Suggestioni di Vino

Suggestioni di Vino è la rubrica che racconta le persone del vino. Della loro storia, dell’amore, della passione che inoculano nel vino. Perché il vino è materia viva e le persone ne sono il nutrimento.

Le incursioni enoiche di Ivan Vellucci, ingegnere e manager per dovere, ma soprattutto Sommelier raccontano con passione e trasporto, territori e produttori d’eccezione.
Ivan ci porta a conoscere realtà prima di tutto umane, dove il sorriso e l’ospitalità dei vignaioli sono lo specchio dei vini che producono. La rubrica Suggestioni di Vino propone ogni settimana  suggestive esplorazioni e scoperte enologiche, narrate con trasporto e partecipazione. Al lettore parrà di accompagnare Ivan in queste visite speciali e sarà stimolato a fare lo stesso: vivere il mondo del vino come un bambino, con lo stupore negli occhi e la magia nel bicchiere.

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4 Ottobre, 2024

Dario Sciuto. Manciaciumi: alla fine (o all'inizio), l'Etna

Ci sono espressioni dialettali che in un mondo politically correct sono totalmente bandite. Si usano magari sottovoce, al bar, tra amici. Ma se qualcuno le cita in contesti meno confidenziali, suscitano sdegno, disapprovazione, rigetto. La mia speranza è che non tramontino mai e non già perché offensive, ma perché, spesso, hanno una etimologia che nulla a che vedere con la discriminazione, l’offesa o la denigrazione hanno.
Una di queste è “pepe ar culo” detta alla romanesca maniera. Tradotta letteralmente vuol dire mettere del pepe all’interno dell’ano. Non si tratta però di una pratica omofoba ne tantomeno di una cura naturale o di una pratica di tortura. È un antico modo di dire, derivante dall’effetto che potrebbe provocare effettuare fisicamente l’operazione, che sta a indicare una persona dinamica, eclettica, sempre in movimento, sempre con la frenesia del dover fare qualcosa.
Nella meravigliosa e variegata bellezza tutta italiana, quello che a Roma sa di greve e volgare, assume, in altre località e altri dialetti, forma più criptica ma anche orecchiabile.
È il caso del Veneto dove il prurito è la spisa o della Calabria dove è Mangiasumi. Singolare quest’ultimo perché varcando lo stretto e approdando in Sicilia, diventa Manciaciumi, una parola che deriva dal verbo mangiare. Perché chi lo ha, vuole mangiarsi il mondo intero. Sono un ragazzo catanese nato e cresciuto a San Giovanni la Punta. Nato in montagna perché l’ho sempre frequentata fin da bambino. Sciavo da piccolo. Tormenta era l’ingiuria di mio nonno che negli anni 40 con un gruppo di pionieri iniziò a sciare sull’Etna quando ancora non c’erano gli impianti. Prese questa ingiuria perché sciava con la giacca aperta cosi da sembrare una tormenta.
Terra e mare in queste zone. Dario Sciuto ha 35 anni. È lui che ha il manciaciumi. E proprio perché ce l’ha, ha voluto chiamare così l’azienda creata con altri due soci, Giovanni e Leonardo, Manciaciumi. Nomen Omen si direbbe. Si direbbe bene visto come Dario è arrivato fin qui attraverso una storia di viaggi, di lavori, di sperimentazioni, di sfide, di scommesse, di rinunce, di sacrifici, di valori. Ma anche di libertà.
Prima di andare avanti tolgo al lettore il dubbio del termine “ingiuria”. Non è che il nonno di Dario venisse ingiuriato nel senso di offeso. L’ingiuria in siciliano è il soprannome. Quello che tutti hanno e guai a non averlo! Mi sono laureato in economia per poi iniziare uno stage in uno studio di commercialista alla fine del quale il titolare mi propose di rimanere. L’ho guardato e gli risposti che obiettivamente preferivo andare a lavare i piatti. Così è stato e sono partito per l’Australia iniziando a lavorare proprio nella ristorazione. Ho fatto di tutto: lavapiatti, aiuto cuoco, bar tender. Vedere una terra come turisti non è come viverla nella quotidianità. La Sicilia, Catania, l’Etna. Come non rimanere stregati. Colori, sapori, odori. Ogni cosa è speciale. Unico. Irripetibile. Irriproducibile.
Viverci è altra cosa. Quando certe cose le hai dentro, nel sangue, puoi avere due approcci: te ne stai “ammucciato” come dicono da queste parti ovvero ti accontenti di quello che hai perché lo apprezzi o non ti va di fare altro oppure vai via alla scoperta del mondo. Ammucciato contro Manciaciumi insomma.
Dario, manco a dirlo, non se ne può stare fermo. Quando sei giovane hai la spinta per andar via. Vedi tutto il negativo. Tutta la ristrettezza senza avere l’ampiezza di veduta che hai se viaggi. Non vedi ciò che di bello c’è perché ci sei cresciuto. Il mare e la montagna. La natura, il verde. Non le apprezzi. Penso di essere quello che sono perché ho il sangue etneo ma soprattutto perché ho avuto la fortuna di viaggiare. Questa è una grande verità. Solo se hai vissuto altro puoi apprezzare ciò che hai. Ne vedi le differenze. Ne cogli l’essenza. Ma dai viaggi ti porti dietro sempre qualcosa. Che poi alla fine è quanto ti distingue nella vita. Sono stato a Sidney quasi due anni. Li ho fatto la prima esperienza in un birrificio che alternavo al lavoro di base. In birreria non mi pagavano. Quando parlo con Dario capisco che è un ragazzo semplice. Non si atteggia. Parla con il sorriso e la serenità dell’animo di chi è in pace con se stesso. Pur avendo vissuto anni all’estero la “calata” catanese non l’ha persa. Anche se non quella tipica del centro.
Un ragazzo ammirevole Dario. Una laurea in tasca. Un lavoro sicuro all’orizzonte. Una famiglia. Gli amici. Una terra meravigliosa. Eppure parte e non già con un approdo sicuro, un lavoro, un contratto, una casa. Parte per l’altra parte del mondo. Quasi 24 ore di volo (con scalo). Parte. Sarà per quel suo manciaciumi. Sarà perché la Sicilia gli sta stretta. Ma parte. Senza sapere cosa troverà e senza sapere di che camperà.
Le esperienze. Sono quelle che segnano la vita delle persone. Positive o negative che siano, segnano come rughe sul viso. Puoi valorizzarle o cancellarle. Usarle in modo positivo o negativo. Ma sono dentro. Nel sangue. La passione per la birra partiva dal mio corso di laurea dove avevo iniziato a fare la birra in casa con un poco di amici. In Australia mi dissero che serviva un tecnico ma non potevano pagarmi. Questa esperienza mi ha spinto poi a iscrivermi all’Università di Scienze Gastronomiche a Pollenzo. Facevo un apprendistato per mastri birrai. Qui il primo approccio con Slow Food. Ero orientato all’impatto dei trattamenti sul cibo ecc. Da studenti si fa di tutto per far baldoria e stare con gli amici. Un periodo meraviglioso della vita di un ragazzo che si inserisce in quel pezzo di curriculum non visibile ma presente. Dario fa la birra a casa. Un modo per fare qualcosa di diverso e cimentarsi in una attività. Vallo a sapere che poi quello che è un gioco potrebbe tornare utile. Strana, stranissima la vita. Ti laurei in Economia e Commercio, parti per l’Australia senza arte ne parte e ti metti a lavorare in un ristorante e nel tempo libero, invece di riposarti, vai a lavorare in una birreria. Gratis.
Cosa gli vuoi dire ad un ragazzo del genere? Il corso è stato molto breve. Circo un anno. Consisteva in sei mesi di stage in birrifici. Iniziai uno stage in Birra del Borgo inizio uno stage. Qui ho conosciuto Leonardo che oggi è uno dei soci di Manciaciumi. Mi ha buttato in mezzo in maniera esagerata e sono cresciuto in quell’ambiente portando avanti progetti per lui che mi hanno formato. Dal punto di vista di cantina. Ricapitoliamo. Dario si laurea a Catania, parte per l’Australia dove sta tre anni. Torna per fare l’università a Pollenzo (dopo un anno di giri nel mondo). Esegue lo stage in Birra del Borgo dove inizia a lavorare. Beh direte voi, il prurito sarà un pò scomparso. Ma quando mai!! Borgo viene acquisito da AB-Inbev e pensavo di mollare perché non volevo lavorare per una multinazionale. In realtà mi arrivò una proposta proprio loro di diventare innovation brewer e direttore di produzione in Asia. Accettai ma dopo un pò mi resi conto che per me era un pò troppo. Non mi piacevano ì meccanismi industriali. I metodi insomma. Mi licenzio e accetto l’offerta di diventare mastro birraio in una società di Singapore. Torno a casa per le vacanza e arriva il covid. Resto bloccato nel peggior posto al mondo nel quale potevo trovarmi in quel momento. Il viaggio di Dario dopo essere passato per l’Asia ha uno stop forzato nella sua terra dalla quale era scappato e se ne trovava invece prigioniero. Il Covid non conosce pruriti. A casa dei genitori che era andato a trovare, con il fratello che non vede da un anno.
Ma secondo voi, uno che il prurito ce l’ha endemico, può mai rimanere fermo? Mai! Con dei vecchi amici, uno dei quali uno è uno dei miei attuali soci (Giovanni Nicita), decidiamo di prendere in gestione una vecchia vigna a Nicolosi. Avevamo in gestione, che poi non avevamo in gestione ma c’era una stretta di mano, anzi neanche perché c’erano le zone rosse. Una stretta di mano virtuale. “Andate in vigna perché noi non ci andiamo più e non è stato nemmeno potata”. Principalmente era un podere di circa 6 ettari. La colata lavica che nel 600 distrusse Catania tagliò questi sei ettari in una lingua dei vigna da circa 1.8 ettari. Alberello, piede franco. Almeno il primo mezz’ettaro in alto. Da li ci siamo trovati un muro d’uva. Eravamo in tanti i ragazzi che rientrando rimasero bloccati in Sicilia. Tutti con la terra. Questo Covid qualcosa di buono ce lo ha lasciato e ci ha fatto trovare il tempo per noi stessi. Facevamo tremila e cinquecento bottiglie. Quanto è strana e meravigliosa la vita. Ogni volta che ho la fortuna di catturare queste storie mi sembra di essere come i personaggi di un cartone animato che guardò con mia figlia: Gli acchiappagiochi. Si tratta di una serie di personaggi di fantasia che viaggiano di pianeta in pianete alla ricerca di nuovi giochi. Quando li trovano, oltre a provarli con gli abitanti del luogo, portano indietro il ricordo che poi custodiscono in una sfera di cristallo, la giocosfera. Ogni sfera un gioco. Ogni storia una sfera. Avevo accettato in Asia una offerta importante, uno sviluppo personale interessante. Il covid è stata una batosta per il dover rinunciare a tutto e rimanere bloccato a casa. Il rimettersi in gioco è stato un momento di pancia. I miei genitori mi hanno appoggiato. La madre del sud quando le dicevo che volevo andare a fare il maestro birraio era un pò perplessa. Ma non ha mai fatto mancare l’appoggio. In ogni modo, finisce il covid e i sogni si scontrano con la realtà. Il passatempo del lockdown non può certo essere un lavoro. Tremila e cinquecento bottiglie e della birra (fanno pure quella i ragazzi) non consentono di vivere. Anche perché ognuno ritorna al proprio lavoro. Non Dario che di tornare a Singapore non ha voglia. Riprendo a lavorare per i vecchi proprietari del Borgo che ora sono in Masseria la Cattiva. Con loro passo tre anni stupendi. Li porto qui e si innamorano di questo posto. Nel 2022 sono loro stessi che mi spingono a riprendere. L’aiuto che loro offrono si trasforma in una partecipazione societaria che aiuta a liquidare la parte di soci che non voleva continuare. Catania, Sidney, Pollenzo, Singapore, Seul, Catania, Turi (Bari). Il tutto in meno di dieci anni. Lavorando e reinventandosi ogni volta fino a diventare vignaiolo. Poi uno dice che i ragazzi non vogliono fare nulla. Certo, non tutti. Non Dario certamente. Ma che non si pensi che adesso, con i soci, sia tutto più semplice. I vini del 2022 sono stati vinificati in Puglia. Portavo le uve in Puglia. Ho fatto due viaggi. Due viaggi anche quest’anno. È stato l’ultimo anno di questo gioco un pò matto. Venivo la mattina in vigna con il furgone, vendemmiavo, caricavo il furgone, guidavo sei ore e la mattina lavoravo le uve. Arrivavo con quei trenta quintali. Dopo una settimana raccoglievo le uve più in alto. Una follia ma necessaria dal punto di vista degli investimenti. Per capire se il mercato c’era e se eravamo capire se eravamo capaci. Toh guarda il ragazzo. Umiltà? Necessità? Passione? Di tuto un pò. Di certo Dario non è uno che se ne sta con le mani in mano (manciaciumi…) e le sue esperienze manageriali e industriali, i viaggi, le lingue, sono bagaglio di esperienza. Ma poi si rimbocca le maniche e via. La vigna prese nel 2020 non ci sono più. Nel 2022 il fervore della nuova iniziativa porta nuove vigne ad Adrano prima e Linguaglossa poi. Tre ettari e mezzo in totale a Nerello Mascalese, Nerello Cappuccio, Grenache, Carricante, Minnella. Piante di 75 anni. Alcune a piede franco. Questa è l’Etna. Questi i territori meravigliosi e al tempo stesso difficili. L’Etna è un costante ciclo di morte e di vita. Il vulcano è vita e come la vita c’è una nascita e una morte. Dalla morte c’è una nascita. La colata lavica distrugge tutto: brucia, calpesta, inghiotte. Ma poi si solidifica e la ricchezza che proviene dalle viscere della terra, diventa nutrimento per le piante. La fertilità e la ricchezza queste terre si scontra con la difficoltà nel lavorarle. Ciò che si ottiene però è unico. A cosa serve apportare qualcosa dall’esterno se già la natura ti da tutto? Questo è un territorio che non ha mai avuto bisogno di esagerati trattamenti. Si faceva solo un pò di rame. È un terreno molto fertile e resistente. La mia filosofia di vino passa attraverso il mio percorso. Ho una idea di cibo molto fondamentalista. Essendo stato un produttore da tanti anni mi sento in difficoltà nel mettere additivi in ciò che mangio e bevo. Fare tutto con il miglior aiuto possibile lasciando che l’ecosistema agisca da solo. Evitare di mangiare veleno. Mettere qualcosa di strano in caldaia era inaccettabile e se lo facevo era perché c’era qualche mancanza. Ma se lavori con scienza e conoscenza non serve. Non sono un fan di ancestralità e lune. Toccherà vedere se avrò ragione negli anni. Il rapporto con il vino di Dario non può che iniziare da bambino. Nella vigna di nonno Tormenta. Poi la fuga e il rientro senza rinnegare nulla. La laurea è stato comunque importante perché mi sta servendo come Dario imprenditore. Lavorare all’aria aperta è stupendo. Ho vissuto tante metropoli: Shangai, Seul, Roma, Sidney. Mi ero rotto di star chiuso in un ufficio come una sardina. Ho valorizzato altre cose. Stare più su qualcosa a dimensione uomo. La vita della città mi è risultata tossica. Ma ci vuole coraggio. Sono ancora ad un decimo di questo percorso. devo equilibrarmi continuando a viaggiare. Il passaggio da birra a vino può sembrare strano. Eppure le esperienze, quando le metabolizzi (e allora si che sono servite a qualcosa), portano i suoi frutti.
Essere mastro birraio vuol dire da te dipende la qualità del prodotto finale. La pulizia di ogni cosa che entra in contatto con gli ingredienti del processo di produzione è fondamentale. Errori non sono consentiti. Quando impari questo e poi lo riporti nel mondo del vino (che su questo deve ancora fare passi importanti) ti torna certamente utile. Così come l’utilizzo della tecnologia che c’è e va usata con sapienza. In questo modo ci si deve concentrare solo sul campo: la vigna e l’uva. È li che si gioca la partita. Sono a zero di solfororsa ma sempre sotto i venti di libera. Ho riportato le procedure birraie in cantina a livello di pulizia, contatto con l’ossigeno. Usare tecnologia e non additivi. La pulizia dei serbatoi con le metodologie della birra dove è più facile infettare visto il grado alcolico più basso.
Questo approccio ti consente, se la uva è sana, di non usare alcun stabilizzante perché non hai alcuna problematica. Guardo la pianta e l’uva e se è tutto sano e se sono estremamente pulito in cantina, non avrò bisogno di alcuna aggiunta. Per i nutrienti, se faccio un buon lavoro in vigna non dovrò aggiungere nulla in fermentazione. Semplice come bere un bicchiere di acqua. O di birra. O di vino!
Un approccio questo che sfata anche un altro mito, quello del dover avere la cantina prossima al vigneto per non stressare l’uva.
Premesso che molti fanno riposare l’uva per vari motivi, trasportarla su un furgone non refrigerato in un viaggio di sei ore, farebbe drizzare i peli ai puristi. Eppure, sanificano cassette e furgone, caricando poco le cassette stesse e raccogliendo l’uva sana, in che modo si stresserebbe il prodotto? Nessuno appunto. Tanto che i vini non ne risentono affatto. I vini. Ho avuto la fortuna di assaggiare due vini della produzione di Manciaciumi: Malpelo e Tormenta. Fortuna e sottolineo fortuna per due motivi. Il primo è che la produzione (annata 2022) era molto limitata tanto da produrre 2830 bottiglie di Malpelo e 523 di Tormenta. Il secondo è perché la filosofia di Dario, quella che considera i suoi vini “puro succo d’uva” non è un mero slogan ma realtà. Malpelo e Tormenta sono due vini eccezionali. Due creazioni ottenute senza aggiungere nulla a ciò che la terra riesce a produrre. Malpelo è il blend di Nerello Mascalese, Nerello Cappuccio e Alicante. Lo versi nel calice, lo vedi di un bellissimo color rubino e ti chiedi come sia stato pulito. Quando ricordi che non c’è stata alcuna operazione ma semplici travasi, le parole legate alla filosofia di Dario, riecheggiano prepotenti. Al naso non ci sono infrastrutture da tostarure e spezie ma semplici sentori di frutta matura (ciliegie, prugna, arance) e fiori (viola e peonia). Poi un interessantissimo sottobosco e un intrigante balsamico. Ogni sentore richiama l’Etna e la Sicilia: sole e montagna che si uniscono.
Il sorso è un equilibrio dinamico tra imponente freschezza e maestosa morbidezza. Tannini ben presenti sui quali sembra essere intervenuto il sole a sedare. La frutta che torna ad invadere la bocca senza essere invadendo donando una bocca pulita ma dopo una lunga persistenza. Non particolarmente corposo.
Insomma, questo vino si identifica davvero con Idda, l’Etna: dall’esterno può sembrare una semplice montagna ma all suo interno custodisce la vera forza. Che ogni tanto rivela. Tormenta, il vino dedicato al nonno, è blend dei due Nerelli Mascalese e Cappuccio. Se Malpelo meraviglia per la pulizia ottenuta senza niente, Tormenta esalta. Nel calice è stupendo, vivo, scarico di colore, granata che sta diventando aranciato. Incredibile! Fine. Tanto fine nel colore tanto fine nei sentori: delicati e tenui di ciliegia, scorsa di arancia, fiori rossi. Il leggero sottobosco e il velo di balsamico continuano a ricordare che è dall’Etna che arriva.
In bocca è meraviglioso. Lo assaggio, lo riassaggio e la sensazione è quella. Poi capisco cosa mi fa venire in mente: la mano di mio nonno che mi accarezza. Sento il calore e l’affetto che mi trasmette la sua mano. Sento la rugosità di una mano che ne ha viste di lune. Ma non mi da fastidio, anzi, mi trasmette ancora di più l’amore. I frutti si amalgamano, la freschezza si fa sentire, la persistenza è buona, il finale è memorabile. Un senso di benessere mi assale e mi porta nei meandri della mente. Questo è un vino che si deve bere senza nulla di accompagnamento. Porta all’estasi anche cosi. Il manciaciumi non ti lascia per tutta la vita. È come essere portatori sani di un gene. Te ne fai una ragione senza mai pensare che qualcosa andrà storto. Perché pure se così fosse, qualcosa da fare la si trova sempre.
Dario e i suoi soci hanno bene in mente cosa fare nel futuro. Arrivare alle 40.000 bottiglie per poter avere la giusta sostenibilità. La cantina, la ricezione, un pò di stanze. Tutto programmato. Alla maniera di Dario. Un piano fatto su una tovaglietta di ristorante. In un pub. Davanti ad una birra. Quella che facevo io. Dovrò metterlo su excel. Con la resa bassa imposta da Dario sarà un bella sfida. Già perché se si vuole puntare e ottenere il massimo della qualità in vigna stressando meno il terreno, le rese non possono che essere basse. L’approccio al vino, quello che non vuole aggiunte e solo fermentazioni spontanee, porta con se anche tanta sperimentazione e divertimento. Al momento le etichette fisse sono Malpelo e Tormenta. Ci sarà un rosato che lo scorso anno era Saro. Dal 2020 ci portiamo dietro un bianco, Sindrome, da Carricante e Minnella che faceva 8 giorni di macerazione e sei mesi di tonneau scarico. Poi divertimento. Vorrei interpretare quello che mi da l’annata e la terra. Lavorando in un certo modo non c’è la standardizzazione. Magari c’è spazio per una bolla o un rosato. Occorrerà leggere tra le righe. Di base cinque etichette e poi divertirsi con le annate e nuove collaborazioni. Nel 2022 abbiamo fatto un bianco con uve etnee e pugliese. Mi spaventava per approccio e per vendite ma è uscito bene. Chiedere a Dario come si vede tra venti anni non sortisce risposte. Ma c’era da aspettarselo da uno che ha il manciaciumi. Cosa vuoi che ne sappia se quello che sta facendo oggi può essere diverso da quello di domani. Però Dario sa che dalla vita vuole questo. L’aria aperta. Il contatto con la gente. La possibilità di sperimentare. Di fare qualcosa che sia legato alla sua terra. Produrre qualcosa di sano e non avvelenato. Io vorrei che questa azienda facesse qualcosa di buono per il mio territorio e la mia gente. Per dimostrare che qualcosa di diverso c’è. Vorrei che l’azienda si allargasse per comunità e posti di lavoro. Ci vuole tanto lavoro che sono disposto a mettere ma ci vuole anche un pò di culo. Sto investendo tutto per fare in modo che questo succeda. Se mi sono sbagliato si ripartirà. Sono però sicuro che funzionerà. Qui è facile costruire un discorso del genere per via di un territorio unico. Non devo inventarmi nulla. Dario Sciuto, trentacinque anni. Con Giovanni e Leonardo sono Manciaciumi. Sono ragazzi con tanta voglia di fare, tanta energia ma, soprattutto, tante idee, buone, per la testa. Loro sono la dimostrazione che qualcosa di buono nel futuro ci può essere. E sono sicuro, ci sarà. Pensando comunque alla storia di Dario, mi vengono in mente le parole di una canzone di Franco Califano E io che non escludo…il ritorno (e ritorno) Come a dire che si commette un errore pensando che un grande amore si possa dimenticare mettendo chilometri nel mezzo. Prima o poi capita qualcosa che ti fa sobbalzare il cuore, o nascere un pensiero. Magari capita un ritorno.     Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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27 Settembre, 2024

Vigne Guadagno. La voglia di esserci

Nel lessico matematico una condizione necessaria e sufficiente indica un requisito che qualora soddisfatto, assicura il verificarsi dell’evento, se non soddisfatto, garantisce che l’evento non si realizzi.  Per capire bene questo principio occorre prima comprendere quando una condizione è necessaria e quando è sufficiente.  Siamo in presenza di una condizione necessaria quando l’evento si realizza solo se quella condizione si verifica. Però da sola non garantisce l’evento stesso.  La condizione è poi sufficiente perché si verifichi l’evento ma, se non c’è, non è detto che non si verifichi lo stesso. Facciamo degli esempi vinicoli così ci capiamo meglio. Condizione necessaria perché il vino venga bene è che il clima sia stato clemente. Però non è che basti questa condizione, ovvero la clemenza del clima per fare un vino buono. Ce ne sono molte altre di condizioni da rispettare! Condizione sufficiente perché il vino si colori di rosso è il contatto prolungato con le bucce. Certamente vero ma per certe tipologie di uve, la semplice spremitura comporta comunque un colore rosso. Questo panegirico perché, a volte, la narrazione nel mondo del vino induce a pensare che certe cose avvengano solo grazie a condizioni estrinseche. Se ad esempio si dice che il vino si faceva già al tempo dei bisnonni o anche più indietro, non è assolutamente certa la bontà del prodotto attuale. Al massimo è una condizione sufficiente cioè è sufficiente che si faccia il vino da tanto tempo per averlo imparato a fare (a meno di non essere proprio duri di testa!). Ma se è una condizione sufficiente aver fatto il vino da generazioni, di certo non è necessaria poiché se uno non ha le generazioni precedenti che facevano vino può comunque fare vino buono. Sembrano cose scontate però in un mondo come quello del vino dove è complicato entrare e soprattutto è complicato viverci senza avere nulla da raccontare. Insomma è ovvio, ma bisogna avere il coraggio di dirlo, che essere una famiglia che produce vino da generazioni in un territorio vocato non è condizione necessaria e sufficiente perché il vino sia buono.  È altrettanto ovvio, ma anche qui occorre dirlo, che iniziare a fare vino da zero, non implica assolutamente che il vino non possa venir bene. Aggiungo che non è assolutamente vero che se il produttore non sta in vigna e/o in cantina il vino non è di qualità. Giuseppe e Pasquale Guadagno hanno cominciato a fare vino in Irpinia dal 2010. Non tanto tempo fa ma nemmeno poco. Solo che entrambi erano promotori finanziari, non ne capivano nulla di vigna e vino, non erano mai entrati in una vigna prima di allora, nemmeno volevano farlo l’investimento. Andiamo per gradi così capiamo meglio.  Nel 1984 Pasquale Guadagno apre un ufficio ad Avellino. Si occupa di finanziamenti e opera con società bancarie. Giuseppe entra in società con il fratello poco dopo. Loro che non sono irpini ma di Napoli (Napoli Napoli? No, Casalnuovo di Napoli…anche se Giuseppe si trasferisce a Salerno per amore e Pasquale in Repubblica Ceca per motivi di salute) in Irpinia si fanno ben volere. L’intermediazione finanziaria e quella del credito al consumo in particolare li porta a girare e ad interloquire con una miriade di persone.  Il 2008 è l’annus horribilis per il settore finanziario. La crisi dei mutui subprime negli USA, la bancarotta della Leman Brothers provoca un vero e proprio tsunami. Giuseppe e Pasquale sanno che devono differenziare la loro attività perché non sarà mai nulla come prima.  Decidiamo di fare un investimento non per il vino ma per l’agriturismo: accoglienza in una struttura con la vigna. Prendiamo una vigna di Fiano a Montefradane in provincia di Avellino. L’idea alla base, la ristorazione con l’agriturismo. In fondo non era un grande sforzo. Ci sarebbe stato qualcuno a gestire e loro avrebbero beneficiato dei guadagni.  All’inizio nacque come attività in alternativa al lavoro principale. Non avevamo esperienza.  Con mio fratello Pasquale che è ancora socio al 50%. A luglio del 2010 l’investimento con l’acquisto del vigneto. Anche chi è ai margini del settore vitivinicolo sa che, bene o male, intorno a settembre, c’è la vendemmia. Vendere una vigna a luglio può essere da pazzi a meno che non si possa spuntare un prezzo maggiore o l’intenzione di liberarsene sia dovuta alla scarsa qualità delle uve. A settembre non abbiamo conferito le uve ma vinificato presso la cantina di una nostra amica. Abbiamo fatto il nostro primo Fiano imbottigliato poi a maggio 2011. Da li si è deciso di non fare più l’agriturismo ma produrre vini legati al territorio. Abbiamo cambiato il progetto iniziale. Ci siamo affiancati con un agronomo e un enologo. Abbiamo ricercato vigneti a Santa Paolina peri ll Greco di Tufo e Montemarano per l’Aglianico.  Ricapitolando. I fratelli Guadagno non hanno nulla a che spartire con il mondo del vino. Non provengono da una famiglia agricola. Non posseggono terreni. Si occupano di finanziamenti e credito ovvero niente di più lontano che dalla terra può esserci (in generale la finanzia che spesso non ha a che fare con niente di reale e lontana anni luce dall’economia reale). Per diversificare pensano di gettarsi in un business rapido e redditizio come quello della ristorazione. Acquistano  un immobile con la vigna. Fanno vino per caso dando vita alla loro avventura vitivinicola con Vigne Guadagno.  La prima parte del lavoro è stata quasi un gioco. “Non mi vendo le uve e faccio una bottiglia”. Producemmo circa 7000 bottiglie di Fiano. Dopo un anno e mezzo vendemmo quasi tutto su una piattaforma di e-commerce. Nel 2011 ci troviamo difronte al bivio. Abbiamo di nuovo vendemmiato Fiano. Da questa vendemmia fatta già con Gennaro Reale (enologo) cambiammo idea. La prima bottiglia ci fece innamorare e abbandonammo l’agriturismo. Proprio strano il mondo del vino. Non ci sono certezze, non ci sono consuetudini, non ci sono condizioni necessarie e sufficienti.  L’Irpinia è una di quelle regioni magiche della quale tutt’ora non se ne comprende bene le potenzialità. Micro aziende che non sempre vinificano. Produttori che fanno poco sistema. Eppure qui trovano vita vitigni meravigliosi come il Fiano, l’Aglianico, il Greco di Tufo, la Falanghina, tutti con espressioni diverse in funzione delle diverse zone ed esposizioni. Un meraviglioso e unico palcoscenico dove oggi c’è ancora infinito spazio di crescita. Figuriamoci quattordici anni fa quando la crisi c’era e si sentiva. E se non riescono a valorizzare il territorio chi coltiva la terra da generazione, forse è bene affidarsi ad altri. Per il bene di tutti.  Nel 2011 conosciamo le persone del luogo che fanno questo lavoro. Come l’enologo che voleva cose semplici, senza alterazioni in cantina. Tanto lavoro in vigna. Dunque abbiamo un aerotecnico che ci segue la vigna da dieci anni. Insieme a loro programmiamo. Io in vigna ci sto 50/60 giorni all’anno. Non partecipo alle lavorazioni. Il ciclo delle vendemmie lo seguo. Giuseppe ha il modo di fare tipicamente partenopeo. Mi ricorda mio zio Pasquale che amava argomentare qualunque cosa ma non quello del quale non si sentiva competente, padrone della materia.  Con il fratello Pasquale hanno programmato tutto. Un vero e attento lavoro di analisi del territorio per la scelta dei terreni migliori e dei luoghi dove poter vinificare nei termini delle DOCG irpine. I vini nascono da nostre scelte e dopo le esperienze commerciali. All’inizio abbiamo prodotto senza cognizione di causa. Poi nel 2013 abbiamo fatto una pausa di riflessione sul Fiano parlando con ristoratori e clienti. Si volevano i bianchi di annata ovvero di pronta beva. Il Fiano invece ha bisogno di tempo. Con la 2013 abbiamo fatto due vendemmie separate per la base e la riserva. Il vino era performante nonostante l’invecchiamento. Può evolversi bene nel tempo. Poi abbiamo acquistato delle uve di Greco e da li abbiamo ricercato una vigna di Greco presa poi nel 2018. Così da avere DOCG Greco di Tufo. Stesso discorso per l’Aglianico. Prima del 2015 introduciamo l’Aglianico con uve acquistate per poi andare alla ricerca della vigna. 2017/18 abbiamo completato.  L’agronomo e l’enologo per realizzare prodotti identitari ma che al tempo stesso potessero incontrare il favore del mercato. La rete di agenti per la corretta prospezione commerciale.  L’orgoglio del territorio e del suo essere campano da portare come valore aggiunto. Con tutta la inesperienza che avevamo, deciso di fare il vino, abbiamo cercato di costruire una rete vendita con agenti. Allargare anche ai rossi serviva per la gamma. Gli agenti non potevano  proporre una azienda piccola come la nostra. Serviva un incremento. Taurasi oltre ad essere una denominazione è un paese. Prendere un deposito e fare li la sede legale serviva a livello commerciale. Col tempo vedi che la scelta dei rossi te la porti dietro con un pò di peso. Una azienda che conta cinque ettari.  A Montefredane nasco con tre ettari e sessanta. Tra qualche anno faremo qui la Falanghina. La vigna in altezza cosi da avere una variazione in termini di maturazione delle uve. Due selezioni che diventano tre. Anche una base spumante per il Fiano. Ci adeguiamo alle variazioni climatiche però nello stesso tempo portiamo avanti una linea enologica molto legata ala specificità delle uve. Data la ricetta un buon enologo si ripete. Una piccola azienda ha bisogno di una identità che sono le materie prime. L’uva.  Sembra lapalissiano che debbano essere le uve ad essere protagonista. Purtroppo in molti casi non è, più, così. Prevalgono tanti e tali fattori che poi, l’uva, conta sempre meno. A Montefredane siamo otto aziende che producono Fiano. C’è un filo conduttore ma ognuno di noi ha delle caratteristiche diverse. Dal terreno alla filosofia in cantina.  Il suo lavoro nel mondo dei servizi finanziari Giuseppe lo ha lasciato tre anni fa per dedicarsi a tempo pieno a questa attività. Sette etichette per circa 15.000 bottiglie. Parte dell’uva venduta perché imbottigliare non avrebbe senso. Un conto economico che sta in piedi a dimostrazione di come facendo bene le cose, le aziende possano sostenersi. Un futuro con la cantina di proprietà per vinificare, laddove possibile, le uve nella DOCG di riferimento. L’enoturismo da sviluppare come motore pulsante di un business che attende solo delle ali per decollare.  Adesso vinifichiamo conto terzi anche se legno e acciaio sono nostre. Affinamento e deposito a Taurasi. Il passaggio successivo sarà legato alla trasformazione delle uve e di contatto. Pasquale si è trasferito dal 2012 in Repubblica Ceca. Ha avuto un trapianto di cuore ed è rimasto li per necessità. Facciamo comunque fiere insieme ed è partecipe del progetto. Sono riuscito a fargli venire la voglia dell’enoturismo.  Giuseppe è un commerciale che ha acquisito un suo bagaglio di esperienza enologico direttamente sul campo. Con modestia. Standosene quasi in disparte. Lasciando fare a chi sa. C’è voglia di fare e di imparare, giorno dopo giorno, sempre di più. Una esperienza che cresce anno dopo anno, vendemmia dopo vendemmia.  Non ho un nonno che faceva il vino e mi è rivenuta la passione. Ciò che vedo in Irpinia è la possibilità di penetrare nel mercato senza dover snaturare il territorio. Quello che mi spaventa sono le generazioni più giovani che per adesso sono lontane da questo mondo.  Giuseppe, da persona che ha una visione ampia tesse le lodi di aziende come Mastroberardino e Feudi San Gregorio poiché a loro va dato il merito di aver creduto ed investito in un territorio semi sconosciuto portandolo in alto nel mondo. Per questo occorre far sistema e lavorare tutti insieme per lo stesso obiettivo. Senza campanilismi e senza pensare a chi è entrato prima o dopo in questo mondo. L’appartenenza dovrebbe essere valutata solo dalla voglia, e capacità, di investire. Come terreni e produzione riusciamo anche a vendere qualcosa. Non imbottigliamo tutto. Ho bisogno di fare mercato ma devo crescere. Per il Greco c’è una piccola vigna con poche migliaia di bottiglie. Idem per l’Aglianico. Vogliamo avere un prodotto importante ma di più facile beva. Oggi il tannino irpino è molto accentuato. C’è una sorta di paura nel berlo. Anche il Taurasi abbiamo cercato di renderlo più bevibile. Fatto secondo la tradizione è difficile  I vini.  Il metodo classico da Fiano non ha mercato. Facciamo 2000 bottiglie per vedere come gira la cosa e vedere le evoluzioni in bottiglia.  Come a dire che viene prodotto per esigenze di posizionamento ma soprattutto per verificare le evoluzioni del prodotto.  Fiano di Avellino DOCG Contrada Sant’Aniello. La bottiglia che ho provato era un 2017, per la serie il Fiano è un vino longevo!
La prima cosa che appare in contrasto con l’età è il colore: giallo paglierino con una limpidezza che rasenta la luminosità. Poi anche i sentori che non sembrano essere presagio di un vino particolarmente importante: agrumi, mela, pera mandorle, fiori bianchi. Semplicità ma non complessità. Occorre ricercarli con attenzione. Come se si nascondessero. O nascondessero qualcosa.
In bocca però la musica cambia e il concerto ha inizio. La spalla è ancora poderosa e l’equilibrio è perfetto. Sapidità marcata e persistenza decisamente lunga. Chiusura di bocca impeccabile. Torna molto l’agrume che si arricchisce della pesca bianca, impreziosita dalla mandorla e dalla nocciola. Il coinvolgimento è del palato intero che lascia la bocca in uno stato a dir poco meraviglioso. Che dire se non wow? Fiano di Avellino DOCG 2021. Un vivace paglierino al limite del luminoso è già un bel biglietto da visita. I sentori sono particolari perché è come se delle foglie di nocciola venissero adagiate in un cestino di erba appena tagliata a formare così un contenitore per pere, ananas, pesca bianca, melone bianco e agrumi. Fiori di biancospino, di ginestra e un mazzolino di margherite si adagiano sul cestino accarezzati da un vento che porta iodio così da far aprire balsamicamente il naso. Ciò che si respira sa di finezza e discreta complessità. Non mi da l’idea di qualcosa, o qualcuna, di particolarmente sensuale. Semmai di un’amante decisa che potrebbe tirar fuori le unghie da un momento all’altro.
Il sorso è in effetti veramente grandioso. La freschezza si sposa con la mineralità, gli agrumi e un retro olfatto di nocciola. Il primo sorso è un invito dato però con uno schiaffo, di quelli che si danno per desiderare il contrario. Infatti poi, arriva l’abbraccio, forte, impetuoso, avvolgente ma non morbido. La sensazione finale in bocca è quasi di sale tanto che mi è venuta in mente la canzone di Gino Paoli. Bellissimo e riuscitissimo equilibrio con una nota vegetale che viaggia in profondità per una persistenza anche lunga. Grande, grandissimo vino. Greco di Tufo DOCG 2021. Colore anche in questo caso al limite del luminoso. Se si presenta simile al Fiano come colore, i sentori cambiano verticalmente diventando più scarichi, meno invadenti, più fini, meno esuberanti. Raffinati direi. Il limone, il cedo, la pesca bianca, la mela: emergono con difficoltà come se occorra stanarli. La sensazione di gesso si unisce a quella del biancospino e torna lo iodio. Meno invadente del Fiano ma comunque presente.
In bocca continua la finezza arricchendosi di morbidezza. Cosa questa che nel Fiano era assolutamente latente. L’agrume dona freschezza e il finale mandorlato finezza. Non arriva mai ad essere amaro! La persistenza diminuisce e la chiusura di bocca sa di finezza. Finezza, finezza, finezza. Qui la differenza con il Fiano che è l’impeto, il Greco morbida finezza. Aglianico 2020. I riflessi porpora svelano la giovinezza di questo vino. Se quattro anni sembrano tanti, per un Aglianico rappresentano a malapena lo svezzamento. I sentori non possono che parlare di freschezza per via della frutta rossa non ancora matura. Neanche il passaggio, breve, in legno, è riuscito a far qualcosa. Sottobosco, vaniglia, noce moscata e i tanti fiori rossi completano il quadro olfattivo che comunque tende verso il vegetale/floreale. I sentori vinosi e gli agrumi completano il quadro fornendo ancor di più la sensazione di un vino fresco e giovane.
La bevibilità voluta da Giuseppe si evidenzia immediatamente al sorso per via dei tannini levigati. C’è un corpo non certamente importante; ci sono i frutti rossi e gli agrumi a valorizzare l’importante freschezza; c’è un finale meravigliosamente pulito ad esaltare il lavoro di vigna e cantina. Insomma, uno di quei vini che nella sua estrema semplicità (arricchita dal terroir ma anche dal passaggio in legno) si lascia ricordare. Dopo averne bevuto. Perché si lascia bere e bene. Taurasi Riserva 2017. L’evoluzione dell’Aglianico. Et voilà. Una evoluzione che parte dal colore rubino scuro e riflessi granata per approdare ai sentori che da frutti rossi non ancora maturi arrivano ad essere neri e quasi cotti. Pellame, tabacco, ciliegia, prugna, cannella, cacao, ematico e un sottobosco che assume un tono di minor freschezza. Le sensazioni offerte sono di un vino forte ed estremamente tannico: un attraente salto nel buio.
La bocca restituisce gradevolezza e bevibilità nonostante tannini vigorosi  ed alcol tipico del sud. Gradevolezza per via di frutta matura e cotta che continua a rimanere nella bocca a lungo. Finale lievissimamente amarognolo a stemperare una frutta che potrebbe risultare quasi opulenta e un agrume che c’è senza essere invadente. Un grande vino, una grande espressione di Aglianico. Quella di Giuseppe e Pasquale è un visione imprenditoriale davvero chiara. Di quelle che dovrebbero avere in molti che lavorano, anche da tempo, in questo settore. Programmare con una strategia chiara e definita. Giusti investimenti e grande propensione alla vendita. Grandi vini. Voluti attraverso collaborazioni enologiche oculate e terreni scelti con precisione chirurgica. Il risultato di quanto ho assaggiato è di livello. Altro che voglia di esserci. Qui si dovrebbe parlare di diritto di esserci. Rimane, specialmente per Giuseppe, il grande cruccio del dopo. Perché tutto questo è certo un investimento, è certo un modo per valorizzare il territorio e creare qualcosa, ma poi, deve essere anche qualcosa che continua nel tempo. Magari con i figli e per i figli. Giuseppe ne ha due, gemelli (maschio e femmina) di 16 anni.  Vediamo quando finiscono il liceo cosa vogliono fare da grande. Speriamo che gli piacerà.  Sto facendo un investimento che spero verrà seguito da un figlio. Vivi con questa speranza.  Ecco, io credo che innamorarsi di un luogo può essere facile. Innamorarsi di un vino, altrettanto. Di una idea e di un modo di vedere il proprio futuro, un pò più complicato. Ma anche i giovani di oggi, sono in grado di riscoprire, dopo le giuste esperienze, i veri valori della vita.  Io dei vini delle Vigne Guadagno, mi sono realmente innamorato e parlare con Giuseppe è stata una di quelle esperienze che porterò dentro di me per la sua pacatezza, allegria, visione e capacità di coinvolgere l’interlocutore.  Piano piano, Giuseppe, coinvolgerai anche i tuoi figli. Ne sono certo.   Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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20 Settembre, 2024

Sorelle Pepe. Quattro donne al comando

Mettere su una band, un gruppo musicale, è sempre impresa ardua. Non è solo un trovare qualcuno che sappia suonare o cantare. C’è bisogno di volere la stessa musica, condividere lo stesso messaggio. C’è soprattutto la necessità di far convivere all’interno della band caratteri diversi che vanno messi alla prova quando arriva, se arriva, il successo. Occorre tanto ma tanto affiatamento per rimanere insieme. Quella bella dose di umiltà che in genere manca. Oltre che alla capacità di comprendere che la band esiste, anche per motivi commerciali e rimanere uniti, conviene. In un sito ho letto che la band più longeva è quella degli U2 che stanno insieme dal 1978. A leggere con più profondità si scopre però che ci sono i Golden Earring, creato nel 1964. Solo due anni prima dei mitici Pooh. Altro che U2. Tenere insieme una band è complicatissimo anche per la straripante personalità dei componenti. Sempre pronti a voler essere la prima donna indipendentemente dal ruolo. Così che c’è da chiedersi cos accadrebbe se la band fosse costituita da sole donne. Diventerebbe impossibile. Davvero impossibile, tanto è vero che i pochi “esperimenti” commerciali di band costituite da sole donne, sono durati un battito di ciglia. Come si fa a far convivere delle donne gestendo la dinamica (non certo l’unica) che ognuna vuole essere la prima? Impossibile, le ho già sposate tutte. 
È la battuta finale di Costantin alias Adriano Celentano nell’episodio “Venerdì” del film Sabato, domenica e venerdì di Martino, Castellano e Pipolo (1979). 
Costantin, impresario del balletto stile Moulin Rouge per impedire alla ballerina Jacqueline di scappare con il suo innamorato, la sposa. Successo assicurato per il balletto che così che il suo il suo fido collaboratore Ambrose escama: Però l’hai pagata cara eh? Pensa un pò se te ne dovesse scappare un’altra… Costantin risponde  Impossibile, le ho già sposate tutte. In fondo è quello che fa un padre quando si ritrova con quattro figlie femmine. Non può che trattarle allo stesso identico modo. Tenendo ovviamente conto delle differenze caratteriali.  Tutto facile e tutto normale. Lapalissiano direi.  Ovvio, si direbbe.  Proviamo a guardare le cose da un’altra prospettiva. Siamo al sud, in Puglia, in un piccolo paesino, Poggiorsini nei pressi di Gravina di Puglia (BA). Il papà si chiama Raffaele Pepe e gestisce l’azienda che la famiglia possiede da generazioni: 200 ettari di terreno. Tanta terra, tante cose da gestire. Dalle persone, alle lavorazioni, ai fornitori, alla commercializzazione di prodotti che in queste terre sono principalmente cerealicoli. Sapete che c’è una Borsa del grano a Foggia? La mattina ci si sveglia e, al pari di un trader, si verifica la quotazione del grano così che la giornata può assumere mood diversi. Come un trader insomma. Con la differenza che qualunque sia la quotazione, il lavoro devi comunque farlo dalle prime luci dell’alba al calar del sole.  Con quattro figlie femmine e nessun maschio, per quanto puoi essere di mentalità aperta, un minimo di preoccupazione ti assale. Non per il borsino ma perché i figli si vogliono proteggere. Il lavoro in campagna è duro assai e quando poi hai quattro figlie femmine, che stimi all’inverosimile, cerchi di proteggerle maggiormente. È per questo che Raffaele e la moglie decidono che le figlie devono fare ciò che meglio ritengono per loro. A partire dallo studiare lontano. Solo se vorranno, ritorneranno. Sarà una scelta loro senza che vi sia imposizione alcuna.  Caterina è agronomo. Valentina ha studiato informatica e poi è diventata sommelier. Micaela ha studiato economia. Raffaella contabilità e logistica. Quattro figlie. Quattro donne che hanno percorso autonomamente un tratto della loro vita per poi tornare per avere un ruolo nell’azienda di famiglia  Nelle aziende familiari per quanto si possono decidere dei compiti diventa tutto un minestrone.  La giornata si deve chiudere. Chi raggiunge cosa con quali mezzi non è importante. Quando sei in piedi dalle cinque e si fanno le otto senza vedere la fine si diventa nervosetti. In famiglia c’è molta elasticità. Ognuno di noi ha orari flessibili.  Mio papà ha settantatré anni e sta fuori la porta perché l’agricoltore muore in campagna e non va in pensione. Rimane li sempre.  Essendo quattro figlie e invece di mandarlo via… Ma avremmo dovuto ahahah Per avere un ricambio generazionale soft abbiamo scelto di aggiungere all’azienda qualcosa che a me appassionava particolarmente. Siamo in un territorio vocato ed era una nostra passione. Avendo questi vigneti dai quali riuscivamo a tirare fuori un buon prodotto, abbiamo preso due ettari di Aglianico per destinarli ad una nostra produzione. In pratica abbiamo smesso di conferire creando una etichetta che fosse solo delle sorelle. Nasciamo da una famiglia di agricoltori da parecchie generazioni. In Puglia e nella nostra zona, dagli anni 70 in poi è stata prevalentemente cerealicola. Abbiamo questa azienda in mano. Fino agli anni 70 facevamo di tutto. Le mandorle, il vino, oltre ai cereali. La nostra è sempre stata una azienda molto diversificata. Ci abbiamo sempre tenuto. Papà, nonno.  Noi siamo quattro sorelle e nate in questa realtà. Ognuna di noi ha fatto il nostro percorso di studi. Percorsi sempre finalizzati a tornare in azienda.  Le sorelle Pepe. Una forza della natura. Quattro donne. Quattro personalità. Quattro modi di approcciare la vita. Un solo desiderio: gestire l’azienda di famiglia.  In un contesto maschile e maschilista scelgono volontariamente di voler essere la continuità dell’azienda di famiglia. Non altri. Non i loro mariti. Loro. Solo loro.  Non basta la volontà. Non è semplice vincere le diffidenze delle persone. Anche quella del papà che però diffidenza non è. Raffaele lavora nell’azienda da una vita. Anzi, da più vite. Anche quelle precedenti che si riversano sulle sue ossa. La sua non è diffidenza. È necessità di mettere in guardia il bene più prezioso della sua vita. Ma anche quel sano orgoglio di una persona che ancora non si sente pronto per mettersi da parte.  È qui che subentrano le donne. Con la loro intelligenza prospettica e la capacità di attendere. La donna non è impulsiva come l’uomo, attende. Medita, programma, studia. Attende. Una attesa che è vera strategia perché mai attuata nell’immobilismo.  È il 2015 quando le sorelle sfruttano l’occasione del vigneto di Aglianico piantato sei anni prima da papà Raffaele e creano l’Azienda Vinicola Famiglia Pepe. Un modo per diversificare in questo territorio così prossimo alla Basilicata dove l’Aglianico del Vulture è Re incontrastato. Uva da conferire perché di mettersi a fare il vino Raffaele non ha ne tempo ne voglia. Lui no…. Le viti c’erano già perché la nostra famiglia aveva la produzione vitivinicola. Nonno e papà avevano il Sangiovese e il Merlot venduti a cantine del centro Italia. Faceva la quantità  Papà volle impiantare dopo una serie di analisi, l’Aglianico. Siamo dirimpettai con il Vulture. Il confine con la Basilicata dista due km. Abbiamo capito che l’Aglianico che tutti ci chiedevano magari era buono.  Quando papà decise di impiantare il vigneto, era indeciso su cosa impiantare e ci ha chiamato.  Noi abbiamo detto, ci siamo, ci scegliamo il vitigno ma sappi che sarà la tua fine nel senso che diventa cosa nostra. Ha capito di aver sbagliato solo a chiamarci. Gli uomini che vivono con tante donne si lasciano dolcemente condurre.  Siamo entrate a gamba tesa nel senso positivo. Se sai che quello sarà il tuo lavoro diventa lo scopo della tua vita Anche perché ha avuto quattro lavoratrici gratis! Lui neanche la bolletta si va più a pagare.  Siamo cresciute con l’idea di portare avanti quello che era già nostro. Nella cultura aziendale era offrirci un motivo valido per rimanere qui. Noi abbiamo studiato all’estero e ti rendi conto che non è tutto oro ciò che luccica. Poter lavorare a casa è un plus Loro pensano al lato umano. Sapevano benissimo che se non ci fossimo realizzati nel nostro lavoro, qui ci sarebbe comunque stato da mangiare. Ci sono stati molto vicini nelle dinamiche personali. Sul lavoro ci hanno lasciate libere. Nessuna cattiveria in queste parole. Anzi, rispetto totale per un padre che ha dato loro la possibilità di crescere e sbagliare, crescere e formarsi, crescere e farsi le ossa. Sapendo già in cuor suo che un simile momento sarebbe prima o poi arrivato. Ognuna delle sorelle ha nel padre il rispetto e l’ammirazione di chi, facendolo, capisce quanto sia complicato condurre una azienda del genere.  Siamo come il riccio. Siamo entrate con due ettari e abbiamo piantato altri due ettari a Fiano e Primitivo. Poi abbiamo estorto un capannone, quello che lui adibiva alla essiccazione del tabacco dicendo “visto che il tabacco non lo fai più, ce lo prendiamo” Abbiamo fatto la cantina in questa cascina molto scenografica. In un contesto nel quale c’è la vigna e nel mezzo la cascina. Le due ali laterali destinati ad accoglienza ed uffici mentre il centro è per la produzione. Cosa faccia il riccio non lo so davvero ma la strategia delle sorelle Pepe è fin troppo chiara. Entrare in punta di piedi (non senza sgomitare) nell’azienda di famiglia. Un modo per non creare traumi al padre. Un modo per tributargli rispetto senza che questo possa apparire come elemento di debolezza. Perché tale non è. Ciò che è conquistato infatti diventa di totale, assoluta, esclusiva pertinenza delle sorelle. La vigna, la cantina, il vino: guai a toccarlo! Il rovescio della medaglia è lavorare con i genitori che diventano grandi. Non si comportano come con i dipendenti. Un padre si permette di fare il domus. Ti fa fare pure le figuracce.  Abbiamo impiantato il vigneto nel 2008 ed il percorso è stato lento. Non ci riteneva capaci. Eravamo più giovani e venivamo dalla scuola. I primi anni sono stati difficili perché le difficoltà erano enormi. Anche di comunicazione. Quando abbiamo scelto ci siamo interrogate e abbiamo deciso. A noi questo lavoro piace. Chiunque quando inizia in questo tipo di aziende ormai meccanizzate ed informatizzate, si affascina. Papà ha sempre creduto nel bio dicendo che questa è casa sua e la deve trattare bene. Ci dice che se volete mantenere pulito dovete usare la zappa. Altro che prodotto. Vuoi il pratino all’inglese? Usa la zappa. Quattro sorelle sulla stessa lunghezza d’onda che nella loro grande intelligenza sono riuscite a dividere e ripartire i compiti per quanto questo sia possibile in una azienda agricola di stampo familiare.  Poggiorsini è il comune più piccolo della Puglia e siamo riusciti a portare i turisti. Qui non c’è niente da vedere. È tutta campagna. Quando vediamo che apre un agriturismo, anche se sappiamo cosa gli aspetta ma non glielo diciamo, lo accogliamo sempre con felicità. Perché quando la campagna è viva, l’obiettivo è arrivare come la toscana e i Piemonte. È mentalità ,di quanto può far bene stare in campagna, osservare i tempi. Ti assicuro che se riesci a far combaciare i tempi della vita con quelli della campagna, la vita stessa ne trae giovamento.  Sono innamorate della campagna. Della vita. Hanno una mentalità che magari si scontrerà con il contesto e sarà difficile, ma è quella giusta. Trovare gli elementi per far si che qualcosa possa accadere. Cercandola e costruendola. Come hanno fatto con il vino. L’agricoltura deve sfruttare i tempi della natura. Accettare. Quando si mette il tempo nero per giorni, gli operai li hai. Devi accettare.  A fare questa vita piace. Ma non devi essere ingordo perché non è detto che se lavori dodici ore guadagni per dodici ore. Lo scorso anno abbiamo fatto un terzo della produzione di rosato. Ognuna di noi ha la sua dimora. Tre su quattro sono sposate e hanno il comparto familiare da portare avanti.  Mia madre non ci vuole I nostri genitori non ci hanno voluto. Hanno un palazzo nel centro di Gravina e hanno una casa tutta loro. Si poteva pensare di mettere almeno una figlia ma non ci hanno voluto Quando c’è la separazione fisica trovi uno spazio La nostra è una forma di educazione molto rigida perché molto antica. Mia nonna, la madre di mio padre, è milanese. Milano Milano. Mio padre è cresciuto così e anche a noi hanno cresciuto così. I figli si baciano di notte e a diciotto anni si devono trovare, da soli, la loro strada.  Loro non sono i genitori che vogliono i figli vicino. Il rapporto è tale per cui se vuoi vivere la tua vita, lo devi fare. Le persone sono felici quando libere.  La grandezza di una famiglia sta tutta qui. Nell’educazione che sono riusciti ad impartire alle proprie figlie. La capacità di trasmettere la cultura familiare. Quella delle generazioni precedenti.  “La nonna era milanese”. Quanto è strana la vita certe volte. Trovarsi in Puglia, nel cuore della Puglia rurale e pensare che le origini siano milanesi fa davvero strano. Però a scavare nel passato delle persone, le favole prendono corpo.  Caterina Lubrano, oggi splendida donna di 97 anni che suona ancora il violino e legge ogni giorno il Sole24h, nasce a Milano da madre di origini pugliesi e papà milanese. Entrambi i genitori provenienti da famiglie della ricca borghesia. Direttore di banca il papà (quando essere direttore di banca era un mestiere per illustri professionisti), proprietari terrieri in Puglia la mamma. Oltre le terre anche un palazzetto nel centro di Gravina. Arriva la Guerra alla fine della quale Caterina e il papà scendono a Gravina per avere cura del palazzetto. Capirne le condizioni e provare a venderlo. Oltre ad evitare che venisse occupato da chi tornava dalla guerra senza avere neanche un posto dove dormire. È qui che incontra Michele Pepe. Mio nonno che era un giovane imprenditore agricolo volle acquistare l’immobile. Era un bel palazzo signorile in centro a gravina. Con un giardino molto grande. Situazione di prestigio e per lui che era ambizioso sembrò aggiungere un bel tassello. Entrò con mia nonna che gli aprì la porta e rimase folgorato. Da mia nonna. Una donna milanese, laureata, raffinata. Lui era fidanzato con una bella ragazza locale. Proprietaria terriera molto ricca. Ma quando vide mia nonna non capì più niente. Mia nonna è ancora viva. Ha 97 anni, legge il sole 24 ore e suona il violino. Lei è milanese nell’anima. Si è sposata con mio nonno e non è più uscita di casa. Si sono girati il mondo insieme ma non è mai andata a fare una spesa. Ci siamo dovute scontrare e scardinare tante di quei luoghi comuni e fissazioni che nella piccola borghesia ci sono ancora. Abbiamo amici che ragionano ancora come ragionavano i loro nonni. Noi che siamo donne che siamo state fuori abbiamo dovuto lottare per scardinare queste idee e questa mentalità. Un modo ragionare che andava cinquanta anni fa. Quando facevamo i pranzi di natale c’era l’etichetta. Avevamo delle regole. A casa di mio nonno andavano ambasciatori, diplomatici. Molto più formali. Ci hanno insegnato regole che abbiamo scardinato per il benessere nostro ma anche per dimostrare che non è questo che ti porta al successo. O alla felicità. Ti rimane una forma di buona educazione. Per quanto i miei nonni fossero benestanti, mantenere una proprietà non è facile. Mia nonna ha sempre lavorato. Vendeva le mandorle nel portone. Perché quando c’era da lavorare, nonostante fosse istruita e benestante, era lei che le vendeva decidendo il prezzo. Si metteva li con i sacchi. Il successo lo devi costruire con il lavoro e devi essere tu in prima persona. Abbiamo avuto questi esempi magistrali. Tutti si aprono la schiena. Mio nonno me lo ricordo chino sulle carte alle tre di notte. Quando raccogliamo il grano, ci sono 45 gradi. Ci svegliamo la mattina alle 5 e alle 10 stiamo ancora nei campi con una temperatura pazzesca. Anche se non ce la fai, ce la devi fare. Hai visto le persone a cui volevi bene che facevano un sacrificio personale per lasciarti qualcosa. Niente è caduto dal cielo. Pensare a tutte e quattro interessate forse non era nei sogni. Quattro femmine. Difficile pensare che tutte volessero lavorare in azienda. Che bel regalo hanno fatto al papà. Quattro figlie a lavorare insieme nella stessa azienda con grande voglia.  E poi il vino. Impossibile, inimmaginabile solo pensare che queste quattro donne possano vedersi imporre qualcosa da qualcuno. Si informano, leggono, sperimentano, si lasciano consigliare ma poi sono lo a dedicare. Ecco perché i vini sono la loro esatta espressione di vitalità ed energia. Vini che possono essere schiaffi o carezze ma che sono non “delle” Sorelle Pepe. Sono “le” Sorelle Pepe. Dentro queste due bottiglie di Aglianico in versione rossa e rosato ci sono loro: Valentina, Caterina, Micaela, Raffaella.  Produciamo un Rosso ed un Rosato. Rosato fresco. Non tutti gli anni. Rispettiamo la vendemmia e ci piace far vedere come è andata l’annata. Nel momento in cui abbiamo deciso di creare un vino nostro (era il 2015) abbiamo contattato una ragazza che è la nostra enologa Valentina Cicimarra. Non avevamo la cantina. Volevamo un posto per vinificare qui vicino e creare due etichette.  Dovevano rispettare i nostri gusti. Non volevamo qualcosa di simile agli altri. Il nostro rosato è atipico perché di quasi 14 gradi. Intenso e caldo come aroma.  Volevamo vini giovani, con la nostra mentalità di ricambio. Entrare è stato difficilissimo. Sembrava una impresa impossibile. Le 7000 bottiglie massimo diecimila rispetto alla annata sono poche. Poi arriveranno gli altri vitigni.  L’Aglianico rosso fa un passaggio in legno in botti grandi per sei otto mesi. Cerchiamo di capire i canoni per poi portarlo li La barrique ce l’abbiamo li come estetica.  Sono devastanti queste sorelle. Una forza. Che meraviglia!! Il nostro rosato non è un vino leggero. Vorremmo avere una gamma che solletichi i gusti di tutti. A me piacciono i rossi. Qui ci sono cantine che fanno buoni bianchi. Se ci metti cura vengono fuori bei vini. Magari un blend tra Aglianico e Primitivo. Qualcosa con personalità. Prodotti che assomigliano a chi li fa. Io bevo molto rosso ma non quelli a 18 gradi.  Anche il Primitivo deve essere una via di mezzo. Le cose buone in campagna si fanno tirando fuori il meglio da ciò che hai. Quanto conosci il vigneto seguendolo dalla potatura alla vendemmia.  Andiamo in vigna tutti i giorni. Facciamo noi.  Assaggiando i loro vini ho immaginato nonno Michele che vede per la prima volta Caterina innamorandosene perdutamente: una porta che si apre, i sensi che si destano, il cuore che batte, la mente che inizia a vagare leggera. Se non è amore questo….. Quattro sorelle è il rosso da Aglianico con passaggio in botte grande. Bel colore rubino e bella vivacità già appena versato nel bicchiere. Non si presenta come un Aglianico importante, opulento, massiccio. Anche al naso appare si “vissuto” per via della frutta cotta ma sono poi i sentori vegetali di sottobosco che lo rendono più snello. L’impressione è di essere in una cucina a Natale con una “Stella di Natale” sul tavolo mentre la frutta cuoce sui fornelli corredata dai sentori acquisiti dalla botte: cacao, bacche di vaniglia, chiodi di garofano, cardamomo, pepe.
Al sorso si capisce poi la differenza di cui sopra. Vigoroso certamente con i tannini che non risultano troppo importanti e la freschezza che, meraviglia, lo rendono quasi verticale. Il frutto svetta con una arancia e il finale con la punta di amarognolo lo rende particolarmente intrigante necessitando ulteriori sorsi per capire. Ottimo bilanciamento e una bocca che rimane fresca e pulita con una persistenza non particolarmente lunga. Insomma un vino che può sembrare da tutti i giorni se non fosse che occorre abbinarlo con qualcosa (ma non di particolarmente importante). Determinato Rose di San Cataldo, ricorda la masseria dove hanno iniziato a vinificare proprio il rosato. Quello da 14° insomma. Avete presente quando vedi una bella casa che dentro risulta essere ancora più bella? Ecco, così è questo rosato. Fuori appare bellissimo e invitantissimo per via di un brillante colore rosso cerasuolo. Al naso i sentori inebriano per la quantità di frutta (melone, melograno, fragoline di bosco, lamponi, ribes, ciliegia bianca, arancia rossa) e fiori: semplicità e qualità come a dire chic. Quando si porta in bocca il primo sorso la vigoria sapida fa subito capire che c’è concretezza e intensità. Quella della Puglia con il suo sole e i venti del mare. Il finale quasi amarognolo, i piena continuità con il rosso, intriga così tanto che non si può fare a meno di portarlo nuovamente in bocca. Equilibrio raggiunto con una meravigliosa freschezza nella quale l’arancia e i frutti rossi dolci convivono senza eccessi, come se lo spessore e la forza dell’Aglianico si ingentilisse senza perdere la sua vigoria. Intrigantissimo. Il nostro collaboratore Luigi che sta con papà da trenta anni, ha avuto tanta pazienza nell’’insegnarci le cose. In campagna i segreti si tramandano e Luigi sapeva che se non li avesse insegnati a noi sarebbero andati persi. Lui ci tiene. Quando non andiamo perché c’è la parte amministrativa ci dice: siete andate in ferie? La vigna si segue. In vigna non si va mai senza le forbici.  Uno dei più grandi insegnamenti in campagna è il fare. Non ce ne si sta con le mani in mano in una azienda agricola. Si entra in vigna con le forbici perché c’è sempre da fare. Ma devi sapere cosa fare e per questo devi avere la fortuna di qualcuno che te lo insegni. Così come devi avere la forza e l’umiltà per ascoltare. Solo così si impara. Solo cosi si può capire cosa fare. Luigi è per tutte e quattro una risorsa. Lo è stato per il padre e per l’azienda. Lo è per loro. Chissà cosa gli ha detto Raffaele a Luigi… Lasciatemi poi che conceda tutta la mia solidarietà ai mariti/compagni delle quattro sorelle. Vivere con questi tornado non deve essere affatto semplice. Ma l’amore è bello anche per questo. I nostri mariti sono le vittime del sistema. Subiscono in silenzio tutte le nostre decisioni. Quando andiamo alle fiere e preparo il borsone mi dice: te ne vai? Spesso vengono con noi. Ciò che traggo dalla meravigliosa conversazione con queste stupende donne è il profondo rispetto per la famiglia e per il territorio che le ospita. La capacità di guardare al futuro, l’intelligenza nell’affrontare la vita con pragmatismo e forza, la determinazione nel fare le cose. Ma ciò che sono in grado di trasmettere con tutto il loro fascino è l’allegria, intesa come capacità di guardare alle cose con sana leggerezza. Quella leggerezza data dal sapere che le cose occorre farle e allora non serve lamentarsi ma trovare il bello ovunque.  Donne i cui impegni non si fermano in azienda ma continuano a casa. Ognuna con le proprie famiglie, i mariti, i figli. Perché così è per le donne. Quando smettono di lavorare in azienda iniziano il lavoro a casa. Continuando a percepire un solo stipendio però! Valentina, Caterina, Micaela e Raffaella. Sono loro le sorelle Pepe. Loro gestiscono adesso l’azienda di famiglia adesso, loro la gestiranno nel futuro. Tutto al femminile!   Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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13 Settembre, 2024

Tenuta Maffone. Eliana e Bruno. Ancora, ancora, ancora

Era fatale che anche per lui come per tutti i pensionati, scattasse la mortale trappola degli hobbies. 
Primo hobby di Fantozzi: l’aeromodellismo. 
Secondo hobby di Fantozzi: il golf
Terzo hobby di Fantozzi: il ciclismo
Alla fine capì che l’unico vero hobby possibile per lui era…il lavoro Fantozzi va in pensione è un film di Neri Parenti del 1988 con il mito, indimenticabile Paolo Villaggio. Per anni, il ragionier Ugo Fantozzi ci ha fatto ridere e riflettere con le sue verità nascoste dietro la goffaggine di un triste impiegato ingabbiato in un lavoro e una vita colma di conformismo e squallore. Una inesistente vita privata che ha come riflesso la necessità di un lavoro, unica vera alternativa di esistenza. La speranza è che lo squallore e la monotonia finiscano con la pensione, la agognata pensione arrivata la quale si può finalmente fare tutto. Tutto cosa? Non si è mai fatto nulla oltre il lavoro. La fabbrica, l’ufficio, i colleghi, il dopo lavoro, le poche risicate vacanze con la speranza di tornare presto al lavoro. Una schiavitù non scelta. Un girone dantesco degni ignavi. La pensione risulta invece essere la consapevolezza della propria inutilità con la necessità di ingannare il tempo i per non morire di noia. Purtroppo, neanche gli hobbies riescono ad alleviare la pena. Per tutti (quelli che lavorano occorre aggiungere) arriva inesorabilmente l’età anagrafica e lavorativa a partire dalla quale si inizia a pensare al dopo. Con le attuali leggi in materia pensionistica è meglio non pensarci proprio. Ricordo che tempo fa sono andato sul sito dell’INPS per capire la mia situazione contributiva e il tempo che mancava alla pensione: ho chiuso il sito immediatamente! Quando si intravede, anche da lontano, la pensione, nella mente iniziano a fare capolino i progetti. Quelli sul futuro. Come se il futuro apparisse solo dopo, senza averci mai pensato prima. Pensieri. Fantasie. Idee che si costruiscono come se fossero copri divano. Messe li per coprire la ver realtà per la quale, arrivata la pensione, sarà solo monotonia e depressione. Tutto tipico dei fantozziani. Individui che non hanno nulla da fare fuori dal contesto lavoro e che con tutta probabilità pregheranno per fare i consulenti o i lecca francobolli. Un lavoretto piuttosto che stare a casa in depressione.  Eliana e Bruno hanno risolto la faccenda prima della pensione, licenziandosi per andare a fare i contadini.  Ho iniziato questa avventura nonostante l’età avanzata con mio marito esattamente quindici anni fa, nel 2009. Quella cui Eliana Maffone fa riferimento è davvero una avventura. Una di quelle già difficili solo a pensarla in senso lato ma se poi la contestualizziamo al territorio, diventa una missione. La vignaiola o, come dice Eliana, la contadina. In effetti, si può colorare quanto si vuole questo mestiere, ma prima che produttore di vino occorre essere contadino: l’uva non è che nasca in cantina…. Eliana e Bruno sono coppia di vita che da giovani, partendo da un piccolo paesino dell’entroterra ligure, costruiscono la propria vita in città. A Savona. Sole, mare, una casa, un buon lavoro, niente figli. Insomma, grande stabilità e la pensione che si intravede. Memento tanto lontana. Ci si può preparare a girare il mondo. Le cose però non capitano mai per caso. Arrivano. Il libero arbitrio che ciascuno di noi possiede ci  fa scegliere. Come se arrivati ad un incrocio possiamo andare a destra o a sinistra. Scegliamo senza mai sapere cosa sarebbe accaduto se fossimo andati dall’altra parte.  È il 2008 quando il papà di Eliana viene a mancare e la mamma non se la sente di mandare avanti l’azienda di famiglia che produce uva da vino e olive.  Il bivio è arrivato.  Che facciamo? Mamma da sola non poteva fare nulla. Mamma ci disse “fate ciò che volete”. Solo l’idea di abbandonare i terreni dove tutta la famiglia si era rotta la schiena non mi andava giù. Dissi a mio marito che mi sarebbe piaciuto fare qualcosa ma non sapevo bene cosa. Non pensavamo di cambiar vita in quel momento. Pensiamo di darli in gestione. Venderli no. Abbandonarli tanto meno. Mio marito mi dice: io tra cinque sei anni potrei andare in pensione. Magari facciamo qualcosa noi con una persona che ci aiuta. I vigneti sono meravigliosi in zone speciali. Pre fillossera a piede franco. Era un delitto abbandonarli. Se vi dicessi che siamo ad Acquetico probabilmente il 99.9% delle persone non saprebbero minimamente dove si trova. Aggiungendo che Acquetico è una frazione del piccolo comune di Pieve di Teco (poco più di 1200 abitanti), la percentuale degli ignoranti (in senso letterale sia bene inteso) scenderebbe di pochissimo. Ipotizziamo un 99%. Purtroppo temo che pure dicendo che siamo in provincia di Imperia la percentuale non scenderà mai sotto il 60%. L’ho sempre detto che prima di concedere il passaporto dovrebbero chiedere un test di geografia! Comunque sia, il luogo è uno di quelli dove non si capita per caso. Ci si passa, ad esempio, se da Torino si vuole andare ad Imperia o viceversa. Anche se difficilmente ci si ferma. Nella eventualità che vi capitasse di passare per Acquetico venendo da Torino, alzate lo sguardo verso sinistra per ammirare le terrazze con i vigneti.  Fare il contadino prima, il vignaiolo dopo, è già un mestiere faticoso. Farlo su questi lembi di terra posti tra i 500 e i 700 metri di altezza, è eroico. Complicato insomma. Tanto che se i bisnonni di Eliana coltivavano la terra, se i nonni di Eliana coltivavano la terra, se i genitori di Eliana coltivavano la terra, la generazione di Eliana non ne ha voluto sentire di coltivare la terra. Un lavoro in città sarebbe stato sicuramente meno faticoso e indubbiamente più stimolante.  Mio nonno tiene duro e continua a fare il vino. Negli anni 70 non c’era ancora la DOC Ormeasco. Era un vino rosso e nonno lo faceva, anche molto buono dicono, e lo vendeva a damigiane. Sfuso. L’unica erede era mia madre. Si sposa con papà che faceva altro mestiere. Da appassionato di queste terre decisero di mantenere i vigneti iniziando a vendere l’uva.  Allora erano circa 2.5 ettari. Tanti perché pezzettini sparpagliati. Oggi abbiamo 7.5 ettari su 22 appezzamenti. Neanche tutti nello stesso paese. Tocchiamo quattro paesini diversi. Abbiamo un carissimo amico che ha una bella realtà in Piemonte e lui ha 25 ettari di vigneto e dice che impiega un giorno e mezzo. Noi impieghiamo oltre tre giorni.  La terra è qualcosa che hai nel sangue. L’odore delle piante che si mischia a quello della terra. Il vento che accarezza le cime degli alberi. Lo scricchiolio sotto le scarpe. Il sole che ti scalda il viso. Ogni sensazione è un tatuaggio che non è possibile cancellare. Anche se vai altrove come hanno fatto Eliana e Bruno, i ritorno per la vendemmia o la raccolta delle olive, tengono vivi i ricordi e le sensazioni.  Da ragazza venivo qui con il nonno. Tutto quello che ho imparato lo devo a mio nonno. Fino a venti anni.  Mio marito era un responsabile tecnico di una multinazionale francese Saint-Gobain del sito di Savona. Io ero un funzionario di Poste Italiane. Avevo una bella posizione. E anche lui. Eliana è una donna solare. Può sembrare un pò chiusa ma poi ti conquista quando parla con tono soave che sa di tenerezza e leggerezza proprie delle persone innamorate della vita. Delle cose che fanno. Di ciò che potranno fare. Senza pensare, mai, a ciò che avrebbero potuto fare se avessero preso altre strade. Cosa fatta, capo ha. Non avevamo idea a ciò che saremmo andati incontro. Non avevamo cantina. Nulla. Iniziamo a studiare e a confrontarci. Cercare di capire.  Ad un amico che aveva una cantina qui vicino chiesi se potevamo fare un pò di vino da lui. Lui disse che spazio ne aveva e se si poteva fare potevamo prendere in affitto un pezzo della sua cantina. Così abbiamo fatto. Abbiamo comprato due botticelle ridicole. Era 2009 e 2010. La prima etichetta. 2000 bottiglie. Eravamo emozionantissimi. Adesso che ne facciamo? Per una che ne comprava due per fare la cena….Così è cominciata l’avventura.  Emozione e adrenalina che si uniscono. Produrre vino dalle proprie vigne è una sensazione indescrivibile. A casa Maffone non si produceva vino da un pò e arrivare a realizzare addirittura le bottiglie, 2000 bottiglie, era cosa da non stare più nella pelle. Bello. Bellissimo. Affascinante. Stimolante.  Certo, tutto bello e tutto grandemente interessante ma Eliana ha il suo lavoro e Bruno non è da meno. Fare i vignaioli (eroici) ad oltre un’ora di macchina, non è quello che si può definire un hobby dunque una passeggiata di salute. Abbiamo cominciato a vedere vino ai nostri amici che avevano bar e ristoranti. Insomma è iniziato tutto per gioco. Poi però l’impegno era grande anche se avevamo una ragazza che ci aiutava. Alle 16 in estate mio marito terminava di lavorare. Arrivavamo qui dopo le 17. Facevamo i trattamenti, poi in cantina per preparare un pò di bottiglie. Tornavamo a casa doveva arrivavamo all’1 di notte. La mattina alle sei di nuovo operativi. Lo abbiamo fatto due tre anni. Era massacrante anche se la cosa ci appassionava sempre di più. Dissi a mio marito che uno dei due avrebbe dovuto fare la cosa a tempo pieno. Era impossibile continuare cosi. Lui mi diceva: io non me la sento di licenziarmi. Tu te la senti? No, nemmeno io. Era un mezzo bivio insomma. Una strada non propriamente intrapresa. La terra fino ad un certo punto. La cantina a metà. Il lavoro, quello che aveva permesso loro di emanciparsi e di garantirsi una vita serena, quello, li identificava. Ancora.  Il vero bivio prima o poi arriva. Come quando guardi il cielo e non ci sono nuvole ma poi il temporale ti sorprende mentre sei allegramente per strada senza ombrello. Siamo andati avanti ancora. Nel 2012 penso che qualcuno da lassù ci ha guardato. Chiamano mio marito dalla direzione e gli dicono: sig. Pollero, lei è stato bravo ha fatto un lavoro meraviglioso. Il prossimo anno questo impianto lo trasferiamo in Polonia. Lei deve andare li e farlo funzionare come ha fatto qui. Mio marito è tornato a casa e ha detto: forse hai ragione te, mi licenzio. Il destino ci ha dato una mano. Niente vien per caso e ne sono sempre più convinta. Da li è cominciata l’avventura.  È Bruno dunque che inizia a lavorare alla vigna a tempo pieno. Un perfezionista che ha l’occhio per i particolari. Certo, deve farsi le ossa ma la mentalità è quella giusta tanto che il modo con il quale tratta i vigneti attira subito l’attenzione dei veri esperti locali. Quei vecchietti che le terrazze le hanno sempre avute ma adesso non hanno più la forza per coltivarle.  “I vecchietti del paese venivano a cercarci vedendo che i vigneti venivano trattati bene: lo vuoi? Te lo do senza che mi dai nulla in cambio. Basta che me lo mantieni bene. Io non ce la faccio più.  Gente attaccatissima a questi territori. Pensateci bene. Qui ad Acquetico, che stesse andando tutto in malora era chiaro. Di giovani ce ne erano pochi e di quelli con la voglia di coltivare i vigneti sulle terrazze, probabilmente nessuno. Chi ad Acquetico c’è nato e vissuto vedere qualcuno che, finalmente, si prendeva cura delle terre, deve essere sembrato un miracolo divino. L’unico modo per la conservazione della specie.  Anche non volendolo apertamente, Eliana e Bruno si trovano a vedere la propria azienda crescere pezzettino dopo pezzettino. Terrazza dopo terrazza. Cantina inclusa. Il ragazzo che ci aveva affittato il pezzo di cantina mi disse dopo un pò: io non lo faccio più, se vuoi ti do tutto. Vigneti, cantina. Avevamo nel frattempo iniziato a farci la nostra cantina. La prendemmo e ora la usiamo come magazzino. Abbiamo preso tutti i sui vigneti raddoppiando la superficie. Un’altra cantina ci ha fatto la stessa proposta. Siamo cresciuti in pochi anni. In dieci anni la crescita è stata enorme. Crescere vuol dire investire e per investire ci vogliono i soldi. Risparmi, dilapidati, a parte, uno stipendio comunque serviva. Quello di Eliana ovviamente. Mi sono licenziata a fine 2018.  Il lavoro di una vita è andato tutto li. Nell’azienda. In una attività che non era poi nemmeno un progetto di vita.  Non abbiamo figli. È l’amore per questa terra. Ho una nipote che è la figlia di mia sorella. Speriamo che non abbiamo fatto questo lavoro per venderlo ai cinesi. Ma sono contenta per quello che stiamo facendo. La passione, l’impegno, la determinazione ci ha fatto costruire un bel nome in pochi anni.  Va bene la determinazione. Va bene le vigne. Vanno bene i vecchietti del paese. Va bene la cantina. Ma il vino?  Il vino in Liguria bisogna farlo e anche bene. Per ben due motivi. Il primo è che qui sono tutti con il mugugno facile e a criticare ci si mette un attimo. Il secondo è relativo alle piccole quantità che l’intera regione riesce a produrre visto che rappresenta lo 0.1% della produzione nazionale. Fanno meno solo la Basilicata e la Valle d’Aosta. Siamo nella valle dell’Arroscia, un piccolo (o grande giudicate voi) torrente che scorre tra le grandi colline dell’entroterra imperiese. Proprio a Pieve di Teco diventa meno impetuoso grazie alla congiunzione di due altri torrenti: l’Arrogna e il Giara di Rezzo.  In queste valli prende vita la DOC dell’Ormeasco di Pornassio (paesino di poco più di 500 anime) che altro non è se non il Dolcetto. Oltre alla versione base se ne produce anche una superiore, poi un passito e un passito liquoroso. Senza poter dimenticare la versione Sciac’tra ovvero il rosato. Un altro colpo di fortuna che non vien per caso. L’enologo. Senza sapere cosa stavamo facendo (la contadina della famiglia ero io ma non sapevo nulla di enologia), compriamo due botticelle provando a fare il vino. Sarà meglio cercare un enologo dico a mio marito. Qui non siamo in Piemonte dunque gli enologi non abbondano. C’era un enologo che faceva un pò l’enologo di tutti. Era anziano con problemi di salute. Evitiamo di andarlo a cercare. Cerchiamo.  Partiamo un giorno con Bruno per andare ad Alba a comprare un attrezzo per la cantina. Entriamo nel centro enologico che ci avevano indicato (bellissimo sembrava di stare ad Hollywood). Bancone bellissimo con i ragazzi dietro. Ci presentiamo e spieghiamo cosa ci serviva. Ci fa parlare un attimo e ci dice: avete un enologo? Vi ha indicato lui cosa serve? In realtà no non ce lo abbiamo ancora. Lo stiamo cercando. Mentre pronuncio queste parole passa dietro un signore di una certa età e il ragazzo del bancone dice: prendetevi lui. No no io sono anziano non faccio più niente. Ma chi sono questi ragazzi? Curiosissimo. Inizia a chiederci le cose e noi raccontiamo brevemente. Ma lei è un enologo? Si ma adesso faccio solo consulenze. Ma scusi noi siamo in difficoltà, si avvicina la vendemmia e non sappiamo come fare. Se lei ci desse una mano. Anche solo per quest’anno. Poi cerchiamo. Io una mano ve la posso dare ma non vengo giù. Non riesco. Se avete bisogno portate su i campioni e le analisi le faccio qui. Ok vi do una mano.  Il racconto di Eliana è di quelli veri, spontanei e che sgorgano dalla memoria come un fiume, anzi un torrente visto dove siamo, in piena. Rimango ad ascoltarla ed è come se fossi li a vedere la scena. Lei e Bruno sembrano come Totò e Peppino che entrano in un negozio non avendo la più pallida idea di cosa serva. Solo che Eliana lo ammette. È meravigliosamente e orgogliosamente onesta.  Un enologo che passa per caso poi. Che spasso. Ma ve la immaginate la sua faccia quando da dietro il bancone dicono “prendetevi lui”? Ora, se si trattasse di un enologo “qualsiasi” sarebbe come dire “il primo che passa”. In questo caso non era proprio così.  Questo signore ha compiuto da poco 89 anni e non lo abbiamo più abbandonato. Poi abbiamo capito con chi ci eravamo imbattuti. Una persona di una sapienza incredibile. Si chiama Marco Biglino. Un grandissimo barolista. Persona eccezionale. Una conoscenza incredibile. Un guru. Ha fatto grande tante cantine del Piemonte. Ma lo abbiamo saputo dopo. È stata la nostra grande fortuna. Ci abbiamo messo la nostra forza, impegno determinazione. Ma lui ha messo la capacità di saper fare del vino come va fatto. Quando lo abbiamo portato nei vigneti ci ha detto che la fortuna è avere dei vigneti bellissimi con uva bellissima. Devo solo aiutarvi a non rovinarla. “Devo solo aiutarvi a non rovinarla”. Ecco, questo dovrebbe fare un bravo enologo. Non creare ma assecondare la natura e i suoi prodotti. Supportare i produttori nel fare bene le cose prima, non correre ai rimedi, dopo.  Abbiamo fatto tuta la conversione in biologico. Siamo biologici da sempre con coltivazione super tradizionale ma mancava la certificazione. Eravamo troppo impegnati. È una storia un pò cosi  Quella di Eliana e Bruno non è una storia un pò cosi. Ci hanno creduto e creduto tanto. Basta crederci in fondo e le cose arrivano. Le cose sono arrivate, si sono incastrate nel modo giusto e loro hanno avuto il grande merito di averci messo tanto di loro. Impegni fisici ed economici. Notti insonni. Viaggi su e giù da Savona. In giro per vendere il loro vino. Spostarsi da una vigna all’altra.  Stiamo andando avanti. Abbiamo recuperato altri vigneti. Adesso stiamo recuperando un altro vigneto che oggi è bosco. Tutto terrazzato. Stiamo continuando andando avanti. Abbiamo piantato un altro vigneto abbandonato da trenta anni dove andavo con mio nonno a vendemmiare. Una soddisfazione immensa.  È la bellezza di questo mondo. Ti spacchi la schiena, dilapidi i risparmi, imprechi contro il tempo e i parassiti, vai di matto se qualcuno fa le cose come non vorresti. Ma poi, quando vedi una bottiglia con la tua etichetta, quando la stappi, quando qualcuno ti fa un complimento per il tuo vino, passa tutto e capisci che ne hai bisogno. Hai bisogno di queste terre. Hai bisogno di far si che quello che vedi intorno, ritorni alla vita. Non c’è, come non c’è in Eliana e Bruno la voglia di accumulare ricchezze attraverso i terreni. Figli ai quali lasciare ciò che stanno vivendo, non ce ne sono. Tempo e voglia per goderne loro, non ce n’è. Ma vuoi mettere la soddisfazione di recuperare terreni abbandonati producendo da questi i loro vini? Una sorta di creazione che non vuol dire, nella maniera più assoluta, onnipotenza. Vuol solo dire essere contenti di ciò che si fa. Non cosa si farà o cosa si è fatto ma di ciò che si sta facendo. Lavorando in questo modo, con questo grande enologo stiamo valorizzando l’Ormeasco che è sconosciuto fuori dai confini regionali. Meraviglioso e con potenzialità pazzesche. Partiamo con il metodo classico che avevamo creato sperando che qualcuno ci seguisse ma niente. Abbiamo iniziato con poche bottiglie. Siamo arrivati a 72 mesi perché abbiamo visto che possiamo ottenere un prodotto migliore. Oltre l’Ormeasco avevamo poco Pigato. Poi dal terzo anno l’Ormeasco rosato Sciac’tra. Quindi Ormeasco superiore per fare invecchiamento. Ci siamo innamorati dell’invecchiamento. Viene considerato come il vino rosso che si fa e si vende. Invece per come la vediamo noi vale la pena di valorizzarlo con dei prodotti meravigliosi. L’anno scorso siamo usciti con poche bottiglie di Superiore 2016.  Eccola l’Eliana che si inorgoglisce e sfodera tutto il suo amore per il territorio e l’Ormeasco del quale ne parla nella maniera più entusiastica possibile. Convintamente e con determinazione. Ci crede Eliana. Ci crede Bruno. Non è solo la voglia di vendere i loro prodotti ma la necessità di far capire quanto qualcosa di buono si possa ottenere da queste uve di questi terreni.  Ho avuto il piacere e la fortuna di assaggiare tre vini di Eliana e Bruno.  Partiamo dal rosato Sciac’tra. Un colore cerasuolo che al sole si esalta diventando luminosissimo. 
Il naso lo si deve tenere a lungo nel calice perché non smette di meravigliare. Un leggero agrume, poi la mela verde, poi le fragoline di bosco, poi la mentuccia, poi la banana, poi l’erba fresca. Freschezza e frizzantezza che già esaltano ancor prima di assaggiarlo. 
In bocca conferma queste caratteristiche con una piacevolezza che non consente di aprirne una sola bottiglia. Fresco e secco ha una fantastica nota di agrume miscelato con fragoline di bosco. Sapido e poco caldo, ha un equilibrio praticamente perfetto. Persistenza anche lunga e una chiusura di bocca memorabile. Meraviglioso. L’Ormeasco di Pornassio 2023 sa di vino di altri tempi. Vero e sincero ma al contempo complesso e bilanciato. La sua veridicità è chiara già dal colore rosso porpora. Un colore che sa di freschezza e nessuna modifica di affinamento. Al naso arriva subito il balsamico così da apprezzare al meglio pochi ma efficaci e schietti sentori: ciliegia ancora non matura, prugna, erba appena tagliata, sottobosco, melograno, arancia. 
Il sorso non sa di struttura ne di grande complessità. La sua semplicità però lo rende grande, piacevole e grandemente apprezzabile. Fresco e secco, non particolarmente caldo per una quasi verticalità. Meraviglioso e impagabile il delicato e mai invadente ritorno della ciliegia che si mischia all’arancia.
Persistenza non elevata così che con una zuppetta di pesce si esalta. Buonissimo. Ligagna Granaccia ovvero la Grenache, Garanacha, Cannonau. Chiamatela come volete ma la derivazione è l’Alicante. Qui in Riviera trova il suo spazio con connotazioni profondamente diverse da quello coltivato in altre zone (poi non ditemi che il mondo del vino è meraviglioso!). In genere la Grenache dovrebbe far generare ad esempio una colorazione rosso scuro. Ma non in questo caso: il rosso c’è ma è un rubino scarico con riflessi porpora. In genere la Garnacha dovrebbe avere sentori di frutti neri che richiamano lo scuro del calice. Ma non in questo caso dove i frutti sono rossi: fragoline di bosco, lamponi, ribes, arancia (poi c’è anche tanto vegetale di sottobosco ed erba tagliata,  tanto che al rosso si associa molto facilmente il colore verde) e tanta ma tanta viola. La sensazione è di tanta freschezza. Sarà anche per la vinosità che viene fuori in maniera prepotente ma gentile.
Al sorso la grande differenza è nella mineralità che questo Ligagna ha in dote. I tannini sono comunque maturi così che, unendosi alla grande freschezza, ci si aspetterebbe una particolare durezza. La morbidezza del vitigno viene fuori e rende tutto ben bilanciato con una punta di morbidezza in più. Interessante la persistenza: la sensazione all’inizio è di un vino tranquillo che si esaurirà in fretta. Non è assolutamente così. Stupisce davvero in questo. La bocca infine chiede in maniera precisa con un cenno di amarognolo ben bilanciato dai frutti. Rimane comunque latente nel sottofondo a galleggiare insieme alla mineralità lasciando, di fatto, un’aurea di mistero. Interessante poi quel senso di ardesia che si percepisce ogni tanto. Intrigante! Giuanò è il Pigato Superiore. Un vitigno tipicamente ligure che in questo caso viene ammorbidito da batonnage e passaggio in botte (anche se per poco). Nel calice è uno di quei vini che non meravigliano: il colore giallo paglierino lo rende abbastanza anonimo. Mai fidarsi delle apparenze però. Già portandolo al naso le prime avvisaglie di qualcosa di “diverso” si palesano. I sentori sono infatti immediatamente floreali arricchiti da un velo di balsamico. I fiori di pesco e di mandorla si avvolgono al biancospino per poi lasciare spazio agli agrumi (limone ma più lime). I fiori di camomilla si trasformano in miele e cera d’api per poi tornare a mela e pera. Non può mancare la mineralità dello iodio e la vaniglia. Nel perdersi in questo meraviglioso effluvio il vino si è leggermente scaldato così che il limone arriva prepotente nelle sembianze di una granita di limone. Insomma è un abbraccio ventoso, di quei venti caldi che si respirano solo in queste zone.
Quando il primo sorso arriva in bocca le avvisaglie dell’olfatto trovano non solo conferma ma si rafforzano. Se prima c’era un abbraccio ventoso adesso diventa accoglienza pura. Come se quel vento si fosse immediatamente placato per consentire di godere appieno di ogni piccola sensazione. La mela, la pera, la banana e la menta si mescolano con lo iodio del mare e la mineralità dei monti. Un bellissimo e piacevolissimo potpurri di sapori che si mischiano meticolosamente creando un bilanciamento incredibile. Secco, non particolarmente fresco, decisamente morbido e con una intrigante nota finale che sa di mandorla amara: non invadente, non forte. Sensazioni, suggestioni, abbracci. Anche con un piatto di terra, sta da Dio Il Vermentino Riviera ligure di Ponente. Un classico vermentino giovane (i riflessi verdognoli non si nascondono) di quelli senza fronzoli ma efficace per la sua morbidezza non stucchevole. I fiori di campo e di camomilla si fondono con i frutti tropicali e la pesca ed il melone bianco donando rotondità legata ad una spalla non particolarmente importante. Il Vermentino Maffone rientra in uno di quei vini che non si perde in fronzoli olfattivi ma una volta sorseggiato conquista senza possibilità di scamparla. Il percorso degustativo parte in bocca con una bella rotondità fruttata, di quelle che piacciono a tutti, per poi terminare con un non so che di amarognolo che bilancia e stempera tutto. Giusta persistenza e una bocca che vuole solo un ulteriore sorso. Buono e al tempo stesso discreto (nel senso di un vino che vale ma non sembra). Da tenere sempre in cantina. Pardon, in frigo Per me il vino deve essere fatto bene. Nel modo più naturale possibile. Stiamo molto attenti già dai solfiti perché a me non fanno bene. Sui rossi siamo a meno della metà di quello consentito per il vino biologico. Abbiamo la fortuna di avere delle uve sanissime che non ci danno problemi in fase di vinificazione. Utilizziamo lieviti indigeni. Non aggiungiamo niente. Le uve ce lo consentono. Abbiamo la vita un pò più facile anche per via delle forti escursioni termiche. Importanti. Arriviamo prima della vendemmia con venti gradi di differenza fra giorno e notte.  60.000 bottiglie con circa 25.000 di Ormeasco nelle varie forme e particolare dedizioni all’invecchiamento e all’affinamento (si sperimenta l’anfora ad esempio). Le altre tipologie sono frutto dell’acquisizione delle vigne. Come il Pigato, il Vermentino, la Garnacha. Volevamo avere dei bianchi per un fine commerciale. In estate se non hai il bianco sei morto. Abbiamo cercato di prender più vigne possibile. Facciamo un passito sempre di Ormeasco e poi un prodotto che ormai non fa più nessuno: con le vinacce fresche di solo Ormeasco facciamo distillare una grappa che è veramente eccezionale. Non pensavamo venisse un prodotto cosi.  Sapete quale è il contrappasso di tutta questa storia? È che con l’azienda che si ingrandisce di tempo per andare in vigna, ne rimane sempre meno. Per una come Eliana che si era licenziata per fare la contadina, ritrovarsi sulla scrivania in mezzo alle scartoffie non deve affatto essere piacevole. Ci ride sopra però Eliana. Ride in maniera soave e soddisfatta. Della vita di prima non le manca nulla. Forse qualche amica che ritrova ogni tanto per mangiare una pizza e dalle quali deve sempre sentire discorsi relativi alla fortuna di essersene andata perché in fondo la vita della vignaiola è bella specialmente nella vendemmia. Ho avuto delle amiche che sono volute venire a vendemmiare. Arrivavano la mattina belle pimpanti e alle 17 erano stravolte. Non ce la facevano più. Si diverte Eliana. Vive la vita da quella passionale che è. Nel lavoro alle Poste prima, in quello di vignaioli a dopo. Non si risparmia e vive. Il momento. L’oggi. Del doman non v’è certezza.  Non ricordo quasi più cosa facevo. Mai avuto un istante di rimpianto. Ho fatto la scelta giusta Un equilibrio raggiunto come persona e come coppia. Quell’equilibrio che di instabile non ha nulla. Che consente di guardare al passato con la consapevolezza di aver dato e ricevuto tanto, ma senza rimpianti. Che consente di pensare al futuro con la serenità e felicità di chi sa che, svegliandosi la mattina, sarà contenta di vivere quel giorno, poi quello ancora. E ancora e ancora. Come nella canzone di Mina (scritta da Cristiano Malgioglio nel 1978) è importante questo mio momento perché 
io ti chiedo ancora il tuo corpo ancora 
le tue braccia ancora
di abbracciarmi ancora di amarmi ancora 
di pigliarmi ancora 
farmi morire ancora 
perché ti amo ancora.  La maggior parte degli amici ci disse che eravamo stufi di star bene prima di iniziare questo lavoro. Senza figli e con la casa di proprietà. Ora ci chiedono perché cresciamo senza figli. A noi piace fare questo. Siamo appassionati. Adesso abbiamo sette ragazzi che lavorano con noi e abbiamo la responsabilità di sette famiglie. Siamo noi una grande famiglia. Sono super contenta. È una famiglia allargata. In questa dimensione ci stiamo benissimo. Ecco allora la vera felicità. La dimensione dell’essere che non ha bisogno di alcun hobby, perché c’è la vita. La propria, quella del compagno di una vita, delle persone che lavorano in azienda.  La vita. Quella che merita di essere vissuta con il sorriso e la voglia di un nuovo ancora.     Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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6 Settembre, 2024

Malerba. Marco, Filippo e la zingarata enologica

Amici di scuola, di caserma… E dunque, amici da tutta la vita.
Eccoli qui, gli amici miei. Cari amici. Oh, ma che fai? Dove vai?
Ha svoltato a sinistra.
Che c’è a sinistra?
So ‘na sega! Allo zingaro quando gli gira… gli gira. Ecco, questo è essere zingari.
Questa è la zingarata: una partenza senza meta e senza scopi,
un’evasione senza programmi.
Può durare un giorno, due o una settimana. Una volta mi ricordo, durò venti giorni.
Salvo complicazioni. Mario Monicelli firma nel 1975 l’indimenticabile Amici miei. Ugo Tognazzi, Gastone Moschin, Adolfo Celi, Philippe Noiret, Duilio Del Prete.  Il dialogo è la voce fuori campo del Perozzi, Philippe Noiret. Descrive l’amicizia nella loro voglia di stare insieme e insieme godersi la vita. Anche, ma non solo, attraverso gli indimenticabili scherzi. Anche, ma non solo, attraverso le zingarate, partenze senza una meta. Partenze verso qualcosa che non è importante perché ciò che conta è il viaggio e stare insieme.  Marco Filippo Marco Valentini e Filippo Artini sono gli artefici di una vera e propria zingarata enologica. Il dialogo con loro porta alla luce persone, vignaioli, amici. Uniti in un progetto sempre in bilico tra qualcosa di serio e di goliardico ma che in realtà rappresenta il loro legame di vita. Non so come spiegarlo, ma la nostra chiacchierata a tre galleggia in un brodo primordiale fatto di allegria e cazzeggio, di scienza e spiritualità, di tempo e infinito. Una zingarata che può durare una vita. Salvo complicazioni. Marco e Filippo sono amici dai tempi del liceo a Montevarchi. Lo finiscono insieme e insieme, con  tutti i maschi della classe, si iscrivono ad informatica per quello che loro definiscono “anno sabbatico”. Cosa c’è di meglio di un anno vissuto a non fare nulla dicendo invece di essere studenti di una facoltà che tanto non interessa a nessuno? Una strategia da vera zingarata. E dopo? Io per avere tutto più chiaro sono andato a fare l’idraulico. Dopo la parentesi informatica ho trovato un idraulico che cercava un apprendista. Ho fatto l’apprendista. Cinque anni. Poi ho fatto agraria.  Ho fatto enologia cosi perché andava di moda e non avevo una visione chiara del futuro. Ma anche per un incontro avvenuto in maniera del tutto casuale. In estate in biblioteca c’era un ragazzo che faceva viticoltura ed enologia. Mi incuriosì molto e da li decisi di fare l’esame di ammissione. Fui preso e via. Marco ha il papà che compra un podere con 12 ettari ancora mentre faceva il professore. Era sul finire del liceo di Marco. Prima si iscrive pro forma ad informatica, poi fa l’idraulico, infine (!!) agraria. Mette la testa a posto? Ma no mica si può. Lavora pure in una enoteca a Firenze. Suvvia! Filippo dopo aver scelto con convinzione la facoltà di enologia ed aver completato gli studi, se ne va un pò in giro, per lavorare s’intende, all’estero e in Italia. Lavora specialmente in Franciacorta. Almeno fino a quando decide di voler ritornare in Toscana. Ma qui ci arriviamo dopo Noi siamo amici di liceo. Andavamo a liceo insieme. Ci siamo ritrovati anche se sempre rimasti in contatto. Abbiamo avuto l’esigenza di realizzarci in qualcosa di nostro con l’idea di fare vini irriproducibili. Siamo arrivati a questa esigenza da strade diverse. Lui ha visto la parte industriale e professionale cosi aggressiva del vino. Io ho una vigna che utilizziamo tuttora dal 1996. Ho imparato a fare il vino da mio nonno poi gli studi agronomici mi hanno aiutato. Grandi telefonate con Filippo per le vendemmie e sul come fare il vino. Mio nonno non voleva aggiungessi nulla al vino. Se aggiungevo mi toccava farlo di nascosto. Con gli studi agronomici ho avuto un punto di vista più critico su quanto veniva fatto nelle varie cantine dove andavo.  Insomma, due amici dall’epoca del Liceo a Montevarchi. Due buontemponi che comunque non si risparmiano per il lavoro. Accomunati da una amicizia che si consolida quando Marco decide di rifare il vino del nonno con la piccola vigna del padre. Piccola perché gli ettari sono tanti ma di vigna ce ne è appena mezzo ettaro. Vigna buona però perché vecchia il giusto e con una serie di vitigni interessanti. Dal Sangiovese che in Toscana non può mai mancare, ai bianchi particolari come lo Zuccaccio. Le strade tra i due si separano dopo informatica. Ma in qualche modo percorrono due binari paralleli. Fino a ritrovarsi. Iniziamo a ritrovarci agli inizi degli anni 2010 quando Marco ha iniziato a sperimentare vinificazioni sempre più leggere.  Cercava di spiegarmi la teoria su cose che mi succedevano. Lasciavo le barrique senza solfitare e li trovavo a zero di libera e il vino non difettato. Era lui l’esperto e mi doveva spiegare cosa era successo. Nella mia vigna ho Sangiovese ma anche tanta uva bianca. Ho anche l’Aleatico dal quale ho fatto il passito. Il mio impegno in viticoltura è sempre stato un passatempo succedaneo al lavoro principale. Il we principalmente.  All’epoca stavo in una azienda dove spumantizzavo in Franciacorta. Da li è nata la sperimentazione di Marco sui metodi classici. Due amici che si ritrovano dinanzi a fermentazioni e travasi con una idea ben precisa e, soprattutto, condivisa, di come fare il vino. Un meraviglioso modo di stare insieme. Di sperimentare a distanza. Di comprendere come le amicizie, se coltivate, durano al tempo. Marco che ha già la vigna e, ancorché nel tempo libero, inizia a sperimentare su quello che gli passa per le mani. Oltre che per la testa. Volevo alleggerire il vino di tanti orpelli seguendo la linea di mio nonno dove non si poteva mettere niente altrimenti il prodotto perdeva di salubrità. Il vino di mio nonno era buono ma qualche evidente difettuccio lo aveva. Volevo riprodurlo ma senza difetti. Ero poi incuriosito dal metodo classico. I primi approcci sono stati proprio da metodo classico. Facevo settanta litri. Su bianchi e rossi avevo qualche esperienza. Quello di mio nonno era un rosso classico, classicissimo. C’era un bianco che veniva molto bruno. Il rosso veramente gli veniva molto scuro tanto che lo chiamava inchiostro. Io ho fatto l’enologo e ho lavorato in diverse parti di Italia e all’estero. Sono sempre stato un pò critico con li settore dove razzolavo perché lo trovato ambiguo. Tutti si spacciano di portare la propria unicità però poi nell’aspetto produttivo non ho visto apportare nulla. Tutti portano gli stessi materiali e tecnologie. Piano piano con Marco abbiamo invece cercato una nostra strada che considerasse il vino non un prodotto ma una sostanza.  L’affermazione di Filippo racchiude in se tutta ma davvero tutta la filosofia della duetto. Il vino che è sostanza, non prodotto. Perché il prodotto è trasformazione di qualcos’altro. Di per se omologato. La sostanza invece è uno stato naturale oppure ottenuto per reazione chimica. Il prodotto è destinato ad un tipo di consumatore. La sostanza è quello che riesci ad ottenere senza portare il vino da nessuna parte. Difficile da vendere perché ci inseriamo in un contesto commerciale. Occorre confrontarsi però con chi fa di tutto affinché il vino dia particolari sensazioni. Questo però rende i nostri vini molto più aperti e riconoscibili per una caratteristica specifica. Difficile solo pensare una cosa del genere. Il vino è il prodotto di trasformazione dell’uva, degli zuccheri in alcoli. Insomma è qualcosa che è per quello che abbiamo sempre saputo sia. Ma se tutto questo invece venisse messo in discussione? Se il vino non fosse solo un prodotto ma una sostanza che è frutto di un procedimento volto ad ottenerne la vera essenza? Sarebbe tutto diverso.  Ci arriviamo dopo. È iniziato a succedere nel 2017 circa. Parlammo in maniera più strutturata.  Secondo me anche prima. Avevi voglia di rientrare.  In effetti è vero. Sono stato dieci anni in Lombardia e volevo rientrare facendo una cosa mia. Non andando a lavorare da altre aziende. Ho cercato posti e coinvolgevo Marco. Dal punto di vista finanziario, comprare una cosa in Toscana era troppo oneroso. Mi ha portato a vedere delle vigne a Panzano in Chianti! Li costano quanto una gioielleria a metro quadro. Quando si stava concretizzando questo posto che poi ho comprato abbiamo iniziato a produrre in maniera professionale. Ecco, qui dove? Avete presente il liceo di Montevarchi? Ecco, quello è il baricentro che torna sempre. Baricentro tra le due tenute che costituiscono Malerba, questo il nome dell’azienda di Marco e Filippo. Due tenute perché così gli garba. Comunque sia, percorrendo la A1 si esce a Valdarno così da trovarsi quasi immediatamente a Montevarchi.  La tenuta di Marco si trova verso l’interno, a Tenuta Bracciolini, in frazione Cicogna. Quella di Filippo, dalla parte opposta dell’autostrada, a Cavriglia, località Casino (nomen omen…). Distanti poco più di venti km e Montevarchi nel mezzo. Io abito in un lato e Marco nell’altro. Siamo distanti venti km circa. Due areali completamente diversi. Qui c’è il Chianti con terreni ripidi poveri e sassosi. Nell’altro versante l’argilla è profondissima. La balze del Valdarno. Qui si vedono colline nude di tutta argilla.  Io avevo sempre avuto voglia di una linea di vino mio. Ho perso mio padre e mi sono trovato a gestire da solo tutta la terra. Per dare una destinazione pratica, per tutto il lavoro, mi serviva una società del genere.  L’azienda Malerba vede i primi vagiti nel 2018 producendo vino nella vigna e nella cantina di Marco. Vigne e cantina di Filippo arrivano nel 2020 quando nasce ufficialmente Malerba. Venti ettari in totale con due e mezzo vitati. Nel casino più totale si vinificava in due cantine fino a che adesso avviene tutto nella cantina di Filippo destinando quella di marco per stoccaggio e come cantina storica.  Bellissimo stare dietro a questi due o perlomeno cercare di farlo. Rimbalza tutto da una parte all’altra come se fossero due ragazzini che cercano di confondere le idee per coprire una loro marachella. Filippo ha il suo tono pacato e rilassato anche nella postura. Marco con la sua aria da buontempone e la battuta pronta. Entrambi dotati di tanta arguzia e capacità imbonitiva tanto che in alcuni passaggi mi è sembrato di essere il pupo tra due pupari. Quanto mi sono divertito! Biologici? Biodinamici? Naturali? (Tradizionali manco mi passa per l’anticamera del cervello!) Ad entrambi piace poco essere categorizzati. Già ad un toscano in generale l’essere accomunato a qualcos’altro non gli va a genio, figuriamoci a due come Marco e Filippo che hanno fatto della distinzione un loro manifesto di vita.  In vigna ci comportiamo come se noi non ci fossimo. Ci avviciniamo molto al biodinamico senza essere nell’associazione. Non osserviamo i pianteti. La luna si perché mio nonno mi ha sempre detto di travasare in certe fasi di luna. Il biodinamico va un pò oltre. Metterci le mani non è semplice. Io sto molto a curare questa vite e a farla da solo. Mi sposto poi da Filippo che ha l’estensione di vigna più grande. Anche Filippo viene da me eh! In vigneto interveniamo pochissimo. Il nome della nostra azienda Malerba deriva del profondo rispetto dell’ecosistema comprese le erbacce. Il vigneto è volutamente tenuto in maniera disordinata. Ci sono un sacco di arbusti, di essenze. Ci nasce pure qualche albero. Cerchiamo di creare un ecosistema più integro in grado di reagire alle sollecitazioni esterne. Il meno possibile perché è sempre una gara di compromessi. In cantina siamo i più talebani possibile. Non utilizziamo nessun ingrediente in nessuna fase della lavorazione. Nessun macchinario. Non c’è tecnologia. Non c’è caldo non c’è freddo. Anche i metodi classici vengono fatti uno con un tiraggio invernale (freddo) e uno estivo più semplice. Non c’è niente. I nostri vivi si realizzano, a parte la pigiadiraspatura iniziale, senza corrente elettrica. Tutto a mano. Questo non per moda o per marketing ma perché nel corso degli anni ci siamo accorti che ogni aggiunta influenza il vino e cerca di portarlo da qualche parte.  Impossibile non rimanere colpiti (e affondati) da affermazioni del genere.  Rispetto tutte le opinioni e i Credi in termini di vino anche se non tollero la chimica più di tanto perché vuol dire artefazione. Più di tanto nel senso che se, in certe condizioni, occorre usare in vigna e solo in vigna, elementi in grado di curare (o prevenire) e questi non comportano poi residui nel vino, perché no. Nel caso di Malerba ci sono degli elementi molto interessanti che necessitano un vero approfondimento. Non mi riferisco alla vigna dove, certamente, il mancato utilizzo di sostanze chimiche e il ricorso all’inerbimento è pratica di buon senso. È in cantina che c’è da rimanere stupiti: zero tecnologia, zero aggiunte. Nessun intervento dell’uomo se non ad agevolare, mai a modificare il processo.  Il concetto espresso da Filippo va nell’ottica di quella che lui stesso definisce sostanza. Materia che si trasforma non attraverso un processo produttivo ma dalla “semplice” interazione tra le sostanze e il sistema che le contiene.  Tra le cose poco spiegabili c’è quello per cui i serbatoi sono dei bioreattori dove non manca nulla. Difficile da raccontare perché non aggiunge nulla alla narrazione. Ogni micro organismo ha bisogno di fattori e co fattori di crescita che in molti casi vengono aggiunti. Si aiuta, protegge, conserva per evitare inceppamenti. La formula alchemica è il bioreattore che se qualcosa manca se la crea da sola. Una sorta dunque di capacità intrinseca del sistema di regolarsi e di trovare al proprio interno gli elementi necessari per la trasformazione.  Sembra facile ma non lo è affatto. Ciò che non si può raccontare facilmente è, ancorché nel completo disordine, una attenzione maniacale in vigna e in cantina.  L’enologia non racconta secondo noi alcune cose che accadono nei nostri vini che stanno a contatto con le bucce per quasi duecento giorni, mentre nei testi o negli articoli di letteratura si parla al massimo di 90 giorni. Noi andiamo oltre e arriviamo ad un punto nel quale si perdono le parti fruttate e il vino diventa più semplice, vicino all’acqua. Sviniamo in quel momento li. Durante questo processo l’uva si è trasformata più profondamente di quando si possa fare con le normali tecniche enologiche.  Avete letto bene: oltre duecento giorni di contatto con le bucce, utile non ad estrarre qualcosa ma per assottigliare il vino. Per togliere qualcosa semmai. Togliere la parte materiale per poi svinare ed andare in bottiglia dopo un paio di travasi. Così da fargli avere una seconda vita.  Non c’è legno. Non c’è acciaio. C’è solo vetro e vetro resina per non aggiungere assolutamente nulla. Rimontaggi fatti rigorosamente a mano trattando tutto in maniera delicata. Come per il cappello che viene massaggiato per immergerlo senza farlo andare mai sul fondo. Se esistesse un macchinario in grado di fare le cose meglio di noi non avremmo problemi. Facciamo però un lavoro delicatissimo che non è possibile realizzare con macchinari. Che oltretutto portano a realizzare prodotti, non sostanze. La nostra presenza è sempre necessaria. Non facciamo analisi chimiche se non quando andiamo in bottiglia per i dati di legge o se spediamo all’estero. Tutto si basa sulla nostra sensibilità. I ritorni sensitivi ci guidano sulle operazioni da fare. La macchina non potrebbe fare questo. Si definiscono alchimisti e sul loro sito troverete Malerba vini alchemici. Un sito che quando mi ci sono imbattuto ha fortemente attirato la mia attenzione per un’aurea eterea, un senso di mancata immediatezza che porta, chi è curioso, a voler interagire.  La curiosità. Ecco cosa serve per approcciarsi ai vini di Marco e Filippo. La voglia di scoperta che ha un bambino. Senza pregiudizi o contaminazioni. Senza la tara mentale derivante dalla consuetudine.  In fondo, perché ci piace qualcosa? Perché l’abbiamo assaggiata o ce l’hanno fatta assaggiare. L’abbiamo vista o ce l’hanno fatta vedere. Ci piace qualcosa perché uno o più dei nostri sensi ha gradito la sensazione offerta. Così è per il vino. Ci piace non in senso assoluto ma per differenza. Noi riconosciamo le differenze. Anche i ricordi sono differenze poiché ricordiamo qualcosa accaduta nel passato ora non più presente. I vini di Malerba sono da approcciare non per il processo che c’è dietro ma per la loro capacità di stupire e risvegliare alcuni sensi. L’alchimista trasformerà anche e se ci si crede, i metalli in oro, ma è anche vero che E quando tutti i giorni diventano uguali è perché non ci si accorge più delle cose belle che accadono nella vita ogniqualvolta il sole attraversa il cielo. (Paulo Coelho) Dalla vigna di sessanta anni ci facciamo ontano nero che non facciamo tutti gli anni. Una parte di questo vigneto se non facciamo Ontario entra nell’assemblaggio del secondo rosso. Uno dei due metodi classici viene fatto con le uve bianche di un vigneto misto di sessanta anni. Era il vigneto per fare il vino di casa. È diventato meno produttivo ma più interessanti. Sangiovese delicato e difficilmente inquadrabile come Sangiovese. Sembra quasi un pinot nero, scarico, non cosi tannico. Non tutti gli anni riusciamo a farlo. L’azienda è venti ettari. Il vigneto è due ettari e mezzo, tre ettari e mezzo di olivo. Il resto incolto e un pò di bosco oltre che seminativo. Incolto ma occorre tenerli puliti. I nostri vini hanno un aspetto aromatico aperto e non monodirezionale. Sono stilisticamente diversi. I vini di Malerba non dovrebbero stare su uno scaffale visibile poiché le sensazioni che si vogliono offrire attraverso una sostanza è talmente distante dal “normale” che li rende non classificabili. Concettualmente ci mettiamo su un altro scaffale ma poi ci dobbiamo stare.  Giulebbo è il progetto di passito che al momento è in bottiglia ma non etichettato. È l’esclamazione di mio nonno. È un giulebbo. Un passito delle uve Malvasia, Trebbiano e Zuccaccio, un vitigno antico tipico del Valdarno, utile perché affronta molto bene l’appassimento grazie alla polpa carnosa e al grappolo spargono. L’ho sempre usata per il Vin Santo. Al nonno gli veniva dolce Due rossi da Sangiovese con qualche pianta di Canaiolo, Malvasia Nera ecc. In fondo la vigna è quella che è e non si interviene più di tanto. I rossi cambiano per la vigna di provenienza e vengono realizzati nello stesso modo attraverso 200 giorni circa di contatto con le bucce. Il Ronzamoro viene dalle vigne di Filippo. Ontano Nero da quella di Marco. Dalla vigna di Marco, con suolo argilloso e vigna vecchia viene fuori un Sangiovese tendente al frutto scuro. Quando abbiamo la sensazione che l’uva possa dare questo tipo di frutto, facciamo l’Ontano. Altrimenti solo il Ronzamoro. Prima di provare i due rossi importanti, ho voluto provare Schiribizzo, ottenuto dalle vigne dei Filippo con “soli” sessanta giorni di contatto sulle bucce. Un vino che, pur avvicinandosi ai canoni “tradizionali” funge da finestra sl cortile di Malerba. Nel bicchiere è rubino si ma pastoso. I sentori sono caldi di ciliegia in confettura, frutta cotta e scorza di arancia. Poi foglia di pomodoro, fiori in potpourri e tante note dolci di tabacco e cioccolata quasi ad essere Mon Chéry. Una sorta di intrigante intruglio melassoso nel quale ho voglia di tuffarmi. 
In bocca è secco, moderatamente caldo, molto sapido, fresco. Tannini importanti. Ciò che meraviglia però è la sequenza delle sensazioni che avvolgono la bocca: partendo da una innata dolcezza per passare alla secchezza quindi freschezza e sapidità. Grande avvolgenza e lunga persistenza. Equilibrio interessante. 
Un vino che va certamente accompagnato ma che ho comunque voglia di berlo (strana questa sensazione) senza alcun tipo di cibo per riprovare la sensazione di estrema verticalità iniziale che lascia poi spazio ad un incredibile ampliamento. Meravigliosa la sensazione finale della bocca. Andiamo al Ronzamoro il cui nome è l’espressione dialettale di quel meraviglioso insetto che ha il dorso argentato. Colore granata di grande bellezza con una intensità cromatica che è indice di leggerezza. Eppure i sentori sono di china, frutta matura marmellatosa quasi a riportare la dimensione a profondità, dimensione. Pastosità da addentare. Avete presente il Pensatoio di Abus Silente? Ecco, appena metto il naso nel calice ho la sensazione di venire pervaso da flussi magici che mi trascinano in profondità. Gomma, tabacco, noce moscata, pepe, alloro, origano, cardamomo, vaniglia, fiori appassiti…. Un complesso spettro olfattivo che sembra cambiare da calice a calice. 
Il sorso è grandioso. Intenso e volitivo con tannini maturi e subito aggressivi quasi a difendere qualcosa. Secco, non particolarmente caldo e con un equilibrio che, piano piano, si raggiunge. Come se si chetassero le durezze una volta accarezzato. La frutta marmellatosa contribuisce a lasciare la bocca in un meraviglioso stato finale ancorché con una persistenza non lunga. Cosa quesa che fa si che si sia vogliosi di un ulteriore sorso. Abbinato ad una bistecca, l’ho trovato eccezionale. Ontano Nero è un albero capace di indurirsi con l’acqua tanto da essere usato come pali di fondamenta nelle città lagunari. La sua corteccia produce un colore nero così che nel passato venisse considerato un albero del Male. 
Sangiovese in purezza per un vino che non si produce tutti gli anni e quando avviene è solo in poche bottiglie. 
Rispetto al Ronzamoro cambiano i riflessi che qui sono aranciati. Cambiano notevolmente i sentori con un intrigante gioco di frutta cotta e ancora non matura. Una mutevolezza che diventa incomprensibile dunque stimolante. Il balsamico apre le narici come a volerci invitare a qualcosa di speciale. Arriva il goutron, il tabacco, il pellame. Spezie come noce moscata e pepe. Violetta e peonia. L’impressione è di un vino più energico, più determinato, meno dimensionale rispetto al Ronzamoro. Una sensazione di minor complessità olfattiva. 
Il sorso è in generale più fine con una importante sensazione di freschezza aranciata e ai tannini maturi ma fortemente arrotondati, non aggressivi. Bello questo equilibrio che si raggiunge prima con la dolcezza, poi la sensazione di secco, quindi la sapidità a lasciare in bocca la bellissima sensazione di arancio che si mischia con prugna e ciliegia. Bellissima e piacevolissima sensazione. C’è comunque dimensione comunque meno profonda del Ronzamoro, come se ti portasse ad esplorare solamente la superficie per non volerti far inoltrare ulteriormente.
Un vino estremamente piacevole che merita sicuramente un cibo di accompagnamento. Due vini diversi per due esperienze di diverse di profondità. Ontano Nero si lascia scoprire e ammalia senza condurre nella dimensione ignota. Come se indicasse una porta aprendo la quale è possibile scoprire altro: va bene anche così, oppure spingiti oltre nel qual caso c’è Ronzamoro. Le due bolle sono lo Stracciabrache, che è un rosè metodo classico da Sangiovese e Zizzania realizzato con le bacche bianche macerate e fatte sempre a metodo classico. Entrambe i metodi classico vengono tirati con il mosto d’uva. Lo Zizzania con il mosto d’uva appassita. Qui torna lo Zuccaccio.  Se i rossi sono stati una esperienza dimensionale, le bolle sono qualcosa di poco descrivibile. Perlomeno con i metodi “canonici. Stracciabrache, il cui nome deriva da un arbusto della macchia mediterranea simile alla vite, è il metodo classico da Sangiovese con 42 mesi di affinamento sui lieviti. Lo definirei viola perché il viola è il primo colore che mi è venuto in mente mettendo il naso nel calice e assaggiandone un sorso. Un gusto meravigliosamente insolito e che non è replicabile con altro. Piace o non piace. A me è piaciuto per la sua stravagante capacità di portarmi in un mondo colorato di viola dove è, finalmente, il frutto a prevalere. Anche in un metodo classico dove questo non riesce a resistere. Confesso una cosa poi che sa dell’incredibile. Ho assaggiato lo Stracciabrache a luglio e dopo averlo tappato bene con uno di quei tappi per bollicine, l’ho dimenticato in frigo. Assaggiato nuovamente dopo oltre un mese al rientro dalle ferie, l’ho trovato ancora più buono. Una leggerissima, impercettibile nota ossidativa lo ha nobilitato. Il frutto? ancora più evidente e meraviglioso. Zizzania. Malvasia, Zuccaccio, Trebbiano, Ansonica. Magari altro. Chi può dirlo. Di certo è un metodo classico (2018) che divide anzi, spacca completamente il “classico”. Non ci sono punti di riferimento ne contiguità. A partire dal colore che è più di un macerato che di un metodo classico bianco blanc de blanc. Qui c’è arancio e ambra. Che meraviglia.
L’olfatto poi è dirompente con l’albicocca disidratata che si mischia con la dolcezza dell’uva. Si, dell’uva. Pare strano ma qui c’è e si sente. C’è tanta mineralità, tanta macchia mediterranea per un non so che di minerale e vegetale. Sa di olivo e alloro, sa di miele e arance candite. Incredibile.
In bocca è proprio l’arancia candita che arriva prepotente insieme alla spiccata mineralità. Secco e con un perlage finissimo ricorda molto un macerato. Di quelli fatti bene però. Il finale è quasi “affumicato” e la persistenza lunga.
Insomma un metodo classico alternativo, diverso, dirompente. Di quelli che lasciano stupiti amandolo o odiandolo. Senza compromessi. Di sicuro, se lo ami, ti porta in un’altra dimensione: chiudendo gli occhi ti ritrovi in mondi diversi perché assolutamente non convenzionale. Abbinamento? Un pesce con gli agrumi, un risotto agli agrumi e gamberi, ma anche una meravigliosa panzanella. Dove lo vedo spaziale è con una insalata nella quale ci sono dei pezzi di arancia.
Quando il vino alla degustazione inizia a prendere una tendenza acquosa quasi di chiusura ovvero si è smontato dalla parte materiale, interrompiamo il contatto. La nostra dimensione aziendale è questa. Non ci sono margini di crescita sul numero di bottiglie che ora sono a 6/8000 bottiglie. Quello che dovremmo fare è raggiungere un livello di conoscibilità per l’impegno e l’idea che abbiamo avuto. Questo da parte mia poi Marco non so che impegni abbia per il futuro. Dal punto di vista aziendale siamo in una fase in cui il prodotto c’è ma abbiamo bisogno di far conoscere il brand per far si che questo diventi un lavoro che ci permetta di vivere. Ci stiamo muovendo in vari fronti per divulgare il verbo di Malerba. Quello che vedo è un grande impegno nel marketing e nel parlare molto. Una dimensione aziendale che non è certo elevata. Un impegno e una attenzione che, al contrario, è costante e spasmodica. Eppure Marco e Filippo, nella loro calma serafica e costanza di buonumore, non si fanno tanti problemi. Anzi, ci scherzano su.  Il tempo vien da se. La scadenza temporale è di raggiungere risultati soddisfacenti in qualche anno. Abbiamo tutti e due delle compagne che ci hanno sostenuto in questo progetto e non è da poco ma poi magari ci mandano il conto Un tempo che sembra indefinito, evanescente. Entrambi hanno 45 anni. Entrambi delle compagne. Entrambi vogliono continuare la loro vita per quello che è perché (evviva!) piace così. Senza alcun tipo di pensiero relativo ad una sorta di continuità aziendale. Anzi.  A me intriga molto che tutto questo si esaurisca con noi. Da un punto di vista sostanziale con i figli sarà un piacere che continuino. Quello che facciamo è però molto legato alle nostre persone. Come quelle distillerie strafiche in scozia che finiscono la torba e smettono di distillare ma continuano a vendere che hanno raggiunto un livello alto che va bene. Grazie per la torba. Ecco, mi viene a questo punto in mente, per chiudere questo articolo, una frase di Paolo Coelho tratta sempre dal libro L’Alchimista. Se quanto hai già trovato è fatto di materia pura, non potrà mai marcire. E tu, un giorno, potrai tornare. Se è stato soltanto un attimo di luce, come l’esplosione di una stella, allora non troverai più nulla quando tornerai. Ma avrai visto un’esplosione di luce. E anche solo per questo ne sarà valsa la pena. Secondo me calza a pennello con la filosofia di Marco e Filippo. Grazie ragazzi e un grande in bocca al lupo.     Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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23 Agosto, 2024

Judith e Michele. La Matina, youandme

Su di noi 
Nemmeno una nuvola
Su di noi 
L’amore è una favola
Su di noi 
Se tu vuoi volare
Lontano dal mondo, portati dal vento
Non chiedermi dove si va
Noi due respirando lo stesso momento
Poi fare l’amore qua e là
Mi stavi vicino e non mi accorgevo
Di quanto importante eri tu
Adesso ci siamo
Fai presto, ti amo
Non perdere un attimo in più Eh si lo so, Pupo. Anche Pupo direte voi. Si, Pupo. Proprio Pupo.
Che ci posso fare se la mia mente ogni tanto ha queste digressioni. Come è venuta in mente la canzone “Su di noi”? Semplice quando Judith mi ha parlato di You&Me. Ci siamo fidanzati che avevo diciassette anni. Adesso ne ho 45. Siamo cresciuti insieme singolarmente e come coppia. Dai compagni di scuola, ai parrocchiani, al calcetto, alla pallavolo siamo sempre stati Judith e Michele. Con l’avvento dei cellulari la Vodafone fece la promozione you&me. Per gli amici era nata per noi. Judith è Judith Sandonato. Michele è Michele Valentoni. Anzi il Barone Michele Valentoni. Una necessaria sottolineatura non per attribuire a Michele il grado nobiliare (cosa che nella sua semplicità non da a vedere neanche lontanamente) quanto perché si possa comprendere al meglio il contesto. Contesto che si arricchisce anche del luogo, San Marco Argentaro, comune di poco più di 6000 abitanti dell’entroterra cosentino. Judith e Michele sono una di quelle coppie monolitiche. Cresciute insieme dai tempi della scuola e insieme. tenendosi saldamente per mano, hanno attraversato gran parte della vita compensandosi vicendevolmente. Anche se per Judith non deve essere stato particolarmente facile: un paesino del sud, un Barone con il suo palazzetto e gli oltre cento ettari di terreni, una famiglia semplice. Un mix che fa sognare. O incute timore. O un mix tra questi. Nel momento stesso vado a vedere dove lui abita e vedo questa abbazia, capisci bene che la cosa non mi ha turbato ma di più. Chi ho io davanti? Per poi capire che è soltanto una sorta di involucro che si portano dietro per eredità ma loro hanno sempre vissuto con normalità e naturalezza. Ah già, l’Abbazia. C’è anche una abbazia.
Poteva accadere, nel passato, di avere una chiesa all’interno della proprietà. Sintomo di maggior potere e prestigio. Funzioni private con sacerdote personale. Visite di prelati, magari del Papa!
Nel caso della famiglia Valentoni, l’Abbazia è quella di Santa Maria de La Matina costruita e consacrata nel lontanissimo 1065. Da li in poi una storia altalenante fatta di crociate, papi, vescovi….Come quando nel 1194 Federico Barbarossa la concede ai monaci cistercensi. Arriva alla famiglia Valentoni con Luigi, generale borbonico che la acquista insieme ai terreni circostanti.
Una vera abbazia insomma. Nel patrimonio di famiglia. Come non rimanerne stupiti se hai 17 anni? Due ragazzi che aldilà dei titoli nobiliari e delle differenze che ci possono sempre essere, vivono la loro storia d’amore come solo due adolescenti (o quasi) possono e devono fare. Io sono dello stesso comune di mio marito, San Marco. Però con un stile di vita e un approccio familiare esattamente opposto. Mio padre parte quindicenne come emigrato in Svizzera. La sua famiglia era di stampo patriarcale dunque con i figli maschi dovevano andare a lavorare fuori per fare il corredo alle sorelle. Raggiunge i fratelli maggiori e lavora li. Nei ritorni si innamora di mia madre ma inizia una relazione a distanza perché al tempo la Svizzera aveva regole rigide per quanto riguarda il ricongiungimento. Mia madre poteva raggiungere mia madre solo quando lei aveva un contratto stagionale. Oggi si parla, giustamente, di cittadinanza per gli immigrati. Un diritto di civiltà certamente, per capire il quale occorre proprio guardare al passato. A quando eravamo noi, gli italiani, ad andare in luoghi ove questo diritto veniva negato. Non che il papà di Judith ci tenesse particolarmente a diventare cittadino svizzero, ma almeno a vivere con sua moglie si.
Costretti a vedersi solo in presenza di un contratto stagionale. Generalmente estivo. E cosa possono fare due sposini non vedendosi da tanto tempo? Il mio nome racconta la mia storia. Il nome svizzero tedesco Judith non fa che ricordare il mio concepimento. Certo non è un nome calabrese. Una bellissima suggestione per un nome tipicamente ebraico. Però una certa assonanza con giugno in italiano e juni in tedesco indubbiamente c’è. Papà mette da parte dei soldi e investe nel mattone dopo molti anni fuori. Cade la scelta su un piccolo appezzamento che è la parte alta dell’azienda Valentoni. In realtà mio padre acquista qualcosa che era stato di proprietà del nonno di Michele che lo aveva poi venduto perché al di fuori della sua visuale in quanto parte più alta. Mi viene da pensare che mio marito mi sposò per interesse affinché quello che era della sua famiglia tornasse indietro. Scherza Judith ma se lo può permettere per l’amore e la sintonia che c’è con Michele. Che Michele sia un Barone non ce ne si accorge davvero. Quando lo conosco, è la persona semplice che prevale. Uno che lavora la terra e non si atteggia. Le sue mani ne sono la dimostrazione. Per scelta abbiamo deciso di abitare sopra i miei. Nella casa che papà aveva realizzato sul terreno comprato. Papà ha costruito questa casa di 400 metri quadrati e noi scegliamo di vivere qui per staccare dal lavoro. Con l’azienda agricola giù stare sempre giù non andava bene.
Dal nostro terrazzo invece si vede tutta la proprietà a valle. Il contrario di quello che aveva fatto il nonno. Come sarebbe che il Barone Michele Valentoni va a vivere a casa della moglie?
Già me le immagino le teste coronate che spettegolano e la gente che si affretta ad immaginare ad un patrimonio dilapidato sul tavolo da gioco. Il paese è piccolo e la gente, mormora!
Niente di tutto questo. Anche perché le storie che sembrano patinate spesso celano lati o comunque situazioni che fano riflettere. Aristotele diceva che è chiaro che non è la ricchezza il bene da noi cercato. Essa infatti h valore in quanto utile, cioè funzione di qualcos’altro Il papà di Michele muore giovane. A soli 47 anni. Michele ha appena otto anni e già capisce che la sua vita non sarà mai più la stessa. Sua mamma trenta. Sua sorella cinque. Si cresce in fretta. Si deve crescere in fretta in certe situazioni anche se non è lui a dover mandare avanti l’azienda.
Come in tutte le famiglie di un certo “rango” sono gli altri che scelgono il destino degli eredi: prima il liceo Classico (e meno male dico io altrimenti non avrebbe conosciuto Judith), poi la facoltà di Giurisprudenza. A Roma ovviamente. Come pensate che potesse trovarsi a Roma un ragazzo del profondo sud nato e cresciuto nella piccola contrada di San Marco Argentano? Si inseriva in tutte le feste, conosceva tutti. Gli studi ne hanno risentito. Mentre Judith studia a lavora perché si era imposta di voler finire l’università in cinque anni, Michele bighelloneggia a Roma. Fino a quando non incappa in uno dei fatti di cronaca più inquietanti della storia italiana. Uno dei tanti misteri che, per quanto processualmente risolto, ci portiamo sempre dietro.
È il 9 maggio 1997 quando Marta Russo, una studentessa dell’Università La Sapienza di Roma viene ferita alla testa da un proiettile. Morirà cinque giorni dopo in ospedale.
Michele ha appena sostenuto un esame con il prof. Lipari, padre di quella Maria Chiara che sarà testimone chiave del processo. Tutti gli esami di quel giorno non risultano e vanno rifatti. Misteri italiani. Lungaggini burocratici per farselo riconoscere, ecc. Ma non risultava e avrebbe dovuto rifarlo. Forse insabbiarono qualcosa perché non era possibile. Insomma si allontanò dagli studi anche con tre soli esami alla laurea. Nel mentre di questa brutta storia, Judith si laurea in Scienze Politiche con la grande ambizione di intraprendere la carriera diplomatica. Volevo fare il diplomatico. Il mio professore di Diritto Amministrativo mi diceva: le posso chiedere una cosa? Io la vedo sempre con un ragazzo. Ma è una cosa seria? Io pensavo ma a te che te frega. Nel rispetto dei ruoli rispondevo: si. Dal suo curriculum si evince che lei vuole e può fare la carriera diplomatica. Ci sono tutte le condizioni positive ma ce ne è una talmente negativa che le impedisce. Ebbe ragione. Dopo la laurea inizio dunque a fare degli stage aziendali nelle aziende agricole più importanti del cosentino. Guarda avanti Judith. Nella testa c’è la carriera diplomatica, nel cuore il suo futuro a San Marco vicino a Michele. Un conto sono le ambizioni che l’avrebbero portata chissà dove, altro è il cuore. Michele infatti è tornato a San Marco. Li c’è la sua casa. Li c’è la sua famiglia. Li, soprattutto, c’è la sua storia. Una storia, una grande responsabilità che fino a quel momento è gravata sulle spalle della madre.
Trovarsi a trent’anni, da sola, con due figli, una azienda, una Abbazia, un palazzotto, le tasse di successione da pagare. Tutto dannatamente complicato con solo i propri parenti a dare una mano visto che il marito, papà di Michele, era figlio unico.
Difficile. Dannatamente difficile. L’azienda agricola lavorava e lavora principalmente con le produzioni agricole stagionali. Peperoni, pomodori, ortaggi ecc. poi cereali. 104 ettari compreso il complesso monumentale.
Dannatamente difficile. Michele torna e capisce che l’azienda rappresenta una bela possibilità di fare il soldo facile. Solo con le risorse europee si poteva andare avanti. Adesso è molto complicato e spesso non ne vale la pena. Preso da questo guadagno e dallo stare sui trattori, non ha portato a termini gli studi. Nemmeno dopo con le università telematiche. Judith è schietta e vera. Non ha paura della sue parole. Parla a ruota libera con la voglia di raccontare ciò che li ha portati ad essere ancor più cementati come coppia e come persona. Anche quando era in vita il papà, l’attività pomeridiana di Michele era quella di andare dietro agli operai per vedere cosa facevano ma anche rubare il pranzo. Nella gestione aziendale sono subentrati gli zii materni di Michele. Il papà era figlio unico. Lo viziavano facendogli fare tutto ciò che volevano. Dopo qualche anno Michele si accorge che qualcosa di più con l’azienda si può fare e capisce che Judith, che nel frattempo si è fatta non solo le ossa ma anche le giuste esperienze, può essere la persona giusta ad affiancarlo. La convince. Nel 2016. Ci sono già entrambe i figli e insieme lavorano all’idea del vigneto. Prima Judith dava una mano come factotum amministrativo come “moglie di Michele”. Ora invece è un appoggio e un rafforzamento nelle scelte di Michele. Non solo la moglie ma anche spalla fondamentale. È You&Me che si rafforza. Si rafforza nella gestione. Si rafforza nelle scelte. Si rafforza nelle idee. Come quella del vigneto. In queste zone si è sempre prodotto vino. Per pochi e non per molti. Un pò come tutti i prodotti calabri mi verrebbe da dire. In questo caso però la vigna era il passatempo di nonno Michele che produceva vino solo per la propria famiglia e gli amici.
Impiantare una vigna e produrre vino può essere per Judith e Michele un modo per elevare l’azienda. Si dovrebbe dire “nobilitare”, ma essendo di proprietà di un nobile, sarebbe stato cacofonico. Impianto nel 2017. 2019 primo imbottigliamento. Poi inizia l’era covid che spezza la programmazione. Avevo programmato tutto anche gli appuntamenti. Avevamo investito nelle quote per i vigneti. Anziché partire con grande entusiasmo, iniziamo con grande preoccupazione. Judith è una donna spigliata e determinata. Capisce il contesto. Legge le situazioni. Studia, analizza, programma. Con Michele si rendono conto di avere per le mani non una semplice tenuta ma un vero patrimonio artistico culturale. L’Abbazia è monumento protetto dalla Soprintendenza alle Belle Arti. Però è di Michele. È della famiglia. Un bene, insieme alle terre, indivisibile. Inalienabile. Come si conviene ad una famiglia nobiliare. Ecco quindi che La Matina, qualcosa che durerà per sempre, non può che essere il loro brand. C’è una storia da raccontare. C’è un marchio che è nel portale dell’Abbazia. C’è un territorio da rispettare ed esaltare. Il vitigno non può che essere il Magliocco che qui è di casa. Le espressioni non possono che essere rosso e rosato. Niente altro. Non serve altro per iniziare l’avventura nel mondo del vino. Perché non registrare il brand La Matina? A seconda del progetto ci presentiamo come Azienda Agricola La Matina o come La Matina e il logo del portale. La Matina è il nome della località: contrada La Matina. Mata, bosco. Il fulcro è l’Abbazia. Oggi la stiamo valorizzando ma in passato il nonno di Michele utilizzava il parlatoio dei monaci come granaio, quella che è cantina di rappresentanza come cantina vera e propria. Il nonno di Michele produceva vino per gli amici senza venderlo. Lui viveva il ruolo di Barone. Il nonno di Michele, Michele Valentoni è stato il primo cavaliere al merito agricolo della Regione Calabria. Una azienda non solamente agricola. Un brand. Una storia. Un prodotto nobile e vendibile. Una vera strategia che comporta si investimenti ingenti ma, se non altro un impegno inferiore rispetto ad una produzione di tipo stagionale a campo aperto. La zucchina ad esempio richiede una raccolta quotidiana. Il vigneto ti da meno problemi. Tutta la zona collinare con impianto a vigneto è rendere l’azienda più profittevole immaginando nel lungo periodo una bella opportunità. Due ettari vitati per iniziare. Pochi si ma realizzati in autofinanziamento. Senza l’aiuto di nessuno e con le quote che consentirebbero di arrivare a sei. Non c’è spazio per la cantina a meno di non utilizzare ancora il parlatoio: non credo che le Belle Arti approverebbero. Vinifichiamo presso terzi ma la cantina è attaccata a noi. Vendemmia manuale e scarichiamo direttamente in cantina. Barone, terra, vitigno autoctono, abbazia. Se fossimo in altre regioni si sarebbe chiamato un enologo importante, si sarebbero affiancati vitigni nobili ed internazionali, si sarebbe studiata una etichetta con tanto di blasone. Una strategia di marketing pura che, qualora accompagnata da un cospicuo investimento di comunicazione, avrebbe portato ad uno, quasi, scontato successo. Michele però rimane con i piedi per terra. Judith gli va dietro. Elevarsi con un vitigno che non è nelle condizioni pedoclimatiche sarebbe stato un rischio inutile. Perlomeno senza le competenze necessarie. Occorre partire da ciò che si sa fare. Stare con i piedi per terra. Io non mi posso elevare con qualcosa che non mi appartiene. Devo iniziare con qualcosa che mi dia credibilità. Non devo Imitare o rubare qualcosa che non è mio. Credibilità. Non è solo una questione di dignità ma di rispetto per la propria storia e peri quella della famiglia. Rispetto per il territorio. Rispetto per le persone che lavorano la terra. Un Michele che sa comunque il fatto suo e già appena rientrato in azienda capisce che deve fare le cose a modo suo. Investendo. Michele tu vuoi fare le cose a modo tuo. Immagino gli zii che così gli dicevano. Quasi a lamentarsi della ventata di novità che un ragazzo vuole, forse perché padrone, potare in azienda. Magari portandola alla rovina.
Invece Michele conduce l’azienda con un occhio ai conti e l’altro alla innovazione.
Il vino è un investimento, senza ancora un ritorno economico, che risponde alla precisa necessità di elevarsi. Non tanto perché sia utile a Michele e Judith quanto ai loro figli Anastasia e Carlo Maria. Sono ancora piccoli ma Michele sa cosa voglia dire veder spezzati i propri sogni. Non vuole che accada ancora. Avere per le mani una azienda che si distingue, che ha un valore oltre le dimensioni. Ecco questo vuole lasciare ai suoi figli. Una volta che i vigneti ci sono possiamo anche mantenere la vigna per i clienti affezionati e per il brand. Magari ci sarà un momento nel quale il vino può diventare primaria come produzione. Oggi 10.000 sono le bottiglie prodotte. 1000 bottiglie di rosato Madame c e 9000 di rosso Muntu. Con certificazione biologica. Muntu e Madame raccontano la storia dell’azienda. Muntu e Madame sono i genitori di Michele e siamo noi. Muntu esprime il sacrificio, radicata alla tradizione. Madame la parte di pregio e prestigio del casato nobiliare e di anima. La nobiltà dell’animo la può avere ciascuno di noi
Si uniscono con il portale di ingresso dell’Abbazia. La storia aziendale è un contenitore così grande. Michele vuole arrivare a omaggiare il padre non già nel nome ma andando a trovare quanto di meglio gli ha lasciato: la sua assenza. Ciò che gli ha lasciato in dono è l’assenza, la mancata presenza. La vita che non ha potuto avere e che ha avuto. Forse se fosse rimasto in vita Michele sarebbe rimasto a Roma a fare la bella vita. Michele invece ha sperimentato sulla sua pelle cosa voglia dire fare impresa e farla al sud. Ma di quel sud lui ne porta con se l’orgoglio. Le tradizioni, la storia. Questo conta.
La fatica è tanta. Le idee in testa ancor di più. Gli ettari sono diventati cinque. Sempre e solo con il Magliocco. Michele ha il sogno di fare tutti vigneti. Un sogno al quale stiamo lavorando. Io sono più pratica e dico vediamo se si pone l’occasione. Non quella che arriva dal cielo ma quella che l’imprenditore deve creare con il lavoro e la programmazione. Non posso seguirla io questa cosa. L’enologo è il medesimo della cantina dove si vinifica ma Michele è uno che si mette di traverso se qualcosa non gli piace. Ecco perché i vini lo identificano senza necessità alcuna di adeguarsi alle logiche di mercato. Poche bottiglie per una vendita selezionata. Con tanto ricorso all’enoturismo che grazie all’Abbazia e alla sapiente mano di Judith è un punto di estrema forza. Stamattina ho fatto accoglienza ad una scolaresca di venti ragazzi. Mi facevano le domande e capivo che le risposte erano quelle giuste. Poi i professori hanno voluto fare la degustazione e mi sono messa i panni del sommelier. Poi accogli il dipartimento universitario di ingegneria o belle arti dai quali ho solo da imparare. Riesco a contestualizzarmi e questo mi da entusiasmo e la carica. Per il ritorno economico c’è da guardare a lungo tempo. Judith è una forza della natura. Parla a raffica con il sorriso. Si vede che le piace ciò che fa. Il contatto con le persone. Il racconto di una azienda e di un patrimonio. Non è distaccata ma coinvolta e coinvolgente. Lei si sente parte di una storia. Con una identità precisa. Io tendo a specificare quando do il benvenuto in struttura i ruoli familiari e il mio ruolo. Specifico che mia suocera abita gli appartamenti superiori e che la vedrete passare magari con i sacchetti della spesa o con delle uova visto che c’è il pollaio dietro la chiesa. Lei la abita come casa che però è un monumento protetto. Cerco però di contestualizzare il passato e soprattuto il presente che è frutto di esperienze familiari. Questa signora che trentenne rimane vedova e deve badare a questo bene non volendolo non lo gestisce. Ma si rimbocca le maniche. I vini sono identitari di una storia e del territorio grazie al Magliocco. Più che identificare solo Michele, identificano la coppia Michele e Judith. Caldo e passionale il Rosso Muntu; fresco, fragrante, vivo il Rosato Madame. Muntu dicevamo. Nel calice è pastoso così da sembrare caldo già a guardarlo. Quel rubino con riflessi granata che si potrebbe tagliare con il coltello.
Al naso c’è calore e pastosità. La frutta è cotta, i fiori sono in potpurri. La mela è quella cotta nella cannella e nei chiodi di garofano. La balsamicità esalta il cioccolato e il pellame. La nota ferrosa ed ematica finale è come un bacio passionale che ha lacerato il labbro.
Tutto sa di caldo e avvolgente. Come un abbraccio.
Al sorso ci si aspetterebbe dolcezza, invece arriva la freschezza accompagnata da tannini morbidi, non setosi. Come se l’abbraccio si fosse trasformato in amplesso.
Secco, caldo e corposamente avvolgente.
Mi piace il perfetto bilanciamento e perché è morbido quanto basta, forte quanto basta.
L’espressione è quella del sud con il calore del sole e il gioco di freschezza. Persistenza buona ma non lunga. Avvolgente Madame. Se Muntu è il calore, Madame è la freschezza. Se Muntu è la nobiltà, Madame è la spensieratezza. Se Muntu è il tempo, Madame è l’immediatezza.
Spensierato ancorché nobile già dal colore cerasuolo. More, prugna, fieno tagliato. Ciliegia bianca, fragoline di bosco, pesca macerata nel vino. Agrumi. La sensazione è quella di una grande vasca di frutti di bosco.
Sorso ampio con qualche residuo di tannino. Fresco e non particolarmente caldo si apprezza per un sapiente gioco di durezze e morbidezze e un senso di amaro latente. Piacevolissimo cosi come piacevolissima è il finale che richiede un altro sorso.
Se Muntu è l’etichetta, Madame è la fuga spensierata in un campo di fieno a piedi nudi. Judith e Michele. Michele e Judith. Due persone che si sono scelte nella vita e nel lavoro. Una coppia che fa della solidità, ma anche della fragilità, la propria forza.
Michele, per come lo definisce Judith, è un ingenuo ma anche una grandissima forza della natura. Una forza che compensa la Judith che si abbatte e si scoraggia. Che sprona e non si ferma. Ne dinanzi alle difficoltà del lavoro ne quelle della vita che lo ha messo di fronte ai problemi di salute. Poco conta. Conta solo l’andare avanti con la forza propulsiva propria e della coppia. Sono in due, spesso sono solo in due, ma valgono per cento, mille, diecimila. La forza motrice del nucleo familiare.
Li vedi insieme e capisci quanto la vita può togliere ma soprattutto quanto possa donare. Capisci cosa c’è dietro un lavoro frenetico, dietro tanti sacrifici, dietro apparenze patinate. Li vedi. Insieme. Tutto il resto è “solo” una logica conseguenza.
Judith e Michele, you and me.   Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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16 Agosto, 2024

Vigneti Fontana. Il ritorno, la rinascita, il futuro

1868. Tunisia. La Goletta. Trattato della Goletta.
Ecco, un altro articolo che inizia con qualcosa di strambo direte voi. La vita delle persone non è stramba. È complessa, intrigata, dolorosa. Pezzi di storia che non si studiano sui libri ma che comunque toccano l’animo, modificano vite e generazioni di vite. Scelte personali o scelte indotte da avvenimenti passati sulla propria pelle. Avvenimenti, fatti, circostanze. Spesso subite, alle volte ricercate, altre ancora avvenute per caso. Storie che rimangono nascoste nelle pieghe di fatti altisonanti che sotterrano le vite dei singoli. Ci si passa sopra senza neanche guardare. Tanto, a chi si occupa di massimi sistemi, interessa altro.
Invece è la vita dei singoli che conta. Ogni singola vita che da quell’evento in in poi, è cambiata per sempre. La Tunisia è oggi un paese non propriamente sicuro. In viaggio tanti anni fa scoprì Tunisi, Sousse, Hammamet, il deserto, la Medina, le spiagge, le persone. Un paese meraviglioso, ospitale dove le tradizioni del passato berbero si mescolavano con quelle dei colonizzatori francesi. Si viveva in una sorta di pace apparente dove politici corrotti ed incompetenti, incapaci ed ingordi ne hanno, col tempo, decretato la decadenza. Crisi economico finanziaria, mala gestione degli aiuti e dei flussi migratori verso l’Europa lo hanno reso un posto dal quale scappare. Figuriamoci entrare.
Eppure, nel corso dei secoli, tanti italiani entravano in Tunisia in cerca di lavoro. Da ogni parte d’Italia e in particolar modo dalla Sicilia.
Pensate un pò, dalla Tunisia partono oggi i migranti alla volta della Sicilia, due secoli fa e nel secolo scorso dalla Sicilia gli italiani partivano verso la Tunisia. Da una parte o dall’altra mossi sempre da uno stesso motivo: lavoro e vita dignitosa.
Anche dall’Italia si partiva in maniera irregolare. Ci si imbarcava dai porti di Marsala, Trapani, Mazara del Vallo allo volta de La Goletta, avamposto di Tunisi nel Mediterraneo. Qui, un lavoro o un compaesano già introdotto disposto a dare una mano, lo si trovava sempre. Erano i francesi a dettare legge. Erano loro che gestivano aziende pubbliche e private. Erano loro i datori di lavoro.
Serviva manodopera a basso costo e nel 1868 venne siglato tra il Governo italiano e quello tunisino (protettorato francese si diceva tanto per non far vedere chi erano i padroni) il Trattato della Goletta che stabilì il principio della “nazione più favorita” per quanto concerneva la possibilità di immigrazione. L’Italia ovviamente. Se non altro per prossimità.
La colonia italiana in Tunisia si ampliò poi ulteriormente quando Mussolini, non potendo annettere la Tunisia al Regno essendo di pertinenza francese, si prodigò per gli italo-tunisini costruendo scuole, ospedali, banche, organizzazioni assistenziali.
Insomma, tanto sviluppo, tanto lavoro. Benessere. Quello che tutti cercavano e cercano tuttora.
Poi gli avvenimenti, i fatti, le circostanze. Di quelli che si studiano nei libri di storia. Senza però entrare nella vita delle persone. Sulle quali invece le conseguenze ne segnano l’esistenza. Propria e delle generazioni a venire.
È il 1956 quando la Tunisia raggiunge, non senza spargimento di sangue, l’indipendenza dalla Francia (altro che “protettorato”). Si insedia il nuovo governo che fa quello che tutti i governi riscattatosi dal colonialismo fa: nazionalizza le terre. È il 1959. I francesi, gli italiani, gli stranieri, non possono che raccogliere quanto gli è possibile portare con se e scappare. Tornare in quella patria dalla quale sono, dovuti, andar via. La Tunisia era un ricordo felice fino a quando i terreni non sono stati espropriati. Vivevano insieme in Tunisia e sono arrivati a vivere insieme a Nettuno. Tutti i fratelli e cugini. Sono tornati tutti insieme. Mamma era già andata li con la famiglia che veniva da Pantelleria. La famiglia di papà è emigrata li quando lui aveva sei mesi. Per lavoro. Mamma non so perché era li ma suppongo per lavoro. In famiglia di mamma c’erano dieci figli. Papà raccontava che li c’era più possibilità di lavoro. Qui trovarono le vigne a filari bassi e le lavorazioni che venivano fatte con l’aratro trainato dai buoi. In Tunisia avevano già i trattori. Il vigneto era un tendone. Avevano una grande cantina con grandi vasche di cemento. Ci trasmettevano questi ricordi. Papà faceva il vino in Tunisia. Viti e agrumi. Lui era siciliano e viveva di agrumi. Qui acquistò il terreno perché all’ingresso c’era l’agrumeto. Antonella e Rita Fontana sono figlie di Rosina e Michele che dalla Tunisia scapparono proprio dopo la proclamazione della nazionalizzazione delle terre. Antonella aveva due anni, Rita sei mesi. Non lo dicono ma non deve essere stato semplice rivivere un ricordo doloroso. Un ricordo di sradicamento dal luogo ove sono nate. Così come non sarà stato facile per Rosina e Michele lasciare tutta una vita e, provare, ad iniziarne un’altra. Avevano la forza. Avevano la volontà e l’esperienza. Avevano la famiglia. Avevano le figlie da far crescere. Quando papà torno qui vivevamo della terra. Papà comprò un’altra azienda nella zona di Sabaudia. Poi capì che era troppo lontano per gestirla e venne venduta. Il vigneto di Sabaudia aveva uve da tavola e da vino. Vinificavamo qui. Papà vendeva il vino all’ingrosso. Venivano i camion con le cisterna. Da ragazze finito il tempo della scuola andavamo ad aiutare i genitori in vigna e in cantina. I profumi erano nostri. Abitavamo sopra…
Papà in vigna aveva degli operai mentre in cantina gestiva tutto lui Ricordo le nottate per la torchiatura e il controllo del mosto. Tubi che colavano. Motopompe accese. Controlla stai attenta, non ti avvicinare che c’è il torchio in moto. Anche se gli operai non erano di famiglia si creava un rapporto amichevole e familiare. La vendemmia chiudeva il lavoro di un anno e a papà piaceva questo momento di festa e condivisione. I ricordi di Antonella e Rita si rincorrono e lascio che escano così come capita. Un pò di nostalgia mista a felicità. Nostalgia per quei tempi. Felicità per quei tempi. Un misto di sensazioni che si accavallano e convivono senza che si possano scindere.
Le famiglie in Tunisia vivevano tutte insieme. Fratelli, sorelle, cugini, nipoti. Tutti insieme perché tutti insieme si lavorava. Una piccola grande comune dove ogni cosa era in condivisione. Il concetto di famiglia rappresentava il vero motore di qualcosa che, una volta arrivati in Italia, non si poteva spegnere. Loro qui hanno ricominciato da capo. Quando sono venuti qui avevano trentacinque anni e due figlie io e Rita mia sorella. Avevano cominciato da capo con una casa e un piccolo appezzamento. Così in Tunisia, così a Nettuno. Qui papà Michele arriva, prima in avanscoperta, poi con tutta la famiglia. Qui decide di comprare casa e terra. Vicino al mare. Poco sotto Roma, porta di ingresso nell’Agro Pontino, Nettuno è paese di mare e di terra. Una sorta di congiunzione tra i due elementi, due anime. Probabilmente la fertilità delle terre e la provenienza delle persone che iniziarono ad abitare queste zone, fa prediligere la propensione verso la terra piuttosto che per il mare. Terreni argillosi e sabbiosi che portano con se il ricordo della palude.
Grandi pianure ove qualunque cosa si semini, cresce rigogliosa. Anche il vino, grazie alle barbatelle portate dai coloni del Veneto e dell’Emilia, dell’Umbria e della Lombardia che negli anni ’30 trovarono nell’Agro speranza di vita grazie alla bonifica. Un pezzo di terra e una casa in cambio del lavoro di bonifica. La speranza di un futuro invece che la povertà assoluta.
Poi ci si meraviglia se in queste zone si inneggi ancora al Duce e si voti principalmente a Destra. Antonella e Rita hanno vissuto la loro vita a Nettuno. Qui sono cresciute. Qui si sono sposate. Qui sono nati i loro figli (cinque nipoti in totale). Qui hanno lavorato anche se non solo nella terra dei genitori. Sono rimaste però nelle case che erano quelle di quando sono arrivate in Italia. Le case con la terra intorno. Quella dove papà Michele aveva impiantato le vigne. Quella dove si facevano le feste della vendemmia. Siamo andati avanti per diverse anni. Io le ricordo queste scene che ero piccola. Ricordo che con i cugini ci nascondevamo in attesa della festa con i pasticcini e le pesche. Era una festa. È Simona che si innesta nella conversazione. Lei è una dei cinque cugini: Alessia, Andrea, Sergio, Eva. Rappresentano la nuova generazione. La continuità, la spinta propulsiva necessaria a riprendere in mano qualcosa che non era stato più gestito dopo Michele e Rosina. Noi che siamo la generazione successiva, abbiamo il ricordo di quello che i nonni ci raccontavano. Nella quotidianità come a livello gastronomico. Il cous cous che tanto va di moda ad esempio. Anche nel parlato quotidiano i termini tipici ritornavano frequentemente. Abbiamo solo le foto e i sapori che ci hanno fatto vivere. I cinque ettari che circondano le case di Nettuno rappresentavano le uniche terre rimaste. Papà Michele aveva comprato anche dei terreni a Sabaudia che però vendette prima della sua morte avvenuta nel 1994. Con il pulmino di ritorno dalla vigna di Sabaudia la tappa fissa alla gelateria era un must.
Terre super ancora più fertili probabilmente ma lontane (per quei tempi) da Nettuno dunque difficili da gestire se l’agricoltura non rappresentava l’impegno principale. Abbiamo mantenuto questa azienda per motivi affettivi. C’era ancora mamma. Ognuno di noi aveva il proprio lavoro dunque si vendeva l’uva È una conversazione meravigliosa quella con Rita, Antonella e Simona che si accavallano nelle parole perché sono i ricordi che si accavallano. Un intreccio di ricordi generazionali che saltano avanti ed indietro nel tempo. Mamma è vissuta molti anni dopo papà. Deceduta nel 2018. Era gelosissima dei cinque ettari. Abbiamo pensato che lavorare e metterci impegno e vendere l’uva non andava bene. Finiva nel mucchio. Nel mentre figli e nipoti sono cresciuti e nessuno voleva mollare la presa su quei cinque ettari. I nipoti hanno fatto la maggioranza. Dopo la morte di papà Michele vinificare non era più possibile. C’erano le figlie con i loro mariti ma si sa che i genitori cercano sempre di migliorare le condizioni di chi viene dopo di loro. La terra non rappresentava più la fonte di vita con la conseguenza che la produzione di quei cinque ettari veniva venduta per intero. Non imbottigliavamo. Ma vendevamo solo l’uva. Non ce la facevamo. Conferivamo l’uva. Uve principalmente bianche come era normale in questa che è storicamente terra di bianchi autoctoni come il Bellone, la Malvasia o più avanti nell’Agro Pontini, il Moscato di Terracina. I rossi arrivano dopo, proprio con i coloni che si portarono dall’Alta Italia le barbatelle. Abbiamo pensato di dar valore a quello che era rimasto. I genitori non c’erano più però quello che era rimasto a noi era dovuto alla loro fatica, al loro lavoro, al loro amore. Questo posto era un posto tranquillo che hanno amato. Anche rispetto alla paura vissuta in Tunisia. C’era pericolo che portassero via noi che eravamo piccole. Questa era una oasi di pace. Anche gli altri che arrivavano si potevano appoggiare. Così l’attaccamento a questa terra. Noi abbiamo ricostruito quando ci siamo sposati per mantenere le radici qui. Io impiegata dello stato nella Polizia. Ora in pensione. Io lavoratrice autonoma. Mio marito lavorava alla Difesa e nel pomeriggio si occupava della vigna. Era il braccio destro del papà. È un intreccio di voci. Ognuna che prima timidamente poi con maggiore enfasi interviene nella discussione appena un ricordo affiora. La voglia di dire qualcosa che possa mettere un ulteriore tassello alla ricostruzione di una storia che non può cadere nel dimenticatoio. Vinificare è venuto fuori nel 2018. Una annata non troppo favorevole e non volevamo iniziare in maniera incerta. Il 2019 è stata una buona annata e abbiamo deciso di imbottigliare per dare valore. Purtroppo quando era pronto nel 2020 era tutto chiuso. Ci siamo fatte ricche bevute. Così ci siamo inventate progetti diversi. Eravamo soddisfatti del risultato del prodotto. La cantina non era più a norma e rinnovare tutto il macchinario non era possibile. Così appoggiamo presso una cantina. Sapevamo ciò che volevamo e anche da un punto di vista etico e morale abbiamo cercato le caratteristiche di chi fa vino. Biologici ad esempio. Ci hanno accolto come una seconda famiglia. Abbiamo iniziato a camminare insieme anche con l’enologo. Nasce Vigneti Fontana insomma. Un nuovo inizio non è mai semplice. Tante idee. Tanti progetti. Tanta euforia. Tante voci in questo caso. Ciò che però si respira in questa azienda è unione ed allegria. Unione di più famiglie che hanno mantenuto uno spirito di coesione e coesistenza. Lo stare insieme come momento di allegria, utile per ricordare e mantenere le tradizioni. Cinque nipoti e tre pronipoti. Con le forbici in mano siamo tutti all’opera. Con la vendemmia la squadra è già pronta. Non solo vendemmie ma tante attività a corollario della cantina. La vendemmia, fatta a mano che coinvolge le famiglie ed i bambini. La pigiatura come si faceva una volta: con i piedi. Facciamo vedere come si controlla il grado zuccherino. I bambini possono assaggiare anche il mosto. Si preparano dei dolci. Facciamo anche la raccolta delle fascine perché a Nettuno c’è la tradizione del falò della Immacolata e si accende il falò sulla spiaggia. Prepariamo le fascine e le facciamo preparare per essere pronti. Qui c’è la festa. Quella di una famiglia allargata. Tante persone che sono insieme con la voglia di rimanere insieme. Non un circolo chiuso ma un anfiteatro dove le persone vi entrano iniziando a farne parte. Festeggiamo Santa Lucia e San Nicola come mix tra Sicilia e Lazio. Tante serate di degustazione e preparazione di biscotti. Convivialità per stare insieme attorno alla campagna e al vino. Cerchiamo di trasmettere questo. Il vino si è importante ma è più importante lo stare insieme. Si respira. Si respira proprio quest’aria di festa ed allegria. Nelle parole e nei fatti. Attaccati alla portafinestra della cantina ci sono i disegni dei bambini che vengono qui per passare le giornate. Sono messi li con grazia e tenerezza. Sono belli. Trasmettono allegria. Trasmettono quella spensieratezza che Rosina e Michele hanno trasmesso alle loro figlie e ai nipoti. Dimenticando la fuga. Dimenticando o provando a dimenticare la paura. L’azienda c’è e ci vuole essere. Un senso di rispetto verso i sacrifici di Rosina e Michele ma anche e soprattutto un collante per la, anzi, le famiglie che oggi si riuniscono attorno a queste vigne. Oggi siamo a 5000 bottiglie a secondo della annata. Tremila di bianco, 800 di rosato. 1000 di rosso e 250 di spumante. Dal totale conferito a parzialmente conferito. Con l’obiettivo di imbottigliare tutto e ad un nuovo impianto. Aumentare la vigna per fare più rosso. Il primo anno abbiamo fatto solo il bianco e il rosso. Nel 2022 il rosato e lo spumante. Qualcuno diceva che ci volevano i maschi ma papà diceva che erano meglio le femmine. Era contento della sua famiglia e oggi sarebbe orgoglioso che si sta portando avanti il suo nome.
I primi due vini sono dedicati alla famiglia. Madamì e Chery erano i nomi di casa con i quali papà chiamava mamma. Madamì è un riuscitissimo mix di Malvasia di Candia, Trebbiano e Bellone. Sa di leggerezza. Sa di spensieratezza. Sa di un aperitivo al tramonto in riva al mare. Sa di una cena a base di pesce con i piedi nel mare. Note semplici di fiori bianchi che si fondono con lo iodio del mare. Note di agrumi e di mela farinosa. Note di frutti tropicali ed erba appena tagliata. Note di acacia e camomilla.
La freschezza e frizzantezza di tali sentori, invitano al sorso che, quando arriva, spicca per la sua sapidità. Fresco e secco, per nulla caldo così da essere estremamente bevibile. Tanto bevibile che la chiusura di bocca è un invito al prossimo sorso.
Ben strutturato nella sua sottigliezza, schietto. Un ritorno di melone in bocca, va giù che è un piacere. Stesso mix per lo spumante brut 5.0. 5 come i cinque nipoti. 5.0 come un nuovo corso che sta per cominciare e in parte è già iniziato. Un bel colore giallo paglierino, quasi dorato nel calice. Perlage non particolarmente fine ma ci sta. Sentori giusti, schietti e poco civettuoli.
Un sorso efficace, non banale e soprattutto incisivo. Ma senza essere invadente. Persistenza giusta. Secchezza giusta. Un brut che accompagna una cena senza voler essere protagonista ma giusto comprimario. Si stappa e si beve. Per creare allegria e continuità. Cherì è il rosso da Merlot e Cabernet Sauvignon. Il rubino intenso con venature porpora è vivo e avvolgente. I sentori sono freschi e vinosi con ciliegie, arance e anguria ad invitare il sorso. Il floreale e il tocco di balsamico donano vivacità e allegria. Niente è stucchevole, niente è banale. Sembra di vedere il sorriso di una donna che si gira quando la chiami Cherì così che possa venirti incontro e darti un bacio spensierato, di pura allegria. Come il sorso: fresco, non particolarmente caldo, secco e con una marcata sapidità. Il tutto per una sensazione di sottigliezza, non particolare struttura, snello. Uno di quei vini che si può bere anche più fresco, da aprire senza particolari sovrastrutture. Solo per strappare un meraviglioso sorriso. Été è infine il rosato da Merlot. Immediato e sbarazzino già dal colore quasi aranciato. Sentori vinosi con l’anguria, fresca e appena tagliata, in bella mostra. Se si chiudono gli occhi e si respira, lo iodio e l’anguria riportano immediatamente in riva al mare in una sera d’estate. Arriva poi un pò di limone e dello zenzero a rendere più frizzante il tutto. L’erba appena tagliata e i fiori di campo sono il legame con la terra di Nettuno.
Il gusto richiama ancora l’anguria (o cocomero come si chiama da queste parti), la pesca messa a macerare nel vino, l’arancia. Tutto in fusione con la sapidità del mare. Non particolarmente caldo ce con persistenza non lunga. Cosa questa che rende il sorso fluido, sbarazzino. Il finale di bocca è fine e quasi floreale. Meraviglia! Papà non era un amante di vini con una gradazione troppo alta. Nella vecchia cantina nonno teneva le vecchie bottiglie e aperte recentemente abbiamo notato che lo stile era quello di oggi. Lo stile era sempre uno stile francese con vini bevibili e non tosti. Vogliamo essere apprezzati noi ed il vino laziale. Farlo riscoprire anche andando ad eventi cosi facendo eventi in vigna anche a persone con disabilità. Abbiamo ricevuto tanto e vogliamo ridare. Dopo Rita ed Antonella ci saranno i figli a portare avanti l’azienda. Una continuità che a Rosina e Michele avrebbe fatto piacere. Non tanto per la parte economica quanto più per l’unione della famiglia. Il vero valore della vita. Ognuno fa la sua parte e ha i suoi compiti. Siamo cinque teste differenti spesso in contrasto però alla fine è un camminare unico. Un sentiero tracciato insieme da quando eravamo piccoli. Non è mio cugino ma mio fratello. Siamo molto uniti. L’unione tra mamma e zia è come in precedenza una sola famiglia. I valori e i principi sono comunque allineati sullo stesso cammino. Ognuno con altri lavori. Ognuno con la propria famiglia. La vigna unisce, non divide. Le discussioni non sono discussioni ma un modo per parlare di qualcosa in comune. Qualcosa che non è del singolo ma della famiglia. Le domeniche si mangiava e si diceva: che nome diamo a questo vino nuovo? Come lo facciamo? Iniziava e finiva tutto intorno alla tavola. Una discussione impegnativa perché siamo tanti. Ognuno riconosce la parte di competenza dell’altro. Ci si fida molto dell’altro. Piena fiducia nell’altro perché è come se lo facesse con le sue mani. Dal lavoro in vigna al decidere il tipo di vino. La grafica delle etichette. C’è spazio per tutti e per tutte le indoli. Il vigneto è circondato dalle olive. Produciamo olio ma va via subito essendo tanti. Non ci sono veri obiettivi per il futuro. Si, magari un pò di vigna in più. Magari una barrique per nobilitare il rosso. Magari una cantina vera così da vivere insieme anche la parte della vinificazione. Magari un pò più di struttura per seguire tutta la parte burocratica necessaria dopo esser passati al biologico. Magari più eventi per farsi conoscere e far conoscere il vino laziale.
Nulla di trascendentale e una sola certezza: continuare a stare insieme.   Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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9 Agosto, 2024

Stefano Poser. Sassocorno, la vigna del medico

Stefano Poser è un medico specializzato in kinesiologia applicata. Una pratica scientifica volta a diagnosticare e curare una serie di malattie mediante l’analisi della forza e del tono muscolare. Come medico sono alternativo, uso rimedi naturali e una medicina non convenzionale. La disciplina che faccio io si chiama kinesiologia applicata che consiste nel lavorare con dei test muscolari. Individuare le cause dei problemi e curare la causa non i sintomi. Dovrebbe essere utile alla salute delle persone. La pratica kinesiologica gliela ha insegnata papà Giuliano salito alla ribalta delle cronache nel 2016 quando alcuni giornali scovarono Lionel Messi in quel di Sacile, un paesino poco distante da Pordenone e luogo ove il dott. Poser operava da tempo. Messi frequentava Sacile e il dott. Poser già da tempo per risolvere alcuni suoi problemini. Medicina dello sport e kinesiologia. Grande attenzione alla alimentazione con il principio di assumere solo cibi di derivazione biologica o comunque lavorati in maniera naturale; eliminazione di cibi contenenti conservanti, pesticidi, anticrittogamici, glutammato sodico, aspartame, grassi saturi, ecc; eliminazione di saccarosio, alcol, lattosio, lieviti, farina di frumento raffinata e comunque tutto quanto risultato non tollerato ai testi kinesiologici.  Se dobbiamo parlare di vini qualche principio del dott. Giuliano dobbiamo, purtroppo, non prenderlo in considerazione. O almeno non dirglielo. Alcol e vino sono ovviamente un binomio inscindibile (non ditemi che i dealcolati sono vino per cortesia!).  Stefano è il protagonista di questa storia e parlare subito del padre aiuta a capire come, visti gli insegnamenti avuti, si possa certamente connotarlo come vignaiolo poco “convenzionale”.  Un momento. Ma non si era detto che Stefano fosse un medico? Che c’entra ora la vigna e il vignaiolo? Eh direte voi, di personaggi che hanno deviato dalla professione originale alla vigna ne abbiamo visti un bel pò. Ingegneri, avvocati, impiegati, architetti. Mancava il medico.  È proprio vero che la vigna in qualche modo strega le persone. Secondo me occorrerebbe far spiegare questa cosa ad uno psicanalista. Uno bravo si intende. Per quanto infatti la professione del vignaiolo possa essere romanticamente affascinante, c’è da farsi il mazzo (sempre per essere romantici) tutto l’anno con la speranza di guadagnare qualcosa. Anche se, diciamocela tutta, chi fa il vignaiolo e lo fa per scelta, di guadagnare proprio non ha voglia. Basta quanto serve per vivere e mandare avanti la passione. Appunto, passione. Ho scoperto la passione per il vino nell’epoca in cui si tende a bere del vino. 18/20 anni.  Negli anni 90 quando ci fu un pò l’esplosione del vino. Mio padre, che come me fa il medico, portava a casa tante bottiglie di vino che gli venivano regalate. Non andavano a scatola ma a singola bottiglia. Così ne avevamo tante. In tante famiglie si compravano le damigiane mentre nella nostra con le bottiglie ho iniziato a capire le infinite possibilità.  Ecco la mia era una di quelle famiglie invece dove papà mi mandava a comprare il vino in damigiana. Voleva solo quello e quando, in età adulta, gli portavo le bottiglie, anche serie, niente, voleva la damigiana della Cantina Sant’Andrea di San Felice Circeo. Le bottiglie che portavo io finivano o nella credenza oppure in frigo. Non dite niente vi prego. Si assaggiava e la passione si sviluppava in parallelo con gli studi. Liceo Scientifico, Facoltà di Medicina. Visto che questo mondo mi piaceva parecchio, il bivio è stato se concentrarsi sull’aspetto degustativo, come è successo a molti che hanno fatto i sommelier o i giornalisti, oppure se impegnarsi sull’aspetto produttivo. L’aspettò agricolo aveva sempre avuto un certo fascino nei miei confronti. Mi sono trovato a capire cosa ci sta sotto e come si produce il vino. Ho iniziato a documentarmi come autodidatta senza iscrivermi ad un corso di studi ufficiali.  Nel 2010, a 28 anni, anno in cui mi sono sposato e ho iniziato ad avere figli ma questo è un altro capitolo, un amico mi ha prestato un piccolo appezzamento cosi che potessi fare i miei esperimenti. Un micro vigneto di Cabernet Sauvignon che tra l’altro non produco come vino anche se quel piccolo appezzamento continuo a gestirlo perché si fa un vino da garage per divertimento con degli amici. Fino al 2018 ci siamo divertiti a fare le nostre potature, vendemmia, comprare le barrique, metterci il vino, fare le bottiglie e bersele in compagnia senza vi fosse un intento commerciale sotto.  Un altro garagista. Un altro professionista che si mette a giocare non sapendo nulla di vino. Niente esperienza.  Già me le immagino queste espressioni, magari condite con del colore, da parte di chi nel vino e con il vino ci convive da generazioni spaccandosi la schiena tutti i santi giorni. Grazie però a questi pazzi sognatori passionali come Stefano abbiamo oggi in Italia una incredibile e unica varietà di prodotti qualitativamente eccellenti. La diversità è una ricchezza. Occorre ricordarselo. Poi si è innestata anche un’altra passione che è il ciclismo. Quando ero all’università mi facevo tanti giri nel Friuli orientale dove ci sono le colline. Girando mi sono innamorato di un posto che si chiama Rocca Bernarda e non lo so perché, sono quelle cose che non te lo chiedi, ma mi piaceva più degli altri. Casualmente guardando delle app di annunci immobiliari, intorno al 2016/17, salta fuori una vigna in vendita. Così ho iniziato a capire se era una strada percorribile. Inizialmente non lo sembrava molto anche perché non abito esattamente li ma in provincia di Pordenone a circa un’ora di strada. Quella con cui giocavamo stava pure lontano ovvero sempre in provincia di Pordenone ma vicino Treviso. Il Cansiglio si chiamava. Mi sono comunque interessato sempre di più a quel terreno che non veniva venduto. Così il prezzo è calato e per farla breve siamo arrivati all’acquisizione di questo terreno. Sempre in quel periodo parlando con mio cugino con la mia stessa passione decidemmo di metterci in società. Adesso però questa società si sta dissolvendo. Non so se la pazzia è contagiosa ma di certo è lucida. Certe cose avvengono per caso o magari dando a questo una spintarella. Cercare un terreno non è certo usuale. Trovarlo nel posto del quale ti sei innamorato può essere un caso. Se pure tuo cugino poi ti presta una spalla, o lo hai contagiato oppure la follia è davvero diffusa. Con l’aggravante che la stessa follia non si ferma. Continua e continua ancora. Abbiamo cosi trovato altri terreni più al cento del Corno di Rosazzo che comprendevano anche un casolare e un piccolo borgo che poteva diventare la cantina, il deposito degli attrezzi, la sala degustazione. Insomma tutto quello che adesso esiste e all’epoca non esisteva. Non abbiamo rilevato una azienda operativa nel settore ma terreni ed edifici che non erano utilizzati per questo scopo. Dunque la vigna a Rocca Bernarda, terreno ed immobili a Corno di Rosazzo. Nell’assetto attuale siamo arrivati a sei ettari di vigna. Un pò alla volta. Io mio cugino, sua moglie e mia moglie. Vedete come la pazzia dilaghi? Una vigna ci poteva stare. Un piccolo rifugio utile per fuggire nei fine settimana dalla monotonia della vita quotidiana. Un luogo dove coltivare la propria passione per farsi qualche bottiglia da bere con gli amici. Poco importa se poi il vino viene bene o male, tanto, nessuno si azzarderebbe a dire che fa schifo.  Invece si acquisiscono altri terreni da coltivare e altre vigne da impiantare. Poi strutture fisiche, attrezzi, utensili. Tanta roba e tanta follia. Fino a che qualcuno rinsavisce o perlomeno si rende conto che l’entusiasmo era solo iniziale. Un pò come quando compriamo qualcosa di stravagante sulle ali dell’entusiasmo e appena tornati a casa ci rendiamo conto di aver fatto una totale stupidaggine.  Mio cugino e la moglie hanno poi scoperto di non avere tutta questa propensione all’ambiente e hanno deciso di lasciare. Stiamo vedendo come fare per la parte societaria.  Prendete ora tuto quello che potete pensare circa la follia e metterlo da parte. Quando la ragione infatti assume la guida dei pensieri generando idee e progetti allora non c’è più follia ma diventa vita alimentata dalla irrefrenabile passione.    La mia idea era puntare su vigne vecchie soprattutto nelle zone di collina. Età tra i 50 e 100 anni, che ospitano il Tocai Friulano e un pò di Merlot. Nei terreni prossimi alla sede aziendale abbiamo deciso di piantare vitigni autoctoni idonei a quel tipo di terreno: Malvasia Istriana, Refosco, Schioppettino. Nel corso del tempo abbiamo aggiunto Pignolo, Verduzzo, Ribolla.  Vitigni autoctoni, viti vecchie, rese molto basse, trasformazioni senza interventi e lunghi affinamenti.  Eccolo il Credo di Stefano. Poche parole che dicono tutto.  Qualunque altro vignaiolo avrebbe specificato il significato di “trasformazioni senza interventi”. Invece Stefano no. Ci ho riflettuto a lungo su questa cosa e mi sono convinto che gli insegnamenti del padre prima, la sua professione medica con la particolare specializzazione dopo, comportino per Stefano il pensare che quello che lui fa e il modo con cui lo fa, sia l’unico veramente possibile.  La conseguenza per la su azienda, Sassocorno, è il produrre poco più di undicimila bottiglie.  Io sono in autonomia dal punto di vista decisionale. Ci sono delle persone che aiutano in campagna perché con queste superfici anche se fossi li al cento per cento non ce la farei. Abbiamo un trattorista e una operaia agricola che fanno i lavori in campagna. A livello di gestione enologica della cantina mi arrangio tutto io. Deraspatrice, pressa, travasi, batonnage.  L’esperienza della piccola vigna con gli amici è certamente servita. Piccolissime produzioni che hanno senz’altro avuto il merito di consentire sperimentazioni. Poi tante domande ai contadini e ai produttori della zona.  L’idea di non avvalersi di consulenti ma di documentarsi e chiedere in giro. Senza paura di sbagliare. Tutti sbagliano ed in effetti nella prima vendemmia 2018 ci sono stati errori grossolani. Dopo è stato aggiustato molto il tiro. Quando noi veniamo assaggiati nel contesto di fiere di vini naturali ci viene detto che siamo fin troppo puliti per essere naturali. Tutti i possibili errori grossolani si sono limitati alla 2018. Dopo niente più. Quando Stefano parla del 2018 è come se gli errori fossero stati commessi in laboratorio dove la paura di sbagliare non c’è e non deve esserci. In un laboratorio è necessario commettere errori perché solo attraverso questi e la comprensione di ciò che è accaduto si può generare il miglioramento necessario. Miglioramento e non involuzione. Chiunque dinanzi ad un vino non venuto bene avrebbe immediatamente preso la strada più facile, quella della chimica. Solforosa in fermentazione, inoculazione di lieviti, pied de cuve e chi più ne ha più ne metta. L’importante è non sbagliare più. E il proprio Credo? Può andarsi a fare benedire? Mi sono reso conto che le cose erano andate un pò come volevano loro. Come se il processo non fosse davvero governabile. Ho chiesto a qualcuno e la risposta è stata: se vuoi lavorare cosi dai la possibilità a queste masse di fare la fermentazione spontanea tanto la cantina si sarà già un colonizzata dall’anno prima. Importante è gestire bene le operazioni per ottenere fermentazioni pulite. Così ho fatto e sembrerebbe aver funzionato. Per certi versi abbiamo anche terreni e vitigni che hanno qualcosa di miracoloso. Tocai e Malvasia in questi terreni producono delle fermentazioni spontanee eccezionali. Uve che provengono da fuori come il Merlot ti fanno certe sorprese in negativo. Magari c’è necessità di rispettare la zona.  In effetti il ragionamento di Stefano è ineccepibile. I lieviti sono in cantina. Si sviluppano in cantina e qui rimangono. Quando si inocula un lievito selezionato, probabilmente quella cantina è segnata per sempre. Così, quello che si sarebbe potuto generare e sviluppare in quella cantina, di quel territorio, forse è perso. Se non per sempre per parecchio tempo.  Forse dovremmo considerare sempre la naturalezza delle scelte come necessarie per il raggiungimento della massima qualità ed espressione di quel territorio e di quella terra. Lo strumento più efficace per esprimere il territorio insomma. Per me era la strada più spontanea perché anche da un punto di vista degustativo mi stavo orientando verso quel mondo li. Consapevole del ritorno immediato con altri tipi di filosofia. Il mercato di questi vini esisti e nel Friuli orientale c’è una fetta di produttori che hanno fatto questo tipo di percorso già venti o venticinque ani fa.  Poi c’è il lungo affinamento. Una scelta dettata certamente dal dover domare alcuni vitigni tipicamente ostici ma al contempo per problemi di spazio. Si di spazio Abbiamo un lungo affinamento. Non puntiamo ad avere un grande affinamento in bottiglia perché tendo a mettere il vino pronto. Non abbiamo poi lo spazio fisico per le bottiglie. Un piccolo magazzino di bottiglie che non consente di accumulare annate. Gli affinamenti in legno gestiti per accompagnare al meglio il vino senza aggressione con il principio di usare botti solo già utilizzate in azienda. Nessuna barrique ma dimensione variabile da 10 a 15 ettolitri. Bassa tostatura e idrolizzate per consentire micro ossigenazione senza cessioni. Sto provando l’anfora e il cemento. Non voglio che la botte faccia da tisana. Stefano è davvero un personaggio. La sua è calma serafica. Di un dottore così potrei proprio fidarmi. Ogni pensiero è espresso in maniera pacata, pesando e scegliendo le parole giuste. Ogni tanto un pò di ironia ma senza strafare. Come se non siano questi gli ambiti nei quali si possa scherzare. Magari a tavola, bevendo il vino. Mi viene in mente una battuta del Marchese del Grillo quando diceva  Quando si scherza bisogna esse seri.  Dalla medicina mi sono portato che i sistemi biologici sono complessi e non si prestano alle banalizzazioni. Un sistema ipercomplesso in vigna e uno in cantina. Devi capire che stai lavorando con degli organismi viventi che non fanno esattamente quello che vuoi ma ciò che la genetica e l’ambiente in cui vivono li portano a fare. Tutti in genere mi dicono: Quando inizia la fermentazione metti un pò di solforosa cosi ti seleziona i lieviti. Ma io gli rispondo: tu hai provato a fare una vasca con e una senza? Perché l’approccio scientifico in realtà è questo: provare e vedere cosa succede. Nella mia esperienza succedono cose che non sono proprio quelle che si dicono in giro. Cose che non pensavi. Abbiamo avuto tante sorprese delle quali occorre fare tesoro.  L’approccio può sembrare tipicamente scientifico ma è del tutto romantico. Nelle sue parole c’è una sorta di fatalismo. Un modo per dire a se stesso prima, al mondo poi (anche se forse di questa seconda parte non è che gliene interessi più di tanto) che è la natura a dettare il corso delle cose. La chimica magari può influenzare, modificare, gestire. Ma che se ne ottiene? Non certo un prodotto di trasformazione. Semmai di manipolazione.  Io consiglierei essenzialmente di non bere troppo vino. Consiglierei di bere il mio vino in alternativa ad uno che contiene troppa chimica. Anche come medico sono alternativo, uso rimedi naturali e una medicina non convenzionale. Con un tipo di medicina del genere hai una mentalità e un animo che ti porta a lavorare alla fonte e non aggiungere. Ovvero non un farmaco. Così in vigna e in cantina. I vini anche a me fanno venire mal di testa. Molte persone quando vengono da me li hanno trovati molto digeribili e poco dannoso per la testa. Poi se esageri fa male lo stesso.  In vigna usiamo il rame perché comunque dalle nostre parti non ho alternativa al momento. Ne usiamo circa metà di quella che la normativa biologica ci consentirebbe di usare. Usiamo solfato di rame. Usiamo lo zolfo e l’olio essenziale di arancio dolce per il controllo delle malattie funginee. Nessun insetticida ma prodotti che cercano di evitare la peronospora. La chiave è la fermentazione spontanea per raggiungere la quale cerchiamo di evitare prodotti che non la inneschino.  I vini sono tutti caratterizzati dall’avere un solo ingrediente: l’uva. Niente altro che uva. A dimostrazione di come si possano realizzare vini intriganti ed interessanti solo immettendo nel processo tanta cura. Certo, come dice Stefano, i vitigni, la loro storia e il terreno dove sono nati e cresciuti, fanno la maggior parte del lavoro. Poi occorre “solo” assecondare il processo di trasformazione.  Noi raccogliamo in media i trenta quintali per ettaro anziché i cento dieci concessi dal disciplinare. Questo implica maggiore concentrazione, tanta mineralità. Nelle versioni più riusciti una complessità aromatica e per certi versi una pienezza del sorso. Il mio obiettivo è far trovare complessità ed eleganza senza che si perda la beva. Puntiamo li. Rex è l’espressione senza legno del Refosco dal Peduncolo Rosso a dimostrare che può essere un vino fresco e croccante anche con il solo acciaio. Lo definirei intrigante per quella sua capacità di stuzzicare il palato con una altalena di gusti non particolarmente corposi. Un vino non impegnato, sicuramente sapido, sicuramente fresco, sicuramente secco, non particolarmente caldo. Lo si può bere anche leggermente fresco per quanto è intrigante.
I sentori sono vinosi corredati da una frutta fresca e da un bel bouquet di fiori rossi che danno la sensazione di rosso scarlatto. La ciliegia prevale sul melograno e l’arancia sanguinella arriva al naso donando freschezza. I fiori piano piano diventano quasi in potpourri insieme ad un piacevole sentore vegetale. Sembra quasi arrivino delle spezie. 
Il sorso è fresco e sapido con la ciliegia che si presente prepotente unendosi a del giaggiolo. I tannini sono levigati così che in bocca si realizza un perfetto bilanciamento. La ciliegia si trasforma in candita come quella che si trova su certi pasticcini. Si realizza quella altalena di gusti che freschi e stuzzicanti necessitando di continuare a berlo. Anche perché la bocca rimane davvero incantata.  Badie (terroir storico nei pressi dell’Abbazia di Rosazzo) è il Tocai Friulano (qui lo chiamano così, c’è poco da fare) che proviene da vigne vecchissime di oltre 90 anni. Bassa resa (circa 0 quintali per ettaro e affinamento di due anni in botte d’acacia. 
La due settimane di macerazione e il successivo passaggio in botte hanno donato a questo vino un colore mieloso, quasi aranciato. La pulizia, in assenza di pratiche diverse, stupisce. Vivace al limite del luminoso. Davvero bello.
La “mielosità” torna al naso: miele di acacia. Poi frutta matura a pasta gialla come melone, pesca e mandarino rimane donando freschezza. I fiori la fanno da padrone: margherite e camomilla. Le spezie e le tostature sono delicate: tabacco, salvia e alloro ma anche del curry e della paprika dolce. Un accenno di pietra focaia e gesso. Che bel corredo!
Il sorso è fresco nonostante i suoi quattro anni (versione 2020), secco e molto minerale, non particolarmente caldo. Il sapore è vinoso, piacevole e pieno: sembra di bere il vino nel quale è stata in macerazione una pesca. I tannini sono evidenti ma non invadenti. Bilanciamento riuscito!
Non ci sono mezze misure: un vino come questo o lo odi o lo ami. Io l’ho amato già dal colore e poi per la avvolgenza che offre in bocca. Senza strafare, senza dare noia, anzi, lasciando una sensazione di “appagamento” che dura il giusto per via della buona persistenza. Freddo può provocare assuefazione; leggermente più caldo accompagna una carne bianca o del formaggio non stagionato. Super interessante. Io sono un innamorato della Malvasia in generale e me la sono piantata nel terreno che mi sono scelto io. Non vedo l’ora di arrivare con Refosco e Schioppettino dove voglio io. Cuar è il blend di Merlot (80%), Cabernet Franc (10%) e il resto di quello che c’è in vigna. Anche qui c’è la botte grande ma stavolta usata. Usata sempre in azienda secondo i dettami di Stefano.
Questo vino, al pari degli altri, è la dimostrazione di come si possa fare qualcosa di pulito e interessantissimo anche senza alcuna aggiunta. Meraviglioso infatti già  colore rubino con riflessi granata: di una pulizia unica.
I sentori sono immediatamente di frutta cotta con la prugna che spicca insieme al sottobosco. Un riuscito mix riuscito che dona una sensazione piacevolissima. Il balsamico apre subito le narici consentendo di apprezzare tutto il resto in maniera facile.
I frutti rossi continuano a farsi sentire in una alternanza di cotti, maturi, meno maturi. Il vegetale, come la foglia di pomodoro, si innesta in un gioco di caldo e fresco. La rotondità del Merlot viene fuori mentre la spigolosità del Cabernet Franc si intrufola garantendo l’alternanza necessaria. La ciliegia ed il lampone si uniscono alla cannella e alla vaniglia per poi lasciare spazio ai chiodi di garofano, al tabacco, al cacao, alla noce moscata, al goutron. Una bella, piacevole, intrigante complessità.
Un insieme di sentori di buona complessità, ben bilanciato e che lascia presagire una certa rotondità in bocca. Invece ecco che arriva l’inaspettato: c’è tanta freschezza, ma non asprezza, proprio freschezza. Tannino quasi rotondo, non particolarmente aggressivo, secco e con bella sapidità. La frutta, meno cotta di quella che ci si aspetterebbe, si insinua nel sorso e si lega alla freschezza donando una sensazione che richiede sempre di essere riprovata. Insomma un sorso fresco e rotondo al tempo stesso che lascia piano piano spazio alla finezza. La bocca si chiude in maniera elegante con la frutta che rimane nel sottofondo, senza essere stucchevole anzi, richiedendo un nuovo sorso. Bilanciamento da applausi. Questi vini li trovo puliti ed in ordine anche se il mercato non è che ci abbia premiato in modo clamoroso. Non vendo le bottiglie prima di averle prodotte.  Alla fine, chi è Stefano Poser? Un medico o un vignaiolo? Per quello che l’ho conosciuto, convintamente entrambe. Una persona che fa e bene entrambe i mestieri. Ama il suo lavoro da medico e ama la sua passione di vignaiolo. Per motivi finanziari devo fare ancora il medico. Mi piacerebbe fare il vignaiolo. Sono un libero professionista e posso gestirmi gli orari. Anche se c’è una agenda che tende ad essere molto piena. Mia moglie mi segue formalmente tutta la parte di imprenditrice agricola poi mi segue la segreteria del mio studio e poi abbiamo anche quattro figli misti dai tredici ai quattro anni. Noi abbiamo quarantadue dunque li abbiamo fatti giovani. Cosa sceglierà dunque appare decisamente chiaro. O forse no. Tra qualche anno mi vedo gradualmente semper più orientato nella direzione del vignaiolo. Se però le cose andassero come voglio io non è escluso che possa accogliere le persone in azienda. Faccio anche un approccio nutrizionale dunque si può trovare un punto di incontro. Non voglio aspettare la pensione perché quelli della mia età non la prendono la pensione. Avendo la bacchetta magica mi premerebbe prima riuscire a formare qualcuno che faccia il medico come lo faccio io. Mio padre ha formato solo me perché non è bravo ad insegnare. Come medico dello sport lui ha ottenuto il massimo del successo professionale. Mi piacerebbe quantomeno che non finisse qui questa esperienza e potesse avere un seguito e non andasse sprecata.  Il Giuramento di Ippocrate, quello antico, inizia cosi Giuro per Apollo medico e Asclepio e Igea e Panacea e per gli dèi tutti e per tutte le dee, chiamandoli a testimoni, che eseguirò, secondo le forze e il mio giudizio, questo giuramento e questo impegno scritto: di stimare il mio maestro di questa arte come mio padre e di vivere insieme a lui e di soccorrerlo se ha bisogno e che considererò i suoi figli come fratelli e insegnerò quest’arte, se essi desiderano apprenderla; di rendere partecipi dei precetti e degli insegnamenti orali e di ogni altra dottrina i miei figli e i figli del mio maestro e gli allievi legati da un contratto e vincolati dal giuramento del medico, ma nessun altro.  “Insegnerò quest’arte”. Si può essere folli. Si può cambiare la propria vita seguendo i sogni e la passione. Si può e si deve cercare di essere felici e di rendere felici le persone che ci sono care. Ciò che non si può e non si deve fare, è non rispettare un giuramento. Quello di Ippocrate è un giuramento che molti medici dimenticano anche di aver fatto, cosa questa che non giustificherebbe ma almeno renderebbe comprensibili gli scempi di taluni, presunti, medici.  Stefano, no. Stefano sa di aver non solo giurato ma ricevuto un dono dal padre. Uno di quei doni che non si può ne si deve tenere solamente per se. Deve essere trasmesso a qualcuno. Qualcuno che perlomeno avrà giurato come Ippocrate prescrisse.
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2 Agosto, 2024

Cantina Cerbero. Alea iacta est

Mettere insieme Dante Alighieri e Giulio Cesare non sarà una cosa semplice. Eppure è quanto occorre fare per capire bene questa storia. Mi viene il mal di testa solo al pensiero del lettore che cercherà di raccapezzare qualcosa. Cominciamo da Dante Alighieri. Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa. Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e ’l ventre largo, e unghiate le mani;
graffia li spirti ed iscoia ed isquatra.   Nel Sesto Canto dell’Inferno Dante e Virgilio incontrano Cerbero, il cane a tre teste del quale parla Virgilio stesso nel VI libro dell’Eneide come custode degli inferi. Nella Divina Commedia Dante lo pone nel III Cerchio, quello dei golosi per ferirli, squartarli. Così come in vita avevano loro fatto con il cibo. Le tre teste simboleggiano la superbia, l’invidia, l’avarizia o, in maniera diversa, i tre modi propri del vizio di gola: quantità, qualità, continuità. Dante sottendeva anche ad una allegoria politica riguardante le lotte tra le diverse fazioni dell’epoca. Mettiamolo per un attimo da parte e veniamo a Giulio Cesare. Alea iacta est. Il dado è tratto. La decisione è presa. È la frase attribuita da Svetonio a Giulio Cesare e pronunciata il 10 gennaio del 49 a.C. nell’atto di attraversare il fiume Rubicone (torrente della provincia di Forlì-Cesena) dando così vita alla seconda guerra civile contro Pompeo. Tunc Caesar: “Eatur,” inquit, “quo deorum ostenta et inimicorum iniquitas vocat. Iacta alea est”, inquit Mettiamo da parte anche Giulio Cesare perché non siamo sul Rubicone, tantomeno nel girone dei golosi, ma a Cupra Marittima. Qui le colline degradano rapidamente verso il mare dove lasciano spazio alle spiagge assalite dai bagnanti durante il periodo estivo. I venti dell’Adriatico si incanalano verso l’interno lambendo i pendii un tempo parte dello stesso mare. Le Marche, una regione estremamente particolare per una tradizione, un pò come l’Abruzzo, più improntata alla terra che al mare nonostante si affacci per tutta la sua lunghezza su quest’ultimo. Una regione che ha in se un patrimonio ampelografico interessantissimo e variegato nonostante poi sia conosciuta prevalentemente per i bianchi da Verdicchio, Passerina e Pecorino dimenticando così come non solo vi sia la DOCG della Vernaccia di Serrapetrona ma anche le importanti espressioni di Sangiovese e Montepulciano (nella DOCG Rosso Conero). Marianna La famiglia Marinangeli la terra l’ha sempre coltivata qui e qui, come da tradizione, il vino era quello di casa e per casa. I pochi filari utili per il fabbisogno della famiglia costituivano comunque una ricchezza e una buona scusa per festeggiare durante la vendemmia. All’inizio degli anni 2000 nostro nonno espiantò il vigneto perché la tradizione della vendemmia, con il vicinato che conferiva il vino alle cantine sociali che in quel periodo sorgevano come funghi, era finita. C’è stato un periodo, fino al 2009 dove non abbiamo più fatto vino in casa. Nel 2009 abbiamo acquistato un terreno adiacente e papà disse: sa che c’è, qua ci faccio una vigna e poi una cantina con le palle. Voglio fare vino a livello professionale. Voi siete d’accordo?. Sul fare vigneto eravamo d’accordo. Sul fare cantina eravamo scettici perché il mondo è difficile. Lui disse: l’importante è crederci poi il resto viene da se. Papà Vittorio. Vittorio Rivosecchi. Marito di Marianna, la proprietaria della cantina. Vittorio Mamma ha sempre avuto l’azienda agricola poi quando ci siamo dedicati alla cantina è rimasta titolare dell’azienda dunque della cantina. Ci tengo sempre a precisare che la nostra è una cantina a gestione familiare. Siamo in quattro e portiamo avanti il progetto in quattro senza prevaricare nessuno. Samuele Rivosecchi è la persona che incontro. Lui insieme al fratello Fabio e al papà Vittorio rappresentano a pieno la gestione dell’azienda Cerbero. Nostra mamma adesso si gode la cantina perché nella azienda agricola si è rotta la schiena. Con quattro ernie al disco ha il diritto di fare un pò la reginetta godendosi la cantina. Sembra la burattinaia che tira le file di noi burattini. Samuele è un ragazzone con un innato sorriso stampato sul viso. Felice di fare quello che sta facendo, con la voglia di parlare, di trasmettere la sua passione, di avere un riscontro dei vini che produce. Quando papà Vittorio decide di iniziare l’avventura enologica, Samuele ha solo tredici anni. Fabio diciotto. Troppo piccoli per capire davvero l’idea del padre. Fabio con poca voglia di studiare è ansioso di iniziare; Samuele che preferirebbe godersi la vita con i suoi amici continua a studiare e a lamentarsi. Ricordo di quando i miei compagni uscivano ed andavano al mare mentre io stavo sempre li in mezzo. C’è stato un piccolo odio perché pensavo a quanto avrei dovuto essere spensierato e invece lavoravo. Però guardandomi indietro capisco che all’epoca non avevo la maturità giusta.   Fabio Come poter biasimare un ragazzino di tredici anni? Impossibile. Sentendolo però parlare Simone, quei ricordi che potrebbero essere rimpianti, non esistono più. Forse rimossi. Forse seppelliti dalla frenesia di voler fare e fare bene. Ha capito non solo quanto gli piaccia questa vita ma, soprattutto quanto papà Vittorio abbia fortemente voluto tutto ciò non per se stesso ma per i figli. Solo per loro, cercando di trasmettere, intatti, i ricordi della sua infanzia. Gli odori, i profumi, i gesti, l’allegria. Tutto ciò che una vendemmia poteva portare di buono, papà Vittorio ha cercato di trasmetterlo. Tutto, tranne il gusto del vino.
In che senso? Nel senso che papà Vittorio è astemio. Non beve vito. È appassionato quasi a livello sensuale. Gli piace fare cantina e vigneto. A lui non piace l’alcol. Ad assaggiare e capire ci penso io. Lui ama la campagna. Ama pressare, pigiare, travasare. Adesso sta iniziando ad assaggiarlo perché lo prego i ginocchio. Si occupa del vigneto e dice sempre: quando arriviamo sulla soglia della cantina finisce il mio comando e inizia il tuo. Assiste sempre perché adora sentire quei profumi che magari gli ricordano la gioventù quando si faceva tutto a mano. Mi racconta che lui veniva utilizzato da tutto il vicinato per pulire i serbatoi in quanto piccolo. Di alcol ne so annusato tanto nella vita adesso basta. Gli ettari che possono dedicare alla vigna solo solo due e mezzo. Pochi ma particolari perché papà Vittorio si rende subito conto di ben quattro tipologie diverse di terreno. Dobbiamo fare vini di qualità perché con due ettari e mezzo siamo obbligati. Cerchiamo fino dall’inizio a fare le cose per bene. Piano ma fatte bene. Così diceva papà. La prima vendemmia c’è stata infatti undici anni dopo. Nel 2020. Piccoli passi per fare grandi cose. Piano piano. Senza fretta. Ricercando in maniera minuziosa la qualità. O aspettando il momento giusto.
Già perché forse Simone non me lo dice o forse non lo sa. Magari è una mia intuizione, non so, ma forse papà Vittorio, prima di fare le cose sul serio, ha voluto attendere che i figli fossero davvero consapevoli di quanta potenzialità avessero tra le mani.
Undici anni durante i quali papà Vittorio si rilassa sui campi (anche se rilassarsi per una coltivazione è un concetto filosofico che nulla ha a che vedere con la dura realtà delle cose vere) dopo il lavoro e Fabio scorrazza sui trattori. Simone, invece cosa fa? Certo, aiuta in azienda come è giusto che sia per una azienda familiare, però studia. Da geometra. Ovvio direte voi. Con il papà impegnato in una azienda edile ed il fratello Fabio che aveva pure lui iniziato li, tutto lasciava presagire un futuro nell’edilizia. Fabio ha studiato da alberghiero ma non è portato per la scuola. Appena finito le superiori ha iniziato a lavorare con papà. Quando è stato lanciato il progetto della cantina era contento di poter creare qualcosa di nostro. Un brand nostro. Ha sempre affiancato papà nel lavoro. Non voleva studiare. Non mi mandate a scuola diceva. Faccio tutto nel vigneto ma non mi fate studiare. La terra e il progetto di papà potevano anche essere qualcosa da far venire su piano piano. Come voleva il papà in fondo. Iniziai le superiori a fare il Geometra e sono uscito pure bene con 98/100. La scintilla c’è stata quando facevo il quinto superiore. Avevo legato con un professore che mi disse: mi hai detto che stai facendo la cantina, hai mai pensato di buttarti a capofitto in quel settore? Quello che stai studiando tu sta diventando una professione strana con tutta la burocrazia. Lui era vecchio e mi diceva che non provava più la stessa gioia degli inizi. Tra una settimana la scuola organizza una trasferta presso l’università politecnica delle Marche. Insomma una opportunità di conoscere qualcosa per il futuro. Samuele Io l’ho sempre detto che il caso muove il mondo. Spesso si pensa che certe cose accadano per intercessione di qualcuno, che qualcuno pensi a come modificare il mondo con ragionamenti così arzigogolati che possono trovare spazio solo nella mente di qualche terrapiattista. No, spesso le cose accadono per caso. Senza che lo vogliamo. Una volta lessi di una persona che si era fatta male ma molto male perché un cane gli era caduto addosso dopo un volo di quattro piani. Cosa è questo se non il caso? Mentre visitavo la facoltà di Agraria su consiglio del professore, mi fecero fare il test di ingresso dove io dissi: non sapevo qui si facesse un test di ingresso, non ho studiato nulla. Ma fallo! mi risposero. Male che fa lo rifai a settembre. L’ho provato. C’erano domande di biologia e scienze. Mentre tornavamo mi è arrivata l’email che avevo superato la prova ed ero stato ammesso alla facoltà di Agraria. Quando glielo dissi al professore mi disse che era un segno del destino. Fai tu ma sappi che nulla succede per caso. Decisi di fare agraria con la specializzazione in enologia. Li ho cambiato il punto di vista e ho capito l’obiettivo di vita. Mi sono buttato a capofitto nell’azienda. I malpensanti diranno che il professore ci mise lo zampino. Magari sarà pure stato così ma il mio lato romantico continua a farmi essere convinto che solo il fato può creare queste cose. Poi si, il libero arbitrio ci da comunque la possibilità di scegliere, ma è il caso che ci pone dinanzi a certe scelte. Da li ho fatto un tatuaggio sul braccio “alea iacta est”, il dado è tratto, perché avevo cambiato completamente strada. Comincia la sfida come disse cesare attraversando il Rubicone. Ecco dunque spiegato il perché di Giulio Cesare.
Eh, Simone è uno che pensa sempre verso il futuro. Come insegna papà Vittorio in fondo. Guardare alle cose non con l’occhio miope dell’oggi o del domani. Ma di parecchio in avanti. Un tatuaggio del genere, con questo significato, indica solo quanta voglia di sfidare il mondo abbia questo ragazzo e la sua famiglia. Un coraggio che li porta ad aspettare a lungo la prima vendemmia. Undici anni! Volevamo che il vigneto alla prima vendemmia fosse già solido e con un apparato radicale altrettanto solido. Poi ci sono voluti i tempi per la cantina. Nel frattempo conferivamo le uve alle cantine limitrofe. Ce le strapagavano perché erano uve di qualità. Ci pagavano la Passerina allo stesso prezzo del Pecorino pagato agli altri. In altri casi, nell’attesa di costruire la cantina, si va a vinificare presso altri. La passione vera di Vittorio non poteva però prevedere questa prospettiva. Si sarebbe tolto tutto il gusto di quegli odori che in qualche modo dovevano essere ad esclusivo godimento della sua famiglia. Abbiamo solo adesso ultimato il locale di lavorazione e dobbiamo finire quella turistica. Quando finiremo la cantina sarà vostra. Voi la vedrete nel pieno splendore e la tirerete avanti. Così ci diceva papà. Vittorio, un uomo che ha la sua impresa edile e lavora per questa. Ama il vino nella sua essenza. Quella essenza che deriva dalla terra e dall’opera dell’uomo. Dalla manualità di questo. Ama gli odori. Ama le sensazioni. Lui guarda al futuro. Sa che il tempo non gli concederà di godere a pieno quello che ha in mente. Poco importa, se lo godrà il sangue del suo sangue. Conta solo questo in fondo. Quando gli diciamo di chiamare qualche ditta per aiutarci a finire prima la cantina lui ci dice: no perché loro non lavorano come dico io e se io lavoro per me so come lavoriamo. Ci mettiamo più tempo ma sarà meglio. In effetti la cantina è splendida. Si capisce che è fatta con il cuore. Papà ha iniziato a 16 anni nella azienda edile. La sera quando stacca, sta in campagna. Cosa questa che ci ha trasmesso anche a noi. Io mi stacco da lui per gestire la cantina. Tranne nei momenti di raccolta dove siamo tutti in vigna. Fabio aiuta papà nei trattamenti e nelle lavorazioni con il trattore. È veramente abile mentre io quella abilità non la ho. Samuele alla fine studia Agraria ed Enologia ad Ancona ma è solo nella azienda di famiglia e da chi ne sa più di lui che impara. Quello che ho imparato sui libri è servito a poco. Soprattutto quando cerchi di fare prodotti differenti. L’ho trovato frequentando fiere e conoscendo persone. Facevo un pò la pulce ascoltando dalle persone. In cantina ho fatto esperimenti, rischiando perché abbiamo partite molto piccole. Mi piace la sperimentazione. Noi abbiamo quattro vini. Passerina, Pecorino, Montepulciano e Sangiovese più Cannonau. Per i primi tre l’obiettivo era di massimizzare la qualità di vitigni autoctoni con prodotti mono varietali senza bisogno di tagliarli con altro. Ovviamente i costi di produzione sono più alti. La battaglia più grande l’abbiamo vinta con la Passerina perché da tutti vista come vino semplice da aperitivo. Tutte le persone che venivano in cantina volevano iniziare con il Pecorino. Noi io inizio dalla Passerina. Uscivano con la scatola di Passerina. Ma li abbiamo sbalorditi. Prima di addentrarmi nella descrizione dei vini e, soprattutto dei metodi che Simone ha voluto utilizzare, è bene svelare il perché della citazione dantesca. Sin dall’inizio sapevamo che avremmo fatto vini alcolici ed importanti da vendemmia tardiva. Non di facile beva. Vini tannici. Belli colorati e strutturati. Cercavamo un nome importante. Il mercato italiano però è alla ricerca di vini immediati. Allora ci siamo resi conto che serviva un nome internazionale per andare a vendere il nostro vino all’estero. Abbiamo scelto il Cerbero perché il cane a tre teste rappresenta mio padre, mio fratello ed io che, uniti, vogliamo far crescere questa cantina. Cerbero ci rappresenta perché è uno dei personaggi della Divina Commedia conosciuta in tutto il mondo. Di impatto perché non è mansueto. Insomma da visione nefasta ancorché allegorica di Dante Alighieri alla positività della famiglia Rivosecchi. Un passaggio complicato ma che ci può stare. In realtà anche sul nome della Azienda Cerbero c’è molto che sa di futuro. Un nome che strizza l’occhio a qualcosa di altisonante e soprattutto internazionale. Cerbero come difesa di vitigni autoctoni ma anche all’attacco verso l’esterno per far comprendere come anche a Cupra Marittima si possano fare vini buoni. Se sei di Cupra Marittima infatti e vuoi produrre vino hai si il vantaggio di poterti affacciare sul mare Adriatico ma anche il grande svantaggio di essere a poca distanza dalla DOCG di Offida che con i suoi Pecorino, Passerina e Rosso Piceno (Montepulciano e Cabernet Sauvignon) esercita un discreto strapotere nelle Marche.
Poter dimostrare di essere non solo all’altezza dei vicini ma anche di poter esprimere qualcosa di unico, vuol dire andare all’attacco. Nel nostro primo obiettivo c’era la volontà di dimostrare che anche a Cupra Marittima riusciamo a fare vini di qualità rispetto a territori vicini già noti. Lo facciamo insieme a due cantine di Cupra. La prima è Oasi degli Angeli che produce il Kurni e il Kupra, due bottiglie famose e poi Macondo, una cantina che produce il Bianko che ha vinto parecchi premi. Anche le bottiglie e le etichette di Cerbero hanno una chiara impronta comunicativa. Tutte recano la ceralacca a protezione del tappo. Tutte non evidenziano il nome del vino ma solo quella della cantina. Per scoprire di che vino si tratta, occorre prenderla in mano e girarla. Non vi sembra una genialata di marketing? L’idea è nata dalla conversazione con un designer di Tolentino. Una persona con una storia. Ci diede il consiglio di prendere il brand e metterlo sulla bottiglia con una etichetta di impatto. Doveva essere riconoscibile sullo scaffale di una enoteca. Non leggendo che vino è il consumatore prende la bottiglia e se ne interessa. Ecco, qui è sintetizzato un pensiero strategico. Un modo di pensare verso il futuro. Qualcosa che non si ferma all’oggi ma si proietta verso il domani. Il tempo che scorre verso un obiettivo chiaro con prodotti che devono si rappresentare il territorio ma con qualcosa di diverso rispetto ai “vicini” come li chiama Simone.
Studiare e sperimentare per distinguersi.
Simone me lo ha già detto chiaro: i loro vini provengono tutti da surmaturazione.
Ma prima c’è il lavoro in vigna. Il lavoro, il passatempo, il relax, chiamatelo come volete di papà Vittorio coadiuvato da Fabio. Dall’origine si guarda al futuro. Dalla gestione della vigna. Due potature invernali ed estiva scegliendo i grappoli migliori per portarli alla vendemmia. Dalla potatura invernale impostiamo la vigna perché faccia una bella produzione. Al momento della invaiatura andiamo a togliere i grappoli in eccesso. La vite ha sviluppato un impianto vegetativo in grado di soddisfare molti più grappoli di quelli che lasciamo. L’apparato fogliare lavora per pochi grappoli arricchendo molto quest’ultimi. Poi facciamo la vendemmia tardiva. Una volta che il grappolo ha raggiunto la maturazione è la pianta che tira acqua dal grappolo. L’estrazione di acqua da parte della vite garantisce un maggiore arricchimento del grappolo. In cantina usiamo poi lieviti selezionati perché la cantina è nuova. Non mi sento di prendere il rischio ora. Un piccolo assaggio del modo di agire di questa azienda con le parole di Simone, pronunciate con grande padronanza. Senza la voglia di dimostrare di sapere ma solo con l’intento di far capire quanta passione e quanta arte la famiglia immette in questa avventura. Per la Passerina, come per gli altri, la raccolta è a mano selezionando i grappoli. Iniziamo all’alba e alle 10 siamo in cantina. Stratifichiamo l’uva con il ghiaccio secco. Mettiamo un telo a protezione creando così sotto una micro atmosfera. In un ambiente saturo di CO2 inizia la macerazione carbonica cosa questa che fa concentrare le sostanze. Poi pigiadiraspatrice per far uscire circa il 50% del mosto. Quindi mosto e pigiato insieme per la macerazione a freddo a 5 gradi per 15 giorni. La fermentazione ovviamente non parte. Facciamo la sgrondatura per gravità e andiamo in pressa a 0.6 bar per tirare via il fiore del mosto. Torniamo in limpidezza e abbastiamo la temperatura di un grado. La polpa estratta si decanta sul fondo come feccia non fermentata. Nella parte superiore del serbatoio, essendo a quasi zero, il liquido si cristallizza e questa parte serve come ulteriore arricchimento del mosto. La feccia viene separata dalla massa liquida e filtrata con un filtro a farina poi inserita nella massa. Spegniamo i gruppi frigo e a 11 gradi inoculiamo i lieviti selezionati per far partire la prima fermentazione fredda (mai sopra i 14 gradi). Successivamente facciamo un travaso post fermentazione. Da quel travaso fino all’imbottigliamento solo un altro travaso e nel mentre batonnage periodici (per la Passerina una volta al mese, per il Pecorino una volta al mese per i primi due mesi poi una volta ogni due mesi). In etichetta non c’è la certificazione biologica perché stiamo aspettando la certificazione della cantina. Il vigneto è bio dal 2014. La stabilizzazione del vino viene fatta solo con il freddo. Durante l’affinamento passa circa quattro mesi a sei gradi dove sul fondo cristallizzano tutti i tartrati. Come solforosa siamo bassi. Abbiamo avuto la soddisfazione di far ribere vino bianco a chi lo aveva abbandonato per i fastidì della solforosa. Siete riusciti a leggere tutto? Avete capito Simone? Gongola quando parla con me. Sa di aver fatto un buon lavoro e non posso non confermarlo.   L’assaggio della Passerina Beatrice (nomen omen) si rivela davvero interessante.
A Beatrice Dante Alighieri dedica forse la Divina Commedia. A lei la 𝘾𝙖𝙣𝙩𝙞𝙣𝙖 𝘾𝙚𝙧𝙗𝙚𝙧𝙤 dedica questo vino. Come la musa di Dante, è delicato già dai sentori, pungente come la Commedia. La frutta tropicale come il mango, il frutto della passione, l’ananas e la pesca. Lo iodio che spinge e punge a diventar balsamico. Poi fiori di biancospino, macchia mediterranea e mentuccia.
In bocca diventa freschezza sapida e calda. Una bocca pulita e lunga per via della persistenza. Pulizia e verticalità con un meraviglioso agrumato che termina con un che di vegetale ad impreziosirne il sorso.
Come tutti gli amori, va gustato alla giusta temperatura per evitare di diventare troppo amaro. Insomma, un vino da amare e da bere con la persona amata. Per farla/ farlo innamorare ancora e ancora. Il Pecorino è lavorato nello stesso modo tranne qualche parametro perché l’acino è più piccolo Se Beatrice, tenue ed eterea, si abbinava perfettamente alla Passerina, per il Pecorino, certamente più intenso e volitivo, serviva un nome di impatto. Caronte, il traghettatore delle anime!
Ne ho provati due, il 2021 e il 2022. Entrambi si presentano nel calice con un paglierino molto vicino al dorato. Scelgo di partire con il 22 che dona immediate sensazioni di piacevolezza grazie al connubio tra timo, salvia, lime e mentuccia impreziosito da un cenno di incenso. I frutti (pera Smith, mela, agrumi) spiccano per intensità con una maturazione ancora non perfetta. Poi miele e resina rendono burroso i sentori. Ciò che però mi ha meravigliato è un sentore di wasabi così intenso da fungere da incredibile balsamico.
Il 21 è molto più burroso e legnoso anche se non ha fatto legno. Le note sono meno fresche del 22 e la sensazione, pur mantenendone la stessa matrice, è di note più “cotte” dal sole (o dal tempo).
La differenza di “cottura” è chiara anche al sorso ancorché la matrice comune è la freschezza, l’avvolgenza e l’estrema pulizia di bocca finale. Freschezza e avvolgenza che sono rispettivamente maggiore e minore nel 22.
Insomma, il 22 pronto ma meno impegnato e meno strutturato; il 21 più complesso e avvolgente. Mi sono molto piaciuti per la piacevolezza in bocca, per la persistenza non eccessiva, per un gusto agrumato non invadente. Bellissime espressioni di Pecorino difficili da replicare. Due vini che sono certamente in grado di traghettare una cena scegliendoli opportunamente proprio come dicono i versi di Dante Per un’altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare;
più lieve legno convien che ti porti Per i rossi il discorso è diverso. Fermentazione alcolica in acciaio. Per il Sangiovese c’è un affinamento di sei mesi in legno nei mesi estivi. Rovere francese. Volevamo che la malolattica si facesse in botte così da avere sentori legnosi ma non aggressivi. Nella 2021 abbiamo ridotto la permanenza a quattro mesi per far spiccare meglio il frutto. Lo preferisco. Luca Maroni li ha valutato per il 2020 95/100. Un bel premio per essere la prima annata. Il primo rosso non può che essere dedicato al Maestro di Dante, Virgilio. Vitigno? Beh, per essere un Maestro occorre essere importante ma non altezzoso; comune ma non banale. Ecco che allora il Sangiovese si presta benissimo.
Un Sangiovese con vendemmia tardiva è già atipico. Coltivato su terreni calcarei e sassosi con influenza del mare, ancor di più. Quello che ne deriva è però qualcosa di intrigante, interessante, invitante.
Il colore di quello che ho provato, anno 2020, è di un rubino intenso, pulitissimo, quasi luminoso. Una piccola unghia porpora evidenzia la sua giovinezza.
Un delicato velo di balsamico apre il naso scoprendo piccoli frutti rossi con delle fragoline di bosco ad erigersi protagonista. Violetta e rosa canina si inseguono. Giaggiolo, prugna e ciliegie (quelle bianche e rosse) completano e addolciscono. Poi un lieve sottobosco rinfresca prima che le note di speziate e di tostatura (tabacco da pipa, chiodi di garofano, cannella, vaniglia) arrivino ad imprimere il loro timbro sensoriale. Sentori bilanciati, puliti e con una rotondità che evidenzia a pieno la surmaturazione. 
Il sorso invece è una vera sorpresa, come se il Maestro voglia farci capire che la complessità è sempre dietro l’angolo. L’immediata sensazione quando il vino arriva in bocca è di una stupenda aranciata. Il tannino è evidente ma piacevolissimo. Secco e non particolarmente caldo. Persistenza non lunga a sfatare il mito di una surmaturazione stucchevole. Non c’è particolare struttura, c’è tanto fascino intrigante. Il naso dice una cosa, il sorso ti spiazza.
Virgilio ne sarebbe entusiasta e, per quello che può valere, anche io.   Per il Dante, facciamo sempre vendemmia tardiva (siamo sulle 5 tonnellate per ettaro). L’unica piccola accortezza è andare con una pinza da ferramenta, quindici giorni prima della raccolta, a snervare i piccioli dei grappoli che secondo noi non sono ancora arrivati a maturazione. Questo termina il processo di scambio tra vite e grappolo facendo iniziare l’appassimento. Così si evitano sentori erbacei. Non c’è posto migliore di un appassimento in vigna. Così ci sono anche dei sentori di passito. Il vino di punta non poteva che essere dedicato al Sommo Poeta Dante. Tanto per ribadirne il valore, il vino è custodito in una bella confezione. La bottiglia è di quelle massicce dunque con un certo peso. Rispetto alle altre, il nome del vino, Dante, appare già sul frontale. Nel retro invece fa bella mostra l’immagine di Dante Alighieri. Davvero suggestiva. Già nel calice il vino da una bellissima impressione per quel suo colore rubino, vivo e luminoso: la vendemmia tardiva è li in bella mostra. 
I sentori avvolgono per la loro pastosità di una ciliegia, marasca, molto matura; prugna e melograno; mela cotta nella vaniglia e cannella con gli immancabili chiodi di garofano; cioccolato e tabacco. Poi un tocco di balsamico arriva a far aprire il naso consentendo di apprezzare ancor di più i meravigliosi e ampi sentori nonché l’inevitabile alcol tipico di una surmaturazione. Tutto è sapientemente bilanciato tanto che le evidenti note speziate non infastidiscono anzi, intrigano.
Il sorso lo definirei completo e grandioso. Fresco nonostante i suoi 4 anni (ho provato la 2020) e secco. Pastoso, perfettamente bilanciato con una piacevole altalenanza di note fresche e dolci. Ampio, grandemente ampio e d spessore, con le note fruttate che intrigano, meravigliano, stregano. Sembra di bere un Amarone che grazie al Montepulciano e soprattutto al Cannonau, risulta meno pastoso. Finale, lasciatemi dire, memorabile.
Può essere bevuto anche da solo purché non da soli. Una simile perla, va condivisa o, perlomeno, usata in meditazione In questo spicchio di terra, il mare dista solo 500 metri. I pendii formano una vallata che si apre verso il mare stesso consentendo ai venti dell’Adriatico di cullare i grappoli e le foglie delle viti. Qui un tempo molto ma molto remoto, c’era solo mare. Abbiamo trovato proprio le conchiglie nel sistemare i terreni. La componente iodata è pazzesca. Stiamo progettando di impiantare un nuovo vigneto a circa 2 km, completamente esposto alle correnti marine. Però stiamo facendo analizzare il terreno cosi da capire. Li impianteremo del Syrah e del Bordò. Bordò?
Alle volte le stranezze raccontano storie. Storie che occorre andare a ricercare nei ricordi di persone anziane. Di quelle che oggi non sono nemmeno ascoltate perché “vecchie”. Eppure io ancora oggi ricordo, dopo oltre cinquanta anni, le storie che mi raccontava nonno Antonio quando mi teneva sulle gambe dinanzi al camino. Impresse indelebilmente nella memoria. Lo ringrazio per questo ma devo ringraziare soprattutto i miei genitori che mi hanno insegnato ad ascoltare le persone anziane avendone rispetto.
Cupra Marittima come tutte le Marche erano nel passato culla di pastorizia. Al pari dell’Abruzzo insomma. Ma anche al pari della Sardegna. Regioni famose e note per le pecore al punto da creare scambi commerciali dedicate a queste. Nei ricordi dei pastori sardi e dei contadini marchigiani c’è proprio una vite che chiamavano “sa vide burda”, “questa vite selvatica”, una vite selvatica che cresceva vigorosa proprio in Sardegna e che, magari legata proprio al commercio degli ovini, arrivò nelle Marche oltre trecento anni fa. Solo che nelle Marche la lingua sarda non poteva certo trovare dignità così quel “burda” passando di bocca in bocca, diventa “bordò”. Nome legato al colore degli acini. Bordeaux.
Il Bordò, poco noto e certamente non fine per il nome dialettale che portava, venne via via espiantato a vantaggio del Montepulciano e del Sangiovese molto più commerciale e adatti alle cantine sociali della zona. Solo studi recenti hanno evidenziato come quello che poteva sembrare un vitigno autoctono marchigiano altro non era che il clone 158 del Grenache sardo, ovvero Cannonau. Grazie a pochi produttori locali che hanno compreso come il Bordò, alias Grenache, alias Alicante, alias Garnacha, alias Tocai rosso poteva trovare in questo territorio una espressione capace di dire la propria nel panorama enologico nazionale ed internazionale, è stato finalmente rivalutato. Si deve forse a Marco Casulanetti di Oasi degli Angeli l’aver ritrovato un vigneto abbandonato per produrre il suo Kupra. Un vino spettacolare. Vogliamo ricalcare il passato del territorio. Abbiamo trovato le marze e stiamo facendo fare la preparazione massale per impiantarlo nel nuovo vigneto. Cerbero, una azienda che attualmente produce circa 10.000 bottiglie l’anno, vinificando tutta la produzione con rese bassissime (degne del Bordeaux, quello francese…). Con il Bordò, quello marchigiano, arriveranno a circa 18.000 bottiglie. Poche, molte, non so. Di certo se manterranno (anzi aumenteranno come sostiene Samuele) il livello qualitativo, andranno lontano. Il nostro obiettivo è di far terminare il lavoro da costruttore a papà così che possa dedicarsi a pieno alla cantina e all’enoturismo. Lui dice che nel vigneto siamo lui, Fabio. io i cagnolini e le forbici mentre in cantiere è un gran casino. Ecco, questa è la famiglia Rivosecchi. Papà Vittorio è felice perché sta piano piano costruendo il suo sogno. Fabio è felice perché non ha dovuto studiare e può scorrazzare sul trattore. Simone è felice perché ha di che sperimentare e far si che il dado tratto sia sempre più di stimolo. Mamma Marianna forse è la più felice. Perché che ha tutti a casa così che la famiglia è sempre unita. A Simone, vista proprio la felicità che regna in famiglia, voglio dare un consiglio per un atro tatuaggio una frase di Marco Tullio Cicerone Qui beatus est, non intellego, quid requirat, ut sit beatior. Non comprendo cosa voglia cercare per essere più felice chi è già felice.   Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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