedici anni. Li, nella filosofia di di Robert Baden-Powel gli scout sono un posto dove non solo si può sbagliare, ma si deve. Perché nella vita in ogni luogo dove si sbaglia, c’è una conseguenza, cosa questa che non ti fa vivere serenamente. Come puoi imparare se c’è sempre qualcuno o qualcosa che ti penalizza? Negli scout ti si insegna a sbagliare. Anche se quando sbaglio mi lecco le ferite e riparto. Michele ha imparato in poco tempo che in cantina il suo non deve essere una invasione ma una osservazione. Lasciar parlare il vino mettendosi da parte. Quando c’è bisogno del mio intervento, intervengo. Se le barrique sono buone, i batonnage sono giusti, le proteine sono giuste, non c’è molto da fare. Aggiungere qualcosa vuol dire che non si è fatto un buon lavoro prima e non è il terroir che parla ma l’enologo. Ammazza che maturità questo ragazzo di 25 anni. Non vuole scorciatoie ne le cerca. Perché non è con le scorciatoie che si arriva prima. Voler fare un vino di eccellenza non è una gara a tempo. È una competizione sulla lunga distanza. Più con se stessi che con il mondo intero. Anche se è questo che deve poi giudicarti. Io ho filosofia di farmi da parte. Mi sento un dottore per il vino. Se il paziente sta bene non lo devo curare e lui va alla grande. Se sta male tocca intervenire perché stai facendo bene al vino e a le tue tasche. L’importante è che ci sia il terroir. Sono importanti le persone senza però che mettano la propria l’impronta. Dei custodi di ciò che ci è stato dato. Alzo le mani dianzi ad un simile pensiero. Non è quello di un ragazzo di 25 anni. Non può essere. È davvero intenso. Intenso e incredibilmente vero. Ha in se quella consapevolezza che non è superbia. Il suo modo di parlare è di quelli entusiastici di un ragazzo di 25 anni. Modestia e tanta voglia di cimentarsi. Lavorando e sudando.
Michele capisce anche che lavorare solo nella sua azienda non gli fa bene. Ha bisogno di altro per crescere. Confrontarsi non basta. Deve e vuole imparare. Non fosse altro perché la teoria dell’Università necessita di un pò di sana pratica. Mi sentivo un bambino sperso. L’unico modo che potevo fare era mettere le mani in pasta e capire come funziona. Mi sono così fatto sei mesi di esperienza alle Ripalte all’Elba. Uno dei soci è Piercarlo Meletti Cavallari che ha inventato il Grattamacco ed è uno dei fautori della doc Bolgheri. Poi sono andato da Casadei a Suvereto. Ho fatto il cantiniere. Stare accanto ad enologi importanti è stato importante perché mi sono reso conto che fare l’enologo professionista non è una cosa che mi interessa. Te pensa che nel mio anno eravamo in 70 e se ne sono laureati 30. Un enologo può tenere anche 60 cantine. Una jungla. È una vita che non mi appartiene. Non mi interessa risolvere i problemi alle cantine o mettere una mano per farli diventare buoni al pubblico. Io voglio fare buoni vini. Non oso dire grandi perché la strada è lunga. Un padre importante nel mondo del vino. Una madre con tanta esperienza. Una sorella maggiore che potrebbe supportarlo. Invece Michele sceglie di andare a fare una esperienza fuori dall’azienda. Un misto di paura e voglia di crescere. Paura di non essere all’altezza della sua famiglia. Paura di fallire. Paura di non riuscire.
Andare all’Elba vuol dire lontano. L’isola mette il mare tra lui e casa. L’isola non consente di tornare quando si vuole.
Nonostante ciò, Michele deve tornare perché la responsabilità della cantina comunque è sua e solo sua. Rientravo una volta a settimana dall’Elba e facevo i travasi. Ho cercato di stargli dietro il più possibile. Cosa è mancato? Il batonnage giornaliero. Piccole accortezze che forse danno una marcia in più. Non è stato particolarmente destabilizzante per il prodotto perché i miei genitori mi hanno dato una mano. Tenere mano ai travasi è complesso ma bello. Serve che sai le cose con cognizione di causa altrimenti devi seguire la scheda. Oppure puoi giocare sapendo le cose. Un ragazzo come Michele è veramente da lodare. Ha fatto le sue scelte con uno scopo ben preciso in testa. La paura gli è rimasta e probabilmente gli rimarrà sempre. Ma ha dalla sua sani principi e dei genitori che hanno saputo instradarlo correttamente. Consentendogli di sbagliare e di decidere, da se, del proprio futuro.
Adesso è consapevole. Sa cosa succede. Ha capito che senza esperienza, ma anche senza studio, manca comunque qualcosa. Adesso sono estremamente più pronto. Anche più sicuro di cosa devo fare. È stato un anno complesso perché lavorare dipendente vuol dire prendere pochi soldi. Sono ambizioso e voglio molto di più dalla mia vita. “Ma a me cosa piace?” mi sono iniziato a dire. Mettermi in gioco anche se sono un vero “cagasotto”. Ma ho voglia di sfidarmi. La risposta era a casa. Son fuggito da casa per sapere di più. Poi mi sono reso conto che il fallimento è solo una ripartenza. Me ne sono andato per paura. Ma anche per imparare. Se me ne fossi andato per imparare sarei andato vicino casa. All’Elba era più per scappare. In questo la grande maturità di un ragazzo che di vendemmie dinanzi a se ne ha davvero tante da fare. Vendemmie così come tanto altro. Perché Michele sa che oltre a produrlo il vino, occorre anche venderlo. E li ha molto ma davvero molto da costruire.
Le idee comunque sul futuro sono chiare. Piccoli passi da compiere ma sicuramente chiari. Il vigneto ha un anno meno di me, 24 anni. Andrebbe con calma espiantato e rifatto. La qualità che facciamo è ottima. Si potrebbe far di più ma abbiamo paura che non porti bene a maturazione l’uva. Ci sono poi altri 4 o cinque ettari da piantare. Che pianteremo alla grande. Piano piano. Siamo tutti molto bravi a livello tecnico ma a livello commerciale siamo disastrosi. Abbiamo ripiantato 2.5 ettari di Cabernet Sauvignon che entra in produzione quest’anno. Poi abbiamo un Syrah che ha bisogno di essere ripiantato. Facciamo il rosato al quale tengo particolarmente perché è stata la mia tesi di laurea. Il rosato è il vino nostro più bello poiché particolare. Tre i vini in lista. Ancora magari pochi ma di assoluto spessore e identità.
Il rosato, La dama del lago da Syrah è assolutamente particolare forse anche grazie al suo periodo di immersione nel lago (dopo la fermentazione viene messo in damigiane sigillate e via, giù nel lago!).
Le gatte bigie è un blend Cabernet Sauvignon e Merlot con 18 mesi di affinamento. Potrebbe essere tranquillamente un DOCG Suvereto ma la caoticità di Michele si è un pò persa nelle questioni burocratiche (come non comprenderlo”).
Infine Le rotte del vento, un blend di Cabernet Sauvignon e Merlot che, insolito in Toscana, affina in anfora. Sul mio blog la recensione completa di questa chicca. Una scelta quella dell’anfora per puntare a rendere qualcosa dall’anima bordolese, più tagliente. L’altra parte del nostro piano prevede che il terreno che abbiamo a Segalari, sopra Bolgheri. È in una delle zone più belle di Bolgheri con l’altitudine che Mario incisa aveva pensato. Uno dei miei sogni è di poter creare lavoro. Mi preme molto. Vediamo se arriverà. Nella mia idea futura vorrei aprire una enoteca di vini di pregio. È tosta ma voglio farlo. Michele Petri. 25 anni. Vignaiolo. Segnatevi su un taccuino questo nome perché nel giro di dieci anni ne sentiremo parlare. I vini che ho avuto il piacere di assaggiare lasciano presagire uno sviluppo degno di nota.
Segnatevi questo nome, sentite a me. Michele, capisco che hai tante cose che magari ogni tanto ti provocano affanno ma cerca sempre di pensare che occorre mettere proprio le cose da fare, una dietro l’altro. Come una fila di formichine che si aiutano reciprocamente. Una cosa dopo l’altra. In fila, fanno meno paura.   Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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29 Marzo, 2024

Francesco De Angelis. L’ingegnere dell’Asprinio

Ci sono territori che rimangono dentro di noi per svariati motivi. Possono anche non essere eccelsi, ma, per qualche recondito motivo, sono in noi con un misto di nostalgia e felicità.  La zona del casertano è nella mia mente e nel mio cuore perché li c’erano i miei nonni materni. Un piccolo paese, Camigliano: grande per un bambino piccolo, piccolo per un bambino grande.  Li ho trascorso le estati, le feste, i fine settimana. Li nonno Antonio mi portava in campagna a sentire gli odori.  Il dialetto, l’intercalare della parlata. I sorrisi e i discorsi delle meravigliose persone di quelle zone. Ogni cosa è dentro di me.  Sarà per questo, anche per questo che quando incontro Francesco De Angelis, ingegnere e vignaiolo, mi sembra di ripiombare indietro nel tempo. La sua parlata, dove vive, come si pone. Tutto sa del mio passato. Ne rimango affascinato ed è bello che sia così. Siamo a Casal di Principe, un luogo che deve purtroppo la sua notorietà a questioni legate alla Camorra. Mio zio Pasquale, avvocato del Foro di Santa Maria Capua Vetere, mi portava qui narrandomi da un lato storie di Camorra, dall’altro di quanto le persone fossero in realtà persone per bene. Luoghi che sembrano non offrire nulla ma che in realtà hanno rappresentato negli anni la culla dell’agricoltura campana.  Le persone che ho incontrato da piccolo e adesso, sono uniche e splendide. Tutte legate dalla grande capacità di amare questo territorio fin nel midollo. Zio Pasquale studiava la storia. Andava a fondo animato da profonda curiosità. Cercava, proprio nella storia, le origini del territorio che viveva. La grande fertilità, i meravigliosi prodotti, avevano sicuramente fatto gola ai nobili di un tempo. I terreni di Casal di Principe, fanno parte dell’Agro Aversano la cui enorme fertilità è il risultato delle attività vulcaniche di Rocca Monfina e dei Campi Flegrei. Il primo con la sua ultima attività oltre 50.000 anni fa, il secondo ancora attivo. Minerali e, appunto, tanta fertilità dovute anche all’essere state zone paludose bonificate durante durante il fascismo. Fertili terre abbandonate per concentrarsi maggiormente sulla cantieristica e l’allevamento delle bufale (producendo tra l’altro una meravigliosa mozzarella!). Il vitigno di questo luogo è un vitigno vigoroso. Così vigoroso che si sviluppa in altezza con le alberate che raggiungono i venti metri di altezza. L’Asprinio è così. Si sviluppa in altezza per la sua capacità di crescere e produrre. Gli anziani lo legavano ai pioppi o lo appoggiavano alle mure di cinta creando la “maritata”, lo sposalizio.  Un tempo l’abbondanza era grande cosa. Una pianta che produce anche 100 kg di uva non poteva che risultare affascinante. Anche se poi arrampicarsi sulle scale di legno per portare giù quei grandi grappoli non era cosa per tutti.  Il vino che se ne ricava, l’Asprinio è un vino secco. Così secco che Mario Soldati scriveva “Non c’è bianco al mondo così assolutamente secco come l’Asprinio: nessuno”. Secco e di grande impatto di abbinamento. Troppo difficile però coltivare un vitigno come l’Asprinio nella sua accezione antica. Solo il doversi arrampicare come ragni su quelle pericolanti scale avrebbe scoraggiato chiunque. Anche il papà di Francesco che sulle terre di famiglia si accontentò di coltivare le mele Annurche, la pesca Puteolana, i pomodori. Ma non il vigneto. Troppo difficile.  Francesco si trova anni fa a capire cosa farne dei tre ettari del terreno di famiglia. Ne parla con un amico, anzi, come dice lui, un parente, agronomo.  Parlando con un parente agronomo mi disse “ma perché non metti un vigneto?” Mi ricordai di quando ero piccolo che avevo questo scalone per raccogliere le uve. L’Asprinio. Le scale le appoggiavamo al muro. Nonno poi mi facevo pigiare l’uva. Francesco è per prima cosa un ingegnere e io, da ingegnere, so come ragiona un ingegnere. Per lui, fare una vigna come si faceva un tempo e produrre un vino come fanno tutti, non gli passa manco per la capa (come direbbero qui). Un ingegnere ha la testa che gli frulla come un mulino a vento e ha in mente solo due cose: innovazione e qualità. Non si scappa. Non si possono fare cose che non siano di qualità come non si possono fare cose vecchie o meglio, allo stesso modo di come si sono sempre fatte. Fino ad un certo punto o meglio coniugando le cose di un tempo con la tecnologia moderna.  Lo faccio ma con il mio modo di vedere le cose. Tecnico tra virgolette. Faccio un impianto ex novo a spalliera e biologico. Anche prima era biologico perché i nonni utilizzavano solo zolfo e rame. In più come mio nonno non usava i concimi io non li uso. O sovescio o Bioma. Asprinio con impianto a spalliera? Sembra, almeno per queste zone, una bestemmia. Ma vallo a contestare ad un ingegnere che prima di cominciare la sua attività di vignaiolo ha usato il metodo ingegneristico: studio, sperimentazione, documentazione, confronto.  Studia tutto ciò che trova da studiare documentandosi senza limite. Si confronta con agronomi ed enologi. Sperimenta quanto sperimentabile! Ho studiato. C’erano dei corsi della regione Campania. Chiedevo consigli ad un amico enologo ed agronomo appassionato di biologico. Le terre c’erano ma prima dovevo capire come partire. Da noi la spalliera non è un tipico impianto. C’è l’alberata ma è difficile. Mi sono studiato i sistemi a spalliera e ho individuato quale potesse andar bene. Ho impiantato la barbatelle scegliendo le gemme con una ricerca tra le varie tipologia di asprinio. Mi servivano i paletti in acciaio per la spalliera ma qui non ci sono nemmeno sistemi per impiantare i paletti. Ho dovuto prendere una impresa che impianta i paletti sull’autostrada. Insomma ho coniugato le capacità del territorio con quello che mi serviva. Insomma, ho fatto la scelta di tutto da ingegnere. Sono partito da solo con un agronomo che suggeriva. I primi anni con grande difficoltà perché senza esperienze. L’esperienza ce l’aveva il nonno.  Un ingegnere si annoia a fare le cose allo stesso modo o le solite cose. Fare una cosa ex novo non era nelle sue corde. Impossibile solo a pensarlo. Ma anche insolito.  Ora, immaginatevi la scena. Francesco che è nella sua vigna in costruzione con tanto di paletti in acciaio e le persone del luogo che passando non potevano che pensare quanto fosse insolita e insensata la sua idea.  Ingegnè ma chi to fa fa. ..mi prendevano in giro. Però i consigli sono serviti e le piante sono cresciute con l’uva bellissima. Quelli che mi prendevano in giro si fermavano “ingegnè hai fatto una bella uva”. Una bella soddisfazione.  Se anche gli anziani del luogo davano il proprio consenso, allora non si poteva che essere sulla strada giusta.  La campagna, la vigna. Si per Francesco sono importanti. Salire sul trattore come saliva da bambino è per lui una felicità immensa. Uno svago, un modo per evadere.  L’attività professionale è da libero professionista. Oggi cuba abbastanza ma le tempistiche mi permettono di muovermi. Le lavorazioni in campagna si fanno molto presto. La sera dopo le 20 nel periodo estivo o sabato e domenica. Ricordo da bambino quando giocavo sul trattore. Quando ci salgo sopra ritorno bambino. La manualità non è solo quella dei tasti del computer. È quella della vigna della etichetta. Ma non è la campagna la vera passione di Francesco. Sentendolo parlare ci si accorge di quanto sia attento allo studio e alla sperimentazione vera e propria. Il suo mondo è la cantina. Qui può sperimentare e capire. Non con l’ambizione di “creare” qualcosa ma di modernizzare quello che si faceva un tempo.  Volevo solo l’Asprinio. Non faccio solo il vino. O meglio faccio il vino fermo e frizzante, tre tipi di spumante, la grappa, sto cercando di fare un brandy. Ho ancora altre idee. Cerco di trasformarlo in tutti i modi che mi vengono in mente. A me piace molto la storia che c’è dietro.  La storia appunto. Come quella che ha ispirato Terzo Farnese prendendo il nome da Papa Paolo III Farnese che nel 1585 si recò a Napoli per una delle sue visita. Ora, Paolo III era un cultore del buon cibo tanto da avere e portarsi dietro un cuoco, tale Bartolomeo Scappi. Allo stesso modo era un cultore del buon bere. Il suo bottigliere personale, Sante Lancerio aveva il compito di scegliere una bottiglia di vino per ogni ora del giorno, per ogni mese, per ogni anno. Portando delle motivazioni al Santo Padre. Non è dato sapere se fosse sempre lucido. Di certo, apprezzava e comprendeva il buon vino. Sante Lancerio, proprio nel viaggio a Napoli, gli propose una bottiglia di Asprinio proveniente da una fresca di grotta dell’Agro Aversano.  Ora, se pensiamo che a quel tempo i vini potessero essere come quelli odierni, sbagliamo di grosso. Per forza doveva ad esempio essere non filtrato e per forza doveva essere frizzante: non potevano certo governare il processo di fermentazione.  Così è quindi Terzo Farnese. Ha il sapore del vino con della storia dentro. Sempre ricordando la storia ho fatto Nobir che è una piccola bottiglia con un prodotto frizzante non filtrato. Nobir è un omaggio alla “foglietta” ovvero alla misura di mezzo litro introdotta da Papa Sisto V nel 1588: al fine di porre fine alle frodi degli osti romani, ordinò di sostituire le brocche in coccio (che finiranno tutte a generare il Monte dei Cocci a Testaccio) con quelle di vetro in misure determinate. Tra queste proprio la foglietta (in romanesco “fojetta”.  A Napoli si beveva l’Asprinio e le signore bevevano la foglietta.  Nobir è un mezzo litro di vino Asprinio. Sono curioso perché leggo tanto. Mi chiedo se questa cosa si può fare, mi interfaccio con il cantiniere e l’enologo e chiedo se si può fare. Così faccio. L’enologo si diverte perché sperimentiamo. A me piace uscire dai canoni attuali. Volevo ad esempio avere uno spumante ancestrale come quello dei nostri nonni ovvero ottenuto da una unica fermentazione. Così ho bloccato la fermentazione mentre diventava vino. Ho travasato tutto in una bottiglia lasciando completare la fermentazione. Poi sboccato come se fosse un metodo classico al fine di togliere quasi tutte le fecce. Il risultato è un prodotto senza zuccheri aggiunti e senza solfiti aggiunti: ha una specificità e la storia. Senza cattivi odori. I volumi sono pochi e non può che essere cosi. Tre ettari garantirebbero anche rese molto interessanti in un territorio del genere. Ma Francesco ha in mente solo la qualità.  I tre ettari sono tutti vitati ma con Guyot c’è si qualità ma meno produzione. Questa pianta è forte perché da uva fino a 15 metri di altezza e ne può produrre anche un quintale per pianta. Io ne faccio fare circa 4 kg. Questo influenza molto la qualità del prodotto. I territori sono ricchi di sali minerali perché siamo in una ex pianura alluvionale con i vulcani di Rocca Monfina e del Vesuvio. L’alta concentrazione di sali minerali si concentrano nei pochi chicchi. È possibile che nelle bottiglie si trovino ad esempio cristalli di calcio e potassio. La concentrazione è talmente alta che per toglierli dovrei fare tante filtrazioni. La mia idea è di ottenere un prodotto che rispecchi l’Asprinio di una volta con la tecnologia che abbiamo adesso.  7 sono i prodotti realizzati anche se Francesco ne ha in mente molti di più.  Cisavolpe, metodo ancestrale (3000 bottiglie); Terzo Farnese (3000 bottiglie) Nobir (3000 bottiglie) Primo, Asprinio fermo (1300 bottiglie) DEA, Spumante Charmat (2300 bottiglie di uno spuntante non canonico già da colore);  Metodo classico Mattia (dal nome del papà per 1000/1500 bottiglie). Con questi volumi, fare l’investimento della cantina non sarebbe stato possibile. Ecco che Francesco si serve di una cantina limitrofa per vinificare. Cantina alla quale va tutta la mia comprensione per riuscire a star dietro un vulcanico pensatore come Francesco! A 300 metri da casa mia c’è una cantina sociale che ha i mezzi e lavoro solo le mie uve. Faccio li tutti gli esperimenti. Faccio dei prodotti che sono in controtendenza.  Per tutti i vini la pressatura è soffice a una atmosfera grazie ai macchinari. Questa è la tecnologia. Nel passato il torchio andava ben oltre le 100 atmosfere (anche 400!). Una bella differenza. Il pressato diventa di un colore arancione. Sembra un orange, un macerato. Già li perdiamo prodotto. Prendiamo solo il fiore. Otteniamo pochissime bottiglie cosi che con la qualità posso competere. Il massimo della qualità. Così è il mio prodotto. In alcune bottiglie non c’è solfito. Nel Terzo Farnese siamo sotto i 10mg litro cosa che potremmo scrivere “senza solfiti”. Prodotto dal sapore riconoscibile. Quello è asprinio De Angelis.  In effetti, avendo assaggiato anche altri Asprinio, la differenza è evidente proprio a partire dalla colorazione. Gli odori vengono fuori ancorché l’Asprinio non abbia particolari sentori. Quello di Francesco ha una sapidità spaziale. In bocca l’alcol sembra non esserci grazie alla sapidità. La tipologia di prodotti è cosi particolare ed identitaria che il primo sorso non è sufficiente per apprezzarli. Il secondo però comporta il non potersi più fermarsi per via di una pazzesca fruibilità . Sono vini da pasto poiché la grande freschezza necessita di un abbinamento che, qualora corretto (pesce in frittura, frittura in generale, formaggi freschi, mozzarella di bufala, pizza base bianca), fornisce una pulizia del palato unica nel suo genere.  Mattia è una esperienza. Un Asprinio che non ti aspetti. Eppure la generosa spalla si presta benissimo alla spumantizzazione. Un metodo classico che mi ha stregato già da quel colore intenso e vivo come se fosse un macerato (ma il contatto con le bucce nemmeno lo ha visto). I sentori di albicocca, pesca e mandarino spiccano anche se ingannano per la loro freschezza e semplicità. In bocca infatti Mattia da il meglio di se e degli altri con una pazzesca mineralità dunque sapidità. Il gusto che ricorda la albicocca disidratata e mandarino si uniscono alla proverbiale freschezza dell’Asprinio ma con un perfetto bilanciamento. Perlage finissimo grazie ai 30 mesi di affinamento: in bottiglia!! Finale fantastico e persistenza lunga ne fanno un prodotto che ho sposato con vari tipi di pizza. Un vero matrimonio ben riuscito. Dal punto di vista commerciale ho un amico, parlo sempre di amici, che mi cura l’etichetta e un pò di sponsorizzazioni su vari canali. Poi c’è il passaparola. Sono arrivato anche sulle Alpi. Un signore mi ha inviato una foto del mio primo spumante che non si chiamava DEA ma Francesco De Angelis del 2019 bevuta adesso. Mi ha chiamato perché gli era piaciuto tantissimo. Ne ha volute quattro casse. Ne era rimasto colpito. Vorrei piazzare i miei prodotti subito ma senza incrementare le bottiglie. Non voglio diventare industriale ma rimanere artigianale.  Questo è Francesco De Angelis e la sua Asprinio De Angelis. Una persona schietta, divertente, viva. Una di quelle persone con le quali zio Pasquale si sarebbe messo a parlare di storia bevendo un bicchiere di Asprinio. È un pò quello che ho fatto io, con tutto il cuore, con Francesco. Perché qui le persone sono come lui. Sembra che ci si conosca da sempre. L’Asprinio di Francesco è come lui: vero e unico, ma non per tutti.   Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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22 Marzo, 2024

Massimiliano De Juliis. I filari, l’amore

Quando è che siamo tutti uguali? Antonio De Curtis in arte Totò diceva che avveniva solo dinanzi alla morte. Nella sua meravigliosa ‘a livella riportava il dialogo tra Esposito Gennaro, netturbino e il nobile Marchese Muorto si’tu e muorto so’ pur’io;
Ognuno comme a ‘na’ato é tale e quale” Si, difronte alla morte siamo tutti uguali. Ma non solo.  Per essere meno macabri si potrebbe affermare che dinanzi alla giustizia dovremmo esserlo. Ma caliamo un velo pietoso. Meglio soprassedere. Di certo quando siamo nudi poiché nulla di più del nostro corpo abbiamo. Si potrebbe obiettare, non sbagliando, che il corpo di un nobile o di un ricco sia più curato di quello di un povero. In campagna. In campagna, con una zappa in mano sotto il sole. Li si è uguali. Il sudore è lo stesso, i calli alle mani sono gli stessi: la natura non fa distinzione di sesso, età, religione, stato sociale. È la dura vita del contadino. Sia che lo si interpreti per vivere sia per gestire un hobby. L’unica vera differenza può essere il livello di callosità nelle mani o i solchi lungo in viso (come una specie si sorriso cantava De Andrè). Non c’è in questa storia un nobile ne tantomeno una persona ricca. C’è però Massimiliano De Juliis che nella vita ha due passioni, la vigna e la politica.  Ora, per qualunque schieramento politico si possa fare il tifo (e uso di proposito la parola “tifo” perché in Italia non c’è mai un serio ragionamento politico quanto un semplice schieramento nemmeno fossimo al tempo dei Guelfi e dei Ghibellini), l’impegno politico è una vera passione. Specialmente se la fai in Regione o, come Massimiliano, nel Comune di Roma, al IX Municipio dove Massimiliano è Consigliere dal 2008.  Parlando con Massimiliano, Max, mi è venuta in mente questa cosa dell’uguaglianza perché spesso si fa confusione tra l’aspetto pubblico di una persona con quello privato. Anche un Consigliere comunale così come un Presidente della Repubblica, possono avere delle passioni che li portano ad essere persone come tutti gli altri. Anche se non te lo aspetti.  Si, certo, qualcuno mi dirà che un Consigliere di Circoscrizione non è che sia una carica importante. Vero ma l’impegno politico non si misura con le cariche, semmai con la passione, dunque il tempo che dedichi. Come in tutte le cose. Come nella vigna. È la prima volta che mi racconto. Quando parlo di me e di questa cosa, lo faccio con una certa emozione perché è diventato un sogno dunque mi rendo conto che è realtà. Ho conosciuto Max per caso durante una mia degustazione. Ci ha tenuto a farmi assaggiare due suoi vini. Due creature che produce dalla sua vigna sulla via Ardeatina nel bel mezzo della campagna romana. Il luogo dove Max è vissuto. Dietro la sua casa, il vigneto è nato insieme a lui. Impiantato da papà Antonio, morto purtroppo troppo presto. Papà morì prematuramente e mi sono trovato con quattro ettari e mezzo di vigneto. Non avevo capito di aver acquisito quel pò di conoscenza nel portare avanti la vigna. Io faccio tutt’altro per una grande azienda nel campo dell’energia. Ora Max non me lo dice ma potrei giurarci che la vita lavorativa prima, politica dopo, lo abbia portato lontano da quel vigneto per parecchi anni. È successo anche a me con le terre di papà. Quando lui era in vita, pensava a tutto. Io, come i miei fratelli, andavamo per altri lidi. Poi però ti ritrovi drammaticamente e istantaneamente dinanzi ad una scelta: vendere o continuare.  Max sceglie di continuare. I ricordi di lui con il papà tra quei filari non solo sono vivi, gli infondono coraggio. Ne serve tanto per rimettere a posto una vigna ormai stanca.  Adesso sono in produzione mezzo ettaro del vigneto originario. Ne avevamo quattro e mezzo. Sono stati espiantati e il prossimo anno entrerà in produzione un altro ettaro tra Malvasia del Lazio e Ciliegiolo. Sono cresciuto insieme alle vigne anche se mio padre non ha mai spinto più di tanto per farmici avvicinare. Gli anni 70 andavano bene poi l’agricoltura nel Lazio non ha avuto un buon momento. Fatica e tanto lavoro non davano alcuna remunerazione. Anche papà faceva altro.  Come in molte altre situazioni che ho incontrato nel mio percorso, quei meravigliosi ma crudeli mesi del lockdown hanno generato rinascite. Accanto alle tante morti di persone inermi, molte altre, chiuse nel noioso sicuro delle mura domestiche, hanno avuto la forza di inventarsi, reinventarsi, scoprirsi.  Così Max che riprendendo i libri di agronomia ed enologia capisce che, alla fine, non è solo un hobby quello che ha per le mani. Semmai un vero e proprio amore.  Quando sei in un vigneto e assisti, giorno dopo giorno, alla magia del susseguirsi del tempo fino ad arrivare alla vendemmia dunque alla cantina, non puoi non rimanerne fulgorato.  La vigna è come la passione per le moto. Quando arriva aprile c’è la voglia di mettere il casco anche se la moto te la sei venduta. Per quanto possa sembrare semplice, il paragone di Max è meravigliosamente vero. È una perla di saggezza che sembra uscita dalla voce di Oscar alias Carlo Verdone nel film Troppo forte. Lo dico davvero perché sono quelle frasi meravigliosamente semplici e schiette che ti aprono gli occhi verso qualcosa che è così. È dannatamente così. L’azienda adesso è un lavori in corso. Ho fatto i nuovi impianti tra i quali il Ciliegiolo. Ce ne saranno ancora creando una diversificazione. In produzione mezzo ettaro. L’anno prossimo due e mezzo. Per mia scelta non supereremo i due ettari e mezzo vitati. Malvasia del Lazio con un pizzico di Vermentino. Adoro il Vermentino che ho scelto per cercare di dare una nota diversa e anche ovviare alle estati caldi. Volevo uno spunto in più. Ho scelto un clone che da acidità. C’era poi un vecchio vigneto che per capire di cosa si trattasse ho fatto fare le analisi del dna in Friuli: cinque analisi su cinque hanno confermato essere il Ciliegiolo. Atipico perché creava molto colore. Macchiava il bicchiere. Ho reimpiantato lo stesso clone. In cantina ho delle bottiglie di 15 anni che hanno retto. Riparto da li e non vedo l’ora di cominciare a fare il rosso. Nelle annate migliori usavo una barrique. Tutto artigianale. Era un vino naturale vero. D’altronde, se hai poca terra, sei solo e vuoi fare le cose per hobby, non è che vai ad utilizzare cose strane in vigna no? Max segue tutti i dettami dell’agricoltura biologica anche senza certificazione. Troppa burocrazia da seguire quando sei solo.  Già, la burocrazia. Sembra quasi un contrappasso per uno che, con la politica, ci va a braccetto con la burocrazia. Contrappasso ancor più marcato per quello che concerne la realizzazione della cantina.  Non voglio accedere a certi contributi. La cantina andava ristrutturata ma ci sono delle problematiche burocratiche. Nel giro di quattro cinque anni dovrei iniziare a fare la produzione artigianale solo nella mia cantina. Con giare di terracotta o cemento. Quattro o cinque anni quando il tempo di realizzazione potrebbe essere materialmente di pochi mesi. Ecco, questa è l’Italia mi viene da pensare. Grande plauso a Max per non aver “sfruttato” nulla della sua posizione. Davvero encomiabile. Ma Max è così. Una persona seria.  La vinificazione non può dunque, per il momento, che avvenire conto terzi. Anche se c’è sempre e solo Max a fare le cose.  Non imbottigliavo. Da tre anni a questa parte invece imbottiglio. Vinifico conto terzi dove ho i miei recipienti e la mia botte. Questo finche non avrò finito la ristrutturazione. Faccio tutto io in cantina comunque. L’anfora me la assaggio ogni settimana. Adesso produco 1300 bottiglie di Castrum Leonis e 300 di Antonio. Ne ho comprato un’altra. Ora ne ho due una da 500 e una da 300 litri. L’annata non mi ha permesso di riempirle entrambe.  Max mi ha donato la bottiglia 267 di Antonio e la 181 di Castrum Leonis. Singolare la scelta dei nomi. Perché se è vero che Castrum Leonis è il nome di una torre sulla via Ardeatina in prossimità del Santuario del Divino Amore, Antonio, nome del papà di Max, nasce per caso. Non è proprio per caso che nascono le migliori cose? Un omaggio al papà non può che essere meraviglioso. “Stavo pensando di farmi aiutare per trovare un nome rappresentativo del territorio e l’artigianalità della produzione. Però parlando con un mio amico mentre ci bevevamo del vino mi sono detto: le viti le ha piantate lui, lui vinificava in cemento e affinava in cemento vetrificato, faceva macerazione delle bucce. Allora lo chiamo Antonio. Almeno rappresenta un territorio e lui. Per Antonio Max ha scelto l’affinamento in anfora di terracotta. Macerazione per un mese, fermentazione spontanea, nessuna filtrazione. Una scelta davvero interessante per uve provenienti da vigne di oltre cinquanta anni, Scelta che ho particolarmente apprezzato. Sentori di mela cotogna, pesca, fiori di camomilla, miele, scorza di arancia, mandarino e alloro. Grande mineralità con la grafite (in fondo siamo ai piedi di un vulcano spento). In bocca si nota la spiccata mineralità e sapidità con la presenza del tannino che impone un abbinamento con qualcosa di consistente tipo una carne bianca (anche per la bassa persistenza). Un vino sul quale Max dovrà lavorarci ancora su ma è già buono cosi. Le vigne ovviamente sono quelle di un tempo quando ci si metteva un pò quello che si trovava. Malvasia del Lazio, Malvasia Puntinata e Trebbiano. Tipici del Lazio in bianco. Oltre quel clone del Ciliegiolo che Max arriverà a produrre.  Mi vedo sicuramente con i due bianchi. L’esperimento con l’Antonio lo sto migliorando perché avrebbe bisogno di una macerazione inferiore o un affinamento maggiore. Ma a me piace molto. Poi un rosso o due. Se il vigneto torna ad produrre l’uva di prima, una parte la vorrò fare con un affinamento. Ma non legno piccolo perché altrimenti andrebbe a sovrastare i sentori primari tipici del Ciliegiolo. Una tipologia magari fuori moda. Ma quello mi piaceva. Ho un agronomo che mi è servito per partire che lavorava con Ruggero Mazzilli in toscana. Non voglio fare errori in vigna. Mi da una mano anche per leggere i dati.   
Arrivare a due ettari e mezzo non sarà semplice per Max. Specialmente se il tempo da dedicarci è oggettivamente poco. Diviso tra il suo lavoro e la politica. Oltre che la famiglia con la moglie e i due bambini. Gli amori sono quelli che non ti fanno stancare e che ti danno la carica per affrontare sempre le difficoltà. In politica si vince e si perde ma si continua imperterriti sopratutto se hai qualcosa da dire e voglia di fare. Un pò come nel vigneto dove una annata può devastarti ma occorre sempre essere pronti per la successiva.  Nel vigneto, quando passeggio tra questi filari, trovo la pace che altrove non trovo. Sei tu, le piante, i vigneti che ti circondano dove riconosci la pianta che ha più difficoltà, quella che cresce più vigorosa. Sembra un racconto, ma quando nel vigneto ci stai tanto, specialmente se fai il biologico, ti accorgi di certe cose che con una agricoltura diversa o un maggior numero di ettari non ti accorgeresti. La trasformazione avviene dopo ma tutta la parte che implica l’ingresso nel vigneto indica che la nuova annata è cominciata. Tutto l’anno che ti porta alla vendemmia è qualcosa che impegna e ti meraviglia. È la prima volta che Max si racconta e racconta la sua esperienza. Per quanto possa essere un politico abituato magari a parlare, è palese la sua emozione. Quella emozione che solo un amore riesce a darti. Stando da solo nel vigneto non puoi che pensare a tante cose ma, soprattutto, a curare ogni singola pianta perché possa stare bene. Quel che produrrà dipende anche, non solo, da questo amore.  Già amore. Così visto che Max di amori ne ha due (oltre quelli per la sua famiglia), vigna e politica, quando gli chiedo se lascerebbe la vigna se dovesse arrivare ad avere cariche importanti, la sua risposta è di quelle vere ed emotive.  La vigna assolutamente sta con me. La vigna e il vino con produzioni così piccole non le fai per guadagnare ma solo per amore. Se hai un amore non lo puoi lasciare. Dovrò trovare assolutamente il tempo eventualmente con l’aiuto di qualcuno professionalmente preparato e che condivida l’amore. Come Mario, la persone che fa il potatore e lo fa per passione. Quando sta in vigna, alle volte rimango con lui per ammirare la gestualità e la velocità. Sarebbe inimmaginabile per me lasciare la vigna. Una volta un mio amico mi ha visto tutto sporco dopo i rimontaggi e mi ha detto che sembrava che stessi facendo una pozione magica. È una pozione magica che nutre lo spirito ho risposto.  Intanto Max continua a lavorare la sua vigna in attesa che possa mettere nella botte (grande) il Ciliegiolo oltre che a lavorare ancora su Antonio. Poi si vedrà. Come si vedrà se ci sarà qualcuno dopo di lui che gli dedicherà un vino. Per adesso non è un problema e non ci si pensa.  L’importante è aver messo (o rimesso) le radici. L’importante è esser riuscito a non gettare via la vigna di papà.      Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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19 Marzo, 2024

Edoardo Venturini. L’architettura per le cantine

nZEB. Verticalità. Proporzioni auree. Bioarchitettura. Vedere la faccia dei partecipanti ad una Masterclass, dove notoriamente si parla di vino, quando dal palco Edoardo Venturini, architetto, illustrava questi concetti, è stato un vero spasso. Venezia, Scuola della Misericordia. Era gennaio 2024 e insieme a Cristian Maitan (miglior sommelier d’Italia 2024) e Alessandro Nigro Imperiale (miglior sommelier d’Italia 2022) tenevo la Masterclass di presentazione della Tenuta Planisium (avevo scritto un articolo che trovate qui) nell’ambito di Wine in Venice. Come introduzione mi sembrava coerente far parlare dal meraviglioso palco, Edoardo Venturini visto che aveva progettato la nuova cantina in quel di Volturino in Puglia. Mentre guardavo le facce degli astanti, interessanti devo dire ma anche un pò spaesati, ascoltavo Edoardo con un profondo interesse. Una cantina è una cantina ho sempre pensato. C’è chi ha la cantina nel garage, chi nella rimessa. C’è chi l’ha ricavata sotto la propria abitazione e chi se la è trovata dalle precedenti generazioni. C’è pure chi non ce l’ha propria visto che le dimensioni e gli investimenti obbligano a vinificare conto terzi. Campionato a parte giocano poi quelli che le cantine se le sono fatte costruire in maniera faraonica. Che ci vuole a fare una cantina in fondo? La zona produttiva, la barricaia, lo stoccaggio, la sala degustazioni. Se sei in zone vocate, i graticci per l’appassimento delle uve. Cosa diavolo serve di altro? Continuavo a chiedermi questo quando poi è arrivata l’ora di continuare la Masterclass. È così che dopo Wine in Venice ho cercato Edoardo per capire meglio dei suoi concetti e di lui come persona scoprendone una persona meravigliosa. Edoardo è di Venezia (e questo anche da come parlava me ne ero accorto!). Architetto (altrimenti di che stiamo parlando). Appassionato di vino o forse più che di vino di cantine.  Gli episodi della vita ti segnano c’è poco da fare. C’è sempre qualcosa che accade che poi, giocoforza, ti porti dieto per sempre. Anche un banale trasferimento di casa. Capita così ad Edoardo che da Mestre dove è nato, va a vivere con i genitori a casa della nonna a Salzano. Come da tradizione, c’è un piccolo vigneto che non può che servire per le necessità della famiglia. Anche se con pochi grappoli la vendemmia si fa sempre. Un torchio sotto il porticato ed il gioco è fatto. Sembra semplice e banale ma se quel meraviglioso momento che è la vendemmia con i suoi colori e se quegli odori che si sprigionano durante le operazioni di vinificazione fanno breccia nel tuo cuore, allora, la vita non può che essere positivamente segnata. C’è poco da fare.  Rimane dentro certo perché quel momento arriva ogni anno. Nel frattempo occorre fare altro. Come studiare e lavorare ad esempio.  Mi piaceva la tecnica, la geometria, il disegno. Naturale approdo è il Geometra. Inizio a lavoro con mio zio che faceva asfaltature. Guidavo delle piccole squadre. La zona in cui lavoravo era la zona della Marca trevigiana. Avevamo la sede a Silea e frequentavo tutte le zone del Prosecco. Ho seguito un sacco di cantine vinicole come geometra. Nel contempo, nell’88 mi iscrivo all’università avendo già in mente la tesi di laurea. Studio e lavoro perché non potevo permettermi gli studi. Uno dei primissimi lavori è stato seguire i lavori come tecnico della cantina Nino Franco, cantina molto di qualità dal punto di vista produttivo. Quel lavoro è stato progettato dal figlio di Carlo Scarpa, Tobia. Da li la scintilla è scoppiata.  Quando hai a che fare con architetti del genere non puoi che rimanere estasiato dalle loro opere. Se poi porti dentro di te una passione innata per le cantine ed il vino, beh la deflagrazione è assicurata. Per Edoardo, persona attenta e meticolosa diventa quasi una ossessione. Positiva bene inteso, ma comunque una vera e attenta voglia di sapere di più di tutto quanto gira attorno ad una cantina.  Lavorando e studiando conosco altre cantine e il territorio della Marca raccogliendo la documentazione che mi ha portato ad avere già il materiale della tesi. Il mio, docente sensibile al tema, mi ha invogliava a raccogliere altro materiale sulle cantine di maggior spessore. Che raccolgo battendo le aree vitivinicole della provincia. Tutte di nobili. Principi, conti, marchesi. Raccontavano la storie delle loro famiglie. Il Castello di Roncade ad esempio. La tenuta Bonotto delle Tezze. Volevo proseguire ma dovevo chiudere per la tesi e per la laurea.  Edoardo, che è uno meticoloso ma meticoloso proprio, non è che si accontenta di raccogliere materiale. Studia e studia tutto ciò che c’è da studiare sulle cantine a partire dalla notte dei tempi. Dalle vasche di pigiatura delle uve dell’epoca pre romana alle cantine attuali. Un viaggio che lo vede ridisegnare tutto ciò che vede. Viaggiavo tra le cantine. Correvo con la smania di arrivare, riprendere, fotografare. Mi sono disegnato le cantine perché non volevo tediare i titolari. Con le foto le ridisegnavo. Sono venute fuori bei disegni fatti a mano. Con l’intorno e l’interno. Il progetto di Tobia Scarpa mi diede il “la” perché non volevo solo costruirle ma anche progettarle. Volvevo essere l’artefice delle forme, di quei disegni, degli spazi. Per fare questo Edoardo avrebbe dovuto lasciare il lavoro nella ditta dello zio che certo non versava in buone acque. Era la paura di fallire a fargli tremare le gambe. Papà nella Guardia di Finanza. Mamma con un negozio di antiquariato. I soldi si c’erano ma non è che potesse gravare sulle loro spalle.  Ora, ai più può sembrare facile, ma non è così. Quando sei figlio di un architetto famoso, più che “iniziare” qualcosa, “continui”. Certo, devi essere bravo perché se non sei capace poi il cognome non basta. Se sei però un perfetto sconosciuto, puoi avere anche il sacro fuoco che ti brucia dentro, iniziare qualcosa da zero, non può non far tremare le gambe. Ora però, non è che Edoardo volesse solo progettare cantine. Meraviglioso quanto vi pare ma di cantine pronte ad investire ne conosco poche. Ricordiamoci che sono sempre i casi della vita a segnarci.  La ditta dello zio faceva strade. E le strade si fanno con l’asfalto. Lavoravo nel mondo del conglomerato bituminoso. L’asfalto. Nocivo. Sei costantemente immerso in fumi, odori, materiali pericolosi. Possono sorgere allergie importanti. Ancora non soffiava forte il vento della sostenibilità. Facevo già corsi che trattavano il risparmio energetico quindi il recupero dei materiali. Energie alternative. Inizio però a fare i miei approfondimenti appassionandomi davvero scoprendo materiali ecologici come paglia, fibra di legno, calcio silicato. Comprendo, mi insegnano (faccio il corso ANAB che è la più grande associazione nazionale di bio architettura), la forte influenza del materiale sulla salute della persona. Se questa vive in un ambiente sano ha una vita migliore. Era inevitabile io abbracciassi questa disciplina.  Una folgorazione direi. Lo è anche per me. Sapere che ci sono principi per i quali si può vivere meglio in qualunque ambiente quando questo è progettato con metodi e materiali diversi, è una vera scoperta. Magari è lapalissiano, ma chi di noi si informa di come è stato realizzato un edificio prima di entrarci anche ad abitare? Pensare però che la qualità dell’aria che respiriamo negli ambienti dipenda direttamente dalla progettazione e dai materiali utilizzati è pazzesco.  Ero ancora dipendente. Mi licenzio e inizio la storia da libero professionista. Oltre che passione diventa professione. Non avendo conoscenze partivo da zero. Ancora adesso non ho che il passaparola. I miei clienti arrivano dalle conoscenze dagli articoli e dalle conoscenze. Inizia con solo il suo nome. Poi nasce Architetture del Benessere. Infine Cantine fatte ad arte.  Il benessere come fruibilità degli spazi. Fruibilità e bellezza. Per tutti.  Si sta bene in un edifico se è bello e armonioso con colori e forme appropriate. Con la luce adeguatamente pensata e progettata. Una sorta di psicologia dell’abitare. Cantine fatte ad arte nasce invece con l’intento di ritornare a realizzare le cose “ad arte” ovvero con mestiere. Gli studi del passato, quando una cantina si faceva per soddisfare le esigenze di praticità, coniugati con le nuove tecnologie e sopratutto con la bio sostenibilità e diversità.   Il primo progetto è stato a Bonotto delle Tezze. Era un borgo di fine 1800 con la villa e le parti rurali dei primi del 1900. Aveva bisogno di una ridisposizione dei locali per dare migliore accesso e funzionalità alle varie parti. Ho ripensato l’accesso, i percorsi perdonali e carrabili. Con questa cantina che fa un Raboso meraviglioso ho creato anche un bel rapporto di amicizia. Si sono succeduti altri progetti anche di design.  Edoardo è un architetto sui generis. Non è un ammaliatore. Semmai lo potrei definire una persona attenta ai particolari che sa ascoltare e osservare il contesto con occhi disincantati. Non ama particolarmente parlare perché usa altri sensi perché vuole comprendere per poi comunicare attraverso i suoi progetti. Ha bisogno di entrare in sintonia con le persone, i committenti come li chiama lui. Solo così riesce a trasformare i pensieri in disegni. Un vero metodo di genius loci.  Prediligo l’aspetto umano di ogni persona. Ogni committente ha una sua sensibilità. C’è chi è più spirituale, chi più pratico. Da li sento una vibrazione e mi metto in empatia. Capire la persona e il lato umano è fondamentale. È il motore per i quali nasce lo spunto progettuale e l’idea della cantina. Una cosa che chiedo è di essere presente sempre. Vorrei che loro vivessero le emozioni che io vivo quando progetto. Dagli schizzi in poi. L’idea di alcune cantine mi è nata semplicemente conducendo una chiacchierata o solo parlando. La foglia di un pampino, della vite     che cade in un prato con gli steli del prato che la tengono su. È stata una folgorazione. Il titolare mi stava spiegando che doveva demolire una tettoia a ridosso di un edificio palladiano e doveva creare questo spazio. Sono molto influenzato dall’’ascoltare loro. Ogni committente ha l’idea propria della sua azienda. Hanno delle idee che sono degli ologrammi che si vedono a tratti ma non l’hanno materializzata. Io passo tempo con loro perché mi possano trasmettere le immagini che loro vedranno con schizzi. Materializzo il loro sogno. Gli spazi e la loro fruibilità. Non solo la parte produttiva ma anche e soprattutto l’accoglienza. Per far vivere gli spazi a chi si approccerà a visitare la cantina in una maniera diversa. Valutare il contesto, scegliere i materiali, immaginare il futuro.  Edoardo mi guarda e vedo che dentro di lui le idee frullano nella mente vorticosamente. Forse avrebbe bisogno di una matita e un foglio di carta per dirmi cosa sta pensando veramente.  Quando ho visto il progetto che aveva fatto per Tenuta Planisium ho capito che avevo dinanzi una persona in grado di guardare oltre. È stato un onore averti conosciuto Edoardo. Aspetto solo di vedere la tua prossima opera. PS non sono volutamente entrato nell’ambito tecnico poiché oltre a non essere la persona più titolata a farlo ho chiesto ad Edoardo di iniziare a scrivere su questo Magazine. Troverete i suoi articoli, scritti con uno stile davvero interessante, nella rubrica “Cantine di cui anche Bacco andrebbe fiero“. Io non vedo l’ora Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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15 Marzo, 2024

Arpepe. Il sangue inizia a parlare

Le storie delle famiglie hanno un non so che di magico. Ricordo quando mio nonno Antonio mi teneva sulle ginocchia dinanzi al fuoco del camino raccontandomi le storie di lui giovane, della campagna che era la sua passione nonostante dovesse andare ogni mattina a lavorare al cantiere della Centrale Nucleare del Garigliano. 40 km ad andare e 40 a tornare. In bici.  Ma non voglio perdermi nei ricordi perché questa non è la pagina per nonno Antonio. Dicevo delle storie delle famiglie. Quelle di un tempo. Quando c’era il capofamiglia. Quando ai figli maschi spettava il lavoro nei campi e alle donne quello di casa. La vita alla fine dell’800 non era semplice in campagna. Figuriamoci poi se i campi giacevano su piccoli lembi di terra strappati alle montagne: le terrazze. In Valtellina si coltivava e si coltiva così. Certo, non nei pascoli, non nelle valli. Ma quando la montagna inizia la sua salita, le terrazze sono l’unico modo per coltivare. Si coltivava per le necessità di casa ma anche per vendere i prodotti. Si coltivava per tutto. Anche per la vite. Incontro Isabella Pellizzatti Perego. Insieme ai fratelli Guido ed Emanuele gestiscono Arpepe, l’azienda di famiglia. Isabella è una di quelle persone che riesce a prenderti per mano e trasportarti nel suo mondo, nella storia della sua famiglia e di un padre verso il quale prova ancora un amore misto ad ammirazione. Sconfinati.  Papà Arturo, una vera Araba Fenice capaci di far rinascere l’azienda di famiglia ormai andata persa.  Simo in Valtellina dove il vino si produce dal tempo degli antichi romani e dove grazie ai monaci arriva stancamente fino al cinquecento. Solo in questo periodo, l’annessione della Valtellina al Cantone dei Grigioni determina il vero sviluppo vitivinicolo della zona. Mica scemi gli svizzeri. Scemi noi che abbiamo dovuto aspettare loro per decretare il successo di una zona meravigliosa. Almeno da un punto di vista commerciale. La successiva annessione alla Repubblica Cisalpina quindi all’Italia vive sulla traccia della strada aperta dagli svizzeri.  In questi anni, è il 1860, Giovanni Pellizzatti fonda la sua azienda per la produzione di vino.   Oggi, insieme ai miei fratelli Emanuele e Guido portiamo avanti l’azienda che è alla quinta generazione. Esiste dal 1860. Nel 1960 il nostro bisnonno Arturo, figlio di Giovanni, celebrò i 100 anni dell’azienda con uno tra i primi clienti svizzeri. La Svizzera è sempre stato un nostro naturale sbocco mercato. Non so come facesse il trisnonno Giovanni a commercializzare li il vino, magari a dorso d’asino, ma se ci riusciva il nonno anche noi potevamo. Le storie della famiglia Pellizzatti si intrecciano con quelle dell’Italia e della Valtellina. Salire faticosamente la china e scendere velocemente di quota è un attimo. Certo, se si parla di storia, gli attimi sono anni e negli anni la Valtellina ha visto le epidemie prima (oidio, peronospera e fillossera), le guerre poi, i trasferimenti verso le città. Tutto questo con il risultato di passare da oltre 8000 ettari vitati a circa 850 di oggi (dei quali 160 in mano ad un solo produttore, Nino Negri).  Epidemie e guerre a parte, basta venire da queste parti e alzare lo sguardo verso i pendii per capire il perché solo pochi ardimentosi si cimentano nella viticoltura. Eroica ovviamente.  Eppure oggi di ardimentosi ce ne sono sempre di più. Negli ultimi venti anni le aziende sono passate da venti a circa 50. Chi conferiva ha iniziato a produrre. Magari non ancora ad imbottigliare, ma ci si sta arrivando. In questo modo le micro vinificazioni valorizzano il territorio in tutte le sue sfaccettature: Inferno, Sassella, Grumello, Maroggia, Valgella. Zone tanto meravigliose quanto difficili, complicate e da basse rese: i disciplinari prevedono per il Rosso di Valtellina DOC, 10 quintali per ettaro che diventano 8 per il Valtellina Superiore DOCG. Rese da pazzi. Nel 1973 nonno si ammala avendo solo papà che lo aiutava mentre le altre persone in famiglia erano interessate solo alla proprietà. Nonno e papà decidono che la soluzione migliore è vendere le cantine. Inclusa quella odierna interamente scavata nella montagna e tale da garantire condizioni perfette di temperatura ed umidità. Odierna perché papà riuscì poi a ricomprarla. Vendono il vecchio marchio, Arturo Pellizzatti, creato dal bisnonno. Per fortuna non vendono le vigne che vengono invece divise tra tutti i membri della famiglia. Papà con la sua parte di vigna decide di ripartire. Erano state affittate per un tempo di dieci anni. Al termine dell’annata agraria 1983 riprende l’attività. Con l’84 riparte. Avendo venduta la cantina ne torna in possesso con difficoltà. Tutte le altre sono state oggetto di speculazione edilizia. Si salva solo quella. In queste poche righe c’è tutta la storia di una famiglia. Quella del papà di Isabella e dei suoi fratelli Emanuele e Guido.  Non è la prima volta che una azienda non resiste alla propria famiglia. Ne tantomeno sarà l’ultima. Quando viene a mancare il fondatore o la persona che ha portato avanti l’azienda per tanti anni, non è sempre detto che i figli abbiano la voglia di continuarne l’opera. Diverso è l’animo. Diverso è la concezione di futuro. Diverse le necessità economiche.  In questo caso però c’è una lungimiranza davvero notevole. Si può vendere la cantina perché, tanto, non c’è nessuno disposto a portare avanti l’attività. Nessuno tranne Arturo ovviamente che da solo non riuscirebbe mai a farcela. Si può vendere il marchio perché, tanto, non imbottigliando più tanto vale capitalizzare. Di certo, vendere le vigne sarebbe stato un sbaglio: almeno dall’affitto delle stesse ci si sarebbe ricavata una rendita (e i soldi non sarebbero stati sperperati subito).  Affittati per dieci anni. Dieci lunghi anni. Arturo, il papà di Isabella è uno di quelli tosti. Orgogliosi ma soprattutto con quella voglia di fare che ti brucia dentro fino all’anima. È per questo che deve fare qualcosa e riprendersi i suoi 6 ettari. Già, dei 50 iniziali ne sono rimasti solo 6! Arturo vuole ripartire e riparte. Aspettando dieci lunghi anni durante i quali, oltre che a rodersi il fegato, si da da fare come può. Come deve. Perché la famiglia da mantenere c’è.  Le vigne ci sono. La cantina è stata ricomprata. Manca il nome. Quello vecchio e storico non c’è più. Andato per sempre con la tristezza di non poter nemmeno utilizzare il proprio nome sulle proprie bottiglie. Allora utilizza l’acronimo Arturo Pellizzatti Perego. ArPePe.  Bene allora si può partire finalmente.  Ehm…no. Come no? Eh no perché Arturo ha una concezione tutta sua del vino. O meglio, ha la concezione di un vino che arriva dal passato, che deve essere aspettato per smussare le asperità di quel meraviglioso vitigno che è il Nebbiolo e che qui chiamano Chiavennasca (chiù vinasca, più vinoso).  Per sei anni lavora e vendemmia senza vendere neanche una bottiglia. Voleva produrre vino con lunghi invecchiamenti come faceva con il nonno. Papà aveva una piccola squadra che venivano per la maggior parte dalla vigna del nonno. Affiancato dalla mamma che lo aiutava per la parte amministrativa. Si improvviserà anche venditrice stupendo il papà per gli ottimi risultati. Furono anni difficilissimi. Ricomprare la cantina con i tassi del mutuo altissimi fu durissimo. Aveva affittato una parte della struttura perché era sovradimensionata per lui all’epoca. Affittò una parte della cantina ad un deposito di acque minerali.  Le parole di Isabella escono come un suono dalla sua bocca. Parlare del papà è come parlare delle radici della vite piantata proprio sui terreni calcarei di queste zone: si va in profondità, si scava piano piano, si arriva al cuore del nutrimento. In fondo. Tanto in fondo. Nel cuore e nell’animo. Quello che Isabella prova per il papà è un misto di ammirazione, amore, devozione.  Le prime bottiglie della neonata ArPePe arrivano a fine anni 90 quando il mondo del vino era qualcosa di profondamente diverso rispetto al passato. Supertuscan, tagli bordolesi, uso di botti, vini e vitigni internazionali. Altro che valorizzazione dei territori e del lavoro di piccoli vignaioli. Posso immaginare quanto sia stata dura andare avanti e farsi strada anche solo per sopravvivere.  Arturo aveva una idea e quella voleva realizzare. Senza sconti per nessuno. Meraviglioso! Io stavo facendo il liceo insieme a Guido. Abbiamo fatto il liceo classico. Emanuele che è dell’80 nell’84 trotterellava ancora. Papà con grande coraggio si mise in questa avventura. Era del 42 dunque a 40 anni riparte da zero. La mamma lo aiutò a ripartire.  Oggi siamo arrivati a 15 ettari. 9.5 nel cuore della Sassella storica, 4.5 nel Grumello ed il resto in zona Inferno. Quello che ho apprezzato di papà è che ci ha lasciato fare il percorso di studi senza mai mettere pressione.  Isabella dopo il liceo classico si trasferisce a Milano per studiare Scienze e Tecnologie alimentari specializzandosi con un Master in Enologia a Piacenza.  È il papà che la spinge ad accettare lo stage in Diageo nella vecchia sede della Cinzano.  Dal 97 al 2001 ho lavorato prendendo ferie per le fiere, le degustazioni importanti in azienda. Volevo esserci. Volevo essere al suo fianco per i momenti cruciali. È stata una bellissima palestra. Quello che ho visto e fatto in quattro anni vale per dieci.  Dopo 4 anni Isabella decide che è il momento delle scelte e della responsabilità. Tornare a casa per usare le propri energie nell’azienda di famiglia.  Anche per decidere autonomamente.  Papà volava. Mesi prima diceva di avere la segreta speranza che uno dei tre lo affiancasse. Ma senza mettere pressione. Il primo anno pieno fu il 2002 cercando di assorbire tutto da lui. L’idea era che, con papà che aveva sessanta anni, si sarebbero potute fare tante cose insieme. Lo seguivo in tutte le parti tecniche. Lui che aveva studiato a Conegliano Veneto era presente su tutto. E io su tutto lo aiutavo. Ma anche nella parte commerciale e amministrative.  In tutte le saghe familiari, quando tutto sembra andare per il meglio arriva sempre qualcosa che devasta. Un pò come quando pensi che gli acini stanno crescendo bene e che sarà una meravigliosa annata e invece arriva la grandine che fa portare al macero tutto il raccolto.  L’antivigilia di Natale ha un problema di salute e gli diagnosticano un tumore. Come accadde al nonno. Pochissime speranze di vita.  La prospettiva dell’azienda non può che cambiare drasticamente. Isabella è già dentro e per fortuna. Emanuele, al tempo 22 anni, comprende che anche per lui è arrivato il momento delle scelte. Pur avendo fatto un percorso diverso (geometra, seguendo le impronte materne alla quarta generazione di costruttori stava affiancando lo zio) decide di tuffarsi per dare una mano. La vigna era ancora al maschile. Papà si sobbarcava di tutti i trattamenti. Il lavoro era impegnativo e pesante e non avrei potuto fare tutto da sola. La cosa bella è che io penso che il sangue inizia a parlare. Emanuele infatti si innamora di tutto affiancando il papà nelle lavorazione della vigna e della cantina. Impara l’abc con lo spirito libero e non condizionato dagli studi. Tuttora lo guardo e gli dico: questo dove lo hai imparato? Ha studiato nella pratica e sui libri di papà. È più enologo di molti altri enologi.  Quanta intimità c’è in questo racconto. Ascoltando Isabella mi sembra quasi di essere un intruso nella loro vita. Ma non lo sono affatto. È proprio Isabella, con la sua grazia e con la tenerezza dei suoi ricordi a coinvolgermi. Lo fa ancor di più dicendomi delle parole del papà poco prima che morisse.  Poco prima che papà venisse a mancare (due anni dopo, prima di natale 2004), lui ci dirà: adesso io sono pronto. Se dovesse essere tra un mese un anno io sono pronto. È stato il suo testamento. Lo pensiamo felice perché portiamo avanti tutto questo all’ennesima potenza cercando di migliorarci mettendo in pratica tutto ciò che ci ha insegnato. Con la certezza che non vogliamo lasciare i fondamentali che ci ha dato. Quando è ripartito tra le mille difficoltà e forse nessuno avrebbe voluto che lui ripartisse, veniva guardato come l’ancien regime del gruppo. L’Arturo che ripartiva con vini tradizionali quando andavano vini che erano tutt’altro. A partire dal colore con la logica che ogni vino deve avere il suo colore. Senza tolettarlo. Senza mettere il fard. Per cui la grande soddisfazione è che i vini del territorio, guardati per anni come fumo negli occhi perché facevano vedere la verità a molti, adesso sono stati apprezzati a tutto tondo. Lui che era considerato l’ultimo è salito agli onori della cronaca postumo. Da qualche parte sta sorridendo.  Una storia raccontata di trasporto. Con grande enfasi. Con il papà ad aver trasmesso il rispetto della materia prima da cui proviene tutto. Il lavoro in vigna come primissima cosa per portare a casa la materia prima più sana possibile. Imparando ogni anno qualcosa di diverso che va raccontato proprio nella bottiglia.  Abbiamo la fortuna di avere il Nebbiolo, la nostra Chiavennasca. Vitigno fortissimo che ci deve insegnare tanto perché quando è in mezzo alle avversità da il meglio di se. Una pianta austera ma che ci regala tanto. Tutta la nostra trasformazione in cantina verte attorno a questo. Non vogliamo rovinare il frutto e la sua integrità in tutte le lavorazioni. Con le macchine di nuova generazione riusciamo a fare questo. Lasciamo l’acino il più integro possibile. Non pigiamo ma diraspiamo. Fermentazione ad acino intero in tini troncoconici piegati a vapore. Questo era un sogno che avevamo nel cassetto con papà che siamo riusciti a realizzare solo dal 2005 perché materialmente non c’erano le possibilità neanche di acquistare questi macchinari. Abbiamo acquistato poco per volta facendo i nostri esperimenti e verificando che quello che si diceva con papà era vero. Il legno è fondamentale per una micro ossigenazione. Non si vuole dare gusti ma solo ossigeno.  Il tempo è sempre il nostro grande amico. Papà ci ha insegnato a rischiare e saper aspettare per raggiungere la maturazione fenolica. Meglio qualche giorno in più che qualche giorno in meno. Il tempo ci deve accompagnare sempre anche nel corso dei lunghi affinamenti. Abbiamo sperimentato anche le lunghe macerazioni senza una ricetta. Occorre usare i propri sensi per capire cosa abbiamo tra le mani.  Isabella aspetta. Si sente in lei la calma serafica di un saggio cinese (valtellinese in questo caso), che aspetta. Senza fretta. Facendo le cose con calma. Senza correre. Senza affanno. Il papà ha aspettato tanto. Così tanto che il tempo che serve per attendere una vendemmia, attendere una macerazione o un affinamento di anni, non è nulla in confronto. Il giusto tempo del Nebbiolo bisogna saperlo aspettare.  I lunghi affinamenti non sono scritti da nessuna parte. Il disciplinare recita un minimo di 12 mesi in botte per il Valtellina DOCG Superiore (che diventano 24) più altri 12 in bottiglia. Alla ArPePe si va molto più su con il tempo. Noi seguiamo per le riserve il vecchio disciplinare che ci ha insegnato papà ovvero un minimo di cinque anni complessivo tra legno, cemento, acciaio e bottiglia. Noi le riserve le facciamo uscire mediamente dopo sei anni. Per noi è interessante cosi. Prima di tuto c’è la qualità dei nostri prodotti. Noi aspettiamo. È doveroso.  Doveroso. Mi rimbomba in mente questa parola. Mi distraggo un attimo dal racconto di Isabella ma non posso farci nulla. È davvero incredibile come ci siano principi forti come questi. Solo con questa parola finalmente capisco a pieno una cosa che ho visto raramente in un sito Internet. Già, perché ai più attenti non sarà sfuggito notare come nella pagina del sito ArPePe dove ci sono “I Nostri Vini”, proprio in fondo, magari un pò nascosto ma solo per timidezza, ci sia un allegato “annate_vini_arpepe_2022.pdf”: è la tabellina che riporta tutte le annate uscite dalla quale si evince come alcune annate non siano proprio state messe in commercio. Si certo, magari capita anche ad altre aziende. Però è doveroso non solo farlo ma anche dirlo. Ecco, quella parola mi riporta direttamente al link dell’allegato segno di una statura morale incredibile. Nel 2008, il sei luglio abbiamo subito una grandinata e abbiamo scelto, nonostante le fatiche immense, di non uscire con nulla. Non è uscita neanche una bottiglia di Rosso di Valtellina. Abbiamo prodotto meno del 20% che non ci soddisfaceva. Così abbiamo venduto il vino a qualche altro. Ma non siamo usciti. Totalmente saltata. Ci ha insegnato molto perché devi essere per forte per assorbire una annata del genere. Da qui i prezzi per la valorizzazione. La Valtellina ha dei costi abnormi per la produzione: abbiamo all’incirca 1500 ore per ettaro per anno mentre, in collina, con un pò di meccanizzazione, siamo intorno alle 500 ore per ettaro. Noi siamo tre volte tanto. È iniziato un lento progressivo lavoro di valorizzazione. È doveroso perché se uno vuole la qualità la devi far pagare.  Anche qui torna “doveroso”. Doveroso rispetto per il lavoro, per la materia prima, per il territorio, per gli investimenti, per la qualità. Per il lavoro.  Non so dire se i vini di ArPePe siano più o meno costosi rispetto ad altri. So di certo che, oltre ad essere fantastici prodotti, provengono da un territorio che si può capire se non vedendolo. Se riesci (perché non è semplice) vedere le viti dalle strade di fondovalle, intuisci qualcosa. Se poi ci sei vicino o addirittura sei sulla terrazza che ospita le viti, ecco, allora capisci quanto sia complicato, impervio e anche pericoloso lavorare li. Prima di mettere in commercio una annata ci pensi tre volte. Cerchi di dare la giusta dimensione alla annata. È la annata che decide. La prima annata nella quale nasce il rosso di Valtellina è il 2003. Papà fa in tempo ad approvare anche l’etichetta creata a mio marito che è architetto (piemontese che poi ha dato tanto aiuto per realizzare lo spazio di accoglienza per festeggiare i 150 anni). È stata l’etichetta che incarnava la nostra idea di un rosso facile da bere a spingerci a produrlo. Era nato per scherzo in quella annata nella quale l’Intera produzione era di facile beva. Siamo stati spiazzati da una annata del genere ma è stato importante farlo perché è diventato il nostro biglietto da visita. Oggi la gente ci scopre con quello e se piace quello viene voglia di assaggiare gli altri. ArPePe si estende su tre delle cinque zone della Valtellina: Sassella, Grumello e Inferno. Non è stata una scelta ma frutto semplicemente di quanto toccò ad Arturo in eredità. La filosofia dei figli è stata quella di continuare ad espandersi in zone limitrofe senza cercare di andare in altre. Una filosofa intelligente visto i costi che ci sono da queste parti. Sostenibilità. Se continueremo ad espanderci lo faremo in queste zone. Non ha senso spostarsi in altre zone. Ha senso consolidare e capire cosa succede accanto a noi. Nei momenti chiave io non manco mai. Poi visto che con papà mi sono dedicata la parte commerciale così come alla accoglienza, posso dire che quello che non era il mio ruolo poi lo è diventato. Mio fratello lo ha affiancato nella vigna e in produzione. Quindi è li. L’altro fratello, Guido, lavora con noi ma in remoto. Lui è architetto e ha studiato più comunicazione per l’architettura. Così si occupa di comunicazione per un gruppo bancario. È lui che è dietro il sito e i social media. Ci aiuta da remoto amplificando quello che facciamo. È sempre al nostro fianco. Isabella ama in maniera sconfinata il suo lavoro, la sua azienda, le sue uve. Così come ama i suoi prodotti provenienti da questo Nebbiolo delle alpi dotati di freschezza e mineralità con il frutto della montagna che si riesce a cogliere, pieno e integro nel bicchiere. Devi chiudere gli occhi e vedere la pendenza e la ripidità della montagna che gli sta dietro. Questo deve essere il minimo comune denominatore di tutti. Dopodiché c’è la bellezza di scoprire ogni singola vigna, ogni singola particella. Ogni tanto scherziamo che dovremmo far il vino per ogni terrazzino. Sarebbe la paranoia totale ma è veramente cosi perché ogni angolo ha la sua espressione. Una vigna viene divisa in due botti e ogni botte ha la sua faccia ed è lievemente diversa dell’altra. È una gioia immensa quando ti trovi con le botti e te la ridi perché è il bello di quello che facciamo.  In queste parole c’è non solo il bello di questo amore. C’è la meraviglia e lo stupore di chi riesce a fare e guardare le cose con gli occhi incantati di un bambino. Così, come un bambino sorride quando riesce a farsi capire con la sua lallazione, allo steso modo Isabella e i suoi fratelli quando ciò che loro percepiscono viene riconosciuto anche da una persona che beve un loro vino.  Nessuna voglia di fare qualcosa di diverso. Nessuna voglia di cedere alle sirene delle novità, bollicine in testa. Il solo pensiero di espiantare qualche pianta di Nebbiolo per sostituirla con qualche altra diventa un colpo al cuore per Isabella.  La nostra direzione è chiara. I rosati vanno magari un sacco ma non mi interessa niente. Preferisco fare più bottiglie di Rosso di Valtellina. Una azienda solida e ben determinata che difficilmente si incontra. Una azienda che può sembrare ferma nel solco della tradizione ma non è affatto così. Ogni annata è certamente diversa. Ogni vino è certamente diverso ma occorre sempre migliorarsi. Isabella, Emanuele, Guido, lo sanno bene. Sanno bene che il sogno del papà non è ancora compiuto. Nulla è mai compiuto perché c’è sempre da migliorarsi ma è bello che abbiamo dato più voce e più spazio al suo disegno. Non è un quadro finito e non lo sarà mai. Faremo del nostro meglio con le generazioni che verranno che aggiungeranno nuovi tasselli e nuove sfaccettature. Tempo al tempo. Il giusto tempo ci darà le risposte e non dobbiamo avere fretta. Il futuro è con le stesse etichette ma magari con nuove singole vigne. È più facile nascano altre riserve per raggiungere tavole sempre più belle in giro per il mondo. Sono contenta quando una nuova nazione ci viene a cercare. La nostra produzione è piccola perché quando siamo fortunati siamo sulle 100/110 mila bottiglie.  Non abbiamo mai parlato dei vini di ArPePe in queste pagine e non intendo farlo alla fine. Sono vini che vanno scoperti più che raccontati. Espressioni di singole vigne certo ma espressione delle montagne e delle loro pendenze. Bevendoli si potrà apprezzare la loro estrema prontezza nonostante derivino dal Dio Nebbiolo (o Chiavennasca) che in altri palcoscenici assume sembianze totalmente diverse e maggiormente spigolosi. Qui, la grande mineralità offerta dal territorio, il gioco delle temperature e, soprattutto, la lunga attesa, rendono i vini falsamente facili. Falsamente perché in essi si ritrova la complessità del Dio Nebbiolo (o Chiavennasca) legata alla immediatezza del gusto. Per tutto il resto, posso solo augurare a tutti noi che ArPePe non cambi mai questa filosofia. L’Italia ha bisogno di realtà come questa.   Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969    
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8 Marzo, 2024

Tenuta Santo Stasi. Rosario torna a casa

Nostalgia, nostalgia canaglia…… Che succede?
Succede che sono tornati insieme. 
Ma chi?
Come chi. Sono tornati insieme. Insieme. E io non sapevo nulla….mi sono perso tutto questo.  È proprio vero che la vita è tutta un film. O forse sono i film che raccontano, semplicemente la vita, le storie delle persone. Ricordo che Carlo Verdone diceva sempre che le sue caricature, i suoi personaggi erano ispirati a persone vere. Osservare la realtà. Basta solo questo. Non guardare il cellulare ma alzare lo sguardo per capire le vite delle persone che ci sono intorno. Ascoltare, parlare. Riempirsi di tanta umanità. Non so se Checco Zalone per il suo film “Quo vado?” si sia ispirato ad una o più storie vere. Ciò che so è che parlando con Rosario Epifani la scena che ho avuto dinanzi agli occhi era proprio quella del prologo. Oltre all’immagine di Checco Zalone con il pizzetto biondo da vichingo (bene inteso che Rosario non ce l’ha!). Rosario Epifani è il titolare della Tenuta Santo Stasi. Siamo a Sava un comune nemmeno tanto piccolo a circa 30 km da Taranto e a soli 6 da Manduria, la patria di quel meraviglioso e versatile vitigno che è il Primitivo. Di Manduria appunto. La faccia sorridente, l’animo mite. Riservato e anche impacciato per certi versi. Ma sereno. Così è Rosario. Eppure, se vai a scavare, come al solito, le persone riservano mille sorprese. Che Rosario abbia un fisico da atleta te ne accorgi subito. Quando poi ti dice che è stato un calciatore in varie squadre italiane a livello giovanile, inizi a capire. Anche professionista nella Serie B svedese.  Prego? Svezia? In che senso? Sono nativo di qua ma sono stato fuori parecchio. Anche a Perugia a studiare giurisprudenza. La mia testa mi porta a fare cose diverse e così me ne sono andato 9 anni a Stoccolma. Andai a salutare un amica e sono rimasto 9 anni. Li giocavo a pallone ma non è che si può solo giocare a pallone. Bisogna fare anche altro. Mi sono diplomato (in lingua svedese) e mi sono iscritto all’università, ingegneria civile. Mi mancavano pochi esami ma ho deciso di tornare in italia perché comunque sia prima o poi in italia ci sarei tornato. Pari pari Checco Zalone. Ti invaghisci della svedese prima, della Svezia poi. Ma prima o poi qualcosa inesorabilmente scatta. Non è fisicamente possibile per un italiano, del sud poi, vivere li. Troppo perfetto, oltre che freddo. E poi, senza Albano e Romina e il Festival di Sanremo!!! Rosario decide che è meglio tornare in Italia e finire l’università a Bari.  Qui si incastra nelle maglie burocrazia italiana e nelle deficienza di qualcuno che promette la convalida degli esami a fronte della rinuncia agli studi.  Dopo anni di attesa il Rettore che mi aveva convinto a fare la rinuncia agli studi promettendomi che mi avrebbe convalidato tutti gli esami non me ne convalidò nemmeno uno. Nemmeno quello di inglese. Dopo un anno decisi di smettere. Non mi andava di ricominciare tutto daccapo a 27 anni. In Svezia avevo fatto 24 esami. Io ero uno studente svedese in pratica.  Potrei partire con una invettiva contro qualcuno, ma lasciamo perdere. Dico solo che in Italia se ti laurei all’estero, anche in università farlocche, va tutto bene. Ma se provi a tornare nel mentre, sei spacciato.  24 esami di ingegneria buttati. Un sacrilegio. Ma non è che puoi lottare contro i mulini a vento.  Rosario si dispiace e rammarica. Mica tanto però. A lui piaceva fare altro. Piaceva e voleva stare in campagna.  Volevo stare in campagna. Non ci sono arrivato subito. I miei zii erano agricoltori. Grossi agricoltori ma non mi è stato mai concesso andare in campagna. Ero il primo figlio, il primo nipote e avrei dovuto fare una vita diversa. Quando loro andavano al lavoro, partivano di notte perché altrimenti io mi infilavo in qualche cabina con loro.  Tornato a Sava, qualcosa si deve pure inventare. Vorrebbe la terra ma non ci sono i soldi. Decide allora di aprire un supermercato utilizzando i soldi dei piani di sviluppo (Sviluppo Italia).  Mi andò bene. Appena risparmiavo qualcosa, compravo qualche terreno. Per la felicità di mia moglie che mi ucciderebbe anche ora. Nel frattempo infatti mi sono anche sposato con Antonella, che all’epoca aveva una bellissima bambina, Alena, di due anni e che ora ne ha 18. Poi è nato Mathias, 8 anni.  Il supermercato Rosario lo apre partendo da zero. Giocava a calcio ed era studente; in Svezia professionista si, ma sempre in Svezia. In sostanza, soldi pochi, davvero pochi.  Dura 12 anni il supermercato. Di più Rosario non riusciva a tenerlo. Un pò le difficoltà nel trovare le persone, un pò le terre che si accumulavano e lo richiamavano inesorabilmente. Nel 2022 decide di cederlo.  Abbiamo deciso di venderlo perché avevo 10 ettari di terreno. Avevo già un pò di terra, tre ettari da mio suocero. l resto li ho comprati. Circa 7 ettari sui quali ho impiantato vigneto. Rosario non compra per investimento ma per qualcosa “che non potevo scegliere”.  La prima vendemmia arriva nel 2021. C’era già da tempo nell’aria l’idea di vendere il negozio e programmare il futuro è stato più facile. Sono socio di una cantina a Sava e quindi conferivo le uve. Non un granché perché avevo i 3 ettari di mio suocero con vigne molto vecchie che non espianterò mai, mentre i restanti erano liberi e ho piantato da zero.  3 ettari di vigne storiche di circa 50 anni. Quelle di famiglia. 7 ettari impiantati da zero con primo impianto nel 2018. Fin qui le basi. Agricole ovviamente. Che poi è quello che ama fare Rosario.  Che tipo che è Rosario! Parlando con lui si percepisce come nelle terre, tra i filari, nella solitudine del mestiere, abbia trovato il suo spazio. Il suo mondo. La sua identità.  Il vino certamente gli interessa e pure tanto poiché quello vuole fare. Ma la terra, lui la terra la ama. Ama le piante che cura ad una ad una senza identificarsi propriamente in una terminologia ormai collaudata. Convenzionale? Biologico? Biodinamico? Integrata? Io guardo pianta per pianta. Quasi le conosco. Cerco di aiutarle a crescere nel modo più corretto. Assecondo ogni loro bisogno. La loro voglia di crescere. Nei miei vigneti ci devo stare io e non voglio usare nulla per far seccare l’erba. Non faccio tutto con la zappa. Se non è necessario dare qualcosa, non lo do. Uso prodotti biologici perché non mi piacciono quelli chimici. La natura non è nata con il chimico. Cerco di fare il meglio per le piante. Il modo più semplice possibile. Alle volte diamo per scontato delle parole non prestando attenzione al vero significato delle stesse.  Quando una persona lavora in campagna da solo, vivendo della terra e dei suoi frutti, prendendosi cura delle piante ma anche di se stessi, allora, non c’è filosofia o terminologia che tenga. Conta solo quanta passione e lavoro e sudore e caparbietà ci si mette nelle cose.  In fondo, se nostro figlio deve prendere un antibiotico, non è che non glielo diamo perché è chimico. Allo stesso modo, usando sempre e preferibilmente prodotti e rimedi naturali, qualcosa alla pianta ogni tanto bisogna dare.  Tutti i miei sforzi erano atti ad imparare come si conduce un vigneto. Qui è diventata normale che le persone si fanno fare conto terzi. A me piace viverlo il vigneto. Adesso faccio tutto io. È complicato. Ogni tanto qualcuno mi aiuta. La potatura secca e qualcosa di più importante la faccio solo io. Ho imparato inizialmente da mio suocero però aveva tecniche talmente antiche che non si sposano più con le situazioni moderne. Ora va tutto più velocemente. Ora non è cosi. Dieci ettari prima erano impensabili. Ho guardato mio suocero per quattro cinque anni. Poi ho preso una persona e l’ho pagata per guardarlo lavorare. Lo fermavo in continuazione per spiegarmi cosa stesse facendo. La spiegazione si può fare anche sui libri ma all’atto pratico cambia.  Umiltà. Ci vuole tanta umiltà nella vita. Ci si può reinventare certo. Si può cambiare andando in Svezia o in Norvegia ma una volta li, la lingua la devi imparare e per farlo devi sudare ed essere umile. In campagna è la stessa cosa. Devi studiare la lingua delle piante. Entrare in simbiosi con loro capendone l’essenza. Senza dimenticare la loro fonte di nutrimento: il terreno. Un complesso ecosistema che muta con le stagioni e con gli anni per via di una moltitudine di fattori esogeni.  Poche, pochissime bottiglie prodotte da Rosario. Il resto è uva da conferire.  Sapete quale è il bello però? È che ho avuto come l’impressione che ne produca poche perché non è che gli vada tanto di andare in giro a venderle.  I contatti e la conoscenza della lingua al nord Europa fanno si che riesca ad esportare gran parte della produzione. Il resto tocca venderlo in zona togliendo tempo alla campagna. Tre etichette da due vitigni emblema della Puglia: Fiano per il bianco, Primitivo per rosato e rosso. Semplice. Semplicissimo e senza fronzoli. Come le etichette. Un solo nome per tre vini: Feeling.   Se avessi fatto solo un vino sarebbe stato complicato per la commercializzazione. A me piace l’agricoltura e invece mi devo necessariamente concentrare sulla vendita. Giro i locali per vendere il vino e devo farlo in continuazione. Il tempo non lo ho. Ho iniziato a fare qualche fiera in Estonia e in Danimarca con mia moglie. Mi fanno un quantitativo di vino che posso esportare. Nessuno mi conosce qui. Non ho vinto premi. Devo migliorare un sacco. Con tre etichette sono più credibile. In cantina ovviamente c’è un enologo al quale Rosario è arrivato tramite amici. Si è fatto guidare nella produzione denotando un ulteriore livello di umiltà. Umile si ma con tante idee in mente. Per indole ho sempre un sacco di idee. In silenzio perché sono taciturno. Mi frullano le idee. Mi fido di questo ragazzo anche se il mio obiettivo non è fare solo questo tipo di vino. In questo momento mi sono lasciato trascinare. Il passaggio in botte ad esempio lo ha scelto l’enologo. Neanche con tanti mesi. Bisogna fidarsi. Ci sono tanti tuttologi. Il rosato nasce da una necessità commerciale ma anche naturale. Poi il Fiano emblema della Puglia.  Il nome è colpa di Antonella. Affidarsi ad una agenzia per la realizzazione dell’etichetta e la scelta del nome è stato un passo obbligato. Peccato che i tempi si sono allungati e per fare prima si è usata la stessa etichetta anche se con colore diverso e stesso nome.  Perchè Feeling? Io penso di saperlo. Mi ha fatto una proposta e l’ho accettato di buon cuore. C’è molta complicità tra me e mia moglie in tutto ciò che facciamo. Pur essendo completamente diversa. Forse è per quello. Se invece vi starete chiedendo da dove arriva il nome della Tenuta, ovvero Santo Stasi, anche qui, è nato un pò per gioco un pò per caso. Come in molte delle cose di Rosario. Certo, lui dice sempre così, ma io mica ci credo più di tanto.  Il nome dell’azienda è il nome di una contrada dove sta il primo appezzamento che acquistai. Vicino a mio suocero che è ancora bello forte di tempra. Per lui eravamo diventati grandi imprenditori così che mia moglie lo prendeva in giro dicendo “guarda che tenuta abbiamo comprato” e lui si arrabbiava ancora di più. Così la abbiamo chiamato Tenuta Santo Stasi. Solo che mio suocero non beve il mio vino. Lui fa il vino per conto suo. A casa. E non berrebbe mai il mio vino. Ha detto “non ha niente a che vedere con il mio” Di sogni nel cassetto Rosario sembra non averne. Fatta eccezione per la voglia di fare un Primitivo forte e longevo. Forte nel senso di almeno 15 gradi e longevo che possa durare oltre i dieci anni.  Sotto sotto però lui, che è uno di quelli che nella solitudine della campagna pensa e sogna, sogna e pensa, di idee ne ha da tirare fuori.  Come quella di vinificare tutta la sua produzione. Anche se poi si snaturerebbe un pò. Dovrebbe stare quasi più in cantina che in vigna.  Mai dire mai. Di certo, la cosa più bella di questa chiacchierata è vedere la serenità di una persona, Rosario, che ha trovato il suo spazio. Mettersi alle spalle il calcio (non ci gioca proprio più), la Svezia e una laurea mancata per poco (un pò gli brucia ancora), non renderebbe sereno nessuno. Nessuno tranne Rosario. Una serenità, schiettezza e umiltà che ho ritrovato nei suoi vini a cominciare dal Primitivo DOP. Un vino che (la recensione è sul mio blog) ha un unico difetto: crea dipendenza! Anche se, come dice lui, si è fatto guidare dall’enologo per produrli, l’amore che ha per la terra e le piante ha certamente contribuito a portare in cantina uve perfette. Lui non lo dirà mai perché tende a minimizzare. Adesso ho 42 anni. Sono nato annusando la campagna. Da piccolino ero io tra i tanti nipoti ad andare ad aiutare nonna a fare i pomodori. Che cosa vuoi fare da grande? Il veterinario o il fruttivendolo. Ma come? L’avvocato o l’ingegnere devi fare. E invece Rosario si è trovato, per scelta e direi vocazione, a fare il vignaiolo. Anzi, contadino prima, vignaiolo poi.  Per chiudere e augurare a Rosario di continuare a vivere il suo sogno e noi di poter continuare a bere i suoi ottimi vini (dunque Rosario non smettere!!) mi è venuta in mente un’altra frase sempre del film di Checco Zalone “Quo vado?” quando va a mangiare in un ristorante pseudo italiano e, scioccato dalla assoluta lontananza del gusto da quello italiano, si fa dare dal ristoratore una scala e un giravite. Con questi smonta l’insegna del locale e grida al proprietario del locale:  Non si scrive l’Italia invano. Sei un vichingo. Sei un vichingo. Perché chiudo così? Perché sono convinto che la terra vada coltivata solo ed esclusivamente da coloro che la amano. Come Rosario.     Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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1 Marzo, 2024

Edoardo Ceri: farò il miglior vino al mondo

Quante bischerate si fanno da ragazzi. Magari ci si lascia influenzare dal “branco” e si finisce nei guai senza neanche saperne il perché. Disagi. Disagi della crescita. Disagi in famiglia. Disagi nella vita.  Da giovani poi non si è ancora capito quale sia la propria strada che, si spera o almeno i genitori lo sperano, sia diversa da quella che si frequenta con gli amici. Facendo bischerate.  Occorre però guardare dietro, nel passato, per capire certe cose. Per avere delle spiegazioni. Senza dare giudizi di nessun genere. Solo per capire. Edoardo Ceri ha solo dieci anni quando i genitori decidono si separarsi. Capita. Capita a molti. Spesso è la cosa migliore anche per i figli. Solo che loro lo capiscono dopo e nel frattempo, alcuni di questi, vivono nel disagio.  Il disagio è una sensazione che ho parlando con Edoardo. Spero che non me ne voglia a male leggendo queste righe. Ma è quello che ho percepito dalle sue parole.  Un bambino di dieci anni che vede un padre tanto più grande di lui e non solo in termini anagrafici; una madre meravigliosa con una vita da gestire tra tante difficoltà; una nonna di quelle toste che sopperisce a molte mancanze. Ci piaceva tanto stare per la strada. Fare le cose di strada. Si facevano le cose che si fanno a quella età li. Non cose di cultura. Bischerate. Non sono mai stato un buonissimo studente. Mio padre si diede da fare per darmi una strada. All’inizio nella sua attività. Mia madre era molto brava ma poco presente. Mi faceva stare con mia nonna che aveva due palle grosse così e mi ha tenuto fermo. Altrimenti potevo essere un’altra persona oggi. La ringrazio molto.  Il papà di Edoardo non è uno qualsiasi. È Luca Ceri che, per chi si occupa di architettura (specialmente di interni), è una punto di riferimento. Nel 1991 crea lo Studio Ceri e realizza progetti in tutto il mondo.  Un tecnico, un creativo, un professionista, un imprenditore. Ecco, io me lo immagino Edoardo. Il mito del padre, l’ombra del padre. La paura di non essere mai come lui.  Non sono psicologo ne mi permetto di esserlo. Però dalle parole di Edoardo, dal suo tono di voce, percepire questo, è stato immediato. È l’inizio della storia però. L’inizio di un qualcosa che per Edoardo è quasi una rinascita. In tanti sensi.  Nel 2006 infatti, quando Edoardo aveva 17 anni, Luca decide di acquistare un podere a Carmignano. Si era appassionato della vigna e quello sembrava essere, oltre che un ottimo investimento, anche un modo per, magari, avviare il figlio a qualcosa.  Quel qualcosa arriva inaspettato tanto per Luca quanto per Edoardo.  Era il 2006 e io avevo 17 anni. Mi sono voluto rivalere sul babbo dimostrando che anche io ero capace di fare certe cose. Così ho rimesso mano a tutto. Piano piano. Dal 2010 ad oggi. È stato veramente un tassello per volta. Un tassello per volta. Un tassello per volta. Edoardo inizia a lavorare in azienda da quasi subito. 35 ettari di proprietà. Tanti, forse troppi per uno come lui che non è abituato a questa vita. Eppure ci si dedica. Lo appassiona. Lo prende.  Prende le redini dell’azienda nel 2014 perché ha un sogno. Un sogno come lo hanno in molti magari. Ma è un sogno e sognare non costa nulla.  Mi sono dato l’obiettivo di creare veramente il vino più buono del mondo. Io farò il vino più buon del mondo. Lo farò. Non tra dieci anni, non tra venti anni, non tra trenta anni, ma lo farò. Avrò 80 anni ma lo farò. Su Wine Spectator il vino più buono del mondo sarà il mio.  Ora, ai più queste potranno sembrare le parole di un giovane che sta sognando sapendo di sognare. Parole gettate al vento da uno che è borioso. Un figlio di papà che non sa cosa sta dicendo.  Edoardo non è così. È una persona umilissima. Di quelle che non parlano mai a voce alta ne dicono cose nelle quali non credono. Fermamente. Edoardo vuole realizzare il suo sogno. Non solo per una “rivalsa” come la chiama lui verso il padre. Lo vuole per lasciare qualcosa a sua figlia e alla sua famiglia.  Come è potente un sogno. Come è potente la terra. Come è potente la vite. Così come quest’ultima penetra con le sue radici il terreno per trovare il nutrimento anche a metri di profondità, è penetrata nell’animo di Edoardo. Per fargli trovare una strada prima, un sogno poi. Ho preso le orme iniziali di papà e poi mi sono più affinato al lavoro, alla vigna, alla cantina. Lui aveva i vigneti per produrre e vendere uva. Io ho iniziato ad imbottigliare chiamando anche altri personaggi del mondo del vino come agronomi ed enologi per gestire meglio la cosa. La grande proprietà della Tenuta Ceri, non può che conferire l’uva. 35 ettari non si gestiscono facilmente. Eppure il territorio di Carmignano è di quelli incredibili dove l’uva è spettacolare e ciò che se ne produce ancor di più.  Vedevo tutta questa uva spettacolare che veniva venduta a poco prezzo. Mi piangeva il cuore. Facciamo qualcosa anche noi mi sono detto. Era più una questione morale che passione. Assistere al cambiamento di Edoardo, a questa infusione di viticoltura, di passione e amore per la vigna ed il vino, deve essere stato per chi lo osservava, fantastico. Incredibile. Anche perché lui vuole imparare per creare. È quasi elettrico. Ha necessità di realizzare qualcosa di incredibile.  Sono andato a fare una esperienza a Castello Banfi a Montalcino dove ho fatto il cantiniere. Ho capito come si gestisce a pieno la pulizia della cantina. Si faceva mattina, pomeriggio e sera. La disciplina dello stare in cantina. In un mese avevo capito come fare. Se papà Luca, al ritorno di Edoardo dall’esperienza esterna, decide di assecondarlo nell’acquisto delle attrezzature per produrre vino, è perché ha capito il cambiamento. Capisce quanto Edoardo abbia voglia di spaccare il mondo.  Nel 2016 ho fatto la mia prima vinificazione. Nel mentre ho fatto delle prove in altre cantine a Carmignano. All’inizio ero un pò discolo. Ero cosi cosi, come la tenuta. Poi è cresciuta in base al mio giudizio e la fiducia è cresciuta di pari passo con l’interesse che mettevo nell’azienda.  Edoardo fa il passo e si fa avanti per gestire lui in prima persona tutto. Se la sente sua l’azienda come suo il progetto. Inizia a fare i vini e gli vengono anche bene.  Anche prima che facevo questi vini di garage, venivano bene. Erano fatti da qualcuno che non aveva mai fatto niente nella vita. Venivano bene. Si sentiva la sapidità, acidità, alcolicità, tannino. Lavorato bene. Una bella maturazione. Le persone, non tutte certo, mi davano dei pareri positivi.  Edoardo incappa in uno di quei simpatici enologi che consigliano, ai più sprovveduti, di mettere nel vino tutto ciò che la legge consente (poi ci si lamenta delle inchieste di Report…).  Tutto ciò che bisognava aggiungere all’uva, io l’aggiungevo. Nutrienti, tannini, solforosa, lieviti selezionati, correzioni di acidità, acido ascorbico, acido succinico. Tutto. Venivano fuori vini buoni ma simili ad altri vini. Questa cosa non mi piaceva.  Edoardo è lucido. Non vuole scorciatoie. Non vuole vini omologati. Il suo sogno non è questo. Lui ha bisogno di altro. Se bara, se fa qualcosa che non lo faccia riconoscere, ha perso in partenza. E lo sa. Non può dunque che ripartire dalla campagna e dalla vigna.  Ho iniziato a lavorare con l’uva in campagna pensando al prodotto che verrà fatto senza aggiungere nulla in cantina. Prevedendo l’epoca di vendemmia per capire come gestire l’uva in cantina.  Carmignano è un territorio importante. Una zona meravigliosa con nobili espressioni di vini che devono essere aspettati. Ecco, Edoardo non vuole aspettare. Non ci riesce perché ha fretta di realizzare il suo sogno. Ma impara anche da questo. All’inizio occorreva aspettare il vino. Ero sempre ad assaggiare il vino. L’ho gestita sempre in maniera frenetica. L’attesa è veramente una ‘osa cruciale che ho imparato nel tempo. Restando tranquillo senza affrettarsi a fare le cose. Vederle con lungimiranza. Ho alle spalle 13 vendemmie dal 2010 ad oggi. Ci sono momenti da fare le cose veloci e dei momenti le cose con più esperienza e calma. Invece di fare le cose oggi, aspetti domani cosi la fai meglio. Facevo tutto prima e sbagliavo. Si evolve Edoardo. Come un buon vino. Matura. Cresce. Nell’animo e nello spirito.  Quel bischero che era da ragazzino non c’è più. C’è un uomo che affronta la vita con il ritmo della natura. La campagna. Li le lavorazioni meccaniche tu alle volte le azzecchi, alle volte no. Si mettan le barbatelle di marzo. Dopo una settimana iniziano a germogliare e arriva la gelata. Così partono le madonne. Anche perché arriva quello che dice “dovevi aspettare”. E grazie! L’anno dopo dici: le pianto ad aprile cosi evito le ghiacciate. Che succede? Che marzo non viene le ghiacciate, piove. Bene. Da aprile in poi non piove per un mese e mezzo e le barbatelline non ce la fanno. È una lotteria. Quattro i vini prodotti da Edoardo. Barbocchio da Sangiovese (70%), Cabernet Sauvignon (20%) e Merlot (10%) con sei mesi di botte da 20 hl per il 50% della massa. Un vino di ingresso. Con carattere. Rigoccioli, il Carmignano DOCG con Sangiovese (90%) e Cabernet Sauvignon (10%) che riposa in botti da 20 hl per 12 mesi. Qui il carattere aumenta. Le Barze, da Cabernet Sauvignon (70%) e Sangiovese (70%) a riposo per 12 mesi sulle fecce fini per regalare fascino. L’Arrendevole, la Riserva di Carmignano DOCG con Sangiovese (90%) e Cabernet Sauvignon (10%), 18 mesi in botti da 20 hl per realizzare un vero capolavoro (sul mio blog Instagram la recensione completa). Questo il vino che secondo me, prima o poi, realizzerà il sogno di Edoardo. Adesso imbottiglio tutto. 50mila bottiglie. Edoardo sa che manca ancora tempo per arrivare al suo sogno. Ci sono altri vini importanti e deve confrontarsi ancora molto. Manca ancora qualcosa.  Devo lavorare più sui vigneti. Sulle vendemmie portando le uve in cantina con l’acino più perfetto possibile. Stiamo andando incontro a calamita di luce incredibili. Quando c’è il grappolo rivolto alla luce diretta del sole si vede che gli acini sono diversi rispetto a quelli in ombra. Occorre scartare il chicco secco. Ti fa fare un altro vino. Tutte le vigne hanno già i loro anni si invecchieranno ancora donando vini di ancora maggiore qualità avvicinandolo alla meta. La convinzione di Edoardo è tanta. La mia è una sorta di richiamo, una cosa che sento dentro. Io faccio questo lavoro perché è una cosa che sento dentro. È un lascito che voglio lasciare alla famiglia, ai nipoti. Io voglio lasciare qualcosa. Si morirà tutti. Vedo gente che ha fatto questi grandi vini ma io vorrei un giorno, quando non ci sarò più, che si dica: guarda che vini che faceva sto stronzo. Basta, niente più. Quando il mio vino sarà nei migliori ristoranti. Quando le persone mi reputeranno un bravo viticoltore. Quando avrò un riconoscimento. Conoscendomi non sarò mai contento.  Edoardo non sarà mai contento e vorrà fare sempre meglio. Dimostrare al padre e alla madre che vale molto di più. Una dimostrazione ma anche un valore.  Sono sempre il figlio di Luca Ceri però adesso quando lui va nei ristornati è diventato il babbo di Edoardo Ceri.  Per Edoardo è impossibile non raggiungere il suo obiettivo.  Aldilà però nel riuscire a produrre il migliore vino al mondo, continuerà a produrre degli ottimi vini. Di quelli che offrono sensazioni. Ma che bello non accontentarsi.  Il papà continuerà ad essere presente. Nelle lavorazioni per la cantina, nell’agriturismo, nello show room.  La parte progettuale l’ha gestita tutta lui. Lui è partito veramente da zero e ha creato il suo impero.  Pure tu lo stai facendo Edoardo. Piano piano. Ce ne sarà di tempo. In fondo, anche papà Luca non credo che a 33 anni sia stato avviatissimo. Per poter dire che il babbo ha creato tanto, più di te Edoardo, occorre aspettare. Continuare a lavorare e a crederci. Non fermarti. Non lo fare mai.  Sono sicuro che non lo farai e non vedo l’ora di leggerti su Wine Spectator.   Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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