2 Agosto, 2024
Cantina Cerbero. Alea iacta est
Mettere insieme Dante Alighieri e Giulio Cesare non sarà una cosa semplice. Eppure è quanto occorre fare per capire bene questa storia. Mi viene il mal di testa solo al pensiero del lettore che cercherà di raccapezzare qualcosa.
Cominciamo da Dante Alighieri.
Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa.
Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e ’l ventre largo, e unghiate le mani;
graffia li spirti ed iscoia ed isquatra.
Nel Sesto Canto dell’Inferno Dante e Virgilio incontrano Cerbero, il cane a tre teste del quale parla Virgilio stesso nel VI libro dell’Eneide come custode degli inferi. Nella Divina Commedia Dante lo pone nel III Cerchio, quello dei golosi per ferirli, squartarli. Così come in vita avevano loro fatto con il cibo. Le tre teste simboleggiano la superbia, l’invidia, l’avarizia o, in maniera diversa, i tre modi propri del vizio di gola: quantità, qualità, continuità. Dante sottendeva anche ad una allegoria politica riguardante le lotte tra le diverse fazioni dell’epoca.
Mettiamolo per un attimo da parte e veniamo a Giulio Cesare.
Alea iacta est. Il dado è tratto. La decisione è presa. È la frase attribuita da Svetonio a Giulio Cesare e pronunciata il 10 gennaio del 49 a.C. nell’atto di attraversare il fiume Rubicone (torrente della provincia di Forlì-Cesena) dando così vita alla seconda guerra civile contro Pompeo.
Tunc Caesar: “Eatur,” inquit, “quo deorum ostenta et inimicorum iniquitas vocat. Iacta alea est”, inquit
Mettiamo da parte anche Giulio Cesare perché non siamo sul Rubicone, tantomeno nel girone dei golosi, ma a Cupra Marittima. Qui le colline degradano rapidamente verso il mare dove lasciano spazio alle spiagge assalite dai bagnanti durante il periodo estivo. I venti dell’Adriatico si incanalano verso l’interno lambendo i pendii un tempo parte dello stesso mare. Le Marche, una regione estremamente particolare per una tradizione, un pò come l’Abruzzo, più improntata alla terra che al mare nonostante si affacci per tutta la sua lunghezza su quest’ultimo. Una regione che ha in se un patrimonio ampelografico interessantissimo e variegato nonostante poi sia conosciuta prevalentemente per i bianchi da Verdicchio, Passerina e Pecorino dimenticando così come non solo vi sia la DOCG della Vernaccia di Serrapetrona ma anche le importanti espressioni di Sangiovese e Montepulciano (nella DOCG Rosso Conero).
Marianna
La famiglia Marinangeli la terra l’ha sempre coltivata qui e qui, come da tradizione, il vino era quello di casa e per casa. I pochi filari utili per il fabbisogno della famiglia costituivano comunque una ricchezza e una buona scusa per festeggiare durante la vendemmia.
All’inizio degli anni 2000 nostro nonno espiantò il vigneto perché la tradizione della vendemmia, con il vicinato che conferiva il vino alle cantine sociali che in quel periodo sorgevano come funghi, era finita. C’è stato un periodo, fino al 2009 dove non abbiamo più fatto vino in casa. Nel 2009 abbiamo acquistato un terreno adiacente e papà disse: sa che c’è, qua ci faccio una vigna e poi una cantina con le palle. Voglio fare vino a livello professionale. Voi siete d’accordo?.
Sul fare vigneto eravamo d’accordo. Sul fare cantina eravamo scettici perché il mondo è difficile.
Lui disse: l’importante è crederci poi il resto viene da se.
Papà Vittorio. Vittorio Rivosecchi. Marito di Marianna, la proprietaria della cantina.
Vittorio
Mamma ha sempre avuto l’azienda agricola poi quando ci siamo dedicati alla cantina è rimasta titolare dell’azienda dunque della cantina. Ci tengo sempre a precisare che la nostra è una cantina a gestione familiare. Siamo in quattro e portiamo avanti il progetto in quattro senza prevaricare nessuno.
Samuele Rivosecchi è la persona che incontro. Lui insieme al fratello Fabio e al papà Vittorio rappresentano a pieno la gestione dell’azienda Cerbero.
Nostra mamma adesso si gode la cantina perché nella azienda agricola si è rotta la schiena. Con quattro ernie al disco ha il diritto di fare un pò la reginetta godendosi la cantina. Sembra la burattinaia che tira le file di noi burattini.
Samuele è un ragazzone con un innato sorriso stampato sul viso. Felice di fare quello che sta facendo, con la voglia di parlare, di trasmettere la sua passione, di avere un riscontro dei vini che produce.
Quando papà Vittorio decide di iniziare l’avventura enologica, Samuele ha solo tredici anni. Fabio diciotto. Troppo piccoli per capire davvero l’idea del padre. Fabio con poca voglia di studiare è ansioso di iniziare; Samuele che preferirebbe godersi la vita con i suoi amici continua a studiare e a lamentarsi.
Ricordo di quando i miei compagni uscivano ed andavano al mare mentre io stavo sempre li in mezzo. C’è stato un piccolo odio perché pensavo a quanto avrei dovuto essere spensierato e invece lavoravo. Però guardandomi indietro capisco che all’epoca non avevo la maturità giusta.
Fabio
Come poter biasimare un ragazzino di tredici anni? Impossibile. Sentendolo però parlare Simone, quei ricordi che potrebbero essere rimpianti, non esistono più. Forse rimossi. Forse seppelliti dalla frenesia di voler fare e fare bene. Ha capito non solo quanto gli piaccia questa vita ma, soprattutto quanto papà Vittorio abbia fortemente voluto tutto ciò non per se stesso ma per i figli. Solo per loro, cercando di trasmettere, intatti, i ricordi della sua infanzia. Gli odori, i profumi, i gesti, l’allegria. Tutto ciò che una vendemmia poteva portare di buono, papà Vittorio ha cercato di trasmetterlo. Tutto, tranne il gusto del vino.
In che senso? Nel senso che papà Vittorio è astemio.
Non beve vito. È appassionato quasi a livello sensuale. Gli piace fare cantina e vigneto. A lui non piace l’alcol. Ad assaggiare e capire ci penso io. Lui ama la campagna. Ama pressare, pigiare, travasare. Adesso sta iniziando ad assaggiarlo perché lo prego i ginocchio. Si occupa del vigneto e dice sempre: quando arriviamo sulla soglia della cantina finisce il mio comando e inizia il tuo. Assiste sempre perché adora sentire quei profumi che magari gli ricordano la gioventù quando si faceva tutto a mano. Mi racconta che lui veniva utilizzato da tutto il vicinato per pulire i serbatoi in quanto piccolo. Di alcol ne so annusato tanto nella vita adesso basta.
Gli ettari che possono dedicare alla vigna solo solo due e mezzo. Pochi ma particolari perché papà Vittorio si rende subito conto di ben quattro tipologie diverse di terreno.
Dobbiamo fare vini di qualità perché con due ettari e mezzo siamo obbligati. Cerchiamo fino dall’inizio a fare le cose per bene. Piano ma fatte bene. Così diceva papà. La prima vendemmia c’è stata infatti undici anni dopo. Nel 2020.
Piccoli passi per fare grandi cose. Piano piano. Senza fretta. Ricercando in maniera minuziosa la qualità. O aspettando il momento giusto.
Già perché forse Simone non me lo dice o forse non lo sa. Magari è una mia intuizione, non so, ma forse papà Vittorio, prima di fare le cose sul serio, ha voluto attendere che i figli fossero davvero consapevoli di quanta potenzialità avessero tra le mani.
Undici anni durante i quali papà Vittorio si rilassa sui campi (anche se rilassarsi per una coltivazione è un concetto filosofico che nulla ha a che vedere con la dura realtà delle cose vere) dopo il lavoro e Fabio scorrazza sui trattori. Simone, invece cosa fa?
Certo, aiuta in azienda come è giusto che sia per una azienda familiare, però studia. Da geometra. Ovvio direte voi. Con il papà impegnato in una azienda edile ed il fratello Fabio che aveva pure lui iniziato li, tutto lasciava presagire un futuro nell’edilizia.
Fabio ha studiato da alberghiero ma non è portato per la scuola. Appena finito le superiori ha iniziato a lavorare con papà. Quando è stato lanciato il progetto della cantina era contento di poter creare qualcosa di nostro. Un brand nostro. Ha sempre affiancato papà nel lavoro. Non voleva studiare. Non mi mandate a scuola diceva. Faccio tutto nel vigneto ma non mi fate studiare.
La terra e il progetto di papà potevano anche essere qualcosa da far venire su piano piano. Come voleva il papà in fondo.
Iniziai le superiori a fare il Geometra e sono uscito pure bene con 98/100. La scintilla c’è stata quando facevo il quinto superiore. Avevo legato con un professore che mi disse: mi hai detto che stai facendo la cantina, hai mai pensato di buttarti a capofitto in quel settore? Quello che stai studiando tu sta diventando una professione strana con tutta la burocrazia. Lui era vecchio e mi diceva che non provava più la stessa gioia degli inizi. Tra una settimana la scuola organizza una trasferta presso l’università politecnica delle Marche. Insomma una opportunità di conoscere qualcosa per il futuro.
Samuele
Io l’ho sempre detto che il caso muove il mondo. Spesso si pensa che certe cose accadano per intercessione di qualcuno, che qualcuno pensi a come modificare il mondo con ragionamenti così arzigogolati che possono trovare spazio solo nella mente di qualche terrapiattista. No, spesso le cose accadono per caso. Senza che lo vogliamo. Una volta lessi di una persona che si era fatta male ma molto male perché un cane gli era caduto addosso dopo un volo di quattro piani. Cosa è questo se non il caso?
Mentre visitavo la facoltà di Agraria su consiglio del professore, mi fecero fare il test di ingresso dove io dissi: non sapevo qui si facesse un test di ingresso, non ho studiato nulla. Ma fallo! mi risposero. Male che fa lo rifai a settembre. L’ho provato. C’erano domande di biologia e scienze. Mentre tornavamo mi è arrivata l’email che avevo superato la prova ed ero stato ammesso alla facoltà di Agraria. Quando glielo dissi al professore mi disse che era un segno del destino. Fai tu ma sappi che nulla succede per caso. Decisi di fare agraria con la specializzazione in enologia. Li ho cambiato il punto di vista e ho capito l’obiettivo di vita. Mi sono buttato a capofitto nell’azienda.
I malpensanti diranno che il professore ci mise lo zampino. Magari sarà pure stato così ma il mio lato romantico continua a farmi essere convinto che solo il fato può creare queste cose. Poi si, il libero arbitrio ci da comunque la possibilità di scegliere, ma è il caso che ci pone dinanzi a certe scelte.
Da li ho fatto un tatuaggio sul braccio “alea iacta est”, il dado è tratto, perché avevo cambiato completamente strada. Comincia la sfida come disse cesare attraversando il Rubicone.
Ecco dunque spiegato il perché di Giulio Cesare.
Eh, Simone è uno che pensa sempre verso il futuro. Come insegna papà Vittorio in fondo. Guardare alle cose non con l’occhio miope dell’oggi o del domani. Ma di parecchio in avanti. Un tatuaggio del genere, con questo significato, indica solo quanta voglia di sfidare il mondo abbia questo ragazzo e la sua famiglia. Un coraggio che li porta ad aspettare a lungo la prima vendemmia. Undici anni!
Volevamo che il vigneto alla prima vendemmia fosse già solido e con un apparato radicale altrettanto solido. Poi ci sono voluti i tempi per la cantina. Nel frattempo conferivamo le uve alle cantine limitrofe. Ce le strapagavano perché erano uve di qualità. Ci pagavano la Passerina allo stesso prezzo del Pecorino pagato agli altri.
In altri casi, nell’attesa di costruire la cantina, si va a vinificare presso altri. La passione vera di Vittorio non poteva però prevedere questa prospettiva. Si sarebbe tolto tutto il gusto di quegli odori che in qualche modo dovevano essere ad esclusivo godimento della sua famiglia.
Abbiamo solo adesso ultimato il locale di lavorazione e dobbiamo finire quella turistica.
Quando finiremo la cantina sarà vostra. Voi la vedrete nel pieno splendore e la tirerete avanti. Così ci diceva papà.
Vittorio, un uomo che ha la sua impresa edile e lavora per questa. Ama il vino nella sua essenza. Quella essenza che deriva dalla terra e dall’opera dell’uomo. Dalla manualità di questo. Ama gli odori. Ama le sensazioni. Lui guarda al futuro. Sa che il tempo non gli concederà di godere a pieno quello che ha in mente. Poco importa, se lo godrà il sangue del suo sangue. Conta solo questo in fondo.
Quando gli diciamo di chiamare qualche ditta per aiutarci a finire prima la cantina lui ci dice: no perché loro non lavorano come dico io e se io lavoro per me so come lavoriamo. Ci mettiamo più tempo ma sarà meglio.
In effetti la cantina è splendida. Si capisce che è fatta con il cuore.
Papà ha iniziato a 16 anni nella azienda edile. La sera quando stacca, sta in campagna. Cosa questa che ci ha trasmesso anche a noi. Io mi stacco da lui per gestire la cantina. Tranne nei momenti di raccolta dove siamo tutti in vigna. Fabio aiuta papà nei trattamenti e nelle lavorazioni con il trattore. È veramente abile mentre io quella abilità non la ho.
Samuele alla fine studia Agraria ed Enologia ad Ancona ma è solo nella azienda di famiglia e da chi ne sa più di lui che impara.
Quello che ho imparato sui libri è servito a poco. Soprattutto quando cerchi di fare prodotti differenti. L’ho trovato frequentando fiere e conoscendo persone. Facevo un pò la pulce ascoltando dalle persone. In cantina ho fatto esperimenti, rischiando perché abbiamo partite molto piccole. Mi piace la sperimentazione. Noi abbiamo quattro vini. Passerina, Pecorino, Montepulciano e Sangiovese più Cannonau. Per i primi tre l’obiettivo era di massimizzare la qualità di vitigni autoctoni con prodotti mono varietali senza bisogno di tagliarli con altro. Ovviamente i costi di produzione sono più alti. La battaglia più grande l’abbiamo vinta con la Passerina perché da tutti vista come vino semplice da aperitivo. Tutte le persone che venivano in cantina volevano iniziare con il Pecorino. Noi io inizio dalla Passerina. Uscivano con la scatola di Passerina. Ma li abbiamo sbalorditi.
Prima di addentrarmi nella descrizione dei vini e, soprattutto dei metodi che Simone ha voluto utilizzare, è bene svelare il perché della citazione dantesca.
Sin dall’inizio sapevamo che avremmo fatto vini alcolici ed importanti da vendemmia tardiva. Non di facile beva. Vini tannici. Belli colorati e strutturati. Cercavamo un nome importante. Il mercato italiano però è alla ricerca di vini immediati. Allora ci siamo resi conto che serviva un nome internazionale per andare a vendere il nostro vino all’estero. Abbiamo scelto il Cerbero perché il cane a tre teste rappresenta mio padre, mio fratello ed io che, uniti, vogliamo far crescere questa cantina. Cerbero ci rappresenta perché è uno dei personaggi della Divina Commedia conosciuta in tutto il mondo. Di impatto perché non è mansueto.
Insomma da visione nefasta ancorché allegorica di Dante Alighieri alla positività della famiglia Rivosecchi. Un passaggio complicato ma che ci può stare. In realtà anche sul nome della Azienda Cerbero c’è molto che sa di futuro. Un nome che strizza l’occhio a qualcosa di altisonante e soprattutto internazionale. Cerbero come difesa di vitigni autoctoni ma anche all’attacco verso l’esterno per far comprendere come anche a Cupra Marittima si possano fare vini buoni.
Se sei di Cupra Marittima infatti e vuoi produrre vino hai si il vantaggio di poterti affacciare sul mare Adriatico ma anche il grande svantaggio di essere a poca distanza dalla DOCG di Offida che con i suoi Pecorino, Passerina e Rosso Piceno (Montepulciano e Cabernet Sauvignon) esercita un discreto strapotere nelle Marche.
Poter dimostrare di essere non solo all’altezza dei vicini ma anche di poter esprimere qualcosa di unico, vuol dire andare all’attacco.
Nel nostro primo obiettivo c’era la volontà di dimostrare che anche a Cupra Marittima riusciamo a fare vini di qualità rispetto a territori vicini già noti. Lo facciamo insieme a due cantine di Cupra. La prima è Oasi degli Angeli che produce il Kurni e il Kupra, due bottiglie famose e poi Macondo, una cantina che produce il Bianko che ha vinto parecchi premi.
Anche le bottiglie e le etichette di Cerbero hanno una chiara impronta comunicativa. Tutte recano la ceralacca a protezione del tappo. Tutte non evidenziano il nome del vino ma solo quella della cantina. Per scoprire di che vino si tratta, occorre prenderla in mano e girarla. Non vi sembra una genialata di marketing?
L’idea è nata dalla conversazione con un designer di Tolentino. Una persona con una storia. Ci diede il consiglio di prendere il brand e metterlo sulla bottiglia con una etichetta di impatto. Doveva essere riconoscibile sullo scaffale di una enoteca. Non leggendo che vino è il consumatore prende la bottiglia e se ne interessa.
Ecco, qui è sintetizzato un pensiero strategico. Un modo di pensare verso il futuro. Qualcosa che non si ferma all’oggi ma si proietta verso il domani. Il tempo che scorre verso un obiettivo chiaro con prodotti che devono si rappresentare il territorio ma con qualcosa di diverso rispetto ai “vicini” come li chiama Simone.
Studiare e sperimentare per distinguersi.
Simone me lo ha già detto chiaro: i loro vini provengono tutti da surmaturazione.
Ma prima c’è il lavoro in vigna. Il lavoro, il passatempo, il relax, chiamatelo come volete di papà Vittorio coadiuvato da Fabio.
Dall’origine si guarda al futuro. Dalla gestione della vigna. Due potature invernali ed estiva scegliendo i grappoli migliori per portarli alla vendemmia. Dalla potatura invernale impostiamo la vigna perché faccia una bella produzione. Al momento della invaiatura andiamo a togliere i grappoli in eccesso. La vite ha sviluppato un impianto vegetativo in grado di soddisfare molti più grappoli di quelli che lasciamo. L’apparato fogliare lavora per pochi grappoli arricchendo molto quest’ultimi. Poi facciamo la vendemmia tardiva. Una volta che il grappolo ha raggiunto la maturazione è la pianta che tira acqua dal grappolo. L’estrazione di acqua da parte della vite garantisce un maggiore arricchimento del grappolo. In cantina usiamo poi lieviti selezionati perché la cantina è nuova. Non mi sento di prendere il rischio ora.
Un piccolo assaggio del modo di agire di questa azienda con le parole di Simone, pronunciate con grande padronanza. Senza la voglia di dimostrare di sapere ma solo con l’intento di far capire quanta passione e quanta arte la famiglia immette in questa avventura.
Per la Passerina, come per gli altri, la raccolta è a mano selezionando i grappoli. Iniziamo all’alba e alle 10 siamo in cantina. Stratifichiamo l’uva con il ghiaccio secco. Mettiamo un telo a protezione creando così sotto una micro atmosfera. In un ambiente saturo di CO2 inizia la macerazione carbonica cosa questa che fa concentrare le sostanze. Poi pigiadiraspatrice per far uscire circa il 50% del mosto. Quindi mosto e pigiato insieme per la macerazione a freddo a 5 gradi per 15 giorni. La fermentazione ovviamente non parte. Facciamo la sgrondatura per gravità e andiamo in pressa a 0.6 bar per tirare via il fiore del mosto. Torniamo in limpidezza e abbastiamo la temperatura di un grado. La polpa estratta si decanta sul fondo come feccia non fermentata. Nella parte superiore del serbatoio, essendo a quasi zero, il liquido si cristallizza e questa parte serve come ulteriore arricchimento del mosto. La feccia viene separata dalla massa liquida e filtrata con un filtro a farina poi inserita nella massa. Spegniamo i gruppi frigo e a 11 gradi inoculiamo i lieviti selezionati per far partire la prima fermentazione fredda (mai sopra i 14 gradi). Successivamente facciamo un travaso post fermentazione. Da quel travaso fino all’imbottigliamento solo un altro travaso e nel mentre batonnage periodici (per la Passerina una volta al mese, per il Pecorino una volta al mese per i primi due mesi poi una volta ogni due mesi). In etichetta non c’è la certificazione biologica perché stiamo aspettando la certificazione della cantina. Il vigneto è bio dal 2014. La stabilizzazione del vino viene fatta solo con il freddo. Durante l’affinamento passa circa quattro mesi a sei gradi dove sul fondo cristallizzano tutti i tartrati. Come solforosa siamo bassi. Abbiamo avuto la soddisfazione di far ribere vino bianco a chi lo aveva abbandonato per i fastidì della solforosa.
Siete riusciti a leggere tutto? Avete capito Simone? Gongola quando parla con me. Sa di aver fatto un buon lavoro e non posso non confermarlo.
L’assaggio della Passerina Beatrice (nomen omen) si rivela davvero interessante.
A Beatrice Dante Alighieri dedica forse la Divina Commedia. A lei la 𝘾𝙖𝙣𝙩𝙞𝙣𝙖 𝘾𝙚𝙧𝙗𝙚𝙧𝙤 dedica questo vino. Come la musa di Dante, è delicato già dai sentori, pungente come la Commedia. La frutta tropicale come il mango, il frutto della passione, l’ananas e la pesca. Lo iodio che spinge e punge a diventar balsamico. Poi fiori di biancospino, macchia mediterranea e mentuccia.
In bocca diventa freschezza sapida e calda. Una bocca pulita e lunga per via della persistenza. Pulizia e verticalità con un meraviglioso agrumato che termina con un che di vegetale ad impreziosirne il sorso.
Come tutti gli amori, va gustato alla giusta temperatura per evitare di diventare troppo amaro. Insomma, un vino da amare e da bere con la persona amata. Per farla/ farlo innamorare ancora e ancora.
Il Pecorino è lavorato nello stesso modo tranne qualche parametro perché l’acino è più piccolo
Se Beatrice, tenue ed eterea, si abbinava perfettamente alla Passerina, per il Pecorino, certamente più intenso e volitivo, serviva un nome di impatto. Caronte, il traghettatore delle anime!
Ne ho provati due, il 2021 e il 2022. Entrambi si presentano nel calice con un paglierino molto vicino al dorato. Scelgo di partire con il 22 che dona immediate sensazioni di piacevolezza grazie al connubio tra timo, salvia, lime e mentuccia impreziosito da un cenno di incenso. I frutti (pera Smith, mela, agrumi) spiccano per intensità con una maturazione ancora non perfetta. Poi miele e resina rendono burroso i sentori. Ciò che però mi ha meravigliato è un sentore di wasabi così intenso da fungere da incredibile balsamico.
Il 21 è molto più burroso e legnoso anche se non ha fatto legno. Le note sono meno fresche del 22 e la sensazione, pur mantenendone la stessa matrice, è di note più “cotte” dal sole (o dal tempo).
La differenza di “cottura” è chiara anche al sorso ancorché la matrice comune è la freschezza, l’avvolgenza e l’estrema pulizia di bocca finale. Freschezza e avvolgenza che sono rispettivamente maggiore e minore nel 22.
Insomma, il 22 pronto ma meno impegnato e meno strutturato; il 21 più complesso e avvolgente. Mi sono molto piaciuti per la piacevolezza in bocca, per la persistenza non eccessiva, per un gusto agrumato non invadente. Bellissime espressioni di Pecorino difficili da replicare. Due vini che sono certamente in grado di traghettare una cena scegliendoli opportunamente proprio come dicono i versi di Dante
Per un’altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare;
più lieve legno convien che ti porti
Per i rossi il discorso è diverso. Fermentazione alcolica in acciaio. Per il Sangiovese c’è un affinamento di sei mesi in legno nei mesi estivi. Rovere francese. Volevamo che la malolattica si facesse in botte così da avere sentori legnosi ma non aggressivi. Nella 2021 abbiamo ridotto la permanenza a quattro mesi per far spiccare meglio il frutto. Lo preferisco. Luca Maroni li ha valutato per il 2020 95/100. Un bel premio per essere la prima annata.
Il primo rosso non può che essere dedicato al Maestro di Dante, Virgilio. Vitigno? Beh, per essere un Maestro occorre essere importante ma non altezzoso; comune ma non banale. Ecco che allora il Sangiovese si presta benissimo.
Un Sangiovese con vendemmia tardiva è già atipico. Coltivato su terreni calcarei e sassosi con influenza del mare, ancor di più. Quello che ne deriva è però qualcosa di intrigante, interessante, invitante.
Il colore di quello che ho provato, anno 2020, è di un rubino intenso, pulitissimo, quasi luminoso. Una piccola unghia porpora evidenzia la sua giovinezza.
Un delicato velo di balsamico apre il naso scoprendo piccoli frutti rossi con delle fragoline di bosco ad erigersi protagonista. Violetta e rosa canina si inseguono. Giaggiolo, prugna e ciliegie (quelle bianche e rosse) completano e addolciscono. Poi un lieve sottobosco rinfresca prima che le note di speziate e di tostatura (tabacco da pipa, chiodi di garofano, cannella, vaniglia) arrivino ad imprimere il loro timbro sensoriale. Sentori bilanciati, puliti e con una rotondità che evidenzia a pieno la surmaturazione.
Il sorso invece è una vera sorpresa, come se il Maestro voglia farci capire che la complessità è sempre dietro l’angolo. L’immediata sensazione quando il vino arriva in bocca è di una stupenda aranciata. Il tannino è evidente ma piacevolissimo. Secco e non particolarmente caldo. Persistenza non lunga a sfatare il mito di una surmaturazione stucchevole. Non c’è particolare struttura, c’è tanto fascino intrigante. Il naso dice una cosa, il sorso ti spiazza.
Virgilio ne sarebbe entusiasta e, per quello che può valere, anche io.
Per il Dante, facciamo sempre vendemmia tardiva (siamo sulle 5 tonnellate per ettaro). L’unica piccola accortezza è andare con una pinza da ferramenta, quindici giorni prima della raccolta, a snervare i piccioli dei grappoli che secondo noi non sono ancora arrivati a maturazione. Questo termina il processo di scambio tra vite e grappolo facendo iniziare l’appassimento. Così si evitano sentori erbacei. Non c’è posto migliore di un appassimento in vigna. Così ci sono anche dei sentori di passito.
Il vino di punta non poteva che essere dedicato al Sommo Poeta Dante. Tanto per ribadirne il valore, il vino è custodito in una bella confezione. La bottiglia è di quelle massicce dunque con un certo peso. Rispetto alle altre, il nome del vino, Dante, appare già sul frontale. Nel retro invece fa bella mostra l’immagine di Dante Alighieri. Davvero suggestiva.
Già nel calice il vino da una bellissima impressione per quel suo colore rubino, vivo e luminoso: la vendemmia tardiva è li in bella mostra.
I sentori avvolgono per la loro pastosità di una ciliegia, marasca, molto matura; prugna e melograno; mela cotta nella vaniglia e cannella con gli immancabili chiodi di garofano; cioccolato e tabacco. Poi un tocco di balsamico arriva a far aprire il naso consentendo di apprezzare ancor di più i meravigliosi e ampi sentori nonché l’inevitabile alcol tipico di una surmaturazione. Tutto è sapientemente bilanciato tanto che le evidenti note speziate non infastidiscono anzi, intrigano.
Il sorso lo definirei completo e grandioso. Fresco nonostante i suoi 4 anni (ho provato la 2020) e secco. Pastoso, perfettamente bilanciato con una piacevole altalenanza di note fresche e dolci. Ampio, grandemente ampio e d spessore, con le note fruttate che intrigano, meravigliano, stregano. Sembra di bere un Amarone che grazie al Montepulciano e soprattutto al Cannonau, risulta meno pastoso. Finale, lasciatemi dire, memorabile.
Può essere bevuto anche da solo purché non da soli. Una simile perla, va condivisa o, perlomeno, usata in meditazione
In questo spicchio di terra, il mare dista solo 500 metri. I pendii formano una vallata che si apre verso il mare stesso consentendo ai venti dell’Adriatico di cullare i grappoli e le foglie delle viti. Qui un tempo molto ma molto remoto, c’era solo mare.
Abbiamo trovato proprio le conchiglie nel sistemare i terreni. La componente iodata è pazzesca. Stiamo progettando di impiantare un nuovo vigneto a circa 2 km, completamente esposto alle correnti marine. Però stiamo facendo analizzare il terreno cosi da capire. Li impianteremo del Syrah e del Bordò.
Bordò?
Alle volte le stranezze raccontano storie. Storie che occorre andare a ricercare nei ricordi di persone anziane. Di quelle che oggi non sono nemmeno ascoltate perché “vecchie”. Eppure io ancora oggi ricordo, dopo oltre cinquanta anni, le storie che mi raccontava nonno Antonio quando mi teneva sulle gambe dinanzi al camino. Impresse indelebilmente nella memoria. Lo ringrazio per questo ma devo ringraziare soprattutto i miei genitori che mi hanno insegnato ad ascoltare le persone anziane avendone rispetto.
Cupra Marittima come tutte le Marche erano nel passato culla di pastorizia. Al pari dell’Abruzzo insomma. Ma anche al pari della Sardegna. Regioni famose e note per le pecore al punto da creare scambi commerciali dedicate a queste. Nei ricordi dei pastori sardi e dei contadini marchigiani c’è proprio una vite che chiamavano “sa vide burda”, “questa vite selvatica”, una vite selvatica che cresceva vigorosa proprio in Sardegna e che, magari legata proprio al commercio degli ovini, arrivò nelle Marche oltre trecento anni fa. Solo che nelle Marche la lingua sarda non poteva certo trovare dignità così quel “burda” passando di bocca in bocca, diventa “bordò”. Nome legato al colore degli acini. Bordeaux.
Il Bordò, poco noto e certamente non fine per il nome dialettale che portava, venne via via espiantato a vantaggio del Montepulciano e del Sangiovese molto più commerciale e adatti alle cantine sociali della zona.
Solo studi recenti hanno evidenziato come quello che poteva sembrare un vitigno autoctono marchigiano altro non era che il clone 158 del Grenache sardo, ovvero Cannonau.
Grazie a pochi produttori locali che hanno compreso come il Bordò, alias Grenache, alias Alicante, alias Garnacha, alias Tocai rosso poteva trovare in questo territorio una espressione capace di dire la propria nel panorama enologico nazionale ed internazionale, è stato finalmente rivalutato. Si deve forse a Marco Casulanetti di Oasi degli Angeli l’aver ritrovato un vigneto abbandonato per produrre il suo Kupra.
Un vino spettacolare. Vogliamo ricalcare il passato del territorio. Abbiamo trovato le marze e stiamo facendo fare la preparazione massale per impiantarlo nel nuovo vigneto.
Cerbero, una azienda che attualmente produce circa 10.000 bottiglie l’anno, vinificando tutta la produzione con rese bassissime (degne del Bordeaux, quello francese…). Con il Bordò, quello marchigiano, arriveranno a circa 18.000 bottiglie. Poche, molte, non so. Di certo se manterranno (anzi aumenteranno come sostiene Samuele) il livello qualitativo, andranno lontano.
Il nostro obiettivo è di far terminare il lavoro da costruttore a papà così che possa dedicarsi a pieno alla cantina e all’enoturismo. Lui dice che nel vigneto siamo lui, Fabio. io i cagnolini e le forbici mentre in cantiere è un gran casino.
Ecco, questa è la famiglia Rivosecchi. Papà Vittorio è felice perché sta piano piano costruendo il suo sogno. Fabio è felice perché non ha dovuto studiare e può scorrazzare sul trattore. Simone è felice perché ha di che sperimentare e far si che il dado tratto sia sempre più di stimolo. Mamma Marianna forse è la più felice. Perché che ha tutti a casa così che la famiglia è sempre unita.
A Simone, vista proprio la felicità che regna in famiglia, voglio dare un consiglio per un atro tatuaggio una frase di Marco Tullio Cicerone
Qui beatus est, non intellego, quid requirat, ut sit beatior.
Non comprendo cosa voglia cercare per essere più felice chi è già felice.
Ivan Vellucci
ivan.vellucci@winetalesmagazine.com
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