Suggestioni di Vino

Suggestioni di Vino è la rubrica che racconta le persone del vino. Della loro storia, dell’amore, della passione che inoculano nel vino. Perché il vino è materia viva e le persone ne sono il nutrimento.

Le incursioni enoiche di Ivan Vellucci, ingegnere e manager per dovere, ma soprattutto Sommelier raccontano con passione e trasporto, territori e produttori d’eccezione.
Ivan ci porta a conoscere realtà prima di tutto umane, dove il sorriso e l’ospitalità dei vignaioli sono lo specchio dei vini che producono. La rubrica Suggestioni di Vino propone ogni settimana  suggestive esplorazioni e scoperte enologiche, narrate con trasporto e partecipazione. Al lettore parrà di accompagnare Ivan in queste visite speciali e sarà stimolato a fare lo stesso: vivere il mondo del vino come un bambino, con lo stupore negli occhi e la magia nel bicchiere.

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15 Marzo, 2024

Arpepe. Il sangue inizia a parlare

Le storie delle famiglie hanno un non so che di magico. Ricordo quando mio nonno Antonio mi teneva sulle ginocchia dinanzi al fuoco del camino raccontandomi le storie di lui giovane, della campagna che era la sua passione nonostante dovesse andare ogni mattina a lavorare al cantiere della Centrale Nucleare del Garigliano. 40 km ad andare e 40 a tornare. In bici.  Ma non voglio perdermi nei ricordi perché questa non è la pagina per nonno Antonio. Dicevo delle storie delle famiglie. Quelle di un tempo. Quando c’era il capofamiglia. Quando ai figli maschi spettava il lavoro nei campi e alle donne quello di casa. La vita alla fine dell’800 non era semplice in campagna. Figuriamoci poi se i campi giacevano su piccoli lembi di terra strappati alle montagne: le terrazze. In Valtellina si coltivava e si coltiva così. Certo, non nei pascoli, non nelle valli. Ma quando la montagna inizia la sua salita, le terrazze sono l’unico modo per coltivare. Si coltivava per le necessità di casa ma anche per vendere i prodotti. Si coltivava per tutto. Anche per la vite. Incontro Isabella Pellizzatti Perego. Insieme ai fratelli Guido ed Emanuele gestiscono Arpepe, l’azienda di famiglia. Isabella è una di quelle persone che riesce a prenderti per mano e trasportarti nel suo mondo, nella storia della sua famiglia e di un padre verso il quale prova ancora un amore misto ad ammirazione. Sconfinati.  Papà Arturo, una vera Araba Fenice capaci di far rinascere l’azienda di famiglia ormai andata persa.  Simo in Valtellina dove il vino si produce dal tempo degli antichi romani e dove grazie ai monaci arriva stancamente fino al cinquecento. Solo in questo periodo, l’annessione della Valtellina al Cantone dei Grigioni determina il vero sviluppo vitivinicolo della zona. Mica scemi gli svizzeri. Scemi noi che abbiamo dovuto aspettare loro per decretare il successo di una zona meravigliosa. Almeno da un punto di vista commerciale. La successiva annessione alla Repubblica Cisalpina quindi all’Italia vive sulla traccia della strada aperta dagli svizzeri.  In questi anni, è il 1860, Giovanni Pellizzatti fonda la sua azienda per la produzione di vino.   Oggi, insieme ai miei fratelli Emanuele e Guido portiamo avanti l’azienda che è alla quinta generazione. Esiste dal 1860. Nel 1960 il nostro bisnonno Arturo, figlio di Giovanni, celebrò i 100 anni dell’azienda con uno tra i primi clienti svizzeri. La Svizzera è sempre stato un nostro naturale sbocco mercato. Non so come facesse il trisnonno Giovanni a commercializzare li il vino, magari a dorso d’asino, ma se ci riusciva il nonno anche noi potevamo. Le storie della famiglia Pellizzatti si intrecciano con quelle dell’Italia e della Valtellina. Salire faticosamente la china e scendere velocemente di quota è un attimo. Certo, se si parla di storia, gli attimi sono anni e negli anni la Valtellina ha visto le epidemie prima (oidio, peronospera e fillossera), le guerre poi, i trasferimenti verso le città. Tutto questo con il risultato di passare da oltre 8000 ettari vitati a circa 850 di oggi (dei quali 160 in mano ad un solo produttore, Nino Negri).  Epidemie e guerre a parte, basta venire da queste parti e alzare lo sguardo verso i pendii per capire il perché solo pochi ardimentosi si cimentano nella viticoltura. Eroica ovviamente.  Eppure oggi di ardimentosi ce ne sono sempre di più. Negli ultimi venti anni le aziende sono passate da venti a circa 50. Chi conferiva ha iniziato a produrre. Magari non ancora ad imbottigliare, ma ci si sta arrivando. In questo modo le micro vinificazioni valorizzano il territorio in tutte le sue sfaccettature: Inferno, Sassella, Grumello, Maroggia, Valgella. Zone tanto meravigliose quanto difficili, complicate e da basse rese: i disciplinari prevedono per il Rosso di Valtellina DOC, 10 quintali per ettaro che diventano 8 per il Valtellina Superiore DOCG. Rese da pazzi. Nel 1973 nonno si ammala avendo solo papà che lo aiutava mentre le altre persone in famiglia erano interessate solo alla proprietà. Nonno e papà decidono che la soluzione migliore è vendere le cantine. Inclusa quella odierna interamente scavata nella montagna e tale da garantire condizioni perfette di temperatura ed umidità. Odierna perché papà riuscì poi a ricomprarla. Vendono il vecchio marchio, Arturo Pellizzatti, creato dal bisnonno. Per fortuna non vendono le vigne che vengono invece divise tra tutti i membri della famiglia. Papà con la sua parte di vigna decide di ripartire. Erano state affittate per un tempo di dieci anni. Al termine dell’annata agraria 1983 riprende l’attività. Con l’84 riparte. Avendo venduta la cantina ne torna in possesso con difficoltà. Tutte le altre sono state oggetto di speculazione edilizia. Si salva solo quella. In queste poche righe c’è tutta la storia di una famiglia. Quella del papà di Isabella e dei suoi fratelli Emanuele e Guido.  Non è la prima volta che una azienda non resiste alla propria famiglia. Ne tantomeno sarà l’ultima. Quando viene a mancare il fondatore o la persona che ha portato avanti l’azienda per tanti anni, non è sempre detto che i figli abbiano la voglia di continuarne l’opera. Diverso è l’animo. Diverso è la concezione di futuro. Diverse le necessità economiche.  In questo caso però c’è una lungimiranza davvero notevole. Si può vendere la cantina perché, tanto, non c’è nessuno disposto a portare avanti l’attività. Nessuno tranne Arturo ovviamente che da solo non riuscirebbe mai a farcela. Si può vendere il marchio perché, tanto, non imbottigliando più tanto vale capitalizzare. Di certo, vendere le vigne sarebbe stato un sbaglio: almeno dall’affitto delle stesse ci si sarebbe ricavata una rendita (e i soldi non sarebbero stati sperperati subito).  Affittati per dieci anni. Dieci lunghi anni. Arturo, il papà di Isabella è uno di quelli tosti. Orgogliosi ma soprattutto con quella voglia di fare che ti brucia dentro fino all’anima. È per questo che deve fare qualcosa e riprendersi i suoi 6 ettari. Già, dei 50 iniziali ne sono rimasti solo 6! Arturo vuole ripartire e riparte. Aspettando dieci lunghi anni durante i quali, oltre che a rodersi il fegato, si da da fare come può. Come deve. Perché la famiglia da mantenere c’è.  Le vigne ci sono. La cantina è stata ricomprata. Manca il nome. Quello vecchio e storico non c’è più. Andato per sempre con la tristezza di non poter nemmeno utilizzare il proprio nome sulle proprie bottiglie. Allora utilizza l’acronimo Arturo Pellizzatti Perego. ArPePe.  Bene allora si può partire finalmente.  Ehm…no. Come no? Eh no perché Arturo ha una concezione tutta sua del vino. O meglio, ha la concezione di un vino che arriva dal passato, che deve essere aspettato per smussare le asperità di quel meraviglioso vitigno che è il Nebbiolo e che qui chiamano Chiavennasca (chiù vinasca, più vinoso).  Per sei anni lavora e vendemmia senza vendere neanche una bottiglia. Voleva produrre vino con lunghi invecchiamenti come faceva con il nonno. Papà aveva una piccola squadra che venivano per la maggior parte dalla vigna del nonno. Affiancato dalla mamma che lo aiutava per la parte amministrativa. Si improvviserà anche venditrice stupendo il papà per gli ottimi risultati. Furono anni difficilissimi. Ricomprare la cantina con i tassi del mutuo altissimi fu durissimo. Aveva affittato una parte della struttura perché era sovradimensionata per lui all’epoca. Affittò una parte della cantina ad un deposito di acque minerali.  Le parole di Isabella escono come un suono dalla sua bocca. Parlare del papà è come parlare delle radici della vite piantata proprio sui terreni calcarei di queste zone: si va in profondità, si scava piano piano, si arriva al cuore del nutrimento. In fondo. Tanto in fondo. Nel cuore e nell’animo. Quello che Isabella prova per il papà è un misto di ammirazione, amore, devozione.  Le prime bottiglie della neonata ArPePe arrivano a fine anni 90 quando il mondo del vino era qualcosa di profondamente diverso rispetto al passato. Supertuscan, tagli bordolesi, uso di botti, vini e vitigni internazionali. Altro che valorizzazione dei territori e del lavoro di piccoli vignaioli. Posso immaginare quanto sia stata dura andare avanti e farsi strada anche solo per sopravvivere.  Arturo aveva una idea e quella voleva realizzare. Senza sconti per nessuno. Meraviglioso! Io stavo facendo il liceo insieme a Guido. Abbiamo fatto il liceo classico. Emanuele che è dell’80 nell’84 trotterellava ancora. Papà con grande coraggio si mise in questa avventura. Era del 42 dunque a 40 anni riparte da zero. La mamma lo aiutò a ripartire.  Oggi siamo arrivati a 15 ettari. 9.5 nel cuore della Sassella storica, 4.5 nel Grumello ed il resto in zona Inferno. Quello che ho apprezzato di papà è che ci ha lasciato fare il percorso di studi senza mai mettere pressione.  Isabella dopo il liceo classico si trasferisce a Milano per studiare Scienze e Tecnologie alimentari specializzandosi con un Master in Enologia a Piacenza.  È il papà che la spinge ad accettare lo stage in Diageo nella vecchia sede della Cinzano.  Dal 97 al 2001 ho lavorato prendendo ferie per le fiere, le degustazioni importanti in azienda. Volevo esserci. Volevo essere al suo fianco per i momenti cruciali. È stata una bellissima palestra. Quello che ho visto e fatto in quattro anni vale per dieci.  Dopo 4 anni Isabella decide che è il momento delle scelte e della responsabilità. Tornare a casa per usare le propri energie nell’azienda di famiglia.  Anche per decidere autonomamente.  Papà volava. Mesi prima diceva di avere la segreta speranza che uno dei tre lo affiancasse. Ma senza mettere pressione. Il primo anno pieno fu il 2002 cercando di assorbire tutto da lui. L’idea era che, con papà che aveva sessanta anni, si sarebbero potute fare tante cose insieme. Lo seguivo in tutte le parti tecniche. Lui che aveva studiato a Conegliano Veneto era presente su tutto. E io su tutto lo aiutavo. Ma anche nella parte commerciale e amministrative.  In tutte le saghe familiari, quando tutto sembra andare per il meglio arriva sempre qualcosa che devasta. Un pò come quando pensi che gli acini stanno crescendo bene e che sarà una meravigliosa annata e invece arriva la grandine che fa portare al macero tutto il raccolto.  L’antivigilia di Natale ha un problema di salute e gli diagnosticano un tumore. Come accadde al nonno. Pochissime speranze di vita.  La prospettiva dell’azienda non può che cambiare drasticamente. Isabella è già dentro e per fortuna. Emanuele, al tempo 22 anni, comprende che anche per lui è arrivato il momento delle scelte. Pur avendo fatto un percorso diverso (geometra, seguendo le impronte materne alla quarta generazione di costruttori stava affiancando lo zio) decide di tuffarsi per dare una mano. La vigna era ancora al maschile. Papà si sobbarcava di tutti i trattamenti. Il lavoro era impegnativo e pesante e non avrei potuto fare tutto da sola. La cosa bella è che io penso che il sangue inizia a parlare. Emanuele infatti si innamora di tutto affiancando il papà nelle lavorazione della vigna e della cantina. Impara l’abc con lo spirito libero e non condizionato dagli studi. Tuttora lo guardo e gli dico: questo dove lo hai imparato? Ha studiato nella pratica e sui libri di papà. È più enologo di molti altri enologi.  Quanta intimità c’è in questo racconto. Ascoltando Isabella mi sembra quasi di essere un intruso nella loro vita. Ma non lo sono affatto. È proprio Isabella, con la sua grazia e con la tenerezza dei suoi ricordi a coinvolgermi. Lo fa ancor di più dicendomi delle parole del papà poco prima che morisse.  Poco prima che papà venisse a mancare (due anni dopo, prima di natale 2004), lui ci dirà: adesso io sono pronto. Se dovesse essere tra un mese un anno io sono pronto. È stato il suo testamento. Lo pensiamo felice perché portiamo avanti tutto questo all’ennesima potenza cercando di migliorarci mettendo in pratica tutto ciò che ci ha insegnato. Con la certezza che non vogliamo lasciare i fondamentali che ci ha dato. Quando è ripartito tra le mille difficoltà e forse nessuno avrebbe voluto che lui ripartisse, veniva guardato come l’ancien regime del gruppo. L’Arturo che ripartiva con vini tradizionali quando andavano vini che erano tutt’altro. A partire dal colore con la logica che ogni vino deve avere il suo colore. Senza tolettarlo. Senza mettere il fard. Per cui la grande soddisfazione è che i vini del territorio, guardati per anni come fumo negli occhi perché facevano vedere la verità a molti, adesso sono stati apprezzati a tutto tondo. Lui che era considerato l’ultimo è salito agli onori della cronaca postumo. Da qualche parte sta sorridendo.  Una storia raccontata di trasporto. Con grande enfasi. Con il papà ad aver trasmesso il rispetto della materia prima da cui proviene tutto. Il lavoro in vigna come primissima cosa per portare a casa la materia prima più sana possibile. Imparando ogni anno qualcosa di diverso che va raccontato proprio nella bottiglia.  Abbiamo la fortuna di avere il Nebbiolo, la nostra Chiavennasca. Vitigno fortissimo che ci deve insegnare tanto perché quando è in mezzo alle avversità da il meglio di se. Una pianta austera ma che ci regala tanto. Tutta la nostra trasformazione in cantina verte attorno a questo. Non vogliamo rovinare il frutto e la sua integrità in tutte le lavorazioni. Con le macchine di nuova generazione riusciamo a fare questo. Lasciamo l’acino il più integro possibile. Non pigiamo ma diraspiamo. Fermentazione ad acino intero in tini troncoconici piegati a vapore. Questo era un sogno che avevamo nel cassetto con papà che siamo riusciti a realizzare solo dal 2005 perché materialmente non c’erano le possibilità neanche di acquistare questi macchinari. Abbiamo acquistato poco per volta facendo i nostri esperimenti e verificando che quello che si diceva con papà era vero. Il legno è fondamentale per una micro ossigenazione. Non si vuole dare gusti ma solo ossigeno.  Il tempo è sempre il nostro grande amico. Papà ci ha insegnato a rischiare e saper aspettare per raggiungere la maturazione fenolica. Meglio qualche giorno in più che qualche giorno in meno. Il tempo ci deve accompagnare sempre anche nel corso dei lunghi affinamenti. Abbiamo sperimentato anche le lunghe macerazioni senza una ricetta. Occorre usare i propri sensi per capire cosa abbiamo tra le mani.  Isabella aspetta. Si sente in lei la calma serafica di un saggio cinese (valtellinese in questo caso), che aspetta. Senza fretta. Facendo le cose con calma. Senza correre. Senza affanno. Il papà ha aspettato tanto. Così tanto che il tempo che serve per attendere una vendemmia, attendere una macerazione o un affinamento di anni, non è nulla in confronto. Il giusto tempo del Nebbiolo bisogna saperlo aspettare.  I lunghi affinamenti non sono scritti da nessuna parte. Il disciplinare recita un minimo di 12 mesi in botte per il Valtellina DOCG Superiore (che diventano 24) più altri 12 in bottiglia. Alla ArPePe si va molto più su con il tempo. Noi seguiamo per le riserve il vecchio disciplinare che ci ha insegnato papà ovvero un minimo di cinque anni complessivo tra legno, cemento, acciaio e bottiglia. Noi le riserve le facciamo uscire mediamente dopo sei anni. Per noi è interessante cosi. Prima di tuto c’è la qualità dei nostri prodotti. Noi aspettiamo. È doveroso.  Doveroso. Mi rimbomba in mente questa parola. Mi distraggo un attimo dal racconto di Isabella ma non posso farci nulla. È davvero incredibile come ci siano principi forti come questi. Solo con questa parola finalmente capisco a pieno una cosa che ho visto raramente in un sito Internet. Già, perché ai più attenti non sarà sfuggito notare come nella pagina del sito ArPePe dove ci sono “I Nostri Vini”, proprio in fondo, magari un pò nascosto ma solo per timidezza, ci sia un allegato “annate_vini_arpepe_2022.pdf”: è la tabellina che riporta tutte le annate uscite dalla quale si evince come alcune annate non siano proprio state messe in commercio. Si certo, magari capita anche ad altre aziende. Però è doveroso non solo farlo ma anche dirlo. Ecco, quella parola mi riporta direttamente al link dell’allegato segno di una statura morale incredibile. Nel 2008, il sei luglio abbiamo subito una grandinata e abbiamo scelto, nonostante le fatiche immense, di non uscire con nulla. Non è uscita neanche una bottiglia di Rosso di Valtellina. Abbiamo prodotto meno del 20% che non ci soddisfaceva. Così abbiamo venduto il vino a qualche altro. Ma non siamo usciti. Totalmente saltata. Ci ha insegnato molto perché devi essere per forte per assorbire una annata del genere. Da qui i prezzi per la valorizzazione. La Valtellina ha dei costi abnormi per la produzione: abbiamo all’incirca 1500 ore per ettaro per anno mentre, in collina, con un pò di meccanizzazione, siamo intorno alle 500 ore per ettaro. Noi siamo tre volte tanto. È iniziato un lento progressivo lavoro di valorizzazione. È doveroso perché se uno vuole la qualità la devi far pagare.  Anche qui torna “doveroso”. Doveroso rispetto per il lavoro, per la materia prima, per il territorio, per gli investimenti, per la qualità. Per il lavoro.  Non so dire se i vini di ArPePe siano più o meno costosi rispetto ad altri. So di certo che, oltre ad essere fantastici prodotti, provengono da un territorio che si può capire se non vedendolo. Se riesci (perché non è semplice) vedere le viti dalle strade di fondovalle, intuisci qualcosa. Se poi ci sei vicino o addirittura sei sulla terrazza che ospita le viti, ecco, allora capisci quanto sia complicato, impervio e anche pericoloso lavorare li. Prima di mettere in commercio una annata ci pensi tre volte. Cerchi di dare la giusta dimensione alla annata. È la annata che decide. La prima annata nella quale nasce il rosso di Valtellina è il 2003. Papà fa in tempo ad approvare anche l’etichetta creata a mio marito che è architetto (piemontese che poi ha dato tanto aiuto per realizzare lo spazio di accoglienza per festeggiare i 150 anni). È stata l’etichetta che incarnava la nostra idea di un rosso facile da bere a spingerci a produrlo. Era nato per scherzo in quella annata nella quale l’Intera produzione era di facile beva. Siamo stati spiazzati da una annata del genere ma è stato importante farlo perché è diventato il nostro biglietto da visita. Oggi la gente ci scopre con quello e se piace quello viene voglia di assaggiare gli altri. ArPePe si estende su tre delle cinque zone della Valtellina: Sassella, Grumello e Inferno. Non è stata una scelta ma frutto semplicemente di quanto toccò ad Arturo in eredità. La filosofia dei figli è stata quella di continuare ad espandersi in zone limitrofe senza cercare di andare in altre. Una filosofa intelligente visto i costi che ci sono da queste parti. Sostenibilità. Se continueremo ad espanderci lo faremo in queste zone. Non ha senso spostarsi in altre zone. Ha senso consolidare e capire cosa succede accanto a noi. Nei momenti chiave io non manco mai. Poi visto che con papà mi sono dedicata la parte commerciale così come alla accoglienza, posso dire che quello che non era il mio ruolo poi lo è diventato. Mio fratello lo ha affiancato nella vigna e in produzione. Quindi è li. L’altro fratello, Guido, lavora con noi ma in remoto. Lui è architetto e ha studiato più comunicazione per l’architettura. Così si occupa di comunicazione per un gruppo bancario. È lui che è dietro il sito e i social media. Ci aiuta da remoto amplificando quello che facciamo. È sempre al nostro fianco. Isabella ama in maniera sconfinata il suo lavoro, la sua azienda, le sue uve. Così come ama i suoi prodotti provenienti da questo Nebbiolo delle alpi dotati di freschezza e mineralità con il frutto della montagna che si riesce a cogliere, pieno e integro nel bicchiere. Devi chiudere gli occhi e vedere la pendenza e la ripidità della montagna che gli sta dietro. Questo deve essere il minimo comune denominatore di tutti. Dopodiché c’è la bellezza di scoprire ogni singola vigna, ogni singola particella. Ogni tanto scherziamo che dovremmo far il vino per ogni terrazzino. Sarebbe la paranoia totale ma è veramente cosi perché ogni angolo ha la sua espressione. Una vigna viene divisa in due botti e ogni botte ha la sua faccia ed è lievemente diversa dell’altra. È una gioia immensa quando ti trovi con le botti e te la ridi perché è il bello di quello che facciamo.  In queste parole c’è non solo il bello di questo amore. C’è la meraviglia e lo stupore di chi riesce a fare e guardare le cose con gli occhi incantati di un bambino. Così, come un bambino sorride quando riesce a farsi capire con la sua lallazione, allo steso modo Isabella e i suoi fratelli quando ciò che loro percepiscono viene riconosciuto anche da una persona che beve un loro vino.  Nessuna voglia di fare qualcosa di diverso. Nessuna voglia di cedere alle sirene delle novità, bollicine in testa. Il solo pensiero di espiantare qualche pianta di Nebbiolo per sostituirla con qualche altra diventa un colpo al cuore per Isabella.  La nostra direzione è chiara. I rosati vanno magari un sacco ma non mi interessa niente. Preferisco fare più bottiglie di Rosso di Valtellina. Una azienda solida e ben determinata che difficilmente si incontra. Una azienda che può sembrare ferma nel solco della tradizione ma non è affatto così. Ogni annata è certamente diversa. Ogni vino è certamente diverso ma occorre sempre migliorarsi. Isabella, Emanuele, Guido, lo sanno bene. Sanno bene che il sogno del papà non è ancora compiuto. Nulla è mai compiuto perché c’è sempre da migliorarsi ma è bello che abbiamo dato più voce e più spazio al suo disegno. Non è un quadro finito e non lo sarà mai. Faremo del nostro meglio con le generazioni che verranno che aggiungeranno nuovi tasselli e nuove sfaccettature. Tempo al tempo. Il giusto tempo ci darà le risposte e non dobbiamo avere fretta. Il futuro è con le stesse etichette ma magari con nuove singole vigne. È più facile nascano altre riserve per raggiungere tavole sempre più belle in giro per il mondo. Sono contenta quando una nuova nazione ci viene a cercare. La nostra produzione è piccola perché quando siamo fortunati siamo sulle 100/110 mila bottiglie.  Non abbiamo mai parlato dei vini di ArPePe in queste pagine e non intendo farlo alla fine. Sono vini che vanno scoperti più che raccontati. Espressioni di singole vigne certo ma espressione delle montagne e delle loro pendenze. Bevendoli si potrà apprezzare la loro estrema prontezza nonostante derivino dal Dio Nebbiolo (o Chiavennasca) che in altri palcoscenici assume sembianze totalmente diverse e maggiormente spigolosi. Qui, la grande mineralità offerta dal territorio, il gioco delle temperature e, soprattutto, la lunga attesa, rendono i vini falsamente facili. Falsamente perché in essi si ritrova la complessità del Dio Nebbiolo (o Chiavennasca) legata alla immediatezza del gusto. Per tutto il resto, posso solo augurare a tutti noi che ArPePe non cambi mai questa filosofia. L’Italia ha bisogno di realtà come questa.   Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969    
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8 Marzo, 2024

Tenuta Santo Stasi. Rosario torna a casa

Nostalgia, nostalgia canaglia…… Che succede?
Succede che sono tornati insieme. 
Ma chi?
Come chi. Sono tornati insieme. Insieme. E io non sapevo nulla….mi sono perso tutto questo.  È proprio vero che la vita è tutta un film. O forse sono i film che raccontano, semplicemente la vita, le storie delle persone. Ricordo che Carlo Verdone diceva sempre che le sue caricature, i suoi personaggi erano ispirati a persone vere. Osservare la realtà. Basta solo questo. Non guardare il cellulare ma alzare lo sguardo per capire le vite delle persone che ci sono intorno. Ascoltare, parlare. Riempirsi di tanta umanità. Non so se Checco Zalone per il suo film “Quo vado?” si sia ispirato ad una o più storie vere. Ciò che so è che parlando con Rosario Epifani la scena che ho avuto dinanzi agli occhi era proprio quella del prologo. Oltre all’immagine di Checco Zalone con il pizzetto biondo da vichingo (bene inteso che Rosario non ce l’ha!). Rosario Epifani è il titolare della Tenuta Santo Stasi. Siamo a Sava un comune nemmeno tanto piccolo a circa 30 km da Taranto e a soli 6 da Manduria, la patria di quel meraviglioso e versatile vitigno che è il Primitivo. Di Manduria appunto. La faccia sorridente, l’animo mite. Riservato e anche impacciato per certi versi. Ma sereno. Così è Rosario. Eppure, se vai a scavare, come al solito, le persone riservano mille sorprese. Che Rosario abbia un fisico da atleta te ne accorgi subito. Quando poi ti dice che è stato un calciatore in varie squadre italiane a livello giovanile, inizi a capire. Anche professionista nella Serie B svedese.  Prego? Svezia? In che senso? Sono nativo di qua ma sono stato fuori parecchio. Anche a Perugia a studiare giurisprudenza. La mia testa mi porta a fare cose diverse e così me ne sono andato 9 anni a Stoccolma. Andai a salutare un amica e sono rimasto 9 anni. Li giocavo a pallone ma non è che si può solo giocare a pallone. Bisogna fare anche altro. Mi sono diplomato (in lingua svedese) e mi sono iscritto all’università, ingegneria civile. Mi mancavano pochi esami ma ho deciso di tornare in italia perché comunque sia prima o poi in italia ci sarei tornato. Pari pari Checco Zalone. Ti invaghisci della svedese prima, della Svezia poi. Ma prima o poi qualcosa inesorabilmente scatta. Non è fisicamente possibile per un italiano, del sud poi, vivere li. Troppo perfetto, oltre che freddo. E poi, senza Albano e Romina e il Festival di Sanremo!!! Rosario decide che è meglio tornare in Italia e finire l’università a Bari.  Qui si incastra nelle maglie burocrazia italiana e nelle deficienza di qualcuno che promette la convalida degli esami a fronte della rinuncia agli studi.  Dopo anni di attesa il Rettore che mi aveva convinto a fare la rinuncia agli studi promettendomi che mi avrebbe convalidato tutti gli esami non me ne convalidò nemmeno uno. Nemmeno quello di inglese. Dopo un anno decisi di smettere. Non mi andava di ricominciare tutto daccapo a 27 anni. In Svezia avevo fatto 24 esami. Io ero uno studente svedese in pratica.  Potrei partire con una invettiva contro qualcuno, ma lasciamo perdere. Dico solo che in Italia se ti laurei all’estero, anche in università farlocche, va tutto bene. Ma se provi a tornare nel mentre, sei spacciato.  24 esami di ingegneria buttati. Un sacrilegio. Ma non è che puoi lottare contro i mulini a vento.  Rosario si dispiace e rammarica. Mica tanto però. A lui piaceva fare altro. Piaceva e voleva stare in campagna.  Volevo stare in campagna. Non ci sono arrivato subito. I miei zii erano agricoltori. Grossi agricoltori ma non mi è stato mai concesso andare in campagna. Ero il primo figlio, il primo nipote e avrei dovuto fare una vita diversa. Quando loro andavano al lavoro, partivano di notte perché altrimenti io mi infilavo in qualche cabina con loro.  Tornato a Sava, qualcosa si deve pure inventare. Vorrebbe la terra ma non ci sono i soldi. Decide allora di aprire un supermercato utilizzando i soldi dei piani di sviluppo (Sviluppo Italia).  Mi andò bene. Appena risparmiavo qualcosa, compravo qualche terreno. Per la felicità di mia moglie che mi ucciderebbe anche ora. Nel frattempo infatti mi sono anche sposato con Antonella, che all’epoca aveva una bellissima bambina, Alena, di due anni e che ora ne ha 18. Poi è nato Mathias, 8 anni.  Il supermercato Rosario lo apre partendo da zero. Giocava a calcio ed era studente; in Svezia professionista si, ma sempre in Svezia. In sostanza, soldi pochi, davvero pochi.  Dura 12 anni il supermercato. Di più Rosario non riusciva a tenerlo. Un pò le difficoltà nel trovare le persone, un pò le terre che si accumulavano e lo richiamavano inesorabilmente. Nel 2022 decide di cederlo.  Abbiamo deciso di venderlo perché avevo 10 ettari di terreno. Avevo già un pò di terra, tre ettari da mio suocero. l resto li ho comprati. Circa 7 ettari sui quali ho impiantato vigneto. Rosario non compra per investimento ma per qualcosa “che non potevo scegliere”.  La prima vendemmia arriva nel 2021. C’era già da tempo nell’aria l’idea di vendere il negozio e programmare il futuro è stato più facile. Sono socio di una cantina a Sava e quindi conferivo le uve. Non un granché perché avevo i 3 ettari di mio suocero con vigne molto vecchie che non espianterò mai, mentre i restanti erano liberi e ho piantato da zero.  3 ettari di vigne storiche di circa 50 anni. Quelle di famiglia. 7 ettari impiantati da zero con primo impianto nel 2018. Fin qui le basi. Agricole ovviamente. Che poi è quello che ama fare Rosario.  Che tipo che è Rosario! Parlando con lui si percepisce come nelle terre, tra i filari, nella solitudine del mestiere, abbia trovato il suo spazio. Il suo mondo. La sua identità.  Il vino certamente gli interessa e pure tanto poiché quello vuole fare. Ma la terra, lui la terra la ama. Ama le piante che cura ad una ad una senza identificarsi propriamente in una terminologia ormai collaudata. Convenzionale? Biologico? Biodinamico? Integrata? Io guardo pianta per pianta. Quasi le conosco. Cerco di aiutarle a crescere nel modo più corretto. Assecondo ogni loro bisogno. La loro voglia di crescere. Nei miei vigneti ci devo stare io e non voglio usare nulla per far seccare l’erba. Non faccio tutto con la zappa. Se non è necessario dare qualcosa, non lo do. Uso prodotti biologici perché non mi piacciono quelli chimici. La natura non è nata con il chimico. Cerco di fare il meglio per le piante. Il modo più semplice possibile. Alle volte diamo per scontato delle parole non prestando attenzione al vero significato delle stesse.  Quando una persona lavora in campagna da solo, vivendo della terra e dei suoi frutti, prendendosi cura delle piante ma anche di se stessi, allora, non c’è filosofia o terminologia che tenga. Conta solo quanta passione e lavoro e sudore e caparbietà ci si mette nelle cose.  In fondo, se nostro figlio deve prendere un antibiotico, non è che non glielo diamo perché è chimico. Allo stesso modo, usando sempre e preferibilmente prodotti e rimedi naturali, qualcosa alla pianta ogni tanto bisogna dare.  Tutti i miei sforzi erano atti ad imparare come si conduce un vigneto. Qui è diventata normale che le persone si fanno fare conto terzi. A me piace viverlo il vigneto. Adesso faccio tutto io. È complicato. Ogni tanto qualcuno mi aiuta. La potatura secca e qualcosa di più importante la faccio solo io. Ho imparato inizialmente da mio suocero però aveva tecniche talmente antiche che non si sposano più con le situazioni moderne. Ora va tutto più velocemente. Ora non è cosi. Dieci ettari prima erano impensabili. Ho guardato mio suocero per quattro cinque anni. Poi ho preso una persona e l’ho pagata per guardarlo lavorare. Lo fermavo in continuazione per spiegarmi cosa stesse facendo. La spiegazione si può fare anche sui libri ma all’atto pratico cambia.  Umiltà. Ci vuole tanta umiltà nella vita. Ci si può reinventare certo. Si può cambiare andando in Svezia o in Norvegia ma una volta li, la lingua la devi imparare e per farlo devi sudare ed essere umile. In campagna è la stessa cosa. Devi studiare la lingua delle piante. Entrare in simbiosi con loro capendone l’essenza. Senza dimenticare la loro fonte di nutrimento: il terreno. Un complesso ecosistema che muta con le stagioni e con gli anni per via di una moltitudine di fattori esogeni.  Poche, pochissime bottiglie prodotte da Rosario. Il resto è uva da conferire.  Sapete quale è il bello però? È che ho avuto come l’impressione che ne produca poche perché non è che gli vada tanto di andare in giro a venderle.  I contatti e la conoscenza della lingua al nord Europa fanno si che riesca ad esportare gran parte della produzione. Il resto tocca venderlo in zona togliendo tempo alla campagna. Tre etichette da due vitigni emblema della Puglia: Fiano per il bianco, Primitivo per rosato e rosso. Semplice. Semplicissimo e senza fronzoli. Come le etichette. Un solo nome per tre vini: Feeling.   Se avessi fatto solo un vino sarebbe stato complicato per la commercializzazione. A me piace l’agricoltura e invece mi devo necessariamente concentrare sulla vendita. Giro i locali per vendere il vino e devo farlo in continuazione. Il tempo non lo ho. Ho iniziato a fare qualche fiera in Estonia e in Danimarca con mia moglie. Mi fanno un quantitativo di vino che posso esportare. Nessuno mi conosce qui. Non ho vinto premi. Devo migliorare un sacco. Con tre etichette sono più credibile. In cantina ovviamente c’è un enologo al quale Rosario è arrivato tramite amici. Si è fatto guidare nella produzione denotando un ulteriore livello di umiltà. Umile si ma con tante idee in mente. Per indole ho sempre un sacco di idee. In silenzio perché sono taciturno. Mi frullano le idee. Mi fido di questo ragazzo anche se il mio obiettivo non è fare solo questo tipo di vino. In questo momento mi sono lasciato trascinare. Il passaggio in botte ad esempio lo ha scelto l’enologo. Neanche con tanti mesi. Bisogna fidarsi. Ci sono tanti tuttologi. Il rosato nasce da una necessità commerciale ma anche naturale. Poi il Fiano emblema della Puglia.  Il nome è colpa di Antonella. Affidarsi ad una agenzia per la realizzazione dell’etichetta e la scelta del nome è stato un passo obbligato. Peccato che i tempi si sono allungati e per fare prima si è usata la stessa etichetta anche se con colore diverso e stesso nome.  Perchè Feeling? Io penso di saperlo. Mi ha fatto una proposta e l’ho accettato di buon cuore. C’è molta complicità tra me e mia moglie in tutto ciò che facciamo. Pur essendo completamente diversa. Forse è per quello. Se invece vi starete chiedendo da dove arriva il nome della Tenuta, ovvero Santo Stasi, anche qui, è nato un pò per gioco un pò per caso. Come in molte delle cose di Rosario. Certo, lui dice sempre così, ma io mica ci credo più di tanto.  Il nome dell’azienda è il nome di una contrada dove sta il primo appezzamento che acquistai. Vicino a mio suocero che è ancora bello forte di tempra. Per lui eravamo diventati grandi imprenditori così che mia moglie lo prendeva in giro dicendo “guarda che tenuta abbiamo comprato” e lui si arrabbiava ancora di più. Così la abbiamo chiamato Tenuta Santo Stasi. Solo che mio suocero non beve il mio vino. Lui fa il vino per conto suo. A casa. E non berrebbe mai il mio vino. Ha detto “non ha niente a che vedere con il mio” Di sogni nel cassetto Rosario sembra non averne. Fatta eccezione per la voglia di fare un Primitivo forte e longevo. Forte nel senso di almeno 15 gradi e longevo che possa durare oltre i dieci anni.  Sotto sotto però lui, che è uno di quelli che nella solitudine della campagna pensa e sogna, sogna e pensa, di idee ne ha da tirare fuori.  Come quella di vinificare tutta la sua produzione. Anche se poi si snaturerebbe un pò. Dovrebbe stare quasi più in cantina che in vigna.  Mai dire mai. Di certo, la cosa più bella di questa chiacchierata è vedere la serenità di una persona, Rosario, che ha trovato il suo spazio. Mettersi alle spalle il calcio (non ci gioca proprio più), la Svezia e una laurea mancata per poco (un pò gli brucia ancora), non renderebbe sereno nessuno. Nessuno tranne Rosario. Una serenità, schiettezza e umiltà che ho ritrovato nei suoi vini a cominciare dal Primitivo DOP. Un vino che (la recensione è sul mio blog) ha un unico difetto: crea dipendenza! Anche se, come dice lui, si è fatto guidare dall’enologo per produrli, l’amore che ha per la terra e le piante ha certamente contribuito a portare in cantina uve perfette. Lui non lo dirà mai perché tende a minimizzare. Adesso ho 42 anni. Sono nato annusando la campagna. Da piccolino ero io tra i tanti nipoti ad andare ad aiutare nonna a fare i pomodori. Che cosa vuoi fare da grande? Il veterinario o il fruttivendolo. Ma come? L’avvocato o l’ingegnere devi fare. E invece Rosario si è trovato, per scelta e direi vocazione, a fare il vignaiolo. Anzi, contadino prima, vignaiolo poi.  Per chiudere e augurare a Rosario di continuare a vivere il suo sogno e noi di poter continuare a bere i suoi ottimi vini (dunque Rosario non smettere!!) mi è venuta in mente un’altra frase sempre del film di Checco Zalone “Quo vado?” quando va a mangiare in un ristorante pseudo italiano e, scioccato dalla assoluta lontananza del gusto da quello italiano, si fa dare dal ristoratore una scala e un giravite. Con questi smonta l’insegna del locale e grida al proprietario del locale:  Non si scrive l’Italia invano. Sei un vichingo. Sei un vichingo. Perché chiudo così? Perché sono convinto che la terra vada coltivata solo ed esclusivamente da coloro che la amano. Come Rosario.     Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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1 Marzo, 2024

Edoardo Ceri: farò il miglior vino al mondo

Quante bischerate si fanno da ragazzi. Magari ci si lascia influenzare dal “branco” e si finisce nei guai senza neanche saperne il perché. Disagi. Disagi della crescita. Disagi in famiglia. Disagi nella vita.  Da giovani poi non si è ancora capito quale sia la propria strada che, si spera o almeno i genitori lo sperano, sia diversa da quella che si frequenta con gli amici. Facendo bischerate.  Occorre però guardare dietro, nel passato, per capire certe cose. Per avere delle spiegazioni. Senza dare giudizi di nessun genere. Solo per capire. Edoardo Ceri ha solo dieci anni quando i genitori decidono si separarsi. Capita. Capita a molti. Spesso è la cosa migliore anche per i figli. Solo che loro lo capiscono dopo e nel frattempo, alcuni di questi, vivono nel disagio.  Il disagio è una sensazione che ho parlando con Edoardo. Spero che non me ne voglia a male leggendo queste righe. Ma è quello che ho percepito dalle sue parole.  Un bambino di dieci anni che vede un padre tanto più grande di lui e non solo in termini anagrafici; una madre meravigliosa con una vita da gestire tra tante difficoltà; una nonna di quelle toste che sopperisce a molte mancanze. Ci piaceva tanto stare per la strada. Fare le cose di strada. Si facevano le cose che si fanno a quella età li. Non cose di cultura. Bischerate. Non sono mai stato un buonissimo studente. Mio padre si diede da fare per darmi una strada. All’inizio nella sua attività. Mia madre era molto brava ma poco presente. Mi faceva stare con mia nonna che aveva due palle grosse così e mi ha tenuto fermo. Altrimenti potevo essere un’altra persona oggi. La ringrazio molto.  Il papà di Edoardo non è uno qualsiasi. È Luca Ceri che, per chi si occupa di architettura (specialmente di interni), è una punto di riferimento. Nel 1991 crea lo Studio Ceri e realizza progetti in tutto il mondo.  Un tecnico, un creativo, un professionista, un imprenditore. Ecco, io me lo immagino Edoardo. Il mito del padre, l’ombra del padre. La paura di non essere mai come lui.  Non sono psicologo ne mi permetto di esserlo. Però dalle parole di Edoardo, dal suo tono di voce, percepire questo, è stato immediato. È l’inizio della storia però. L’inizio di un qualcosa che per Edoardo è quasi una rinascita. In tanti sensi.  Nel 2006 infatti, quando Edoardo aveva 17 anni, Luca decide di acquistare un podere a Carmignano. Si era appassionato della vigna e quello sembrava essere, oltre che un ottimo investimento, anche un modo per, magari, avviare il figlio a qualcosa.  Quel qualcosa arriva inaspettato tanto per Luca quanto per Edoardo.  Era il 2006 e io avevo 17 anni. Mi sono voluto rivalere sul babbo dimostrando che anche io ero capace di fare certe cose. Così ho rimesso mano a tutto. Piano piano. Dal 2010 ad oggi. È stato veramente un tassello per volta. Un tassello per volta. Un tassello per volta. Edoardo inizia a lavorare in azienda da quasi subito. 35 ettari di proprietà. Tanti, forse troppi per uno come lui che non è abituato a questa vita. Eppure ci si dedica. Lo appassiona. Lo prende.  Prende le redini dell’azienda nel 2014 perché ha un sogno. Un sogno come lo hanno in molti magari. Ma è un sogno e sognare non costa nulla.  Mi sono dato l’obiettivo di creare veramente il vino più buono del mondo. Io farò il vino più buon del mondo. Lo farò. Non tra dieci anni, non tra venti anni, non tra trenta anni, ma lo farò. Avrò 80 anni ma lo farò. Su Wine Spectator il vino più buono del mondo sarà il mio.  Ora, ai più queste potranno sembrare le parole di un giovane che sta sognando sapendo di sognare. Parole gettate al vento da uno che è borioso. Un figlio di papà che non sa cosa sta dicendo.  Edoardo non è così. È una persona umilissima. Di quelle che non parlano mai a voce alta ne dicono cose nelle quali non credono. Fermamente. Edoardo vuole realizzare il suo sogno. Non solo per una “rivalsa” come la chiama lui verso il padre. Lo vuole per lasciare qualcosa a sua figlia e alla sua famiglia.  Come è potente un sogno. Come è potente la terra. Come è potente la vite. Così come quest’ultima penetra con le sue radici il terreno per trovare il nutrimento anche a metri di profondità, è penetrata nell’animo di Edoardo. Per fargli trovare una strada prima, un sogno poi. Ho preso le orme iniziali di papà e poi mi sono più affinato al lavoro, alla vigna, alla cantina. Lui aveva i vigneti per produrre e vendere uva. Io ho iniziato ad imbottigliare chiamando anche altri personaggi del mondo del vino come agronomi ed enologi per gestire meglio la cosa. La grande proprietà della Tenuta Ceri, non può che conferire l’uva. 35 ettari non si gestiscono facilmente. Eppure il territorio di Carmignano è di quelli incredibili dove l’uva è spettacolare e ciò che se ne produce ancor di più.  Vedevo tutta questa uva spettacolare che veniva venduta a poco prezzo. Mi piangeva il cuore. Facciamo qualcosa anche noi mi sono detto. Era più una questione morale che passione. Assistere al cambiamento di Edoardo, a questa infusione di viticoltura, di passione e amore per la vigna ed il vino, deve essere stato per chi lo osservava, fantastico. Incredibile. Anche perché lui vuole imparare per creare. È quasi elettrico. Ha necessità di realizzare qualcosa di incredibile.  Sono andato a fare una esperienza a Castello Banfi a Montalcino dove ho fatto il cantiniere. Ho capito come si gestisce a pieno la pulizia della cantina. Si faceva mattina, pomeriggio e sera. La disciplina dello stare in cantina. In un mese avevo capito come fare. Se papà Luca, al ritorno di Edoardo dall’esperienza esterna, decide di assecondarlo nell’acquisto delle attrezzature per produrre vino, è perché ha capito il cambiamento. Capisce quanto Edoardo abbia voglia di spaccare il mondo.  Nel 2016 ho fatto la mia prima vinificazione. Nel mentre ho fatto delle prove in altre cantine a Carmignano. All’inizio ero un pò discolo. Ero cosi cosi, come la tenuta. Poi è cresciuta in base al mio giudizio e la fiducia è cresciuta di pari passo con l’interesse che mettevo nell’azienda.  Edoardo fa il passo e si fa avanti per gestire lui in prima persona tutto. Se la sente sua l’azienda come suo il progetto. Inizia a fare i vini e gli vengono anche bene.  Anche prima che facevo questi vini di garage, venivano bene. Erano fatti da qualcuno che non aveva mai fatto niente nella vita. Venivano bene. Si sentiva la sapidità, acidità, alcolicità, tannino. Lavorato bene. Una bella maturazione. Le persone, non tutte certo, mi davano dei pareri positivi.  Edoardo incappa in uno di quei simpatici enologi che consigliano, ai più sprovveduti, di mettere nel vino tutto ciò che la legge consente (poi ci si lamenta delle inchieste di Report…).  Tutto ciò che bisognava aggiungere all’uva, io l’aggiungevo. Nutrienti, tannini, solforosa, lieviti selezionati, correzioni di acidità, acido ascorbico, acido succinico. Tutto. Venivano fuori vini buoni ma simili ad altri vini. Questa cosa non mi piaceva.  Edoardo è lucido. Non vuole scorciatoie. Non vuole vini omologati. Il suo sogno non è questo. Lui ha bisogno di altro. Se bara, se fa qualcosa che non lo faccia riconoscere, ha perso in partenza. E lo sa. Non può dunque che ripartire dalla campagna e dalla vigna.  Ho iniziato a lavorare con l’uva in campagna pensando al prodotto che verrà fatto senza aggiungere nulla in cantina. Prevedendo l’epoca di vendemmia per capire come gestire l’uva in cantina.  Carmignano è un territorio importante. Una zona meravigliosa con nobili espressioni di vini che devono essere aspettati. Ecco, Edoardo non vuole aspettare. Non ci riesce perché ha fretta di realizzare il suo sogno. Ma impara anche da questo. All’inizio occorreva aspettare il vino. Ero sempre ad assaggiare il vino. L’ho gestita sempre in maniera frenetica. L’attesa è veramente una ‘osa cruciale che ho imparato nel tempo. Restando tranquillo senza affrettarsi a fare le cose. Vederle con lungimiranza. Ho alle spalle 13 vendemmie dal 2010 ad oggi. Ci sono momenti da fare le cose veloci e dei momenti le cose con più esperienza e calma. Invece di fare le cose oggi, aspetti domani cosi la fai meglio. Facevo tutto prima e sbagliavo. Si evolve Edoardo. Come un buon vino. Matura. Cresce. Nell’animo e nello spirito.  Quel bischero che era da ragazzino non c’è più. C’è un uomo che affronta la vita con il ritmo della natura. La campagna. Li le lavorazioni meccaniche tu alle volte le azzecchi, alle volte no. Si mettan le barbatelle di marzo. Dopo una settimana iniziano a germogliare e arriva la gelata. Così partono le madonne. Anche perché arriva quello che dice “dovevi aspettare”. E grazie! L’anno dopo dici: le pianto ad aprile cosi evito le ghiacciate. Che succede? Che marzo non viene le ghiacciate, piove. Bene. Da aprile in poi non piove per un mese e mezzo e le barbatelline non ce la fanno. È una lotteria. Quattro i vini prodotti da Edoardo. Barbocchio da Sangiovese (70%), Cabernet Sauvignon (20%) e Merlot (10%) con sei mesi di botte da 20 hl per il 50% della massa. Un vino di ingresso. Con carattere. Rigoccioli, il Carmignano DOCG con Sangiovese (90%) e Cabernet Sauvignon (10%) che riposa in botti da 20 hl per 12 mesi. Qui il carattere aumenta. Le Barze, da Cabernet Sauvignon (70%) e Sangiovese (70%) a riposo per 12 mesi sulle fecce fini per regalare fascino. L’Arrendevole, la Riserva di Carmignano DOCG con Sangiovese (90%) e Cabernet Sauvignon (10%), 18 mesi in botti da 20 hl per realizzare un vero capolavoro (sul mio blog Instagram la recensione completa). Questo il vino che secondo me, prima o poi, realizzerà il sogno di Edoardo. Adesso imbottiglio tutto. 50mila bottiglie. Edoardo sa che manca ancora tempo per arrivare al suo sogno. Ci sono altri vini importanti e deve confrontarsi ancora molto. Manca ancora qualcosa.  Devo lavorare più sui vigneti. Sulle vendemmie portando le uve in cantina con l’acino più perfetto possibile. Stiamo andando incontro a calamita di luce incredibili. Quando c’è il grappolo rivolto alla luce diretta del sole si vede che gli acini sono diversi rispetto a quelli in ombra. Occorre scartare il chicco secco. Ti fa fare un altro vino. Tutte le vigne hanno già i loro anni si invecchieranno ancora donando vini di ancora maggiore qualità avvicinandolo alla meta. La convinzione di Edoardo è tanta. La mia è una sorta di richiamo, una cosa che sento dentro. Io faccio questo lavoro perché è una cosa che sento dentro. È un lascito che voglio lasciare alla famiglia, ai nipoti. Io voglio lasciare qualcosa. Si morirà tutti. Vedo gente che ha fatto questi grandi vini ma io vorrei un giorno, quando non ci sarò più, che si dica: guarda che vini che faceva sto stronzo. Basta, niente più. Quando il mio vino sarà nei migliori ristoranti. Quando le persone mi reputeranno un bravo viticoltore. Quando avrò un riconoscimento. Conoscendomi non sarò mai contento.  Edoardo non sarà mai contento e vorrà fare sempre meglio. Dimostrare al padre e alla madre che vale molto di più. Una dimostrazione ma anche un valore.  Sono sempre il figlio di Luca Ceri però adesso quando lui va nei ristornati è diventato il babbo di Edoardo Ceri.  Per Edoardo è impossibile non raggiungere il suo obiettivo.  Aldilà però nel riuscire a produrre il migliore vino al mondo, continuerà a produrre degli ottimi vini. Di quelli che offrono sensazioni. Ma che bello non accontentarsi.  Il papà continuerà ad essere presente. Nelle lavorazioni per la cantina, nell’agriturismo, nello show room.  La parte progettuale l’ha gestita tutta lui. Lui è partito veramente da zero e ha creato il suo impero.  Pure tu lo stai facendo Edoardo. Piano piano. Ce ne sarà di tempo. In fondo, anche papà Luca non credo che a 33 anni sia stato avviatissimo. Per poter dire che il babbo ha creato tanto, più di te Edoardo, occorre aspettare. Continuare a lavorare e a crederci. Non fermarti. Non lo fare mai.  Sono sicuro che non lo farai e non vedo l’ora di leggerti su Wine Spectator.   Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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23 Febbraio, 2024

Pietro Vezzoso. Un pizzico sulla pancia

Ci sono zone della nostra penisola che sembrano non esistere. Ragioni diverse. Geografiche, storiche, sociali. Non è dato sapere. Fatto sta che pure lo sviluppo gli gira intorno lasciando queste zone, luoghi incontaminati.  Falciano del Massico è un paese in provincia di Caserta che, per capire dove si trova occorre necessariamente aprire Google Maps e digitarne il nome. Ci si accorge che è proprio nel mezzo delle due strade che partendo dal Garigliano, fiume che separa il Lazio dalla Campania, si dirigono verso Napoli.  Quella più a nord è l’Appia, quella più a sud, in prossimità del mare, è la Domiziana. Percorrendo proprio quest’ultima verso Napoli si arriva a Mondragone, patria delle mozzarelle di bufala. Da Mondragone, la provinciale Falciano-Mondragone ci permetterà, dopo circa 7 km di arrivare a Falciano del Massico, piccolo comune di poco più di 3000 anime. All’epoca dei Romani, queste erano zone di produzione del vino Falerno, decantato da Orazio, Catullo, Virgilio, Cicerone e Marziale. Un vino esportato in ogni dove del bacino del Mediterraneo che aveva addirittura tre declinazioni: Caucinum per i vini provenienti dall’alta collina; Faustianum quando il vino proveniva dalle migliori vigne per esposizione e pendenza; Falernum, dalle vigne pianeggianti. L’area, definita Ager Falernus, era nota per la produzione non solo di vino ma anche di olive e grano, il Grano Falerno.  Poi, l’oblio. Il sonno. Il dimenticatoio. Così che qui oggi e da anni, la vita scorre lenta. I pochi rimasti sono dediti all’agricoltura o alla produzione della mozzarella. Persone schiette, meravigliose, vere. Quelle che solo il sud può offrire. Grandi lavoratori, grandi sognatori. Come Pietro Vezzoso che ha fatto del suo amore per la vigna ed il vino, il sogno della sua vita. Gli anziani del paese sono stati gli ultimi a vedere qui le vigne rigogliose. Poi tutto si è trasformato in colture diverse e variegate assecondando le necessità del mercato. Pesce, nocciole, ortaggi. Prodotti con maggiore possibilità di trasformare in moneta il sudore dei campi.  Eppure la DOC Falerno del Massico venne attivata già nel 1989. Senza fortuna e senza quel numero di produttori necessario ad affermarne il nome così che non si riesce ad avere nemmeno un consorzio dedicato. Quello presente, Vitica, deve raccogliere tutte le DOC del Casertano (Aversa, Galluccio, Roccamonfina, Terre del Volturno e Falerno del Massico). Gli anziani. I nonni come nonno Antonio erano grandi lavoratori. Artefici più o meno fortunati della guerra, spettatori più o meno fortunati della vita. Nonno Antonio, oltre ad essere un instancabile lavoratore era una grande persona. Di quelle con il cuore d’oro. Aveva la sua vigna in una delle zone più antiche di Falciano, l’Unnitto. Così si chiamava e si chiama. Coltivata con i vitigni che riusciva a mettere o che si era ritrovato (in passato così si faceva). Mio zio, il marito della cugina di mia mamma, mi raccontava che viveva a Milano e il nonno prima che ripartisse per tornare proprio Milano, gli dava una bottiglia del vino che faceva dalla vigna dell’Unnitto. Quando arrivava e se la beveva, se ne stava a dormire due giorni! Una bomba esagerata. Il terreno ha una caratteristica pazzesca. Li abbiamo adesso gli olivi e 200 piante di Primitivo. Mio fratello voleva farne una etichetta a parte nelle bottiglie di terracotta. Però sono solo 100 bottiglie e mi sarebbe costato troppo. Lo beviamo in famiglia come un valore affettivo. Mio nonno è più contento che le bevo io. Pietro adesso è un omone. Un gigante buono che si riconosce come tale solo a guardarlo in viso. Se poi gli si parla, non si può fare a meno che volergli bene subito per quella sua pacatezza e felicità che emana. Eppure la vita non è che sia stata così tenera per lui. Perdere il papà a 15 anni senza aver più la possibilità di abbracciarlo ad esempio, non deve essere stato tanto semplice.  Anche nonno Antonio se ne era andato tre anni prima non senza aver avuto il tempo di trasmettere a Pietro l’amore per vigne. Le passeggiate tra i filari, la cantina, gli strumenti del mestiere, le mani nel mosto fanno scattare quella scintilla che non solo anima Pietro ma lo segna profondamente. Quell’omone porta dentro di se questi ricordi magari cercando non tanto di cancellare quelli del padre quanto di distrarre il dolore. Fa ancora troppo male. Poi c’è la vita vera. Quella di tutti i giorni che deve in qualche modo scorrere. Anche se qui, generalmente, è caratterizzata da semplicità mista a difficoltà. Non ti puoi permettere di rimanere sul divano. Devi lavorare. Lavorare sodo e da subito. Infatti Pietro non aspetta e si da subito da fare. Nei campi ovviamente. Ci si rimbocca le maniche e si fa. Si fa. A diciotto anni incontra Carmela. L’amore della sua vita. Un amore che si unisce a quello per il suocero, Salvatore. Un mentore per lui. La persona che gli insegna a lavorare in vigna.  Ho avuto la fortuna di conoscere la attuale moglie il cui padre faceva proprio questo lavoro. È stata come una prosecuzione di quanto faceva mio nonno. Mio suocero lavorava per diverse aziende vinicole. Mi sono messo con lui a lavorare.  Lavori conto terzi. Lavori in vigna. Lavori in terra. Lavori nei giardini. Lavoro, lavoro, lavoro. Pietro non è uno di quelli che si tira indietro. Mai. Con la moglie Carmela hanno anche un piccolo supermercato di paese. Quei meravigliosi posti dove trovi un pò di tutto e che sono indispensabili come le farmacie.  Abbiamo un piccolo supermercato con mia moglie. Da 19 anni. Resistiamo in questa piccola realtà. Io faccio il jolly, quando serve una mano a mia moglie io sono li; se serve una mano in cantina lei viene da me. Siamo a conduzione familiare. Poi da sempre faccio lavorazioni conto terzi con potature di oliveti e vigneti, giardinaggio. Ho un bel da fare. Chi ha voglia di lavorare lavora! Grande verità quella di Pietro. In una Italia dove si parla e si parla e si parla ancora, c’è chi si rimbocca le maniche e si sporca le mani. Senza timori e solo con la voglia, la necessità ma anche l’orgoglio di fare qualcosa. Pietro e le persone come lui sono fieri di ciò che fanno. Il lavoro è onestà e integrità. Dignità. Zero chiacchiere, solo lavoro. Chi ha voglia di lavorare lavora. Niente chiacchiere. Pietro lavora nelle vigne altrui insieme a Salvatore. Impara e impara tanto. Sempre continuando a fare le sue cento bottiglie dalla vigna dell’Unnitto che è costretto anche a reimpiantare nel 2009. Lavora saltuariamente nella vigna di zì Pasquale. Qui zì, zio, è un modo per chiamare in maniera confidenziale ma rispettosa le persone. Forse perché con dimensioni così piccole, bene o male, sono tutti parenti. Era il 2019 e nella mia testa c’era già il pensiero di mettere su una azienda allora dissi: zì Pasquà, se fate pensiero, io sto qua. Ci siamo messi d’accordo per un ettaro di vigneto.  Vigna Barone. Così si chiama la vigna di zì Pasquale. Una vigna storica di 70 anni certificata dalla Regione Campania e dalla Università degli studi di Salerno.  Nel 2021 Pietro decide, dopo essersi consultato con la famiglia, che è giunto il momento di fare il grande passo. Un pò di terra di famiglia c’è, la Vigna del Barone di zì Pasquale si può affittare, qualche soldo per i primi investimenti si trova, insomma, perché no? Il 2022 segna la nascita di Cantina Vezzoso! Il mio enologo e agronomo Pietro Razzino mi dice che sono un folle ad aver affrontato le spese. Prima avevo i terreni in comodato d’uso sulla parola ma con l’azienda ho dovuto fare i contratti veri e propri. Poi le spese per aggiustare la piccola cantina. Il mio enologo mi definisce un garagista. Poche bottiglie ma di un certo livello in 35metri quadrati.Faccio tutto la. Magari prima o poi la allargo almeno per metterci le gabbie d’acciaio per le bottiglie.  Serbatoi, barrique. Mi sono trovato quando i prezzi sono aumentati. Ma ci siamo dati un pizzico sulla pancia e siamo partiti. Vogliamo fare la qualità con uve esclusivamente dai nostri vigneti. Non attingiamo a fonti esterne. Un pizzico sulla pancia. Che meravigliosa espressione! Pietro lo dice con il sorriso sulle labbra. Sornione e felice. Ne parla come un bambino dei suoi giochi e delle sue scoperte. Ha voglia di trasmettere tutta la sua felicità, il suo essere. L’aver raggiunto un sogno che continua a farlo sognare. Difficoltà tante ma felicità ancor di più. Una felicità che Pietro mette “pari pari” nei suoi vini dei quali va orgoglioso per il modo nei quali li fa. Genuini, semplici e soprattutto manuali. Ci tiene a questo Pietro. Ci tiene affinché si sappia che lui fa tutto a mano. Con semplicità ed ingegno. Nonché una dose di follia.  Nelle bollicine ad esempio.  Quando parlai con l’enologo dissi che volevo fare un rosato. Ma non il classico rosato che fanno tutti quanti perché per me non ha senso. Ho tanta passione e faccio tutto io. Volevo fare qualcosa di diverso: un metodo classico Pas dosé. Lui disse: tu sei pazzo. Ma tu sai che significa fare un metodo classico senza attrezzatura? Pietro non ha serbatoi refrigerati ne tantomeno le pupitre che realizza con i pannelli della muratura.  Mi sono portato le uve in cantina. Ho fatto un passaggio nel torchio senza pigiare. Ho messo il cellofan attorno ai fori del torchio per non far fuoriuscire nulla e l’ho fatto solo passare così per tenerlo pulito. Ero intenzionato a non filtrarlo ne chiarificarlo. Poi l’ho messo nel serbatoio di acciaio. Per mantenerlo in temperatura mi sono comprato un pozzetto da congelatore da cucina. Ho preparato una serie di taniche di ghiaccio che levavo e mettevo per mantenerlo sempre a temperatura. Con il mostimetro classico, quando è arrivato intorno a 3.5/4 di zuccheri l’ho imbottigliato. Per un mesetto la presa di spuma e poi nelle pupitre dove ho fatto il remuage 3 volte al giorno. Al marzo del 2023 l’ho sboccato a la volè. Ne ho ricavato 500 bottiglie. Un centinaio di bottiglie le ho perse ma sono contentissimo di ciò che ho messo in commercio.  Una pazzia che però evidenzia la felicità di Pietro nel voler raggiungere un obiettivo. È come quando si vuole costruire qualcosa con i Lego senza avere dinanzi a se le istruzioni. Si immagina il progetto finito e la mente già vola li. Poi ci si ingegna, si pensa, si fantastica e si lavora. Con pazienza e tenacia per arrivare alla fine ad ammirare ciò che si è creato. Nel caso delle bollicine, ottenute da uve Barbera (80%) e Primitivo (20%), Pietro ha realizzato qualcosa di interessante che ha voluto dedicare alla moglie: Donna Carmela. Le etichette che Pietro produce al momento sono tre. La prima è 1949, un vino dedicato al papà nel suo anno di nascita. Primitivo con affinamento in acciaio. Schietto e verace. Di quelli che bevi con piacevolezza. Poi Decanto, un Falerno del Massico totalmente da Primitivo proveniente dalle Vigne del Barone di oltre 60 anni. Affinamento in acciaio per un vino che ho recensito sul mio blog e l’ho definito una coccola che dovremmo farci ogni tanto. Un modo di vivere la semplicità nella schiettezza.  Infine Donna Carmela ovviamente. Un vino del quale Pietro va particolarmente fiero. Anche perché gli consente di divertirsi e mettere in ogni singola bollicina un pezzo del suo immenso cuore.   Dalla Vigna del Barone arriverà anche un altro vino che per adesso rimane all’interno di un paio di barrique. Vedrà la bottiglia solo quest’anno e sono davvero curioso di capire come il Decanto si sarà evoluto.  Ad oggi siamo a 1800 bottiglie di Decanto), 1500 di 1949, 500 bottiglie di donna Carmela. Abbiamo poi due barrique di Falerno del Massico e un’altra di bianco. Tutte le vigne e l’uliveto sono certificai biologici certificato. Anche l’ulteriore ettaro sul quale Pietro ha impiantato viti per realizzare il Falerno del Massico bianco con Falanghina, Moscato Giallo e Fiano di Avellino. Se devo fare un Falerno del Massico bianco come gli altri non ci sto. Voglio fare una cosa differente visto che sono poche bottiglie. Mi pozz’ sfizià come voglio io! Così, per fare una pazzia ulteriore, le ho messe prima in appassimento.  Torna la lucida follia di Pietro. Una voglia di distinguersi per non omologarsi ma anche per dire al mondo che esiste. Vuole esserci Pietro. Vuole diffondere tutta la sua felicità attraverso le creazioni.  Io prediligo nei vigneti e cantina solo lavorazioni manuali. Io mi faccio follatura manuale come facevano mio nonno e mio suocero. Mi hanno insegnato i valori di questo lavoro. Nonno Antonio e mio suocero Salvatore. Non abbiamo presse ma torchio tradizionale classico. Non tiro fino all’ultimo perché mio nonno mi diceva che all’ultimo è più amarognolo. Già mi immagino Pietro Razzino, enologo ed agronomo, quando si trova a parlare con Pietro. Lui vuole fare e penso che lo lasci ed incoraggi a fare. Pochi suggerimenti per guidarlo nei passi, ma poi è giusto che l’entusiasmo non venga mai frenato.  Abbiamo un grandissimo rapporto. È di Sessa Aurunca, conosce il territorio e mi conosce da prima. Ha potuto constatar che tipo di lavorazioni faccio. Lui mi dice che “con l’uva sana e genuina che porti tu in cantina abbiamo poco da fare”.  Non c’è voglia di strafare in Pietro. Non c’è voglia di arricchirsi, di diventare grandi, di fare cose roboanti. Vuole arrivare a 10.000 bottiglie. Nulla di più. Così da mantenere l’azienda di famiglia, in famiglia. Per continuare a fare le cose a mano come gli è stato insegnato da nonno Antonio e dal suocero Salvatore.  Papà e nonno che non ci sono più sarebbero davvero soddisfatti di Pietro. Lui sta bene così. Ha la moglie Carmela e i suoi due figli che iniziano a passeggiare con lui nelle vigne (e che ovviamente danno una mano!), la sua cantina, la sboccatura a la volè. Guadagna quel che gli serve per vivere e far vivere la sua famiglia con dignità e rispetto. Il resto davvero non conta. Ci sono i valori. Quelli che Pietro sta trasferendo ai suoi figli. Perché quello che davvero conta nella vita è la famiglia.  Lui è e rimarrà un gigante buono. Un omone di quelli che continuerà a mettere a suo agio le persone trasmettendo serenità, entusiasmo, valori. Grazie Pietro. Grazie per tutto ciò che rappresenti. Grazie per il tuo impegno sul sul territorio, Grazie per esserti dato quel pizzico sulla pancia! Grazie!       Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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16 Febbraio, 2024

Fabrizio Pratesi. L'eccellenza del Carmignano

Questo lavoro si costruisce con tempo, mattone per mattone. Tanto tempo. Con prodotti giusti. Con la fortuna di aver un posto con una certa vocazione per fare certi vini. Insomma non è un lavoro che si costruisce velocemente. Ci sono investimenti e tanti anni per affermarsi. Fabrizio Pratesi è ancora il titolare, insieme al fratello Nicola, di una storica realtà del mondo automotive Mercedes-Benz a Prato, la Effepi, nata sulle ceneri di altra realtà storica.
Il mondo dell’auto è un mondo molto particolare. Girano tanti soldi e i margini, sempre in contrazione, sono comunque interessanti. Magari percentualmente bassi ma in termini assoluti, niente male. Occorrono tanti investimenti, tanta professionalità, tanta dedizione, tanto sforzo. Alla fine, se ci si sa fare, i frutti che si raccolgono, fanno sorridere.
Un mondo quello automotive, inesorabilmente cambiato già anni fa. Forse il fallimento della Lehman Brothers (era il 2008) fu solo l’eruzione di un vulcano il cui magma ribolliva da tempo negli strati della crosta terrestre. Dopo quel pesante fallimento, i mondi che attingevano al credito, il settore auto è uno di questi, scricchiolò pesantemente. Un sisma a seguito dell’ eruzione. Anzi, uno sciame sismico che fece inesorabilmente crollare quelle aziende che avevano giocato un pò troppo con la finanza oltre a quelle già pericolanti. Così le grandi industrie capirono che occorrevano sistemi diversi di distribuzione capaci di resistere al tempo. Oltre che di partner sul territorio dotati di solidità importante. Ovvero di volumi.
Fabrizio navigava in quel mondo che si stava pian piano coprendo delle ceneri vulcaniche. Ceneri dalle quali non voleva farsi sommergere. Anche se poi il mondo del service non verrà mai sommerso.
La passione per la terra e la vigna, l’aveva sempre avuta. Di quelle passioni che però non riesci a goderne a pieno. Banalmente perché non è che non hai il tempo ma il tempo lo impieghi in altre cose. La casa di famiglia e poco più di due ettari di vigna sono a Seano, Prato. Un territorio baciato da Dio per quanto riguarda il vino. Si parte dalla vocazione di un terreno dove ci vuole che il Padreterno ti voglia bene e ti dice: guada te tu sei nato in un posto che, non lo sapevi… questo a me è successo. Fabrizio, agli inizi degli anni 90 inizia a fare il vino da quella vigna che il nonno, contadino, aveva lasciato al figlio. I circa due ettari che gli erano toccati dall’eredità.
I soldi, grazie all’attività nel mondo auto, non mancavano così che nasce, sempre per diletto, anche una bella cantina sotterranea. Solo che per fare il vino occorre dedizione. Quella che Fabrizio in quel periodo non ha. Avevo cominciato a fare il vino. Avevamo fatto la cantina sotterranea. Un lavoro rimasto in standby come tutte le cose di questo mondo fino a che mi sono reso conto che se il vino non lo fai full time non viene. Mi piaceva farlo e complice il mondo dell’auto nel quale i dealer sarebbero spariti facendo rimanere il post vendita, ho cambiato vita. Nel 2014. A Nicola gli piace fare il meccanico non certo il vino dunque mi sono messo a fare il vignaiolo a tempo pieno. Nicola, il fratello, è una persona splendida che conosco da vent’anni. Lui cura l’Officina Autorizzata Effepi di Prato e lo fa con competenza, passione e tanta professionalità. Spirito sornione mi ha sempre confidato che lui di vino non ci capisce nulla ma gli piace berlo. Certo, penso io, con quello di Fabrizio è facile. La convinzione di Fabrizio è tanta così come è tanto il suo realismo. Ha scelto di fare il vignaiolo perché avrebbe tranquillamente potuto continuare a lavorare nel mondo dell’auto. Il suo è un taglio netto. Una scelta radicale. Un ritorno alla terra. Non so se abbia contato più la nausea per il mondo al quale apparteneva o la voglia di qualcosa di profondamente diverso. Di certo, ha capito che se vuoi fare un mestiere come il vignaiolo e, contemporaneamente, un altro, lo puoi certamente fare, ma senza aspettarsi di creare vini eccezionali. Se te credi tanto nel prodotto, che è l’unica cosa che devi fare perché di scorciatoie non ce ne sono, allora lavori. Tanti magari credano che con due articoli sul giornale riesci a vendere il vino. È finito questo tempo. Io sono molto amico di Mario Piccini che vende 32 milioni di bottiglie e mi dice sempre: Fabrizio, le bottiglie se ne stappa una per volta. Finché la bottiglia non è stappata non è venduta e ci vuole il tempo per farti conoscere. Eppure Fabrizio non ci mette tanto tempo per farsi conoscere e far conoscere la sua azienda, la Fabrizio Pratesi.
Tutto ha inizio nel 2014. L’anno delle decisione dunque della svolta. Intentiamoci, non stiamo parlando di una mezza svolta, ma di qualcosa di radicale. L’idea che in questo lavoro non ci vedevo futuro era nell’aria. Così come la voglia di fare questo lavoro di vignaiolo. Ho deciso di fare questo cambiamento di vita. Un cambiamento pesante perché da due ettari ora ne ho 15 di cui 10 vitati. Ho ricomprato le terre di famiglia perché nonno aveva dei fratelli. Ho fatto un vigneto unico con delle zonazioni. Trovando le migliori zone per Cabernet, Sangiovese e Merlot. Un lavoro pesante ed economicamente è stata una scommessa pesante. Siamo nella zona del Carmignano DOCG. Una zona che io definisco per i veri intenditori. Poco nota per via della ingombrante presenza del Chianti, è sempre stata in grado di sfornare grandi vini. Sangiovese certo anche se con espressioni totalmente diverse da quelle solite toscane e l’aggiunta del Cabernet che non è un vezzo moderno essendo qui coltivato e nel vino da oltre cinque secoli. DOCG dal 1990 ma (come ci si tiene a far presente) retroattiva del 1998. Tra l’altro, il Consorzio che tutela il Carmignano ha come Presidente proprio Fabrizio Pratesi. Io faccio il vignaiolo full time. La vigna è il primo requisito. Conosco le mie vigne, le zone. Avevo un concetto di viticoltura molto alto. I produttori ti parlano solo dell’enologo. I produttori francesi ti parlano solo della vigna. Fabrizio è partito e, meno male, è rimasto con un concetto di viticoltura alto che parte dall’idea di allevare la vite per avere un frutto con chicchi piccoli. Produrre un vino eccellente. Un vino che potesse posizionarsi in alto. Senza sconti e senza compromessi. Per questo la sua concentrazione è stata sulle vigne.
Ricomprate dunque le vigne di famiglia, estirpate e ripiantate quelle che secondo lui non andavano bene. Grande attenzione alle singole zone scegliendo opportunamente cosa piantare. Come ad esempio il Merlot. Ma di questo ne parleremo dopo.
Anche in cantina Fabrizio ha voluto portare tecnologia. Sempre però subordinata alla vigna. In cantina ho una tecnologia altissima. Ho una deraspatrice che costa quanto una serie S. Ma quella non ti fa fare il vino bono. Hai bisogno di darle un prodotto buono cosi non te lo sciupa e ti restituisce l’acino non rotto così che l’estrazione viene bene. Tutte queste attenzioni sono fondamentali. Raffreddo tutte le uve in cella frigo. Sono dettagli che se non hai un grande prodotto non parti nemmeno. Il produttore deve essere preparato e il terreno deve essere preparato. Se la Redbull la guida Hamilton, Verstappen e un’altro pilota buono, arrivano li. Se la guida Perez arriva in un giro. Se hai un terreno che vale tanto puoi fare un vino da 100 se il produttore è bravo. Altrimenti ti può venire bene. L’approccio alla vigna di Fabrizio è maniacale. Dalle automobili al trattore il passo è lungo e lui lo compie rallentando i ritmi e assecondando quelli della natura. Senza stress. Senza fretta. Ma con attenzione e meticolosità. Sopratutto con grande realismo. Quello tipico di un toscano senza fronzoli e che guarda alle cose con realismo passionale. Noi trasformiamo il prodotto. Non esiste un vino naturale perché la pesca è naturale. Te tu vai sull’albero, cogli la pesca e te la mangi. L’uva è un prodotto che viene trasformato e qui c’è la mano dell’uomo. Il nostro lavoro è tale per cui tra la menzogna e la realtà la linea è sottile. Il vino se non ha un conservante antibatterico va a male. Quando mando un vino negli Stati Uniti e non è protetto o non arriva o arriva un altro prodotto. L’acqua minerale viene filtrata sterile e vengono aggiunti conservanti. Se vai alla miglior fonte del mondo e la porti a casa, il giorno dopo l’è marcia per via dei batteri. Il vino è vero che ha il grado alcolico che un pò lo protegge ma poi diventa aceto. C’è chi si vanta dicendo che non una solfiti o solfiti aggiunti (perché il vino un pò di solfiti li sviluppa ma poca roba). Puoi anche filtrarlo sterile. Se fai un bianco scarso magari ci riesci Ma con un rosso no. Il secondo ci sono genti che buttano chimica nel vino per abbattere i batteri.
Il vino deve esse bono punto e basta. Il lavoro, il grande lavoro di Fabrizio è nel cercare la migliore biodiversità del terreno. Non usa diserbanti, non usa chimica. La sua attività è puramente biologica. Anche se fino in fondo non sono convinto che sia la migliore strada perché il rame che si usa è tossico e si usa in funzione della stagione. Forse un sistema diverso ti farebbe essere più ecologico. Qui c’è Fabrizio Pratesi. La sua genuinità ma anche la cruda realtà di un uomo che vive la sua terra. Vive ogni pianta della sua vigna e sa, profondamente sa, che deve essere lui, il produttore, prima di qualunque altra persona a capire cosa sta facendo. In vigna come in cantina. Sua è la responsabilità e suoi onori ed oneri. Tutti quelli che fanno due soldi in un altro settore arrivano e dicano: in due giorni fo. Non è cosi. Faccio 50 mila bottiglie e sono poche. Siamo una piccola media azienda. Quelle grandi fanno un’altro campionato. Ma per noi, se il vino non lo sa fare il produttore di certo non lo fa l’enologo. Adesso sono sicuro di quello che viene prodotto a casa mia. Quando ti posizioni alto ci sono opportunità ma tempi più lunghi per potersi affermare e far girare il vino. Il posizionarsi in alto è avvenuto quasi per caso si potrebbe dire. Ma la fortuna aiuta gli audaci non chi sta sul divano. Il lavoro certosino di Fabrizio ha pagato cogliendo l’opportunità che gli è stata regalata.
Il caso dicevamo. Se in Italia ci si accorge poco e tardivamente dei nostri gioielli, in altri paesi si guarda invece a noi con un occhio diverso. Così fu che un importante importatore americano, di quelli con target di clienti molto alto, mise gli occhi sul Carmignano. Andò in giro ad assaggiare i vini di vari produttori della zona e rimase abbagliato dei vini di Fabrizio.
Et voilà. Il sogno americano è realizzato.
Detto così è facile no? Una sorta di talent scout che arriva e ti scopre. Già ti scopre ma per portarti sulle tavole dei migliori ristoranti americani non devi essere poi cosi male no?
Occorre essere già un ottimo vino altrimenti non ti considerano proprio. Lui ha messo gli occhi su Carmignano ed ha assaggiato i vini in giro e poi ha scelto i miei. Questa è gente che sono in giro da 40 anni e quando scelgono lo fanno con cognizione di causa. Da li in poi la strada si fa ancora più in salita per Fabrizio. Quando sei a livelli importanti ti cercano è vero ma devi essere in grado di fornire prodotti eccellenti. Sempre. Tutti i nostri clienti ci sono venuti a cercare. Adesso sto lavorando con un albergo di Zurigo che sta facendo una enoteca con vini top. Fa ordini come se fosse un distributore. Tutto sembra facile. All’apparenza. Dietro c’è il duro lavoro di Fabrizio che si è rimboccato le maniche senza guardarsi mai indietro. La pratica nel nostro lavoro è fondamentale perché si lavora e cielo aperto. Le condizioni non si ripetan mai. Possono essere simili ma non si ripetono. Non sono mai uguali. Noi si lavora in funzione del tempo. Poi ci vogliono studi. Giri in altri paesi. Fai delle domande. C’è bisogno di un bagaglio tuo. I consulenti non possono sapere fino in fondo le tue esigenze. Il produttore è fondamentale che sappia fare il vino in vigna. Quando vado sul trattore vedo le viti e li capisci che tipo di concimazione ha bisogno. Devi sta li. Studio e tanta pratica per capire che la vite per tirare fuori la qualità deve sempre stare un filo in stress. Tutti vogliono la vite rigogliosa ma cosi la qualità non la fai mai. I grappoli dei francesi stanno nel palmo di una mano. In Italia di viti cosi ne trovi solo dai vecchi contadini. La terra bona l’è deleteria per la vite. Una serie di tasselli per realizzare il mosaico di grandi vini che arriva con il tempo e la voglia di fare le cose. Oggi arrivano da Fabrizio tutte le associazioni di sommelier per tenere le lezioni di vinificazione. Io guido il trattore perché mi piace e perché lo voglio fare io. Tra dieci anni magari manderò qualche altro perché le cose saranno avviate. Io faccio il cantiniere perché lo voglio fare
Il dettaglio fa la differenza in base alla stagione. Sono anni che non faccio più le analisi delle uve per la vendemmia. La maturazione fenolica è fondamentale per la vendemmia e per fare il vino di qualità. La maturazione tecnologica ormai è troppo distante da quella fenolica. Se la va bene ci sono due settimane. Fabrizio non si sente mai arrivato perché sa che mai uno che è all’apice si deve sentire arrivato. C’è sempre la vendemmia successiva in agguato. Ti devi rimettere in discussione. Una volta che ti affermi sul mercato devi mantenerti e la vera difficoltà sta nel mettersi in discussione ogni vendemmia. L’esperienza ti porta certo a sapere cosa fare nelle varie circostanze ma non è detto che non ci si possa trovare dinanzi a qualcosa di inaspettato.
Umiltà. Tanta e grande umiltà. Non devi partire dal presupposto che questo sia un lavoro. Farai una cosa che ti piace tanto e poi si vede. In gamma quattro vini.
Il primo è il Locorosso. Sangiovese in purezza con affinamento in acciaio. Semplice ma di grande spessore. Soprattutto una espressione di Sangiovese atipica per la Toscana. Elegante ed equilibrato. Già questo basta.
Poi Carmione e iI Circo Rosso, ovvero il vino del territorio. Entrambe Carmignano DOCG realizzati con il Cabernet Sauvignon e Franc nonché Merlot e, ovviamente, Sangiovese. 12 mesi in barrique per il primo, 18 per il secondo (riserva) restituire un crescendo di complessità al naso e al sorso. Sublimi. Poi ho avuto la fortuna di avere un quadretto di terra per fare il Merlot in purezza. Il Merlot in purezza è uno dei vini più difficili da fare. Viene bene da taglio poiché se non hai un terreno con una componentistica complessa ed argillosa per rilasciare la struttura non viene bene. È di fronte alla cantina. Una striscia di terra. In estate si vede il cambio di colore più grigio. Una striscia di argilla. C’era già del Merlot. Avevo studiato 15 anni fa e avevo provato a fare delle produzioni per casa. Quando poi ho ripiantato tutto ho lasciato il Merlot li. Ho trovato una terra simile nella mia proprietà ma viene un’alta cosa. E ci son 70 metri di distanza. Questo è il fascino del lavoro. Nasce così un vino che è uno dei migliori Merlot io abbia mai assaggiato: I sassi di Lolocco. Potente ma equilibrato. Tannino che accarezza dando volume, densità, spessore. Elegante e raffinato. Un vino del quale farne a meno diventa un sacrilegio. La vita enologica di Fabrizio sembra dettata dalla fortuna. La fortuna di aver chiuso un ciclo per aprirne un altro. L’importatore americano. Le terre in un luogo baciato da Dio. La striscia meravigliosa che dona un Merlot da Oscar.
Fortuna magari si, ma devi crederci e dedicarci tanto tanto ma tanto lavoro.
Oggi produce tra le 60 e le 70 mila bottiglie ancorché abbia comprato terre per arrivare alle 100 mila bottiglie. Forse il giusto taglio per una azienda familiare che vuole con forza rimanere così. Per dedicarsi alla qualità e alla accoglienza di chi vuole toccare con mano questa realtà. Mio figlio sta facendo enologia. Ha 20 anni. Oggi si cura principalmente delle olive. Io le olive non le sopporto. Lui se l’è preso a cuore. Mia moglie segue tutta la ricezione del turismo che è fondamentale. Mia figlia è nella fase nella quale non sa. Fa economia aziendale. Attratta dal marketing.   Poco incline alle guide, ai premi, Fabrizio è orientato al lavoro. A testa bassa e con orgoglio. Non solo un orgoglio toscano ma quello di un uomo posato, serio, realista. Di quelli che non hanno bisogno di null’altro che sentirsi in pace con quanto lo circonda. Senza fronzoli. Essenziale. Schietto e vivo.
Si siede sornione, parla con una stupenda cadenza toscana. Può sembrare ti guardi dall’alto in basso ma è quasi un modo per tarare l’interlocutore. Perché poi si lascia andare dinanzi ad un bicchiere del suo vino. Senza contemplarlo. Senza lodarlo. Aspetta solo il tuo di giudizio.
Per lui è quello che conta: essere in grado di aver reso felice una persona attraverso un grande vino.     Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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9 Febbraio, 2024

Specogna. La meraviglia di un luogo, il sogno, l'impegno

Christian Specogna ha 36 anni. Un ragazzo. Un uomo. Fate voi. Poco importa se non a sottolineare come a questa età sia difficile trovare persone dotate di grande equilibrio.
Avete presente Philippe Petit? Divenne famoso certo per le sue imprese di equilibrio ma soprattutto per esser passato, il 7 agosto 1974, da una torre all’altra del World Trade Center di New York (si, quelle distrutte dall’attacco terroristico del 2001). Senza rete, a 400 metri di altezza, con il costante rischio di sfracellarsi al suolo. Compie l’impresa senza patemi d’animo. Senza paura. Senza alcun tipo di tentennamento. Pronto a rifarne un’altra. Christian è così. Un vignaiolo che non solo ha trovato il suo equilibrio ma riesce, costantemente, a trasmetterlo attraverso i suoi vini.
Non capita spesso che citi subito un vino, ma adesso devo proprio farlo: Duality. Credo sia lo specchio della sua anima. Per un vino si utilizza, sempre più spesso, il concetto di Cru: realizzare da una unica vigna qualcosa di particolare poiché legata a quella precisa particella di terra. La vera esaltazione di terroir. Christian invece crea qualcosa di speciale utilizzando due vigneti posizionati in maniera opposta della collina. Una vigna è a nord est, in bassa collina, per esaltare freschezza, aromaticità, balsamicità. L’altra vigna è a sud d’ovest, in alta collina. Struttura, corpo, calore.
Si uniscono gli opposti per generare l’equilibrio.
Detto così appare semplice e semplice lo fa apparire Christian. Ma non lo è affatto. Serve studio, cura, dedizione, sperimentazione, conoscenza e, soprattutto, equilibrio interiore.
Tutte caratteristiche che si ritrovano parlando con Christian Specogna. Quella degli Specogna è una storia di tre generazioni di vignaioli appassionati, direi innamorati del mondo del vino partiti grazie a nonno Leonardo nel 1963. 61 anni fa.
Siamo in Friuli Venezia Giulia sui Colli Orientali. Un territorio fantastico con scenari capaci di incantare. Tanti produttori che hanno reso questo territorio conosciuto grazie a sapienza e passione. Prodotti eccezionali portati alla ribalta con garbo e attenzione. Senza strombazzarli o svenderli.
È il carattere delle persone di questi luoghi. Persone miti, aperte, ospitali. Come lo è chi vive in zone di frontiera. Ospitali e pronti a lavorare senza mai tirarsi indietro.
Già, lavorare, lavorare e ancora lavorare. Basta che sia sulle proprie terre.
Anche se mica è stato sempre così. Nel Friuli, i ricordi della Grande Guerra sono vivi come in nessun altro luogo. Nella memoria di chi ha perso parenti ormai lontani e nei simboli che il territorio stesso conserva.
Dopo la Grande Guerra i resti umani, italiani ed austriaci, furono seppelliti. Per i resti delle case non ce ne fu bisogno visto che poche erano prima, poche rimasero dopo. La povertà, in queste terre di confine, era una consuetudine. Solo che dopo la guerra, con gli uomini decimati, la povertà non poté che aumentare.
La guerra e la povertà disintegrano tutto. Non lo spirito dei Friulani, persone orgogliose e operose. Che ripartono e ce la mettono tutta fino a quando arriva, inesorabile la Seconda Guerra Mondiale. Come uno tsunami che si abbatte sulla spiaggia dopo il ritirarsi delle onde, la Guerra porta via tutto lasciando solo ciò che non serve più a nulla. Ricostruire? Si certo. Ma poi?
Non c’era lavoro qui. Non c’era nulla da fare. Nulla di nulla. Così che le famiglie, allo stremo delle forze, non avevano altra possibilità che mandare i propri figli a lavorare in Svizzera. Li c’era bisogno di manodopera. Operai per le fabbriche. È proprio in Svizzera che viene letteralmente spedito nonno Leonardo. Originario di un piccolo paese delle Valli di Natisone, Montefosca a ridosso con la Slovenia, al compimento dei diciotto anni compie il suo primo viaggio (pensiamo ai nostri figli oggi…). Non si era mai mosso dai dintorni di casa. Non conosceva niente del territorio e continuerà a non conoscerlo perché il viaggio, in corriera, lo porta direttamente in Svizzera, a Lucerna, in acciaieria. Senza fermate.
Non va male però li. Certo, sacrifici. Tanti sacrifici ma utili per poter mettere da parte qualcosa dopo aver aiutato la famiglia nel corso degli anni. Stringere i denti per cinque lunghi anni, è servito. Nonno Leonardo fa ritorno a casa. Stavolta non viaggia in corriera ma in auto. Viaggio condiviso ovviamente perché i soldi servono. Non è una scampagnata ma il viaggio in macchina consente di guardare bene fuori dal finestrino quei paesaggi mai visti prima. È così che Leonardo si innamora perdutamente della sua regione che non era solo quella, comunque bella, delle Valli.
Le suggestive colline di Rocca Bernarda e di Corno di Rosazzo, per le quali occorre passare per tornare a casa, sono suggestive oggi, figuriamoci sessant’anni fa quando niente oltre la natura riusciva a contaminarle. Un territorio tanto bello quanto difficile che ci mise poco a far breccia nel cuore di Leonardo tanto da farlo decidere di investire qui i suoi risparmi. Un semplice pezzo di terra. Non chiedeva altro.
Marzo 1963. Così ha inizio per nonno Leonardo e la moglie una nuova vita. I friulani sono persone miti e meticolose. L’azienda di Leonardo è una azienda agricola a 360 gradi: serve tutto per sopravvivere. Cereali, bestiami. Carne e latte. Fino ad accorgersi della potenzialità del vino. Veniva meglio del latte Meticolosità. Si capisce che c’è potenzialità nell’uva e nel vino. Non che ci fosse tanta esperienza ma il vino si era sempre fatto a casa. Anno dopo anno nonno Leonardo specializza l’azienda in una tenuta vitivinicola. Poi con mio padre Graziano nei fine anni 70 inizio anni 80 si puntò sempre di più alla qualità. Imbottigliamenti, miglioramento del lavoro in cantina e in vigna. Alla fine degli anni 80 le zone del Collio iniziano ad essere sempre più conosciute e riconosciute nonostante il Consorzio sia attivo dal 1964 con il riconoscimento Denominazione Origine Protetta del 1968. Ci vuole altro oltre la qualità mi verrebbe da dire. Come la specializzazione delle aziende e un pò di sano marketing. Oggi siamo alla terza generazione composta da me e mio fratello Michele. Coltiviamo circa 25 ettari a vigneto per 100/120 mila bottiglie l’anno in funzione dell’annata esclusivamente da vigne di proprietà che seguiamo personalmente secondo metodi biologici e biodinamici. In più produciamo anche del miele con gli alveari che abbiamo sule colline e un pò di olio di oliva. Christian è uno di quelli che non sta fermo un attimo. A guardarlo, a parlarci, non sembra. Il tono di voce è di quelli che esprime calma e serenità. Il suo animo però è di una persona in perenne fibrillazione e con il pallino fisso del miglioramento.
Non c’è ossessione nella sua voglia di migliorarsi. È un bisogno quasi fisico non volto a se ma a voler trasmettere, attraverso i suoi vini, la bellezza e la potenzialità di ciò che ha intorno.
Studia e studia tanto. Quelli di Viticoltura ed Enologia a Trieste servono per gestire la parte di vigna e cantina ma se si vuole valorizzare il territorio serve altro. Abbiamo avviato un progetto di zonazione per individuare le caratteristiche intrinseche delle varie particelle. Molto specifiche. Filare per filare per riuscire a creare una carta di identità di ogni appezzamento. Capire sempre meglio come intervenire dove e quando. Quando sei in coltivazione biologica e biodinamica, capire quando e dove intervenire, diventa fondamentale. L’azienda Specogna cresce con gradualità. Nonno e papà lasciano nelle mani di Christian e Michele quindici ettari che diventano venticinque nel giro di dieci anni. Piccole acquisizioni per piccole zonazioni. Un passo alla volta. Senza strafare. Solo quando pronti. Piccoli passi per transitare dal passato al presente proiettandosi verso il futuro. Del passato c’è la memoria storica fatta del nonno e di papà, venuti a mancare da diverso tempo. Oggi siamo in una fase climatica tremendamente diversa ed è dunque fondamentale riuscire a comprendere questa trasformazione. Sessant’anni fa quando iniziò mio nonno, in questa zona nel Friuli, il numero di giornate che in media andavano oltre 30 gradi erano non più di dieci/dodici Oggi siamo a circa 55/60. Maturazione diverse con tempi diversi di maturazione. Tempi di raccolta diversi. Diventa fondamentale capire come aiutare la pianta e il suolo a resistere a queste condizioni. 30 anni fa si guardava solo alla pianta. Oggi invece si guarda al suolo e alla capacità di riuscire a mantenere una grande qualità e vitalità del terreno attraverso sovesci ed inerbimenti particolari nutrizioni con sostanza organica che aiutino ad avere un equilibrio del suolo per aiutare la pianta in queste annate cosi particolari. Siamo noi due con la nostra squadra. C’è mia moglie Violetta che mi da un aiuto in azienda e nella ricezione delle persone che vengono a farci visita. Gli esami non finiscono mai dunque si continua a studiare nella vita e Christian, non essendo uno che fa le cose per caso, continua a studiare. Va all’estero per capire come altri produttori abbiano trattato i vitigni. Piemonte, Toscana, Loira, Borgogna. Tanto per citarne qualcuna. Capisci cosa fanno gli altri ma soprattutto quanto potenziale inespresso ci sia nel tuo territorio. Ecco, questo dovrebbero farlo in molti. Quelli bravi lo chiamano benchmarking. Anche se poi quando vedono che nel vino occorre investire e non solo fare di testa propria, si tirano indietro. Fino a 15 anni fa producevamo solo vini di annata e di pronta beva. Per far emergere ancor di più qualità e potenzialità del territorio e delle nostre colline, iniziammo a studiare le colline stesse e le vigne dando così alla luce vini specifici da cru con potenzialità maggiore. Poi lavori in cantina con affinamenti prolungati e in botte. Macerazioni. Tanta tecnica. Vini attesi e mai maltrattati. Prima i bianchi facevano affinamento soprattutto in acciaio per circa 7 mesi ovvero in uscita nella primavera successiva. Su questi vini ho iniziato a fare affinamenti di 2/4 anni per renderli più particolari. Studio, sperimentazione, cultura, analisi. Testa e tanto cuore. Christian gestisce con il suo garbo e la sua innata positività. Il mio sogno è che i nostri vini siano la nostra rappresentazione. Personalità che ci rappresenti ed identifichi. Li vogliamo sentire nostri. Io sono il primo pignolo e ho una costante voglia di imparare. Appena posso giro le zone vinicole del mondo e confrontarmi. Per me è prima di tutto una passione e un amore e ho una voglia immensa di migliorarci sempre di più. Per lasciare il segno. Contribuire a far conoscere nel mondo l’eccellenza del nostro territorio e la potenzialità delle colline. Sono diventato papà nel 2022 e sarebbe magico lasciare un segno. Proprio per far si che le nuove generazioni ci seguano dobbiamo coinvolgerli con la passione e l’emozione non con la forzatura. Con mia figlio, così come sta facendo mio fratello, dobbiamo fare del nostro meglio e trasferire le emozioni che tutto questo ci da. È quanto hanno fatto i nostri genitori e nostro nonno. Le emozioni. Christian tende a mantenerle celate. Tipico delle persone di queste zone. Tipico per chi pensa a dimostrare le cose con i fatti più che con le parole. Arrivare da una famiglia vissuta nella povertà e nelle difficoltà ma che ha saputo sollevarsi e andare avanti, segna. Segna dentro fino giù nell’anima. Non ce la fai ad essere diverso da così. Nonno aveva una mentalità più di azienda agricola perché era vissuto in quel contesto storico. Papà voleva andare oltre ed normale che quando c’è un cambiamento non è mai facile e devi sempre lottare. Sempre con rispetto ed intelligenza. La stessa cosa con noi. Anche se papà è venuto a mancare da diversi anni e non stava bene da diversi anni. Era una necessità oltre che una volontà darci da fare per subentrare in un altro percorso. Abbiamo iniziato a camminare in vigna. È stato un percorso naturale un pò come accade anche ad altre aziende familiari. Abbiamo iniziato a prendere in mano l’azienda circa quindi anni fa quando ne avevo venti io e ventisette mio fratello che ora segue anche un’altra azienda, la Toblar mentre io principalmente la Specogna. I prodotti che Christian realizza hanno voglia di identità. Voglia di donare eleganza e finezza dunque equilibrio. Riconoscibilità al territorio senza mai perdere il faro della piacevolezza e della bevibilità nel senso più nobile del termine. Pulizia ed eleganza.
Così si creano due tipologie di vini ben distinte attraverso il diverso affinamento: acciaio per i vini di annata e pronta beva; legno per le riserve. Un legno che non camuffa e non aggiunge. Nobilita.   Non siamo negli anni novanta dove si utilizzavano le botti senza cognizione di causa. Semmai il legno, utilizzato in maniera intelligente, può essere un grande contenitore che esalta le caratteristiche del vino. È ovvio che bisogna trovare la dimensione giusta. Il legno, la tostatura adeguata. Comprendere quale uva va bene per quale botte. Ricordo gli anni 90. Se un vino non era passato in botte e non potevi dire “barricato”, era meglio non proporlo. A nessuno importava quale fosse il legno, di quale tostatura, ecc. Il risultato? Si utilizzava a caso. Si metteva qualsiasi vino in una botte piccola (perché quella grande non dava molto) e super tostata.
Non che l’acciaio sia esente da critiche: usato male, e si usa male, tende a standardizzare o dare problematiche di riduzione e chiusura del vino. Le anfore possono essere troppo ossidanti. Insomma, ogni materiale ha pro e contro e va capito, dopo attento studio, come utilizzarlo correttamente. Un mio amico vignaiolo diceva che il vino può affinare in qualsiasi contenitore basta che non si senta quel contenitore. Per arrivare a farlo occorre comprendere perfettamente le proprie uve La stagione e fare le scelte ottimali. In una stagione fredda quindi con più acidità vado a scegliere un legno più nuovo che può reggere bene l’ossigenazione. Per le annate più calde con acidità bassa e grado alcolico elevato prediligo legni più vecchi con meno ossigenazione per non avere pesantezza ed opulenza tale da perdere equilibrio. L’utilizzo della botte dunque non maschera, se bene utilizzate, il territorio. Molto spesso utilizzo botti non tostate quindi legno a lunghissima stagionatura all’aria aperta e anche questo evita che la botte vada a sovrastare il vitigno dunque il vino. Le mie sono tutte fermentazioni spontanee e l’ossigeno della botte supporta la fermentazione alcolica. Non faccio mai travasi dunque lascio le fecce e i lieviti che ci sono. Ecco che l’ossigenazione della botte previene i rischi di chiusura per riduzione. Essendo legni non tostati ci sono meno sensazioni che andrebbero a coprire il vino. Le prime volte che si bevono i nostri vini non si immagina abbiano fatto affinamenti in legno e questa per me è una cosa bellissima. L’amore e la passione con la quale Christian parla del suo lavoro è quella di un papà che parla dei suoi figli. C’è un progresso nella crescita di un bambino come quella di un vino. Si adattano i comportamenti di padre a quelli di un figlio così come si cerca di guidarlo verso il meglio senza prevaricare troppo. Le stagioni differenti, le annate diverse necessitano cure diverse, accorgimenti diversi. Così fa Christian con i suoi vini. Ogni pezzo del suo discorso è orientato a mantenere uno stile ed una identità. Sua e ancor di più del territorio. Cresce lui per far crescere il territorio. Si migliora lui per migliorare la percezione del territorio. Non si vede in un luogo diverso da qui. Come se fosse parte della Rocca Bernarda. Devo sempre migliorarmi perché con il clima diverso e si riparte sempre da zero. Con l’esperienza si acquisiscono nozioni per supportare in vigna e in cantina. Bisogna essere sempre aggiornati sulle evoluzioni tecnologiche. Piccoli dettagli che fanno la qualità. Uno come Christian sa che si è sudato e guadagnato tutto ciò che ha. Certo, senza nonno Leonardo e papà Graziano non ci sarebbe tutto questo. Ma tutto questo è frutto di tanto tanto ma tanto altro. E la fortuna non c’entra. La fortuna te la cerchi. Se stai seduto sul divano non arriva nessuna fortuna da te. Quindi nulla è per caso. La fortuna piò capitare una volta ma poi devi essere in grado di mantenerlo. 25 ettari vitati. Oltre centomila bottiglie. Una bella azienda, senza dubbio. Ma Christian è e rimane umile. Un passo per volta. Con tanto lavoro dietro le quinte. Quello che la gente non vede. Fine settimana dedicati al lavoro. Orari estremi e tanti sacrifici. Senza questo, non si ottiene nulla e la fortuna, se c’è stata, passa velocemente. C’è tanto lavoro sia nella produzione sia nella comunicazione per far scoprire chi siamo. Quando parlo di vino sono sincero ed onesto. Non mi sono mai nascosto o tirato indietro. La sincerità di un racconto vero. Raccontare ciò che sono e che voglio portare avanti. Christian Specogna, una persona intelligente e positiva. Orientata al futuro. Convinto più che mai che quanto fatto e quanto riesce a fare ogni giorno rappresenta il meglio che si possa fare. Nessun pentimento. Penso al futuro. Ciò che faccio lo penso tra venti anni. Un investimento, una piantina. I lavori fatti li penso in modo che possano essere portati avanti di decenni. Rimpianti no. Proseguire. Se non sei ottimista in questo settore non vai avanti. L’unica fortuna nel nostro mestiere è sperare che il clima sia dalla tua. Ho una moglie che è vicino a me che è super stimolante e sono fortunato. Con mio fratello abbiamo un bell’equilibrio. Non ho volutamente parlato dei vini di Specogna, se non di Duality (comunque recensito sul mio blog Instagram) perché i vini sono la parte meno rilevante della narrazione ancorché più importante per l’azienda. Quando parli con Christian è come se li bevessi e comunque quando li bevi trovi esattamente quello che ti dice. I vitigni sono quelli friulani ma non mancano le contaminazioni (anche se in un territorio di confine certi vitigni si perdono nel tempo).
Friulano e Ribolla Gialla con immissione di Sauvignon Blanc, Chardonnay, Pinot Grigio e Malvasia per i bianchi; Refosco, Schioppetino, Pignolo, Merlot, Cabernet Franc & Sauvignon per i rossi. In arrivo una Malvasia Riserva che nasce proprio da un progetto di zonazione: pochi filari per far capire ed esaltare la potenzialità di questa zona (l’etichetta porta la sagoma delle vigne); un Pinot grigio ramato riserva. Sul mio blog recensirò gli altri ma posso già dire che si tratta di piccoli, intensi, capolavori. Dunque stay tuned! Come azienda abbiamo sempre creduto in questa versione a contatto con le bucce portando avanti una tradizione già presente cento anni fa. Grande personalità e struttura con macerazione di oltre due mesi che donano caratteristiche da rosso. Il Pinot Grigio che si è formato da una alterazione del Pinot Nero, attraverso una lunga macerazione, fa rivivere queste radici. Ciò che auguro a Christian e alla Specogna è di non perdere mai lo spirito che li contraddistingue e che sembra essere pervaso da una sensazione di meraviglia. La stessa meraviglia presente negli occhi di nonno Leonardo nel vedere i territori sui quali decise di fermarsi e vivere.
Al lettore auguro di non perdere la possibilità di assaggiare i capolavori di Christian e, come me, sentire la meraviglia e l passione per un territorio fantastico.     Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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2 Febbraio, 2024

Giannicola Di Carlo e il rifugio della natura

La sofferenza. La solitudine. La necessità di crescere in fretta. Il dolore. La rinascita. La morte. Il ricordo che si fa duro. La vita che deve continuare a scorrere. Ci sono delle cose, dei fatti che quando accadono segnano la vita. Nel momento nel quale accadono e per il resto della vita.
Giannicola Di Carlo ha solo 12 anni quando suo fratello si ammala di leucemia. Una malattia che dura 9 lunghi, lunghissimi, interminabili anni. 9 anni durante i quali la mamma non può esserci per Giannicola. È in ospedale con il fratello. Giorno e notte. Natale, Pasqua e Ferragosto. È giusto così e Giannicola non se ne lamenta.
Il papà deve lavorare nella azienda agricola di famiglia. Io vengo da una storia agricola. Di una famiglia che si è sempre dedicata al mondo agricolo e produttivo. Dal 1830. C’è una lettera dove i miei trisavoli scrivevano al mio bisnonno che avevano portato del vino nel Granducato di Toscana e in Piemonte. Sono i primi anni 80, 30 aprile 1986 per la precisione quando nella centrale nucleare di Cernobyl scoppia il reattore e una nube tossica invade mezza Europa arrivando anche in Italia. Non sapremo mai se questo fu la causa della leucemia. Di certo acuì quel solco che si era già creato nell’animo di Giannicola.
L’azienda di famiglia era grande. Oltre 280 ettari in quel di Ortona (Chieti) diventati oggi 65 di proprietà e 85 in affitto. Non poteva che essere condotta con regole tradizionali. Troppo grande e certamente non compatibile con i tempi.
Giannicola però non ci sta più. Capisce che non può essere questa la realtà. La vita che vuole. I prodotti che si sente di produrre. Deve, assolutamente deve esserci qualcosa di diverso. Ho fatto agraria ma prima di questo avevo il problema familiare. Mia zia di Firenze mi portò, erano gli anni 70, a fare meditazione trascendentale. Maharishi era il guru. L’ho fatto per molti anni. Anche mio nonno si era fatto condizionare da mia zia e aveva provato. Parte da qui ma la sensibilità. Ma devi averla dentro. Ho fatto abbracciare gli alberi ai miei figli ma non tutti proseguono con questo approccio. Quello che ti capita ti segna ma se non hai delle caratteristiche particolari non prosegui. Caratteristiche dice Giannicola. Si certo, l’animo ce lo devi avere. O magari no. Magari proprio quando accade qualcosa di così dirompente, tragico e sconvolgente, capisci. Come un’onda del mare che ti investe facendoti rotolare sulla battigia.
Perdere un fratello e dover crescere in fretta aiuta, o meglio obbliga, ad interrogarsi su quali siano i veri valori della vita. Cosa debba poter essere quello che fa stare bene e in armonia.
Giannicola vive l’azienda agricola che produce vino. Tutto ciò che lo circonda è natura. Creato. Il passo verso l’armonia con ciò che vede ogni giorno è breve. Brevissimo. Nel 1989 ho contribuito a redigere il regolamento 2092/91. Eravamo in cinque in Italia. Regolamento che tracciò le linee guida del biologico in Italia e in Europa. Sono stato il primo presidente dei produttori biologici perché cercavo una condivisione da portare al mercato. Fui il primo presidente di verde Abruzzo per far coltivare vino e ortaggi. Non solo biologico ma anche biodinamico. Dal 1989.
Già me lo immagino il papà di Giannicola che guarda al figlio con un misto di meraviglia, compassione e scetticismo. Ma lascia fare. È lui e solo lui che può portare avanti l’azienda. Forse questo si sarà detto. Mi sono reso conto dopo un pò di anni che il biodinamico era una scelta positiva, un credo. Qualcosa che fa bene all’ambiente e a chi lo consuma. Avevo però bisogno di qualcosa più tangibile e ho progettato, con un brevetto di utilità collettiva, un vigneto biodinamici energetici che lavora con i colori de chakra. Le piante comunicano attraverso le sinapsi vegetali. Loro vivono da molto prima di noi sviluppando un sistema di comunicazione diverso dal nostro. Non possono fuggire dal luogo dove nascono e devono comunicare attraverso l’apparato radicale e le sinapsi vegetali dell’apparato vegetativo superiore. Questo vigneto è fatto da sette colori: giallo, verde, azzurro, arancio , rosso, blu, viola, la parte spirituale. Mi piace inserire la parte spirituale del proprio io e del perché dobbiamo lasciare un segnale, qualcosa di vero, il bene comune. Ogni uomo dovrebbe avere questo obiettivo. I colori hanno la capacità di attirare gli insetti così come di fornire beneficio all’uomo con una sorta di cromo terapia emozionale. La biofilia è un aspetto ancestrale che fa si che l’uomo sia attirato dalla natura. Tutto ciò è calato nel vigneto. Magari queste parole faranno storcere il naso a qualcuno. Forse agli stessi che criticano anche il biodinamico. Eppure ogni cosa qui è intima e profonda. Non ci sono, ne tantomeno Giannicola lo è, fanatici di quelli che se non credi sei un miscredente.
Giannicola è una persona solare. Intima certo. Toccata da un dolore che fatica a non emergere se non con le persone con le quali si sente in sintonia. Mi ha pure confidato che da giovane faceva il DJ ed ama ancora ballare. Ma la terra, la natura, ciò che dona la vita, merita rispetto. Solo questo. Rispetto. Per vivere in simbiosi con essa. Per esserne immersi.
Ciò che realizza Giannicola è frutto di studio. Come la cromoterapia che non è una teoria ma qualcosa sviluppata dallo psicologo francese Christian Agrapart.
Giannicola brevetta il suo vigneto ma non è uno di quei brevetti che gli devono fruttare. Lo mette a disposizione di tutti perché di tutti è la conoscenza e la natura. Tutti pali sono colorati in maniera diversa a seconda dei filari. Le uve che provengono da questi vigneti sono cariche di energia perché provengono da una sorta di biosfera, un tempio del vino. Un tempio naturale dedicato al vino e all’uva. Certo non è l’acqua santa di Lourdes che fa miracoli ma è qualcosa che fa stare bene gli insetti le piante l’uomo Condurre una azienda di queste dimensioni non è semplice. Non lo puoi fare se sei un invasato, un asceta o uno che non pensa alla responsabilità che l’imprenditoria comporta.
Giannicola lo fa con coscienza e responsabilità. Ci crede e ci crede tanto. Le parole nascono solo a seguito di comportamenti. Anche da chi, come lui, ha l’animo tormentato.
È sua la prima cantina europea in bio architettura (1998). Sua l’idea degli impianti elettrici schermati contro i campi magnetici o della musicoterapia negli ambienti di lavoro o della applicazione della cromoterapia. La spa per vino terapia (primi in Italia). La linea cosmetica con cellule staminali derivate da vitis vinifera. Ho fatto il primo vino biologico e l’ho portato in Cina nel 1991 fino al 1994. Facevo degustare il vino e l’olio biologico. Il pazzo ero io. Volevo fargli capire che loro che avevano la chimica non si possono avvelenare. Lo dicevo oltre trenta anni fa. Dobbiamo farci conoscere per quello che siamo ma mi rendo conto che oggi per fare business serve altro. La sostanza non interessa quasi più a nessuno. Serve l’immagine. Negli ultimi anni questo aspetto si è evoluto verso il male. Noi che viviamo di questi principi siamo ai margini. La qualità oggi non quella che interessa di più. 600.000 bottiglie, questa la produzione della Giannicola Di Carlo, sono tante. Davvero tante. In ogni bottiglia c’è un pezzo di Giannicola. Del suo animo. Di ciò che prova. Da qualche anno c’è Terreum, due vini concepiti ed affinati all’interno di un bosco dove c’è un lago dove i miei nonni facevano pesca sportiva di trote. Era il 1975. Avevo dieci anni. In quelle grotte affiniamo il Terreum. Le lasciamo molto selvatiche. A contatto con la natura le piante, gli animali, gli insetti come la libellula che è figlia di questo luogo umido. Animale fragile che vive di essenza vera. È l’etichetta. Il bosco. Il bosco dei Di Carlo. Il rifugio di Giannicola. Quello dove durante il covid si rifugiava per lavorare con la motosega ripulendolo dagli arbusti. Un luogo dove stare da solo. Solo con le sue piante. La natura. La vita che scorre. La vita che è stata tolta al fratello.
Un luogo dove può fare ciò che vuole anche perché lontano da tutto e tutti. Può soffrire senza che debba dare spiegazioni agli altri. Piangere senza vergognarsene. C’è tanto dentro questo uomo. Tanta passione. Tanta voglia di vivere con il rispetto della vita. Il rispetto per qualunque essere vivente sia esso animale o vegetale. Biologico, biodinamico. Poco importa come lo si vuol chiamare. È rispetto per la vita. Quella che Giannicola non vuole e non può farsi scappare. Lo deve a suo fratello. Lo deve ai suoi figli. Quattro. Quattro ragazzi che cerca con forza di portare su una via che, forse, non sarà mai quella sua. Troppo lontani dalla sofferenza. Troppo lontani da una rapida crescita senza paracaduti. I primi due, Daniele e Federico (33 e 30), hanno fatto una esperienza agonistica con il nuoto. Poi sono venuti qui e uno (Daniele) l’ho licenziato e fatto causa dopo due anni. Licenziato perché mancava di umiltà. A 20 anni non puoi essere il Dio sceso in terra. Bisognava avere rispetto per le persone. Mi stavo separando e forse erano spinti in questo. L’ho invitato a fare una sua azienda perché criticava questa. Dopo diciotto mesi l’ho invitato a fare un giro con me in Europa e ci siamo riavvicinati. “Fai un progetto tuo” gli dissi. “Cosa mi dai?” Rispose lui. “Nulla”.
È partito per la Germania dove ha fatto affiancamenti con alcuni agenti. Ha creato poi Abruzzo food and wine. “Tu che mi dai?” mi disse. “Niente. Vai in banca e fatti dare il mutuo”. Voleva un affidamento. Gli ho dato 10.000 euro di vino. “Poi me lo paghi”. Siamo arrivati a 25.000 euro di vino. Non pagava e gli ho fatto causa. Mi disse che aveva trovato un cliente che avrebbe comprato 50mila euro di vino. Io ero scettico ma gli dissi che non avrebbe mai pagato quel cliente. Altri contrasti ma gli fornisco 60mila euro di vino. A scadenza di pagamento il cliente non pagò. Il suo debito arrivò a 110,000 euro. Oggi è il miglior cliente. Ha 8 dipendenti, 4 furgoni, due magazzini. Ha inaugurato il secondo ristorante a Monaco dopo un altro locale a Berlino. A monaco ha aperto Opera, una pizzeria gourmet fantastica. Bellissima Si può intravedere durezza nel modo di fare di Giannicola. Ma un padre non va mai giudicato quando cerca di educare i propri figli. Lui è cresciuto in fretta. Forse troppo in fretta e si è dovuto confrontare con una vita che non si era scelto. Non è solo sopravvissuto ma è diventato un uomo e una persona con una coscienza meravigliosa.
Daniele è diventato un imprenditore adesso. Forse anche grazie al padre.
Federico lavora in azienda da tempo e a detta di Giannicola è bravissimo.
Gli altri due sono troppo piccoli. Camillo fa lo scientifico. Edoardo la terza media. Con loro vorrei avere un rapporto più intimo legato alla vita quotidiana. Li vedo poco. Abitano dentro l’azienda ma riesco a vederli poco. L’azienda dunque. Quella che deve governare nel rispetto dei principi che si è dato. Meno male che la moglie Fania gestisce con sapienza e autonomia tutta la parte della ristorazione. Un lavoro immenso!
Due le linee di prodotto con due marchi diversi. Vigna Madre e Giannicola Di Carlo. Entrambe improntate su vitigni autoctoni (Montepulciano, Trebbiano, Pecorino, Passerina) ma anche di diversa origine (Cabernet, Merlot, Syrah, Primitivo, Pinot Nero, Sangiovese, Chardonnay, Pinot Grigio, Cabernet Sauvignon, Falanghina).
Vigna Madre interpreta i vini in chiave bio. Semplicità e rispetto.
Giannicola Di Carlo è una sorta di sperimentazione con radici ben piantate nel passato. Spiritualità e simbiosi con la natura. Due filosofie ma soprattutto marketing. Entrambe con 3 bicchieri Gambero Rosso. Nobu è ad esempio la linea senza solfiti e fermentazione spontanea. Mi rifiuto di dire vino naturale perché oggi si chiamano vini natural anche quelli con la chimica e senza certificato bio. L’esperienza di 35 anni sul mercato ci ha aiutato a fare delle scelte. Due linee per dare esclusività. Ho avuto modo di recensire Nobu 1830 sul mio blog Instagram e l’ho trovato davvero un gran vino. Nobu, una parla giapponese che vuol dire “proseguire”. Così come la linea che ne rappresenta l’etichetta. È Giannicola che prosegue quanto iniziato dai suoi avi nel 1830. È Giannicola che prosegue con dolore la sua esperienza. Che non può e non deve fermarsi.
Glielo deve a quel fratello che non ha più. Senza il quale è cresciuto senza poter giocare con qualcuno. Confrontarsi. Quel fratello che gli ha tolto anche l’affetto dei genitori perché, giustamente, impegnati nella sua malattia.
La sofferenza che si porta dentro e che ha voluto donarmi nelle lacrime del nostro incontro, lo rende umano e speciale. Uomo. Nella sua forza e nella sua fragilità.
La forza di non mollare neanche un secondo. La forza nel dare ai figli, anche se spesso solo in forma di briciole, quello che lui ha imparato. Sulla propria pelle con le cicatrici a ricordare. Caro Giannicola, sei una persona speciale. Non solo perché produci grandi vini. Non solo perché lo fai nel rispetto della natura. Non solo perché dirigi una grande azienda. Sei speciale per il tuo animo e per ciò che ti porti dentro. La natura è il tuo rifugio. La famiglia, la tua necessità. Il vino, una espressione di te. Tutto, sempre e comunque, nel ricordo di un fratello che vive in te. Con te. Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969   Ps per chi desidera capire meglio circa i colori del Chakra e la cromoterapia, suggerisco di leggere qualche articolo presente anche in rete. Ne riporto qui qualcuno
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26 Gennaio, 2024

La luna del Casale. Se una cosa si può fare, la facciamo

E in mezzo a questo mare
Cercherò di scoprire quale stella sei
Perché mi perderei
Se dovessi capire che stanotte non ci sei Sarò un romanticone ma credo che quando un uomo porta la propria donna a vedere la casa che ha scelto per loro, fosse anche per passare i fine settimana o le vacanze estive, queste sono le parole che riecheggerebbero nella testa. La sera dei miracoli di Lucio Dalla.
Siamo alle porte di Roma a Lanuvio. Terra di mezzo tra i colli Albani e Lanuvini e quella che era la palude pontina tanto da essere chiamata Malcavallo o Malpasso già dal medioevo a causa della difficoltà di attraversamento. Terreni fertili con una matrice di riporto vulcanico di ere remote. Una terra di mezzo meravigliosa. Docili colline che rendono il paesaggio armonioso e mai banale.
Luigi e Nicoletta vivono a Roma. Luigi è sempre all’estero con la sua azienda. Necessitano di una casa per quando nei fine settimana rientra in Italia. Roma, il suo caos. Voglia di trovare anche un luogo dove essere tranquilli. Magari la desideri, ma vallo a trovare il tempo di girare nel fine settimana.
Così il caso fa il suo mestiere e Luigi, mentre gira con un suo amico geometra per le campagne Lanuvine, si imbatte in un cartello vendesi. Il casale non è che stia messo proprio bene ma l’occhio di chi fa l’imprenditore edile è tale che vede aldilà dei muri. Amò ho comprato casa Pagherei per essere stato li a vedere la faccia di Nicoletta!
Già perché per Luigi ora arrivava il momento più critico: far vedere il casale alla moglie. Giocando di strategia la porta di sera, quando le stelle brillano nel cielo e la luna è li, nel mezzo del firmamento, ad illuminare quel tanto che basta per vedere. E non vedere.
Per due persone che vengono dalla città, arrivare nel mezzo del nulla, senza quell’inquinamento luminoso che ti impedisce di vedere la distesa di stelle che è sempre li ma che non riusciamo a vedere, deve essere stata una emozione forte. Così forte che quel casale, certo non in ottimo stato, va bene così come è e il nome è preso fatto: La luna del casale. È il 1999 e ci vuole un anno e mezzo per la ristrutturazione. Così come ci vuole ancora meno a capire che un posto del genere non puoi viverlo solo a tratti. Devi viverlo tutto l’anno. Una volta che ti immergi, riemergere diventa impossibile.
C’è già una bambina, Sara e dopo poco arriva Alessandro e poi Sebastian.
C’è anche una vigna anzi due. Una davanti e una dietro il casale. Entrambe abbandonate. Poca uva che si raccoglie più per devozione alla terra che per altro tanto che non si può che conferirla alla locale Cantina Sociale.
Nicoletta però si appassiona alla terra e soprattutto alla meraviglia di questi luoghi che sono poi anche Parco dei Castelli Romani. Mamma si è da subito appassionata al territorio e non voleva vedere le vigne abbandonate. Si è impegnata nel valorizzarle. È partita da astemia. Ha cercato di convertirle e quando è arrivata l’uva per la prima volta l’hanno portata da un vicino per la vinificazione. Alessandro Caverni è il secondo genito di Luigi e Nicoletta. 22 anni. Animo pacato e una modestia che spiazza. Giovane che sa di esserlo. Esperto più di un ragazzo della sua età perché nato qui proprio nel 2001, quando i genitori si sono trasferiti. Tanta voglia di imparare nelle tante vendemmie ancora da fare. Eppure, come tutti i ragazzi, ha da poco scoperto la magia di questo mondo. Come ogni ragazzino non bevevo. Lontano da tutto. Svegliarsi per un mese e mezzo alla 5 per la vendemmia non era il massimo. Poi scopri il fascino del vino e capisci che tutti i lavori che fai hanno un senso. Quando ho iniziato a capire, dai riscontri delle persone, il valore di ciò che stavamo facendo, l’ho apprezzato ancora di più. La prima mini vendemmia è stata quella del 2002 per capire subito dopo come qualcosa di più si poteva ottenere. Magari facendo del vino buono.
Luigi, da imprenditore, pensava che produrre vino potesse tornargli utile per regalarlo a clienti e dipendenti della sua azienda in Romania. Lontano anni luce dal pensiero di diventare una azienda vinicola, comunque le cose si fanno bene. O non si fanno. Così serviva una cantina che si inizia a costruire terminando i lavori nel 2008. Nel mentre, sempre perché le cose bisogna farle bene, la terra viene convertita al biologico e altri terreni intorno all’azienda vengono acquisiti fino ad arrivare a 14 ettari vitati. Qui si impiantano immediatamente varietà autoctone: Malvasia Puntinata, Malvasia di Candia, Trebbiano Verde e Bellone. Noi abbiamo uno dei pochissimi appezzamenti ancora certificati DOC Colli Lanuvini. Prima erano un centinaio di ettari. Oggi ne rimangono sei e noi ne abbiamo due. Quando però si inizia a vedere che le cose riescono bene ovvero che alla fine il vino è buono, la mente fa quel piccolo passettino in avanti che ti fa dire: perché non sperimentare altro? Anche perché se vuoi capire le potenzialità di un territorio, è necessario spingersi su vitigni internazionali e tecniche particolari. Non abbiamo agito alla cieca ma con la consulenza di agronomo ed enologo. Siamo passati da che nei Colli Lanuvini non si potevano fare grandi vini rossi a vini che escono dalla cantina dopo 8/10 anni. Così come dalla curiosità di mio padre che era stato in Francia dove aveva assaggiato uno Chardonnay di Borgogna affinato in legno è tornato e ha detto: facciamolo pure noi. Questo è un pò il motto della cantina. L’enologo non era nemmeno così d’accordo. All’inizio almeno. Era il 2009 con il secondo anno della cantina. Ci poteva stare. Luigi spinge per farlo, comprando il tonneau. In fondo è imprenditore e se si mette una cosa in testa (guarda proprio il casale e la cantina), difficile fargli cambiare idea. Alcune bottiglie del 2009 le beviamo ancora oggi. E sono ancora in ottime condizione. Sono evolute. Sono andate avanti. Nel giro di pochi anni, La luna del Casale opera una vera e propria evoluzione partendo dai bianchi dei Castelli e dal Novello per arrivare a vini strutturati e particolari. Affinamenti lunghi, utilizzo del legno, vitigni internazionali che si fondono con quelli autoctoni. Un livello decisamente più alto. Noi come cantina piace portare fuori le etichette quando siamo pronti. Si aspetta tutto il tempo necessario. Per supportare queste etichette qui ci sono anche etichette più fresche. Come gli spumanti che abbiamo fatto da subito. Il rosato da Montepulciano e Sangiovese prima, lo spumante da Chardonnay poi insieme ad un rosato fermo da Cabernet Sauvignon. Queste sono nate da richieste dei clienti che volevano questo tipo di vino. Alla fine di etichette ce ne sono dieci con una voglia di continuare ad evolversi nella sperimentazione puntando l’attenzione su vitigni autoctoni. Magari in blend. Anche perché una volta visto la potenzialità del territorio, si può puntare su altri. Ecco, il territorio. Martoriato da tempo immemore dalla presenza di Roma e dalla sua sete di vini a basso costo dunque qualitativamente non eccelsi, i colli qui intorno hanno sfornato vino a profusione. Non per nulla Franco Silvesti, siciliano di nascita e nemmeno romano di adozione, compone Nanni ovvero ‘na gita ai Castelli. Lo fa per il grande Ettore Petrolini Lo vedi, ecco Marino, la sagra c’è dell’uva
Fontane che danno vino, quant’abbondanza c’è   Magari la canzone sarà più nota per le interpretazioni di Lando Fiorini, ma il punto è che le fontane danno vino perché c’è abbondanza. Spesso, direi sempre, abbondanza non fa rima con qualità.
Eppure qui nel tempo sono nate splendide realtà vinicole sdoganando il territorio con vitigni autoctoni ed internazionali. Qui in fondo, la matrice è vulcanica e il mare è poco lontano. Le escursioni termiche ci sono insieme alle brezze marine e collinari.
Basta crederci. Come ci hanno creduto Luigi e Nicoletta e i loro figli.
Alessandro è rimasto in azienda insieme a Sebastian. Sara? Ha lavorato con noi in azienda e poi ha voluto fare un viaggio studio di sei mesi in Australia. I sei mesi sono diventati sei anni. Li lavora come sommelier. Non ha lasciato il mondo del vino. È pure fidanzata con un responsabile dell’approvvigionamento dei vini per una catena di ristoranti. Mamma Nicoletta si occupa della parte amministrativa e produzione del vino. Un ragazzo che si occupa delle lavorazioni in campagna e cantina insieme ad una ragazza che si occupa della cantina. Poi un commerciale che si muove sul territorio. Alessandro fa il jolly. Sebastian si occupa della parte finanziaria Solo che è astemio ma lo convertiremo. Siamo io e lui che abbiamo più il desiderio di portare avanti l’azienda. Lui sembra fatto apposta per l’aspetto finanziario numerico e io commerciale e di produzione/vinificazione. Due fratelli uniti e in sintonia per la crescita dell’azienda. Voglia di far diventare la propria azienda come un punto di accumulazione dei clienti.
Alessandro appare molto più maturo della sua età. Non lascia nulla al caso e la pacatezza con la quale si pone fa capire l’umiltà che è in lui. Così quando gli chiedo “Sei quello che dirige l’azienda?”, la sua risposta non fa che confermare le mie intuizioni. No assolutamente no. Mamma al 100% anche perché lei è una imprenditrice giovane e sente che non ha tutto sotto controllo Papà Luigi, lui che l’imprenditore lo fa da una vita, continua a lavorare all’estero. Lo sguardo sempre rivolto verso la cantina che cresce e deve crescere proprio dal punto di vista imprenditoriale. Ha avuto un ruolo fondamentale. Perché se fosse stato per mamma avrebbe fatto l’orto. Papà l’ha vista in maniera imprenditoriale. Ci siamo accorti che il vino doveva essere venduto. Veniva da Bucarest il venerdì sera e nel fine settimana faceva il commerciale. Ora magari scriverò una cosa criticabile ma sono fatto così e dico le cose che penso.
I vini de La luna del Casale sono dei grandi vini. Ho avuto modo di assaggiare Alessandro, blend Merlot, Montepulciano e Cabernet Sauvignon del 2015 e l’ho trovato un grande vino. Così come Sara, Chardonnay fermentato in barrique.
Ecco, questi vini non sfigurerebbero in nessun ristorante stellato ne al cospetto di tanti mostri sacri. Invece sono di Lanuvio, sotto i Colli Albani e Lanuvini dove ci sono le fontane che danno vino, quant’abbondanza c’è e dove l’azienda che li produce è composta da persone squisite che non se la tirano e che fanno del lavoro e della modestia il loro punto di forza. I nostri vini sono spontanei perché non forziamo. Se una cosa si può fare la facciamo. Se il terreno lo concede li facciamo. Ci sono stati casi dove sono andati male e lo abbiamo riconosciuto. Non vogliamo forzare la mano. Questa frase di Alessandro racchiude tutto. Ne più ne meno di quanto sopra. Modestia.
Allora, cosi come l’inizio, anche la fine è tratta dalla stessa canzone di Dalla È la notte dei miracoli fai attenzione
Qualcuno nei vicoli di Roma
Ha scritto una canzone
Lontano una luce diventa sempre più grande
Nella notte che sta per finire
È la nave che fa ritorno
Per portarci a dormire Spero che la luce della luna, quella che rappresenta il Casale, abbia la forza per continuare con questo esatto spirito. In una notte che prima o poi finirà e porterà alla luce, stavolta del sole, territorio e prodotti che meritano. Davvero tanto.     Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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19 Gennaio, 2024

Le sorelle Zumbo e l’Etna che scorre nelle vene.

La Montagna, Idda, l’Etna, domina la Sicilia dall’alto dei suoi 3.357 metri. Un dominio che non smette di reclamare attraverso le eruzioni, i risvegli. Te ne accorgi dai boati terribili, dalla pioggia di cenere che arriva fino a Catania, dalle colate laviche oggi più “controllate” rispetto al passato (se di controllo si può mai parlare).  Il paesaggio lunare che si offre alla vista è surreale. La “petra lavica” è ovunque. Nera come la pece. Dura e tagliente. Inospitale e brulla.  Eppure, quello che Idda toglie, Idda da. Perché dalla devastazione, nasce la vita. Un ciclo continuo del quale non ce ne si capacita e tale da rendere il territorio dell’Etna baciato da Dio per le coltivazioni. Ciò che un tempo era lava, oggi è terreno fertile, ricco di minerali e metalli così da restituire prodotti meravigliosi. E unici.  Le vigne qui non sono tantissime. Perché complicato è produrre vino. Terreni scoscesi, pietra da scavare. Raccolte solo manuali e un rischio sempre presente del risveglio di Idda. Quando però arriva il raccolto, e nel caso del vino, la vendemmia, l’unione degli elementi che baciano questa terra la si ritrova tutta nel calice: il sole, il mare, la montagna, il vulcano.  Anche quando non erutta, il vulcano è presente. La sua presenza è nei luoghi, nei paesaggi, nell’aria. Soprattutto nelle vene delle persone. Delle donne soprattutto. Che qui, da sempre, si sono occupate delle terre poiché gli uomini facevano altro. Ogni donna qui, sulle pendici dell’Etna, appare cheta, silenziosa. Tanto cheta che il fuoco che scorre nelle vene ci mette un attimo ad esplodere come il vulcano. Non di odio. Quello mai. Ma di amore. Di passione. Di voglia di esprimere tutta la loro potenzialità.  Donne che amano la propria terra in maniera viscerale perché viscerale è il rapporto con essa.  Erica e Ramona Zumbo sono due donne dell’Etna. Due sorelle che hanno scelto di continuare il sogno del nonno in quel di Solicchiata, piccola frazione di Castiglione di Sicilia.  Il versante è quello nord, quello che da verso il Continente con le Nebrodi a fare da schermo e creare un vero anfiteatro naturale. Forse la zona meno esplorata dell’Etna. Non so se la più selvaggia ma certamente la più esclusiva. In queste zone c’è perfino uno stupendo campo da golf (Il Picciolo) e le Gole dell’Alcantara.  La nostra è una storia di famiglia che parte da lontano. Nonno aveva impiantato questo vigneto in Contrada Santo Spirito nel 1972. Un impianto a propria immagine e somiglianza.  Nonno Salvatore uomo tutto di un pezzo era (per dirla alla siciliana e vi prego di leggerlo con la giusta intonazione). Una di quelle persone che non si faceva comandare e gestire da nessuno (come Erica e Ramona ma questo lo scopriremo dopo). Duro come la pietra lavica ma dal cuore che più tenero non si poteva. La vigna non era il suo mestiere. Semmai un passatempo. Un modo per scaricare le fatiche della sua impresa che si occupava di lavori edili, scavi, frantumazione della pietra lavica (sempre presente!).  Sette ettari di vigna impiantato nel 1972 a controspalliera. Controspalliera? Sull’Etna?  Davvero un visionario e uomo tutto di un pezzo non c’è che dire. Impiantare a controspalliera e a pergolato in un luogo dove tutto è sempre stato impiantato ad alberello, la dice lunga su tipo di carattere che nonno Salvatore doveva avere. Tutti i lavori fatti vigna in Contrada Santo Spirito, Passo Pisciaro, sono stati fatti dal nonno. Dal togliere le pietre a fare l’impianto. Mio nonno era dalle idee proprie. Un visionario che non si faceva comandare e gestire da nessuno.  Sette ettari di vigneto per pura passione personale. Tutto il vino che veniva fuori lo utilizzava per gli ospiti che mangiavano alla sua azienda agricola, per venderlo come sfuso o semplicemente per regalarlo agli amici. Magari dopo aver passato una serata insieme.  Non ha mai voluto fare una bottiglia o una etichetta. Mai. Sosteneva Che il vino doveva stare nella damigiana. Oggi ci troviamo con una etichetta nuova ma con esistenza sull’Etna tra le più antiche. I passanti compravano lo sfuso a bidoni da 5/10 litri. Era nemico nel dare quantità elevate a qualcuno.  Il vino scorreva nelle sue vene e tutto ciò che produceva lo sentiva suo. Abbiamo trovato tantissime lettere di persone passate per la sua azienda e che scrivevano come ringraziamento per le giornate li trascorse, per la sua gentilezza, per il piacere di aver assaggiato ciò che produceva. Oltre al vino produceva la carne, il formaggio di pecora, gli ortaggi.  Nonno Salvatore purtroppo viene a mancare lasciando un solo figlio, il papà di Erica e Ramona, che per coltivare la terra non ha tempo poiché impegnato nel continuare l’attività edile del padre.  A morte sua ci siamo trovati con sette ettari di vigneto che non sono pochi. L’abbiamo lavorate il primo anno, le abbiamo lavorate il secondo anno. Poi papà ci disse: ragazze cosa volete fare di questo vigneto? La passione di lavorare sette ettari di vigna, non ce l’abbiamo perché tantissimo altro lavoro da fare c’è. Cosa facciamo? Non è che la famiglia Zumbo di cose da fare non ne abbia. Un magazzino edile, un cantiere di calcestruzzo, frantumazione e lavorazione della pietra lavica, la gestione dei cantieri. Pure uno stabilimento balneare a Fondachello. E il vigneto? Sette ettari non sono affatto pochi.  Si sarebbe certamente potuto vendere. In fondo i terreni, le vigne, sull’Etna vengono pagati a peso d’oro.  Erica e Ramona però si guardano dritte negli occhi e capiscono che se non lo gestiscono loro, il lavoro e il sogno di nonno Salvatore, finirà dimenticato.  Ci siamo trovati io e mio sorella nel 2018 decidendo di mettere su l’azienda. Dovevamo fare una etichetta per dare una identità al vino e farlo conoscere al mondo intero. Ecco qui il temperamento di Erica e Ramona. Da piccole andavano con il nonno in campagna. Giocavano e aiutavano nonno Salvatore. Ma di vino, picca e nenti (poco o nulla). Ora si ritrovano a tirar su l’azienda con un obiettivo ambizioso. Senza intenzione alcuna di cedere a compromessi. Ciò che il nonno ha insegnato loro nel solco della tradizione e del concetto di famiglia, è sacralità. Non esiste che si faccia qualcosa che vada contro questo Credo.  Il vigneto? Trattato con metodi naturali. Tanto che il concime è quello degli animali che scorrazzano liberamente tra i filari.  La cantina? Niente vasche refrigerate perché così faceva il nonno. Vasche in vetro resina e contenitori in acciaio. Quelli degli anni 70. Va bene la tecnologia ma non che snaturi tradizione e prodotto. La nostra vendemmie è un esempio di tradizione. Facciamo tutto a mano. Abbiamo gli animali che sono liberi nel vigneto e concimano loro. Non siamo a guardare la maturazione con metodi moderni ma andiamo in vigna, prendiamo un chicco di uva, lo assaggiamo. Ci ritroviamo in cantina con questi discorsi.  Il risultato sono 6 etichette per un totale di 30.000 bottiglie (e un potenziale di 60/70 mila). Nella vigna di Contrada Santo Spirito nascono vini come il rosato CiùriCiùri da Nerello Mascalese, il Bianco Settantadue da Catarratto. Insieme alle due chicche Sannedda, Nerello Mascalese in purezza e Pinea, blend di Cattarrato, Insolia, Minnella, Carricante. La scelta del Pinea è la scelta ben precisa di continuare quanto iniziato dal nonno che aveva impiantato tra i rossi queste varietà di bianco per dare profumi. Invece di estirpare le piante per il Carricante abbiamo deciso di vinificare qualcosa che identifica veramente il territorio. Non è un Etna doc ma un IGT che identifica le nostre origini. Dal vigneto di Contrada Marchisia (un ettaro e mezzo solo di Nerello Mascalese) ereditato dalla nonna materna nasce Andìco, il rosso base e l’Etna doc Manata. Ogni vino è una storia. Ogni vino è un ricordo. Così Pinea ricorda i pini della vigna sotto i quali Erica e Ramona giocavano a Nascondino. Andìco per identificare la terra nera della colata lavica del 1890. Settantadue è l’anno del primo impianto. CiùriCiùri ricorda Ramona: Il nome di un vino è come quando sei in gravidanza e devi decidere il nome della figlia. Eravamo in cantina con un calice di vino per la prova. Mi aveva chiamato Eerica dicendo che il nostro rosato era pronto. “Vieni qui e dimmi che te ne pari”. “Madonna mia sembrano ciuri” (fiori in siciliano) dissi spontaneamente. Da li ci siamo guardati : ok si chiamerà CiùriCiùri. La recensione del CiùriCiùri la trovate anche nel mio blog Instagram. Sono tutti figli unici i vini e per questo tutti uguali. Ma ce n’è qualcuno che è più uguale dell’altro. Tanto da dedicarci una etichetta specifica curata personalmente da Ramona. Così l’etichetta di Sannedda è ricavata da una fotografia di nonno Salvatore in cantina. Manata è nonna Peppina nella contrada Trimarchisa. Sannedda? Manata? Manata è il ‘ngiurie, il soprannome della nonna e Sannedda del nonno. Il nome “manata” è legato al vino perché la nonna si occupava della gestione degli uomini in vigneto. In periodo di pota quando occorreva raccogliere le sciammedde, i rami potati, andava per i filari a dire agli uomini “raccogliete a manata a manata! Abbbasce abbasce!”. Da li Peppina ‘a Manata. Se a Castiglione dicevi Peppina Santoro non la conosceva nessuno. Sannedda era il  nonno. Era chiamato Turi Sannedda e lo abbiamo onorato dando il nome e la sua immagine. Vene prodotto da un piccolo quadrato in Contrada Santo Spirito dal quale nascono solo circa 1500 bottiglie. È stata la prima parte impiantata dal nonno. Era pure il primo quadro di vigna dal quale si iniziava la vendemmia.  Donne di temperamento Erica e Ramona. La lava scorre nelle loro vene e fanno fatica a tenerla a bada. Non accettano compromessi ne sono disposte a cedere un millimetro per quanto riguarda il loro Credo. Temperamento forte ma sorriso sempre presente.  Nostro padre ci da una mano da fuori e mette la parola e le mani al momento giusto. Non abbiamo un enologo interno per scelta nostra. Abbiamo provato e per disintossicarci da questo ci sono voluti due anni e mezzo. L’enologo voleva snaturare la nostra azienda nel senso che noi vogliamo mantenere le nostre origini e tradizioni. Oggi l’Etna è messa oggi in vetrina e si tende a portare le aziende verso ciò che la gente richiede. Il nostro vino è questo. Non si accettano compromessi. Si aspetta qualcuno che vuole capire la nostra storia. Erica e Ramona. Caratteri forti e diversi. Diverse tra loro ma unite. I contrasti che fanno parte del gioco. Un pò perché sono sorelle, un pò per caratteri diversi, un pò perché donne. Un giorno ci tiriamo i capelli il giorno dopo non è successo nulla. Siamo fatte cosi ed è bello questo. Le nostre giornate non sono sempre rose e fiori. Siamo due femmine e ciò è bella tosta. Ogni tanto guardo i ragazzi che ci aiutano nel vigneto e gli dico: “mi fate pena perché lavorare con due donne. Spesso vengono da noi e ci dicono di metterci d’accordo. Ma va bene cosi. Separare i compiti è stato importantissimo. Ci confrontiamo però ci occupiamo di cose diverse.  Erica in cantina e in vigna. Con una frase che mi ha detto Ramona che secondo me è un complimento meraviglioso: non è enologa di studio ma di sangue. Certo, c’è una consulenza esterna perché il confronto diventa importantissima. Ramona che si occupa della parte commerciale e della accoglienza.  Un corpo unico quando stanno insieme e insieme decidono cosa farne. Con tutti gli altri, i maschi, fuori. Guai a entrare nella loro realtà. Non devono mettere bocca. Mio padre ci prova a mettere bocca ma in base al nostro sguardo, capisce. La sua supervisione è però fondamentale. Ci guarda dall’esterno, in punta di piedi come ha sempre fatto. Non sempre le cose vanno bene. Ci sono giorni nei quali il risveglio porta demoralizzazione e l’idea di portare avanti le tradizioni scostandosi da quanto richiede il mercato diventa debole. Le soddisfazioni di chi le esorta ad andare avanti cosi è benzina sul fuoco. O sulla lava. Le accende e fornisce loro la carica. Ci piace pensare che ci sia una parte del mondo che vuole cosi. Alla  gente che si ferma, raccontiamo la nostra storia. Erica se li porta nell’orto a raccogliere le melanzane, i pomodori che ha piantato lei. Così poi mangiano il prodotto che hanno raccolto. Ok la modernità ma questo, le tue origini, è quello che conta. La fierezza di due donne. L’orgoglio e la fortuna di essere nati in un posto baciato da Dio. La consapevolezza ma anche la fatica nel portare avanti qualcosa che nonno Sannedda avrebbe voluto veder evolvere nella tradizione.  Io dico sempre che abbiamo la fortuna di essere nate qui. Ci sono tantissime parti del mondo importanti ed è vero che l’Etna è stato conosciuto in ritardo. È stato conosciuto grazie ai grandi. Siamo state graziate nell’avere ciò che abbiamo. Ci siamo nate dentro. Stiamo curando l’azienda senza toccare i punti salienti. Apportiamo modifiche che in una storia di sessanta anni, servono.  Tanta è la strada ancora da fare e tanto il sudore ancora da versare. Senza mai abbattersi e senza mai darsi per vinte. Certo, se il nonno avesse imbottigliato quel vino, adesso avrebbero la strada più spianata dinanzi. Combattere con le grandi realtà dell’Etna non è semplice. Così come non è resistere alle richieste di chi vuole acquistare i loro terreni. Ma si va avanti. Se il nonno avesse dato un nome al vino, avrebbe tolto lavoro a noi ma saremmo oggi più avanti. Lui però era un gran lavoratore ed è come se ci avesse detto “allacciatevi la scarpe strette e iniziate a camminare da sole. Io ho fatto adesso fate voi” Si va avanti e si andrà ancora avanti. Sempre al femminile. Ramona ha una bimba di dieci anni. Erica una di due. Le femmine continuano la dinastia delle vignaiole.  Chanel che è mia figlia è contenta di raccontare la nostra storia quando siamo in degustazione e Marzia, la figlia di Erica, nel suo piccolo, ogni volta che va in vigna la troviamo a raccogliere i chicchi di uva o spostare in cassetta. Noi siamo cresciute cosi ed è giusto che sia così anche per loro. Il lavoro non ha mai fatto male a nessuno. Non ha avuto età per noi e non la ha per loro. Nuttata persa e figlia fimmina. Così un vecchio proverbio siciliano. In questo caso, sono però le donne che stanno creando il futuro della famiglia (oltre quello dell’azienda edile). Oggi ci sono le sorelle Zumbo, Erica e Ramona. Un domani magari ci saranno le cugine Zumbo, Chanel e Marzia. Chi lo sa. Per adesso c’è solo da applaudire a queste due forti e coraggiose donne che non solo dimostrano quanto sia possibile gestire una azienda tutta al femminile ma anche e soprattutto come la voglia di mantenere le tradizioni possa essere vera ragione di esistenza. Contro tutto e tutti. Forza, determinazione e carattere che trasmettono direttamente ai loro vini. Impetuosi come la lava che scende dal cratere. Caldi come il sole che scalda la Montagna. Sapidi come il vento che sale dal mare. Minerali come la petra lavica. Intensi come i sapori di questi luoghi. Soprattutto veri!  Provare per credere. Le sorelle Zumbo e l’Etna che scorre nelle vene.     Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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