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27 Luglio, 2024

Cirò Wine Festival. Torna ad Agosto

La Calabria è La terra del vino. Terreni meravigliosi, esposizioni perfette, clima stupendo. Eppure pochi conoscono i vini calabresi che hanno invece espressioni di indubbio valore. Occasioni come quella del Cirò Wine Festival di Agosto hanno il grandissimo pregio di portare alla ribalta i vini di Calabria e farli conoscere a chi si avvicina a questo mondo senza pregiudizi. Cirò è la terra del vino per vocazione. Da secoli sulle colline che guardano il mare, produttori illuminati e famiglie da sempre dedite all’agricoltura, hanno impiantato vigne che si trasformano nel vino calabrese più conosciuto al mondo. Una tradizione che oggi unisce storiche cantine ai giovani vigneron che con lo stesso spirito intendono valorizzare e promuovere quella storia millenaria che oggi trova la casa comune nel “Consorzio di tutela e valorizzazione dei vini Cirò Doc e Melissa Doc”, presieduto da Raffaele Librandi, che ad agosto da diversi anni, organizza il Cirò Wine Festival evento di promozione della Doc (in attesa di diventare docg) più antica di Calabria. Dal 1 al 10 agosto dunque le cantine che aderiscono al Consorzio di tutela, guidato da Raffaele Librandi animeranno il territorio dello storica Doc calabrese, prima della grande festa finale a Madonna di Mare. Degustazioni nelle cantine, tour tra le vigne, la Masterclass (il 9 agosto alle 16.30) con Matteo Gallello sui caratteri identitari del Cirò e il talk con la stampa Enogastronomica e i social media wine della Calabria. Oltre alla Masterclass seglialiamo, sempre il 9 agosto a partire dalle 18:30 il talk che vedrà al centro il Cirò e le sue radici. Il Gaglioppo e le altre uve autoctone diventano il pretesto per focalizzare l’attenzione su un territorio straordinario, ricco di biodiversità, cultura e gastronomia in un mix perfetto che fa da catalizzatore per una grande settimana dedicata al vino e ai suoi protagonisti. Un evento dunque  con un ricco programma tra vigne e cantine che si chiuderà, come ormai da tradizione, il 10 agosto, nella notte delle stelle cadenti, nello spazio dei Mercati Saraceni a Madonna di Mare, con i banchi d’assaggio delle cantine aderenti al consorzio, il cibo del territorio e l’immancabile musica con il concerto dei Ricci di mare. Una vera festa per celebrare la Calabria, il cibo, il vino.  
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26 Luglio, 2024

Papalino. Di padre in figlio. Con entusiasmo

L’entusiasmo è quella forza che muove il mondo. L’energia vitale e propulsiva in grado di farci arrivare laddove non avevamo nemmeno idea si potesse. C’è chi ce l’ha innata e chi deve far ricorso ad aiuti più o meno leciti per farla propria. Solo che se si è in questa seconda modalità, finito l’effetto, altro che entusiasmo, si cade nella depressione.
Certo però che per creare e gestire una azienda, qualunque essa sia, l’entusiasmo da solo non basta. C’è bisogno, ad esempio, di soldi così come di capacità e professionalità. Oltre che una bella dose di fortuna. Per non parlare di tanta ma tanta forza. Erminio Papalino è una di quelle persone che racchiude in se tutte queste caratteristiche. Personalmente, lo definirei più propriamente un rullo compressore. Un pò come si immagina che sia un venditore di Folletto o di auto usate: provate a rimanere qualche minuto soli con un personaggio del genere e vi ritroverete con un aspirapolvere nuovo o una vettura usata.
Erminio sì magari vuole vendere le sue bottiglie, ma quello che prima di tutto vuole far emergere è il suo territorio e la sua azienda che ora è intestata al figlio Gabriele. Coinvolgendolo, integrandolo, contaminandolo con tutto il suo entusiasmo. Di padre in figlio L’azienda agricola Papalino nasce dall’idea di mio padre quando nel 1960 con le agevolazioni dell’epoca della Piccola Proprietà Contadina, ha acquistato tredici ettari a Castiglione in Teverina. Insomma un finanziamento le cui ultime rate del mutuo sono state estinte nel 1990. Ultime rate che ho pagato io. Quattro milioni e centomila lire. Ho ancora l’atto originale. Finanziamento a trenta anni. Centomila lire all’anno. Papà faceva il bracciante agricolo, il fattore di un “sor”, un benestante. È diventato proprietario. Lui ha sempre fatto produzione di cereali, olive e uva. I filari erano a coltura promiscua a 12 metri di distanza per avere le coltivazioni in mezzo. Le viti erano a stucchio ovvero maritate. L’albero veniva potato cosi che sui quattro rami venivano messe le trecci di filari. Un pò per volta. Mettiamo le cose in fila perché se avessi avuto una telecamera per filmare il nostro incontro avreste visto Gabriele ed il sottoscritto ammutoliti ad ascoltare il racconto di Erminio. L’entusiasmo appunto. Quello di un uomo che dal padre, con il padre e con il figlio, ha fortemente voluto valorizzare un investimento che aveva rappresentato lo smarcarsi dal lavoro sotto padrone.
Tredici ettari, diventati poi la metà alla morte del padre poiché divisi con la sorella, sono per Erminio prima, Gabriele poi, un cruccio. Tenerli senza valorizzarli non aveva proprio significato.
Storia comune. Già vista si direbbe. La solita storia di un figlio che gioca a fare il vignaiolo mantenendo il suo lavoro principale.
Sarà certamente la solita storia ma quando ti ritrovi così pochi ettari di terreno non è che puoi fare altrimenti. Al massimo vendi la terra e amen.
Ricordo che pure mio papà acquistò un pezzo di terra a Latina. Ne aveva tanta a Santi Cosma e Damiano, il paese nel quale era nato. Tanta con piante di olivi su terreno scosceso. Lavorare li era difficile e soprattutto lontano. Così un pezzo di terra vicino casa poteva essere un ritorno alle origini. Durò poco e il terreno rimase incolto fino alla sua morte. Con i miei fratelli lo vendemmo per evitare che il Comune continuasse a multarci perché diserbavamo in ritardo (però il Comune stesso lasciava le aiuole e i giardini pubblici come se fossero giungla). La terra del papà di Erminio era un pò così. Anche se non così incolta. C’erano le piante di olivo. Anche quelle trecento impiantate nel 1995, anno di nascita di Gabriele. Piano piano le forze del babbo sono venute meno. Ho sempre dato una mano ma mai a pieno. I filari di coltura promiscua, sempre meno redditizi, vennero estirpati. Rimanemmo con 5000 mq di vigneto. Ecco che l’entusiasmo arriva. Non lo vedi arrivare. Non te ne accorgi. Ti coglie come una folata di vento che sposta le tende arrivando a farti vedere fuori dalla finestra senza che lo hai veramente voluto. Gli occhi guardano e se hai l’entusiasmo, vai in una direzione. Altrimenti nell’altra. Cos’è che mi spezza il cuore tra canzoni e amore
Che mi fa cantare e amare sempre più
Perché domani sia migliore, perché domani tu
Strada facendo vedrai
Perché domani sia migliore, perché domani tu Il vigneto non era più sostenibile. Ho pensato di fare tre ettari di vigneto specializzato. Elevare la mentalità vecchia dell’azienda. Solo vitigni autoctoni. Sangiovese, Montepulciano, Grechetto, Malvasia, Trebbiano, Merlot. Nel frattempo il babbo se ne era andato. Mia sorella si è venduta la parte spettante e io sono rimasto con i miei sette ettari di terreno e il casolare preso con il conguaglio. Piuttosto che conferire le uve alla cantina sociale volevamo fare qualcosa di più redditizio. Abbiamo preso un enologo, Maurilio Chioccia, un personaggio importante che crede in ciò che fa e soprattutto ci siamo trovati. Io a causa delle mie dimensioni, non ho voglia di vendermi per quello che non sono. Con i miei tre ettari ti potevo dare solo la qualità e ciò che sono. Erminio l’entusiasta. Con il sorriso e gli occhi che gli sorridono ricorda quei tempi. Era il 2009. Ne parla come se fosse accaduto da poco. L’entusiasmo nel rivivere quei momenti è palese. Lui è un Caterpillar. Un fiume in piena che ha bisogno di raccontarsi e raccontare per far si che il suo entusiasmo possa fluire liberamente. Magari contagiando il figlio Gabriele che un pò si sente investito da una responsabilità importante non essendo ancora pronto (deve ancora laurearsi!). Perché ti serve la mia collaborazione? Guarda, fino al taglio dell’uva ce la faccio da solo perché sono un perito agrario, il resto, in cantina non sono in grado. Aò, guarda che io in cantina il vino te lo rovino e basta. Il lavoro lo devi fare tu in campo. Aiutami a mettere nella bottiglia le caratteristiche del vitigno e il territorio dal quale proviene. Ma tu lo sai cosa mi stai chiedendo? Sarà una impresa ardua perché il mercato non è pronto per capire cosa può raccontare un territorio. Maurilio io in testa ho questo. Vediamo cosa possiamo fare. Erminio che è si entusiasta, è si un Caterpillar, è si un idealista ma soprattutto è uno che non vuole fare le cose tanto per farle. Sa cosa vuole. Essere un rappresentate gli fa capire che nel mondo se vuoi avere successo devi differenziarti. Se poi sei piccolo, devi anche rappresentare qualcosa. Altrimenti chi ti calcola?
Esaltare le caratteristiche del vitigno e del territorio diventa non solo una esigenza stilistica ma l’unico vero modo di emergere. Nel 2014 abbiamo vinto la medaglia ai Vini buoni d’Italia come miglior Grechetto. Questo ci ha permesso di affinare di più la caratteristica di vini che somigliassero sempre di più al territorio di provenienza. Abbiamo concentrato le forze sul Grechetto. Vediamo cosa possiamo fare, ci siamo detti. Oggi facciamo una vendemmia a scalare ovvero con diversi stati di maturazione e concentrazione zuccherina anche in surmaturazione. Tre vendemmie con fermentazione in acciaio e una piccola parte in tonneau in media tostatura con rovere francese. Dopo l’assemblaggio di fermentazioni separate con prove e controprove. Poi affinamento sulle fecce fini per otto/nove mesi circa. In effetti l’Ametis che ho assaggiato (annata 2021) l’ho trovato davvero interessante nella sua semplicità. I sentori sono semplici è vero ma due cose hanno catturato la mia attenzione. Anzitutto la croccantezza dei frutti e la freschezza dei fiori. Poi la nota balsamica che è di quelle che ti invita a respirare a pieni polmoni.
Il sorso poi mi ha entusiasmato per l’estrema sapidità e la grandissima freschezza amalgamati da un agrume che pulisce la bocca in maniera egregia. Il finale lievemente ammandorlato identifica e marchia il Grechetto. Verticalissimo e pulitissimo richiama al morso qualcosa di carnoso come una aragosta così da bilanciare perfettamente il percorso che ha in bocca il vino: partenza morbida, salivazione abbondante, freschezza, pulizia di bocca, amarognolo finale. Fantastico e unico. Un pò forzatamente un pò per mezza passione ho coinvolto Gabriele che è il titolare dell’azienda. Si divide tra università ed il trattore. Anche con le scaramucce padre figlio. Mi da una mano sulle vendite. Lui si occupa del marketing. Gabriele Ringrazio il supporto del babbo ma il mio contributo si limita al marketing e alla comunicazione. Sul resto, ovvero la parte commerciale, sulla quale si dedica da trent’anni può insegnarmi molto. Sul campo sto muovendo i primi passi. A seguito del diploma scientifico girovago tra branding, storytelling, ecc. è importante ma il contesto è familiare e va adattato bene. Avere a che fare con un papà come Erminio non deve essere stato semplice per Gabriele. Non che sia invadente o pressante ma essendo un Caterpillar il rischio è di coinvolgere in maniera involontariamente dirompente. Il babbo anche per vicissitudini personali ha sempre cercato di coinvolgermi. Ricordo una scenata tipica tra mamma e babbo quando a quattro anni papà mi ha fatto salire sul trattore. Fino al 2004, abbiamo vissuto qui al casale. Poi ci siamo trasferiti ad Orvieto. Durante la vendemmia diamo una spolverata e dormiamo qui. A dieci anni mi ha costruito una casa sull’albero. Con la sega potavo qualche ramo sulla casa. Insomma tutto è avvenuto in maniera graduale. Diciamola tutta però, i lavori agricoli li sta portando avanti lui. Adesso la mamma non si arrabbia più perché sto sul trattore. Semmai perché non rispondo al telefono in quanto sul trattore. In cantina, quando io sono impegnato, fa anche lui. Ha bisogno di essere seguito perché gli manca la formazione tecnica. L’enologo ci da le dritte ma poi ci sono delle cose per estro, come per il Violone ovvero il Montepulciano della Tuscia. Finita la fermentazione il 25 ottobre abbiamo svinato ed è rimasto sulle fecce fino a marzo. L’enologo mi chiamava per invitarmi a svinare. Poteva andare in riduzione. Assaggiavo il prodotto ogni settimana e dicevo all’enologo: devi stare tranquillo. Il vino ha un’altro sapore rispetto all’anno precedente. È stata una sfida con il patema d’animo. Insomma ci mettiamo del nostro. Un vero duetto quello di Erminio e Gabriele. Me ne sto in silenzio e lascio che siano loro, padre e figlio ad esprimersi. Da un lato Erminio con la sua forza giocosa che con orgoglio coinvolge Gabriele. Gabriele che ha la voglia di non deludere il padre ma, soprattutto, l’umiltà per imparare piano piano. Una umiltà che è anche di Erminio. Non c’è niente in loro che sappia di diverso. Ho delegato la potatura due anni fa e non mi è piaciuto. Adesso la facciamo noi. Bello vederli insieme. Bello capire quanto questo progetto sia qualcosa di famiglia e quanto la terra possa unire padre e figlio. Costruendo senza fretta, nel tempo. Seguendo le vendemmie come si segue un figlio nella sua crescita. La terra, la vigna, il vino. È capace anche di questo. La forza dirompente di un amore che può unire come dividere. Senza mezze misure. Il Grechetto è quello dove ci mettiamo molto impegno. Una sfida. Poi Lazolum che è Procanico e Malvasia. È il vino più semplice nonostante ha i suoi 14 gradi. Un pò in controtendenza rispetto ai vini moderni. Un vino di struttura nonostante la sua complessità. Lazolum è un vino che è si strutturato per un bianco ma al contempo semplice e piacevole. Un bianco che sa di bianco. Diretto e senza fronzoli. Colore da bianco ovvero paglierino al limite del verdognolo. Sentori di entusiasmante mela verde Granny e pera Smith; lime, mentuccia e salvia. Insomma, freschezza e piacevolezza.
Sullo stesso piano si presenta in bocca con però la struttura che si fa sentire proprio nella croccantezza di quella mela scoperta al naso. Bellissima la sensazione agrumata che offre una eccellente pulizia di bocca e una inaspettata morbidezza finale che definirei vellutata. Fresco, secco, sapido e non particolarmente persistente. Insomma, molto ben equilibrato, molto semplice, molto piacevole. Morbido il giusto, fresco il giusto.
Con una pasta fredda al pesto e pomodorini sta da Dio. Ametis, Grechetto in purezza, che fa della semplicità, non banalità, la sua forza. I suoi sentori esprimono ancora la croccantezza della pera e della mela verde; la freschezza degli agrumi e dell’erba tagliata che diventa fieno. I fiori di campo sono così vivi da fornire la sensazione dell’incontro tra la brezza del mare e il venticello del campo dove sbocciano. Sentori delicati che si amplificano grazie a quel velo di balsamico che aggiunge alla semplicità, pienezza.
Il sorso è secco e fresco, caldo e così sapido da esaltare in bocca la pulizia che il senso di agrumi fornisce. Un vino fresco, verticale, che lascia la bocca pronta e vogliosa del nuovo sorso, impaziente di addentare qualcosa di carnoso come una aragosta. Il finale leggermente mandorlato (tipico del Grechetto) rende le sensazioni intriganti e non banali. Solidago, Violone in purezza. Fermentazione e affinamento in acciaio. Credo che rispecchi bene il territorio. Un rosso che rappresenta la zona. Ci sono ancora margini di miglioramento. Magari una riserva. Quest’anno è entrata in produzione una area di due ettari piantata da me e Gabriele. Tutto da soli nel periodo del covid. 6666 barbatelle. Una ammazzata. Questo l’abbiamo fatto noi. Arriviamo sempre lunghi con le lavorazioni perché entrambi abbiamo a fare. Siamo orgogliosi di dire che il vino che sta dentro questa bottiglia è garantito per il controllo della filiera. “Credo che rispetti bene il territorio”. Parto da questa affermazione di Erminio per descrivere il Solidago che ho assaggiato nella versione 2021. La Tuscia è un territorio semplice, scelto dagli Etruschi per il loro stanziamento. Pochi fronzoli e tanta concretezza condita da prodotti genuini ottenuti anche grazie alla lontananza dai grandi centri. Così è il Solidago. Un vino semplice, schietto, sincero, con pochi fronzoli. Non è necessario accompagnarlo con cibi particolari perché basta una tagliatella al ragù così come uno spaghetto al pomodoro; un tagliere di formaggi e salumi così come una carne alla brace.
Non serve mettere il naso a lungo nel calice per carpire chissà quale complessità nei sentori perché questi sono vivi di frutta croccante e non particolarmente matura (arancia, ciliegia, prugna); di fiori rossi senza strafare; di un leggero sottobosco; di un balsamico che fa ricordare come si è in aperta campagna.
Non serve ragionare tanto sul sorso perché fresco, secco, con il tannino maturo ma non invadente; morbidezze e durezze che si bilanciano armoniosamente e una struttura non altezzosa ma nemmeno banale; caldo, il giusto; un finale che timidamente vorrebbe andare verso l’amarognolo ma per mantenere la semplicità, non ci va proprio.
Insomma un bel vino, ben fatto, ben calibrato. Rappresenta la Tuscia a pieno nella sua semplicità e nel modo di non apparire. Con sostanza Il Senauro è il blend di Sangiovese e Merlot. Barricato. Abbiamo sei barrique in genere. Quest’anno quattro. 1780 bottiglie. Finito quello non c’è più. Il Grechetto a seconda della richiesta facciamo tremila duecento o seimila seicento bottiglie. Finito non c’è più. Se inizio ad andare ovunque non sono più io. L’enologo mi dice che devo essere credibilità. Tutto il business si basa sulla credibilità. Con tre o cinque ettari di vigneto non puoi avere tanti vini. Rubino con unghia granata nel calice. Non serve avvicinare il naso per sentirne gli effluvi. Avete presente quando Abus Silente agita la bacchetta nell’aria e da questa escono magiche scie? Ecco, questa è la sensazione avuta nel versare Senauro nel calice venendo avvolto nei suoi sentori di ciliegia e prugna matura. Sensazione arricchita poi dall’arrivo dell’immancabile violetta e di tanti fiori in potpurri. C’è sì dolcezza ma anche tanta freschezza così da creare una convincente avvolgenza. Tabacco, cannella e noce moscata sono la dolcezza; un che di vegetale, pepe e chiodi di garofano la pungenza. Piccoli spruzzi di balsamico allargano le narici e facilitano l’olfazione.
Nonostante i suoi 4 anni (ho aperto la versione 2020 che ha fatto 10 mesi di barrique), c’è al sorso una bella freschezza accompagnata da tannini maturi non invadenti. Secco, sapido e con un calore percepito inferiore ai 14.5° dichiarati. Persistenza buona, equilibrio raggiunto e, soprattutto, un finale di bocca molto gradevole che amplifica la voglia di continuare a berlo. Con una tagliatella al ragù, lo vedo perfetto Abbiamo la certificazione SQNP e siamo ecosostenibili. Ero sostenibile da quindici anni e non lo sapevo. Da dodici anni non uso più diserbo. Ho sempre cercato di fare qualcosa di naturale. Abbiamo il protocollo per il terreno e uno per la cantina. La scelta di Erminio e Gabriele è affidarsi per la distribuzione ad un partner di fiducia, Partesa che è sì un colosso ma di qualità. Legarsi in esclusiva può sembrare insolito, ma non per uno come Erminio che sa bene cosa voglia dire il mercato e la distribuzione. Partesa sta mettendo in piedi un team di wine specialist per aggredire il mercato con le peculiarità del territorio. Il vino di Papalino è rappresentativo di Viterbo e provincia. Quando sono venuti gli ho fatto assaggiare prima le vasche in modo da far sentire che non c’è tanta differenza. La base è la stessa. Sei assaggi di vasca, sei vini diversi. Non c’è un vino uguale all’altro. Così mi hanno detto. Tutto quello che gli avevo detto lo hanno ritrovato nella bottiglia. È stato bello perché hanno riconosciuto la peculiarità e la corrispondenza tra vasca e bottiglia. Un grosso vanto. Siamo una azienda che lavora correttamente e crediamo in quello che facciamo. È quando si parla di futuro che le differenze di vedute, figlie di generazioni diverse ma anche di formazione diversa, vengono (e meno male) fuori. Non divergenze ma approcci diversi. Che arricchiscono invece di provocare contrasti. Erminio che guarda Gabriele orgoglioso di ciò che dice e pensa. Anche se poi si fa come dice lui. Nella mia testa l’idea è di rendere questa azienda economicamente sostenibile. Abbiamo bisogno di aumentare le vendite ed essere presente sul mercato. Aumentare il fatturato insomma. Nel prossimo futuro aumentare la numerica delle bottiglie senza diventare un grandissimo produttore. Qualche situazione confinante da acquisire. Io più che sulla numerica delle bottiglie investirei sull’esperienza del territorio. Con il babbo ci litigo spesso su sta cosa. Io non credo che noi possiamo diventare l’Antinori della Tuscia. Castiglione è un posto piccolo e non si può tralasciare il territorio. Mi piacerebbe poter trovare il modo di riportare in vita due tre filari di quella vecchia vite e condurli come li conduceva il nonno. Ho un ricordo di nonno che andava a fare i vinchi legando i capi. Una esperienza da ripetere e da fare vivere. Potenziare il lato esperenziale e valoriale. In fondo, non è detto che l’una escluda l’altra. Certo, per fare quello che Gabriele ha in mente occorre la sostenibilità dell’azienda. O forse, per raggiungere quest’ultima, serve proprio la parte esperenziale. Una sfida che solo il tempo potrà validare. Di certo, questa azienda si basa su fatti concreti che sono principalmente la qualità dei prodotti per i quali Erminio ha voluto scegliere nomi evocativi. Se li è studiati e li ha fortemente voluti così. Un vero venditore! Per i bianchi Ametis e Lazolum, pietre preziose.
Ametis richiama l’Ametista la pietra legata al vino per via di Ametista, la ninfa che, perseguitata dalla corte e non gradita al dio Bacco, chiese disperata a Diana di trasformarla in cristallo. Bacco, adirato da questo le scagliò contro il suo calice pieno di vino dando vita al colore violaceo del cristallo. I Greci e i Romani credevano che proteggesse dagli effetti inebrianti del vino così che durante i banchetti offrivano quest’ultimo in coppe di cristallo.
Lazolum è la Lazulite che richiama il lapislazzulo, la stupenda pietra azzurra usata anche da Michelangelo per affrescare la Cappella Sistina. Scoperti più di seimila anni fa i lapislazzuli erano usati in Mesopotamia e dagli antichi Egizi per adornare gioielli e monili come simbolo di potere e immortalità. I Romani li usavano, in polvere, come afrodisiaco. Nel Medioevo, sempre in polvere, come pigmento per dipingere.
Solidago è la Verga d’oro, è una pianta la cui infiorescenza è così particolare da sembrare dorata. Cresce tipicamente nell’alto Lazio e in Toscana.
Senauro è il nome arcaico del Cinabro ovvero del minerale costituito da solfuro di mercurio dal tipico colore rosso. Si estraeva in grandi quantità sul Monte Amiata ed era la base di tutti i manufatti rossi nonché materia prima della pietra filosofale.
Calus infine. Erminio dice che significa per gli antichi Etruschi “buono, eccellente”. In realtà Calus per gli Etruschi era il mondo dell’oltretomba e degli Inferi. La scelta dei nomi dei vini è lo specchio della personalità di un personaggio come Erminio, di un entusiasta come Erminio, di un sognatore come Erminio. Ha contagiato Gabriele e contagerà anche chi si avvicinerà ai suoi vini che fanno della semplicità e schiettezza la loro forza ed unicità.
Perché per sognare, non occorre fare cose fantastiche ma solo semplici. Con entusiasmo.   Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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25 Luglio, 2024

L'altro volto del Metodo Classico (by AIS LAZIO)

IL COSA E IL DOVE Lo scorso 14 Giugno, l’AIS LAZIO ha chiuso in bellezza il proprio Anno Sociale con un Evento completamente dedicato agli Spumanti Metodo Classico che ha riempito le sale del ROMA LIFESTYLE HOTEL di Roma. Una serata nella quale il numerosissimo pubblico accorso rischiava di perdersi d’animo non sapendo da dove cominciare. Una serata come poche, una serata davvero irrinunciabile.     GLI ASSAGGI 119 Aziende, 122 Etichette… Tanto, troppo, soprattutto per uno solo come me che, per dipiù, doveva anche andare ad un altro evento e c’aveva i minuti contati. Confesso che avrei ficcato il naso ovunque ma ho dovuto fare di necessità virtù e scegliere saltando a piè pari quanto già conoscevo e affidandomi a estro, occhio e fortuna. Certo era difficile sbagliare (anche se qualche passaggio a vuoto c’è stato) comunque, dal mio taccuino di appunti, Vi propongo le mie note d’assaggio dalle quali ho estrapolato la consueta, particolarissima e, ancora una volta, cattivissima classifica. Dategli una letta, prendetela per quello che è e correte ad assaggiare. IL PODIO LAMBRUSCO DI SORBARA DOC SPUMANTE METODO CLASSICO DOSAGGIO ZERO MILLESIMATO 2018, SILVIA ZUCCHI (EMILIA ROMAGNA): si apre al naso su note di more, fragoline di bosco e lamponi che sono quasi caramelle per proseguire lungo un sentiero che attraversa fresche succosità di mandarino, mineralità gessose e vegetalità neanche troppo latenti di erba da sfalcio. Sorso che i piccoli frutti riempiono e che quella spuma quasi croccante e la progressione sapida rendono quasi compulsivo. Un vino che Vi porterà sulla cattiva strada da spendere al pasto ma anche solo per liberare i pensieri. Si becca il mio premio “LEVATEMELO”. Da bere ascoltando “Ancora, ancora, ancora” di Mina. (92 Punti). SPUMANTE METODO CLASSICO “MONTMARY” EXTRA BRUT ROSÉ, GROSJEAN (VALLE D’AOSTA): Pinot Nero batte Chardonnay 60 a 40. L’impatto olfattivo è di amaricanti balsamicità. Segue poi il lungo corteo di quei piccoli frutti rossi che riempiono il sottobosco e una freschezza agrumata che ricorda il mandarino. Il sorso è cremoso, equilibrato e corrispondente con l’imperiosa sapidità minerale a segnare la strada dell’assaggio e una freschezza alpina a cercare di tenerle botta. (Quasi 90 Punti). Da bere ascoltando “REVEREND LEE” di DIANE SCHUUR (GRP LIVE IN CONCERT). VALLE D’AOSTA BLANC DE MORGEX ED DE LA SALLE DOC SPUMANTE METODO CLASSICO PAS DOSÉ “GLACIER” 2020, CAVE MONT BLANC DE MORGEX ET LA SALLE (VALLE D’AOSTA): solo Prié Blanc per un naso “boom” tutto erbe e alpine e pascoli verdi. Genepy e genziana affiancano i fiori di campo, nocciole fresche, agrumi e quella mineralità che lavora nell’ombra e affianca un ‘idea di perlinato da rifugio alpino. Sorso di granitica verticalità, coerente, identitario, affilato e ben deciso a richiamare la frutta secca e gli agrumi. (90 Punti, non di più ma certamente non di meno). Da bere ascoltando CANTO D’INVERNO” dei FUROR GALLICO. I QUASIQUASI LAMBRUSCO DI SORBARA DOC SPUMANTE METODO CLASSICO “TRENTASEI”, CANTINA DELLA VOLTA (EMILIA ROMAGNA): vendemmiato nel 2015 e sboccato lo scorso Dicembre vi lascia apprezzare una deflagrazione di lamponi e ciliegie, la schioccante freschezza della melagrana e una ben più che una nota di macchia mediterranea. Il sorso è inarrestabile e godurioso, fin troppo preciso nella coerenza con l’olfatto. Forse (FORSE) un pochino brusco in chiusura ma…ne vorrete ancora. Da bere ascoltando “36-22-36” degli ZZ TOP. (88/89 Punti). SPUMANTE METODO CLASSICO PAS DOSÉ “120+1”, MONTALBERA (PIEMONTE): propone un naso complesso ma di sbarazzina dinamicità che fa leva su pastefrolle lievitate e scaglie caramellate di frutta secca per introdurre agrumi e piccantezze che sanno di spezia e mineralità. Sorso coerente, moderno, quasi salato e ben fresco cui una carbonica un po’ meno esuberante avrebbe fatto guadagnare un bel paio di punti. (88 Punti).   SALENTO IGT BIANCO D’ALESSANO E FIANO SPUMANTE METODO CLASSICO BRUT MILLESIMATO 2013 (MAGNUM), ANTICA MASSERIA JORCHE (PUGLIA): sullo sfondo minerale si intravedono i fiori bianchi ma la vera sorpresa è una nota intensa e profonda di cenere e camino spento, quasi un invito alla calma con la quale sgranocchiare la frutta secca che apprezzate in chiusura. La verticalità del sorso viene gestita in maniera egregia dalla cremosa effervescenza che veicola i sostanziosi richiami fruttati. Ne risulta un assaggio gastronomico ma affatto borioso. Da bere ascoltando “LU RUSCIU TE LU MARE” degli ALLABUA. (88 Punti). SPUMANTE METODO CLASSICO “SOGNO” DOSAGGIO ZERO MILLESIMATO 2017, CIROTTO (VENETO): un “SOGNO” fatto di solo Manzoni Bianco che è iniziato per “sbaglio” nel 2008. Un olfatto dalla dimensione onirica, che culla con gentilezze di rosa e scuote con unghie affilate d’agrume e pot pourrì di erbe officinali. Sorso agile e scattante, cremoso quanto serve, fresco quanto deve, forse un po’ troppo brioso nel riproporre l’agrume paragonandolo all’olfatto. Sicuramente un bel bere ma…senza quel “plus emozionale” che mi sarei aspettato. (88 Punti). E ORA? Ora è intanto il momento di ringraziare l’AIS LAZIO per avermi ospitato e di ringraziare tutti i Produttori presenti (anche e soprattutto quelli che avrei voluto ma non ho potuto). Ed il momento dell’attesa: di una Edizione 2025 cui prometto sin d’ora dedicherò il tempo che merita e degli altri Eventi che l’Associazione organizzerà. “Last but not least” permettetemi di complimentarmi con l’amico Umberto (BEBBO) Trombelli che, nel corso della serata, è stato nominato MIGLIOR SOMMELIER DEL LAZIO. Roberto Alloi VINODENTRO
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23 Luglio, 2024

Vincent Gallo Blues

Capita a volte di incontrare persone totalmente sconosciute, di cui cominciamo a interessarci al primo sguardo, all’improvviso, prima ancora di dire una parola (Dostoevskij) Il tempo è passato tanto in fretta, mi sono girato e mi sono ritrovato più vecchio, ma più conscio di quello che è successo, purtroppo, per fortuna, non saprei dire. Spesso la noia viene a tirarmi i piedi, di notte, e nel marasma delle novità, la penna langue, ma scrivo, perché non dovrei? Non ho però più tutto il tempo di una volta. Ho sempre mal sopportato la retro-mania, fintanto che non mi sono reso conto che, ogni tanto, è necessaria. Il tempo è la cosa più preziosa che abbiamo, ed è quella che più facilmente buttiamo via, senza rendercene neanche tanto bene conto. Ci sono delle prove che ci fanno prendere coscienza di come la vita stessa sia una cosa così unica, importante.  È un periodo che nei media, in generale, ci sono raramente delle esortazioni ad essere migliori, ma ce ne piuttosto altre ad essere esplicitamente peggiori. Una cosa che mi fa sentire questo periodo molto volgare. Il fatto di scegliere ed usare un linguaggio, invece che un altro, è legato al desiderio di valorizzare e proteggere le cose che si ritengono importanti. Credo che le cose migliori si salvino così: studiando. Non è una questione di snobismo, piuttosto di preservare qualcosa di sé e della storia comune che si reputa importante, sano. Secondo me è importante occuparsi delle cose grandi, non solo delle cose basse. Oggi c’è un fortissimo stimolo ad essere bassi. Lo sceneggiatore migliore del mondo è la nostra fantasia, dare delle immagini già fatte mi sembra talvolta riduttivo, rispetto a questo. In quello che scrivo io cerco di mettere moltissime immagini, visioni. È sempre molto difficile fare qualcosa con musica ed immagini. Questa è la civiltà che ha sancito completamente il primato della vista sugli altri sensi, ma trovo infinitamente più discreto l’udito Arrivare in centro a Roma, alle spalle di Campo de Fiori, è un’immersione di immagini e suoni apparentemente disturbanti per un’anima irrequieta. Un’anima alla quale non è necessario chiedere la propria percezione, perché quell’anima si sente come un Vecchio Blues, come Vincent Gallo Blues. Siamo in Via del Pellegrino, siamo da Vino e Vinili. Qui lo spazio non è vissuto come un mero contenitore ma come un “interlocutore”, Marco e Giovanni “i re della cantina/vampiro della vigna” sono pronti ad accogliere e predisporre per loro stessa natura all’incontro e l’esperienza con il tempo. Nasce un confronto in un ritmo espositivo atemporale, nel quale passato e presente convivono in armonia; una dialettica materica che ne sottende un’altra teorica, fra struttura e sensibilità intellettuale, dove la riflessione sullo spazio fa da contraltare a quella sul tempo. Il loro confronto lascia comprendere che non sono in antitesi né di avere confini tra loro ma che da questo rapporto sono generate potenti suggestioni. Una forma circolare dei componenti che rimanda ad un simbolismo complesso di polivalenze semantiche e semiotiche. Le note di un giradischi “uso e consumo fai da te” suonano un Vecchio Blues, mentre sorseggiamo un Merlot Colli Orientali Friuli DOC 2020 Vie d’Alt, uve 100% Merlot . Vino dal bel color rubino brillante, dai profumi eleganti e nitidi di frutta e di bosco, dal corpo ben strutturato, caratterizzato da un ottimo equilibrio e da un finale esuberante. Il vino e la musica stimolano aree diverse del nostro cervello, per cui la loro associazione moltiplica le connessioni e regola una diversa e più ricca percezione dell’essere. Ne esce una degustazione complessa e profonda, che permette di riequilibrare il concetto spazio-tempo, realizzando una dimensione unica e parallela dove gli eventi avrebbero la possibilità di scorrere ordinatamente. Una dimensione temporale dove il tempo non si vede, ma si percepisce. Tutti viviamo nutrendoci di storie. Vi ricordate la gioia da bambini, quando ci venivano decifrate quelle impronte stampate sulla carta che anni dopo avremmo riconosciuto come lettere e parole? Quello di narrare è un rito che ci portiamo dentro da sempre. Da quando ci siamo riuniti all’interno ad una grotta attorno ad un fuoco per tenere lontano il buio. Ed è quello che cerco di fare io, con i miei racconti. Poco importa che sia per raccontarvi del mito di Crono e della sua reinterpretazione o anche solo di un luogo e del suo di vino che si fa strada in una “foresta”. Il mio desiderio è un altro. È una domanda. Avete voglia, per il tempo di una storia, di sedervi con me attorno al fuoco, e tenere il buio lontano ascoltando le note di un Vecchio Blues? Le note di Vincent Gallo Blues? LA PROPOSTA DELL’ENOTECA: Rotazione di circa 10 prodotti in mescita: Bollicine (italiane Metodo Martinotti), Vini Fermi Bianchi e Rossi e alcune proposte di rifermentati naturali.   Marco Sargentini Mi trovi su Instagram e Facebook Riflessioni Enologiche di un viaggiatore diVino
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19 Luglio, 2024

Maurizio (Pio) Rocchi. Le mani, l'artista, il vino

Vino d’Artista. Io sono un artista che fa il vino con le proprie mani. Una volta, tanti anni fa, ero alla Biennale di Venezia e mi imbattei in un’opera di Lucio Fontana. Avete presente quelle tele con un taglio verticale?
Alla Biennale di opere di questo tipo se ne trovano tante. Diverse, strane, stravaganti. Eppure profonde. Con un significato non propriamente immediato. L’arte moderna è questa. Trovare il significato attraverso un percorso. Spesso non visibile. Quasi mai illuminato. Arrivare al significato scavando dentro di se. Trovare la risposta senza che sia qualcuno a fornirla. Ci si può anche ridere e scherzare su opere così. Nel 1978 Luciano Salce dirige nel film ad episodi, Le vacanze intelligenti, Alberto Sordi e Anna Longhi, di mestiere fruttaroli. che…semo fruttaroli?
Si.
Che cosa vuol dire fruttaroli che vi piace la frutta?
Che ce piace…No, no noi la vennemo la frutta Venivano letteralmente spediti alla Biennale e in altri luoghi culturali dai figli emancipati con il risultato di sentirsi, sempre, completamente fuori luogo. Mi sentii anche io così nel non capire il messaggio dietro quel taglio. Dietro. È proprio la preposizione giusta per il significato che Fontana voleva attribuire al risultato del taglio sulla tela. Non un semplice squarcio ma qualcosa oggetto di studio, prove, applicazioni (provate voi a fare un taglio sulla tela con un cutter e vedete cosa esce!). Dietro dicevamo. Voler scoprire ciò che appartiene allo spazio che non è quello immediatamente visibile. La ricerca dell’oltre. Oltre lo spazio. Oltre gli spazi.
Quante volte ci siamo chiesto cosa c’è dopo o semplicemente dietro? Quante volte abbiamo rifiutato l’idea di capirlo? Quante volte ci siamo accontentati di quanto immediatamente visibile ai nostri occhi? Maurizio (Pio) Rocchi mentre mi parla, prende un foglio, lo frappone tra di noi e dice Io non ti vedo. Poi lo strappa in due creando un frastagliata e casuale linea verticale e continua Adesso mi vedi. Questa è una frattura. È tanto grande quanto grande è l’interesse da parte tua, se c’è l’interesse, verso di me. Fratture è la ricerca del nuovo. Il vulcano ad esempio: la lava esce dalla frattura. Esce nuova roccia. È la voglia di rompere la pellicola che ci impedisce di guardare oltre. Nasce dalla mia infinita continua curiosità. Lo premetto, questa storia potrebbe virare da un momento all’altro nel corso della lettura. Ciò a causa del personaggio che incontro per caso ad una fiera del vino. Maurizio Rocchi. Anzi, per la precisione Maurizio Pio Rocchi. O forse ancora meglio Maurizio Ivan Pio Rocchi. Di professione… Ecco di professione difficile da identificare. Almeno in prima battuta. Maurizio è prima di tutto un artista. Poi un vignaiolo. O viceversa vallo a sapere. Sarebbe come risolvere l’eterno enigma se è nato prima l’uovo o la gallina.
Non credo sia possibile. Ti fa subito simpatia Maurizio. Alto, la barba incolta. Abiti normali, quasi grunge forse. Una faccia che ricorda, anche se molto più magro, quella di Carlo Verdone dei primi tempi. Lo guardi e ti fa simpatia. C’è poco da fare. Romano di Roma come si suol dire. Con alle spalle una storia di quelle che ti lasciano con il punto interrogativo sulla faccia. E forse ho proprio quello quando iniziamo la chiacchierata. Anche se al tempo stesso mi viene da ridere perché mi ricorda quel Manuel Fantoni del film Borotalco. Sempre con Carlo Verdone. Un bel giorno senza dire niente a nessuno me ne andai a Genova e mi imbarcai su un cargo battente bandiera liberiana.
Feci due volte il giro del mondo e non riuscii mai a capire che cazzo trasportasse quella nave, ma forse un giorno lo capii: droga! Sono nato a via dei Banchi Vecchi al numero 53 al terzo piano. Un bel giorno mia madre si presenta con l’uovo, il limone e il caffè dicendo: dobbiamo diventare coltivatori diretti. Tu sei il terzo di cinque. La prima domanda fu: ma perché proprio io? Perché dovevamo diventare coltivatori ancora non l’ho capito. Avevo 19 anni e adesso ancora non l’ho capito . Una famiglia normale. Di quelle di una volta. Figli, figlie. Papà imprenditore edile che dava lavoro a oltre 120 persone. Mamma casalinga che si trova ad ereditare le terre dal proprio padre. Quella casa con la terra intorno dove si andava in vacanza in estate per dovere o per intramezzare le giornate al mare. Avevo sessanta giorni di vita quando mi hanno portato per la prima volta li. Poi ci si andava d’estate dopo la scuola. Ho cominciato ad andarci sempre più spesso e nel 1978 mi sono fidanzato con una ragazza di Tuscania. I flirt estivi. Che ricordi. Che emozioni al solo ricordare quei momenti. Erano flirt che duravano poche settimane o si trasformavano in storie di una vita. Vi ricordate il film Sapore di sale? Ecco così erano le estati. Perfetta rappresentazione di quei momenti. Perché di momenti si trattava.
Quel “fidanzamento” per Maurizio (Pio) non rappresenta certo l’amore della vita. Quello arriverà dopo (abbiate pazienza nel leggere). Di certo segnò il suo destino. La mia prima piccola tela l’ho dipinta il 22 settembre 1979. Ero fidanzato con la nipote di un pittore di Tuscania, Giuseppe Cesetti. Cominciai a dipingere sulle tele che lui scartava. A scuola andavo molto bene e i miei disegni venivano esposti. Ognuno di noi nasce artista ma decide giorno dopo giorno se rimanere tale. La creatività la si mette in tutte le attività che facciamo. Ve l’avevo detto che questa storia poteva prendere una piega inaspettata. Maurizio (Pio) è artista. Nell’animo. Voleva e vuole tutt’ora fare l’artista. Voglia di studiare il giusto e necessità (della quale si deve ancora capirne il perché) di diventare coltivatore diretto. Fatto sta che frequenta la nipote del pittore fino al 1984 quando diventa ufficialmente coltivatore diretto imparando ad essere un coltivatore diretto in tutto e per tutto. C’erano 33 ettari all’epoca. Adesso non c’è più molto. C’era tabacco e tante altre coltivazioni.
Per tutta una serie di coincidenze negative ho comprato l’azienda di mia madre come contadino. Era il 1991. Non volevo smettere di essere artista ma dovevo fare l’agricoltura. Mi ero pure iscritto ad agraria e mi mancano cinque esami per diventare agronomo. Non me ne è più fregato niente. Uno sono! Uno solo ma con tante energie. Maurizio (Pio) fa pure l’attore al cinema. Per nove anni, tra il 1985 e il 1994 partecipa con piccole parti ad una serie di film. Piccoli ruoli. Parlavo. Ho smesso quando Christian De Sica mi disse per te c’è qualcosa e per la prima volta ho fatto la comparsa. Ho detto basta. Ho imparato molte cose. Le maestranza nel mondo del cinema sono artisti. Grazie a quelle esperienze mi sono girato tre video. Ho fatto incontri molto interessanti. No mi sono mai risparmiato. Quando vedo che le cose non marciano come voglio io, lascio. Ci mancava pure il cinema adesso per ingarbugliare la storia. Artista, attore, contadino.
Il vino?
Il vino Maurizio (Pio) inizia a produrlo veramente nel 1991 senza sapere come si facesse. Da bambino entrava nelle botti di cemento per pulirle. Poco altro. Prima mio padre faceva il vino da un ettaro e mezzo vicino casa e legato all’oliveto. Facevamo il nostro vino. Ho ripiantato le varietà che conoscevo. Barbera e Sangiovese per il rosso, Trebbiano, Malvasia e Moscato per i bianchi. Ho imparato tutti gli errori che commettevo dai contadini che lavoravano li. Volevo fare il vino di artista. La prima etichetta era dipinta a mano. Mandai la prima bottiglia ad un dirigente della Regione Lazio. Le prime edizioni delle bottiglie le firmavo e numerate uno ad una. Al primo Vinitaly mi sono portato le bottiglie e le etichette per firmarle e numerarle a mano. Ho scoperto poi finalmente la stazione mobile e non dover imbottigliare ed etichettare a mano è stata una svolta. Nel 94 ho partecipato al mio primo Vinitaly. Alla camera di commercio era rimasto un solo stand. Lo prendo io ho detto. Sono andato con 500 bottiglie di vino rosso fatte a mano. Ne ho vendute 200 ad un signore di Monaco. Grazie a lui ho fatto anche una mostra a Monaco. Grazie al vino. Li mi sono gasato perché funzionava. Ho fatto il secondo nel 1995 ed è stata una esperienza tragicomica. Nel mondo del vino i rapporti tra produttori sono sempre connotati da un filo di ipocrisia. Ma io sono piccolo e non me ne frega nulla. Al secondo giorno mi si presenta Sergio Mottura. Una persona che io stimo tantissimo. Il primo impatto non è stato tanto carino. “Mi fai assaggiare il vino bianco?”. Beve, fa un sorrisetto e se ne va. Dopo tre quarti d’ora torna con un suo amico. “Mi fai assaggiare il vino bianco?”. Bevono, si mettono a ridere e se ne vanno. Dopo due ore tornano in tre. Stessa storia. A quel punto gli ho detto: senti, c’è gente che compra le mie bottiglie a prescindere da quello che c’è dentro. Lui mi disse: voi siete il futuro dunque dobbiamo capire bene. Seppe che mia moglie faceva la grafica. Così è venuto in cantina, ha ribevuto il vino ed è stato zitto perché era veramente buono. Non dico che siamo diventati amici ma abbiamo iniziato a rispettarci. Io lo apprezzo e stimo per le cose che fa. Mia moglie gli ha fatto due etichette. Una è l’istrice che ti guarda. Mia moglie era molto brava poi come mamma ha un po’ smesso. Come può non farti simpatia uno come Maurizio (Pio) Rocchi? Impossibile direi. Lui è uno di quelli con il quale ti ci faresti le serate insieme solo per l’idea che possa raccontare aneddoti come questi. Pezzi di vita vissuta che non puoi non ascoltare ridendo a crepapelle immaginandoti li con lui.
La sua idea di vino è di quelle semplici e soprattutto senza alterazioni che non sarebbe nemmeno in grado di pensare. Io scrivo che sono vini veri. Noi cerchiamo di arrivare con la uva sana e poi assecondo solo la natura. Si aggiunge solo la solforosa per conservarlo. Meno di un terzo di quello che è consentito. Insomma, vini semplici, di quelli che si fanno senza nulla partendo da una agricoltura semplice e sana. Un pò perché è un puro, un pò perché non saprebbe nemmeno come fare diversamente. L’azienda biologica Vino d’Artista, che poi ha sede a Tuscania, ha in gamma solo tre vini: un bianco, un rosso e un rosato. Di farne altri non se ne parla proprio. Io sono con i piedi per terra. Sono un autodidatta. A forza di testate ed errori che mi sono costate anche economicamente perché il vino doveva essere quello mio non quello dell’enologo. Ho fatto talmente tanti errori che ho saputo correggerli. Al Vinitaly facevo domande a mezzo mondo. La cantina professionale mi ha messo sulla giusta via. Senza demonizzare la tecnologia. Insomma non sono un professionista del vino. Non faccio le bollicine perché non sono capace. Ho imparato a fare questo e ho capito che se dovessi evolvermi andrei ad infilarmi in un labirinto che sarebbe difficile. Non voglio smettere di fare l’artista. Ho voglia di sporcarmi con i colori. Mi sono sporcato anche di fango. Sporcarsi con i colori. È quello che fa Maurizio (Pio). Quando parli con una qualunque persona di un argomento e avrei voluto parlare di vino con lui, difficilmente ti trovi a parlare di qualcosa di completamente diverso. Quando capita occorre proprio essere rapiti dall’altro argomento per non avere voglia di ritornare al più presto al punto di partenza. Con Maurizio (Pio) è tutto più fluido. Si passa da un argomento all’altro senza soluzione di continuità. La verità è che lui fa il vignaiolo o il contadino che dir si voglia, solo per poter continuare a fare l’artista. Quella è la sua vera anima. Anzi, adesso ha pure ceduto totalmente l’azienda al figlio Enrico (che scherzosamente chiama “il boss”).
Ha trovato però il suo equilibrio. Nel vino e nella famiglia. L’uomo ha bisogno di un ancoraggio. Adesso che ho imparato a fare il vino voglio rimanere con questo. Potrei sperimentare ma perché? C’è una parte da estendere e una parte di stabilità. I figli sono persone delle quali andare orgoglioso. Con mia moglie abbiamo fatto un lavoro quotidiano. Non li abbiamo mai trascurati. Se non c’era lei, c’ero io. Anche la famiglia ti porta in una certa direzione. I miei fratelli mi prendono ancora in giro perché sono stato l’ultimo a sistemarsi. Le mie sorelle mi prendevano in giro ma io ero uno che telefonava alle ragazze in agenda fino a che trovavo una che usciva da me. Poi non ditemi che non vi viene in mente Carlo Verdone? Se non è così, per cortesia, di corsa a farvi una cultura cinematografica. Nel film “Un sacco bello” Enzo sfogliava la sua agendina chiamando a tutti gli amici per trovare un compagno di viaggio verso la Polonia. Per Maurizio (Pio) la famiglia è un elemento essenziale ed imprescindibile della sua esistenza. Qui punti fermi dei quali anche un uomo curioso e con la necessità di esplorare il “dietro” o il “dopo”, ha necessità. Mia moglie è olandese. Si chiama Petra. Petra – Rocchi è perfetto. Abbiamo messo una pietra enorme davanti casa. L’ho conosciuta in una galleria ad una mostra collettiva a Roma dove esponevo le mie opere. È stato un momento magico della mia vita. Sono andato li con la mia ex e lei con il suo ex. Non ci siamo manco visti. Sono andato a fare una mostra in Danimarca e la gallerista mi chiama per un finissage. Lei era sola, io solo e mi sono detto: chi è sta bionda. Lei stava parlando con un mio amico purtroppo morto, un bravissimo artista. L’ho guardata per trenta minuti fissa. Fino a che non si è separato da lui. Allora sono andato da lei, mi sono introdotto dopo di che sono scappato via. Lei poi mi ha detto che mi è corsa dietro ma non mi ha trovato. Poi mi ha richiamato, ci siamo visti e ci siamo sposati e tutto quello che he abbiamo fatto è stato insieme. Tutti i rischi che abbiamo corso insieme. Petra si occupa del bed&breakfast. Poi fa fotografia e lo fa molto molto bene. Sull’etichetta del rosato, che si chiama Petra, ci sono le sue foto. Adesso sta preparando una mostra a settembre alla camera dei deputati. Facciamo ancora i genitori perché abbiamo un figlio di 16 anni, il terzo. In mezzo c’è la femmina che vive a Roma e frequenta la Lumsa. Enrico è il boss ovvero il responsabile dell’azienda. È in mano a lui. Poi c’è Eloise Dies e Arno Marzio. Fa il portiere di calcio. È un personaggio pure lui. Lo seguo perché sono il suo manager. Parliamo tantissimo. Guardiamo le partite della Roma insieme. Arte e vino si mischiano ma non si contaminano. È come se Maurizio (Pio) le tenesse completamente separate. Il vino che serve per poter fare l’arte. Ma non che l’arte debba in qualche modo avere a che fare con il vino. Se non fosse per le etichette, vere opere d’arte, che cambiano di anno in anno, forse non ci sarebbe nemmeno il sentore di un qualche riferimento artistico. Il vino è stata l’arma di compromesso per continuare a fare agricoltura senza smettere di fare l’artista. È una cosa produttiva che mi fa sta bene con me stesso. In vita mia avrò piantato oltre diecimila alberi. Porto i miei figli nella sugheraia perché i sugheri mi fanno impazzire. Andavamo a portare le ghiande dove le piante non erano cresciute. Io faccio le mie performance che non sono sempre legate al vino. Non mi interessa più tanto fare le mostre. Mi piace il confronto con un altro artista come la danzatrice. Con la musica che è la prima arte. Poi con il pubblico, uscire dalla tranquillità dello studio. Le mie opere si intitolano fratture. Attraverso le fatture io sono futuro. Sono proiettato verso il futuro, verso il domani in una corsa verso il nuovo. La mia vita è sempre stata mettere in gioco quello che avevo creato una ora prima. Non avere paura e cercare qualcosa di nuova. Voglia e coraggio di guardare dietro l’angolo. Avere il coraggio di aprire una porta e se non ti piace chiuderla e aprirne un’altra. Quando si sente di avere un talento, occorre assecondarlo. Far si che abbia il suo sviluppo. Il suo corso. Solo che spesso non è semplice capire quale sia il proprio talento. Alle volte capita che lo si scopra per caso. Altre volte perché stimolati. L’importante, e lo dico da genitore, è di non confondere i propri desideri con quelli dei figli. Uno pensa che l’arte sia dipingere e basta. L’arte è qualcosa di profondo che va a finire nell’anima. Anche un bicchiere di vino ad esempio. L’arte la guardi e basta. Un bicchiere di vino lo guardi, lo annusi, lo assaggi. Quando tu cambi la temperatura di controllo della fermentazione, cambia qualcosa. Il vino lo trasformi e se non lo trasformi bene diventa aceto. La cantina di Maurizio (Pio) è piccola. Una bomboniera di 60 metri quadri dimensionata per fare non più di diecimila bottiglie. Di più, sia per via dei pochi ettari che sono in produzione (2.6) o di quelli che entreranno a breve (1.2), sia per la mancanza di necessità, non se ne vogliono fare.
Nessuna barrique. Solo acciaio. Cose semplici. Tuttalpiù il controllo delle temperature. I vini
Mercurio è il bianco da Malvasia di Candia, Trebbiano e Moscato. Già l’etichetta è bella. Quella del 2020 è diversa da quella del sito (che è del 2017) e da quella che sarà. Tutto cambia in fondo. Il colore è una pennellata d’oro e i sentori si lasciano permeare del Moscato. Poi c’è del miele e della frutta secca insieme a dell’uva passa e ad un pò di vedetele per stemperare ed impreziosire. La pera croccante Smith arriva insieme alla mela granulosa. Poi mentuccia, salvia, fieno. Una altalena di note dolci e pungenti a dimostrare come la sapiente scelta di vitigni a loro modo semplice, porta note di livello.
Il sorso evidenza ancora la nota del Moscato e della Malvasia lasciando al Trebbiano la capacità di essere fresco. In bocca si materializzano i sentori con una freschezza che non ti aspetti da un vino di quattro anni. C’è ancora del vegetale gentile ad impreziosire il sorso. Secco certo ma con la sapidità che irrora la bocca lasciando la bocca pulita e pronta, direi vogliosa, del prossimo sorso. Un gioco di dolcezze e durezze interessantissimo perché giocato su un filo che non si valica mai. Credo che Mercurio rappresenti una porta che si può o meno varcare, ma quando lo si fa, è perché c’è la voglia, anzi l’interesse, di scoprire qualcosa di diverso nella apparente semplicità. Petra, il rosato da Sangiovese e Barbera. Da quando il vino è sceso nel bicchiere, non ho smesso di guardarlo, affascinato da una colorazione che sa di arancia ambrata. Una pennellata di colore ottenuta mischiando del giallo, del rosso, del nero. Come se la luce giocasse donando sfumature di colore diverse. Da arancione diventa ambra per poi cangiare e virare sul mattone per tornare all’arancia. Se si chiudono gli occhi e si avvicina il calice al naso non si può fare a meno di pensare ad un colore proprio ambrato per poi concretizzarlo in una mela annurca, pastosa e intensa che vira verso la carruba rinfrescata dall’arancia. Poi anche l’arancia vira e diventa candita, come quella che si trova sulla cassata siciliana. Vira ancora diventando mandarancio. Timo e salvia insieme alle foglie di limone e mandorla nonché alla violetta, completano un bouquet dal quale non ci si vorrebbe mai staccare perché offre sensazioni diverse ad ogni olfazione. Ha un non so che di avvolgente, vellutato e sensuale come solo l’ambra può rappresentare.
Anche il sorso è definibile come ambrato. Chiudendo gli occhi e riempiendo la bocca di questo meraviglioso liquido, mi viene in mente il brandy. È una avvolgenza incredibile, pazzesca. Qualcosa che dona alla bocca pienezza e corposità. Spessore insomma. Fresco ma non troppo. Secco ma non troppo. Caldo. Sapido. Un insieme di sensazioni e sapori che richiamano perfettamente anche i sentori con la mela annurca e l’arancia, impreziositi da una leggera essenza di menta e liquirizia. Persistenza anche lunga con un equilibrio e chiusura di bocca, pazzeschi. Un vino decisamente memorabile. Ottenuto senza fare botte ma con tanta tanta arte. Rosso del Lupo è infine il rosso da Sangiovese e Barbera. Ho assaggiato il 2019, un vino che al pari degli altri fa solo acciaio. L’etichetta è di quelle che non si guardano, si ammirano. Capisco così perché quando Maurizio (Pio) me ne parlava attribuendola alla moglie Petra aveva gli occhi che brillavano. C’è una sorta di freccia che non, inizialmente, non capisco bene. Ho un déjà vu con le tele di Fontana. Poi, con il naso nel calice, capisco. È quella sensazione di balsamico celata dietro tanto altro. Non arriva, non subito, ma solo dopo ricercandola o meglio quando vuoi respirare dal vino. Incredibile.
Nel calice è rubino con riflessi granata. I sentori sono freschi di piccola frutta nera e rossa con una arancia sanguinella, rossa e polposa che emerge prepotente insieme al melograno. C’è spazio per i  fiori di violetta e peonia. Fiori che sembrano quasi in appassimento, come se il sole li avesse avvolti, cotti. Un flebile sentore vegetale dona poi freschezza. La sorprendente balsamicità  infine che fa scoprire anche la nota ferrosa e un indimenticabile Mon cheri.
Il sorso è fresco, meravigliosamente avvolgente con i frutti che diventano immediatamente maturi, quasi pastosi. Il tannino è come il lupo che ulula per poi ammansirsi, quasi a chiedere una carezza. La persistenza non è elevata e la bocca è incantevole per un bellissimo equilibrio tra un finale con nota dolce leggermente acidula. Non particolarmente caldo mi ha conquistato per la sua estrema bevibilità e la capacità di accompagnare in maniera egregia una bistecca alla brace. Tutti i vini sono caratterizzati da un incredibile equilibrio. Ancorché instabile. Come se fosse un equilibrista sul filo che oscilla senza cadere, dondola dolcemente come su un’amaca all’ombra di un grande albero. L’equilibrio trovato nel vino. Come la famiglia. L’uomo ha bisogno di un ancoraggio. Adesso che ho imparato a fare il vino voglio rimanere con questo. Potrei sperimentare ma perché? Maurizio (Pio) Rocchi è così. Prendere o lasciare. Amare o odiare. Io sono convinto che quel pezzo di carta che ha squarciato dinanzi i nostri volti è stato come un modo (o una scusa) per aprirsi e raccontare di se e della sua vita. Senza freni e senza paure. Con onestà e voglia di farlo.
Forse per molti aspetti la vita ha scelto per lui. La madre ha scelto lui diventasse agricoltore. Petra lo ha scelto rincorrendolo e richiamandolo. L’uva e la terra hanno scelto di essere plasmati da lui. Ma nella vita niente accade per caso e, generalmente, le cose accadono solo se in qualche modo si pongono le basi affinché accadano. Maurizio (Pio) Rocchi ha sempre guidato la propria vita e lo ha sempre fatto con l’ardore di esprimere e sperimentare la sua curiosità attraverso l’arte. Vignaiolo per necessità, artista per anima.
C’è però una cosa che per Maurizio (Pio) Rocchi è una costante irrinunciabile: la famiglia.
In fondo, l’ancoraggio del quale lui parla, è proprio la famiglia. Il resto, è arte.   Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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18 Luglio, 2024

VFQ: la Catalogna dei Vini fa Qualità.

IL COSA E IL DOVE Lo scorso 10 Giugno la Delegazione del Governo della Catalogna in Italia (presente il Delegato Luca Bellizzi) in collaborazione con INCAVI (Institut Català de la Vinya i el Vi) ha presentato, nel corso di una cena presso il Ristorante Del Frate di Roma, il Progetto VINS DE FINCA QUALIFICADA.         IL PROGETTO VFQ I vini VFQ rappresentano i vini di punta della Catalogna, simboleggiano prodotti che vantano forti radici e legami con un territorio specifico, fungono da traino a tutto il mondo del vino catalano e ne migliorano il posizionamento sul mercato mondiale. I Vins de Finca Qualificada (VFQ) sono vini DO (che hanno già ottenuto la Denominació d’Origen), prodotti in tenute ed appezzamenti dalle caratteristiche geologiche e climatiche tipiche, che conferiscono caratteristiche peculiari, uniche, di altissima e comprovata qualità. L’assegnazione della denominazione VFQ viene riconosciuta da INCAVI unicamente alle aziende che rispondono a rigorosi presupposti di qualità, nell’ambito dell’ambizioso PROJECTE HORITZÓ 2025 voluto dall’INCAVI. I REQUISITI DI ASSEGNAZIONE

Stringenti i requisiti di cui devono essere in possesso le Aziende per potersi fregiare della Denominazione VFQ: – devono aver ottenuto la Denominazione di Origine (DO) da almeno 10 anni. – Le rese produttive del vigneto da cui provengono i vini VFQ devono essere inferiori del 15% rispetto a quelle stabilite dalla DO relativa. – Devono aver ottenuto un voto più alto da parte del comitato di degustazione rispetto alla DO relativa. – Il proprietario dei vigneti deve coincidere con quello della cantina e la vinificazione deve essere realizzata in una cantina situata nella stessa azienda agricola, o nelle sue vicinanze. – Il vino deve essere prodotto in un ambiente specifico, con caratteristiche edafiche (ovvero corrispondenti e legate alla specificità della natura e dei suoli di quel particolare terreno) e microclimatiche proprie. – La cantina deve avere una storia di prestigio e qualità sul mercato, comprovata e riconosciuta, da almeno 10 anni. – Deve esistere una tracciabilità completa e specifica, dalla produzione alla commercializzazione. – L’affinamento dei vini a denominazione VFQ deve effettuato in botti di rovere, con una capacità massima di seicento litri. GLI ASSAGGI Dopo un anno e mezzo dalla presentazione del Progetto, ad oggi sono solo 19 i vini da singola vigna che hanno ottenuto l’ambito riconoscimento, di questi, sono stati 6 quelli proposti in assaggio nel corso della serata. 6 vini di cui Vi propongo le mie poche considerazioni e cui ho avuto l’ardire di assegnare un punteggio. Voi date una letta alle righe seguenti e, se ne doveste avere l’occasione, ficcate il naso nel calice e assaggiate.   1. DO PENEDÈS “RAÏMS DE LA IMMORTALITAT” 2022, CELLER TORRE DEL VEGUER: fino a questa annata solo Xarel-lo e Xarel-lo Vermel (dalla prossima anche un’iniezione di Malvasia di Sitges) da vigne che hanno dai 49 ai 74 anni di età. Il naso è uno spintonarsi di freschezze balsamico-mentolate e calde carezze estive e dolcione di acacia, mela Golden e Renetta, agrume maturo e frutta secca. I sussurri amaricanti di timo e lo sfondo di sapida mineralità chiudono l’analisi olfattiva di un vino che in bocca comunica calore e gentilezze tanniche. Già centrato sulle dolcezze fa leva sull’importante apporto del legno francese per una sostanziosa addizione di piacioneria che, seppur d’acchiappo, stona abbastanza con una chiusura sapida di quasi mollusco e con quell’incipit di squillante freschezza. (83/84 Punti) 2. DO PENEDÈS “AVI TON” 2021, CELLER EUDALD MASSANA: Xarel-lo e nient’altro per questo vino prodotto da impianti del 1945 (Millenovecentoquarantacinque!). Ahimè, le arrembanti dolcezze sono introdotte da una mela Golden ben più che stramatura (fors’anche macerata) che propone una nota tra il ridotto e il fermentato abbastanza sgarbata. Poi è un profluvio di frutta gialla matura e/o in quasi composta e dolcezze floreali d’acacia e camomilla che neppure il castagno delle botti nel quale avviene la fermentazione riesce a tenere a bada. Il sorso prova a prendere la scia della grande coerenza per cercare di recuperare qualche posizione ma ormai il gruppo dei migliori ha troppo distacco e taglia la linea pur sapida del traguardo in piena crisi esalando un ultimo alito fumé. Forse dovrei assaggiarne un’altra bottiglia ma, dopo la seconda, cedo alla tentazione di NON valutarlo per evitare punteggi imbarazzanti. 3. DOC PRIORAT “COMA BLANCA” 2018, CELLER MAS D’EN GIL: Grenache Bianca e Macabeo da vigne di 75/80 anni svelano l’animo segretamente vegetale, di erbe di campo e aromatiche di un vino che, al naso, s’ammanta d’acacia e non riesce a nascondere i muscoli dell’agrume candito. Chiude poi su note floreali di lavanda e quasi marsiglia introducendo un sorso cinquecentesco, da vera corte di Spagna, firmato un po’ troppo a suon di legno ma con una interessante chiusura di marina freschezza che, per un attimo, Vi trasporta sul ponte di una caravella. (84+ Punti). 4. DO MONTSANT “TEIXAR” 2019, CELLER VINYES DOMÈNECH: Grenache Nigra e Peluda, vigneti con pendenze da ribaltamento e legni francesi si traducono in un mix olfattivo di ciliegiose freschezze e più stanche, secche, prugnosità, rinfrescate da soffi di erbe officinali e brezze balsamiche di liquirizia e tabacco mentolato che, a bicchiere vuoto, lasciano spazio a sapidità di oliva al forno. Sorso fresco, dinamico e coerente, con tannini divertenti anche se un pochino polverosi e una chiusura davvero salata che regala alla gola una piccantezza di quasi pimento. Un vino “onesto” e in gran parte modaiolo penalizzato da una nota smaltata che, sottile ma ben presente, non ha mai abbandonato il calice. (83 Punti). 5. DO EMPORDÀ “V D’O 2” 2017, CELLER VINYES D’OLIVARDOTS: rileggendo le mie note m’ero accorto che, se non avessi conosciuto l’origine del vino, avrei potuto pensarlo come sardo e, saputo che di Carignan si trattava, ho capito che, tutto sommato, non ero ancora del tutto ubriaco. L’olfatto è prepotentemente mediterraneo, intarsiato di macchia e bacche nere di mirto e ginepro. Svela poi freschezze di frutti rossi e neri, cespugli di rosmarino e timo e contrappone, all’eleganza del cioccolatino boero una nota rustica che contribuisce a tenere il vino vicinovicino alla terra da cui proviene e alla fatica dell’uomo che la coltiva. Sorso dritto, di sillogistica coerenza e tannini musicali, succoso, invogliante, stimola la curiosità e fa allungare la mano a chiedere un secondo giro. Difficile starne lontani. Un demonio! Da bere ascoltando “SYMPATHY FOR THE DEVIL” dei ROLLING STONES. (89/90 Punti). 6. DO PRIORAT “CLOS MOGADOR” 2014, CELLER CLOS MOGADOR: Carignan, Cabernet Sauvignon, Cannonau e Syrah per un vino che, già dal nome, tradisce ambizioni e lignaggio. Vigne di anche ottant’anni e legni francesi di diverse dimensioni regalano un naso imponente, ricco di suggestioni di frutta scura (di bosco e non), intarsiato di tè e tabacco mentolato, screziato di After Eight, erbe provenzali e spezie d’Oriente che scomodano addirittura il mitologico cardamomo. In bocca è di sbarazzina giovinezza e lascia che l’occhio si riempia di una vivacità cromatica distante anni luce dal millesimo di produzione. Un quasi capolavoro di equilibrio lascia che morbidezze e verve fresco-sapida procedano spedite e senza incertezza sul filo teso e sottile dell’assaggio. Francia? Spagna? Non è nelle mie corde e non lo comprerei ma…davvero un “vinone”! (93 Punti). p.s. in chiusura, una piccola chiosa per farVi notare come, i due vini “migliori” siano frutto di due annate (2017 e 2014) davvero complicate. In Italia la componente più importante del famigerato “terroir” (leggasi: il cristiano che fa il vino), fu discrimine tra la produzione di vini pazzeschi e vini da dimenticare. Che i vignaioli spagnoli siano bravibravi? IN CONCLUSIONE Beh, intanto lasciatemi ringraziare Saula Giusto e Luca Bellizzi per l’invito a partecipare a questa bella serata e poi fatemi fare dueconsiderazionidue su una Catalogna del vino che certo punta in alto. Confesso che la mia conoscenza dei vini spagnoli è davvero minima e fatta essenzialmente di scoperte casuali frutto di scelte dettate dal packaging. Certo, assaggiare 6 vini come quelli proposti nel corso di questa serata schiude un panorama sul mondo del vino della Catalogna e della Penisola Iberica tutta davvero inaspettato. Qui c’è ambizione e voglia di puntare in alto senza fare sconti seguendo l’esempio di chi già ha imboccato la strada della Qualità senza compromessi (forse, in alcuni casi, anche scimmiottando troppo). Certo il punto prezzo di queste etichette fa pensare… E, personalmente, fanno pensare anche certe “impostazioni enologiche” di cui faccio volentieri sempre più a meno. A me, che apprezzo sempre più quei vini a cui si cerca di “sottrarre” qualcosa anziché aggiungere pesanti costruzioni, alcune proposte sono sembrate fuori tempo ma… Per fortuna di tutti il mondo del vino non va nella mia direzione e il successo di alcune etichette sembra dimostrarlo. Personalmente resterò in finestra cercando di seguire lo svolgersi degli eventi cercando, qualora possibile, di approfondire alcuni argomenti che hanno stuzzicato la mia curiosità Roberto Alloi VINODENTRO  
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17 Luglio, 2024

Viaggio sensoriale in Calabria

Come la Notte Rosa del Vino mi ha fatto scoprire l’Alto Jonio cosentino La Notte Rosa del Vino, che lo scorso 6 luglio ha coronato la sua quarta edizione, nasce da un’idea di Francesco Pingitore, delegato regionale della Scuola Europea Sommelier, con il sostegno dall’Assessorato all’Agricoltura della Regione Calabria, del Comune di Trebisacce e di associazioni del territorio, per celebrare professioniste da tutt’Italia – ed oltre – distintesi per il loro contributo alla filiera produttiva e alla promozione, comunicazione e divulgazione della cultura del vino. Questa è la doverosa premessa per inquadrare lo scopo istituzionale dell’iniziativa, ma per me la Notte Rosa del Vino è stata molto di più. Per me è stata una due giorni in cui ho rappresentato la Lombardia in un’esperienza immersiva di gusto, di bellezza e di condivisione. Nella prima tappa del nostro viaggio veniamo accolte Giuseppe Chiappetta nella sua Azienda Terre di Balbia nei pressi del borgo medioevale di Altomonte in provincia di Cosenza, appunto l’antica Balbia citata da Plinio il Vecchio (23-79 dC). In questo terroir unico, tra le brezze dello Jonio e le escursioni termiche del Monte Pollino, prendono vita 3 assaggi imperdibili, tutti monovitigno. Ligrezza, un rosato pieno e persistente da Gaglioppo, poi Fervore, un deciso ma avvolgente rosso Magliocco dolce, ed infine un interessante internazionale: un Merlot dal nome Blandus.       La degustazione serale ha invece visto protagonista la gamma di vini di una delle donne del gruppo, Vincenza Librandi, titolare dell’omonima cantina di Cirò Marina, in una location decisamente inedita: su un veliero al tramonto sui Laghi di Sibari. Si tratta di un complesso residenziale e portuale creato su laghi artificiali di bonifica, tra i più grandi poli turistici di attracco del Mediterraneo e contornato da gioielli naturalistici come il massiccio montuoso del Pollino. Un autentico gioiello di natura, luci e colori al tramonto. La giornata successiva è cominciata con un’escursione guidata da Fernando Di Leo tra le sue coltivazioni di limoni. Lì abbiamo appreso le proprietà del Limone di Rocca Imperiale IGP con una forma allungata, di medie dimensioni, ed una buccia di colore variabile tra il verde chiaro ed il giallo. Si tratta di una varietà praticamente priva di semi, che produce un abbondante succo né acido né amaro, oltre che dal profumo straordinario. Nel corso dell’anno, il Limone di Rocca Imperiale produce ben tre tipi di frutti derivati da altrettante fioriture: il Primofiore raccolto da maggio a luglio, il Maiolino raccolto da maggio a luglio, ed infine il Verdello raccolto da agosto a ottobre. Farnando Di Leo e la sua famiglia producono da tre generazioni il rinomato Limone “Oro di Federico”, proprio in omaggio alla città d’origine Rocca Imperiale, fondata dal re Federico II di Svevia. E appena lasciata l’Azienda Di Leo, anche il nostro gruppo ha voluto rendere omaggio a Rocca Imperiale con una visita! Ogni anno, nell’ultima settimana di agosto, nel borgo calabrese si celebra il Concorso internazionale di poesia inedita “Il Federiciano”. Questo forte legame con la scrittura in versi spiega la presenza di tante poesie riportate su ceramica decorata tra i vicoli. Ma torniamo a concentrarci sullo scopo primario della nostra visita, in quanto donne del vino. In un giardino interno nel cuore di Rocca Imperiale ci aspettava Francesco Gabriele Bafaro, archeologo per professione e viticultore per vocazione, che ha fondato la propria azienda archeo-enologica, valorizzando l’uso delle anfore. La produzione dell’”archo-vino” Acroneo è frutto di uno studio attento delle fonti letterarie, iconografiche e archeologiche di varie epoche. Ogni fase della produzione è curata nei minimi dettagli per ricostruire il processo di vinificazione antico, in un vero e proprio percorso di archeologia sperimentale. Il “Vino di Raffaele”, Magliocco al 100% degustato dopo la presentazione mi ha colpita per la sua estrema piacevolezza: una potenza alcolica ben bilanciata dalla freschezza piena dei frutti rossi e dall’ingentilimento del passaggio in barriques di rovere francese. Non si concludono però con l’archeo-enologia le nostre scoperte sensoriali della seconda ed ultima giornata! La paradisiaca meta conclusiva del nostro breve tour è la Tenuta del Castello di Montegiordano, cantina tra le più antiche della Calabria, al confine con la Basilicata, con vigneti a strapiombo sul mare e dolci colline ricoperte di pini e macchia mediterranea. Lì ci accoglie calorosamente il titolare Renato Bocca, che ci illustra entusiasta i suoi progetti di sviluppo aziendale in collaborazione con il celebre enologo Riccardo Cotarella e ci fa degustare due splendide interpretazioni d’Aglianico in purezza: il rosato «Pian delle rose» ed il cru rosso «Soprano», affinato in barriques nuove per 18 mesi. Se puntare sull’Aglianico significa scommettere sul «Barolo del sud», certamente vini rappresentativi come quelli di Tenuta del Castello concorrono alla valorizzazione di un patrimonio enologico ed enoturistico ancora in gran parte inesplorato. Le mie colleghe donne del vino ed io, ciascuna con i propri canali e con la propria rete di relazioni, abbiamo dato il nostro piccolo contributo alla narrazione del territorio fino alla serata conclusiva di premiazione, in cui siamo diventate ambasciatrici della Calabria attraverso gli abiti di Luigia Granata, stilista identitaria che sui propri capi, tutti pezzi unici realizzati a mano con tessuti pregiati, ritrae le bellezze paesaggistiche e le chicche agroalimentari calabresi. L’abito turchese che indosso nella foto, per esempio, riporta nella stampa la patata della Sila IGP. Dopo alcuni giorni di relax al mare sono ripartita, carica di generosi omaggi enogastronomici e desiderosa di tornare a scoprire quella fantastica Regione che è la Calabria.   Adele Gorni Silvestrini Mi trovi su Instagram @adelegornisilvestrini Passi in Cantina  
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16 Luglio, 2024

Calici di Stelle arriva a Roma

Che m’ha saputo fa nu quarto ‘e luna,
che m’ha saputo fa’ chi voglio bene.
E me turmenta sempe nu pensiero,
nunn’è ‘o vero ca pienze sulo a me.
Comme so’ triste ‘e note ‘e sta canzone,
e comm’è amaro ‘o bbene ‘e chi vuo’ bbene.
Nun me guarda’, si chiagno nun guarda’.
Che m’ha saputo fa’ ‘nu quarto ‘e luna! La notte, quando le stelle brillano nel cielo, non possiamo che stare con il naso all’insù ad osservarle. Se però la luna è piena, la sua luce è così abbagliante che tutto il resto, firmamento incluso, rimane in ombra. Sembra proprio che due meraviglie della natura non possano convivere. Come fossero quasi due aspiranti per occupare la prima fila del corpo di ballo. Quando la luna arriva nel suo ultimo quarto, la luce riflessa del sole assume un bagliore tale che è possibile ammirare anche le stelle del firmamento: ognuna lascia spazio all’altra condividendo il palcoscenico. Quale momento migliore di questo allora per guardare il cielo di notte? Il 27, 28 e 29 luglio la luna sarà proprio nel suo ultimo quarto e al Ponte della Musica Armano Trovajoli a Roma si terrà Calici di Stelle, la storica manifestazione del Movimento Turismo del Vino, in collaborazione con l’Associazione Città del Vino. Calici di Stelle è l’esperienza estiva imperdibile che celebra il connubio tra il fascino dell’universo e la passione per il vino, trasformando le location più suggestive d’Italia in palcoscenici sotto le stelle. Sotto le arcate del Ponte della Musica-Armando Trovajoli che attraversa il Tevere e unisce il quartiere Flaminio al quartiere Della Vittoria sarà possibile, calici in mano, degustare i vini delle cantine presenti e parlare con i produttori. CALICI DI STELLE, la combinazione perfetta tra Vino, Stelle e Convivialità più amata dai winelovers. Programma Sabato 27 luglio Ore 19.00 apertura banchi d’assaggio
Ore 24.00 chiusura banchi d’assaggio  Domenica 28 luglio Ore 19.00 apertura banchi d’assaggio
Ore 19.30 Masterclass da definire
Prenotazione obbligatoria, posti limitati riservati a chi ha già acquistato il biglietto
Ore 24.00 chiusura banchi d’assaggio  Lunedì 29 luglio Ore 19.00 apertura banchi d’assaggio
Ore 19.30 Degustazione alla cieca sui vitigni del Lazio guidata da Pierpaolo Pirone di AtWine consulenze enologiche
Prenotazione obbligatoria, posti limitati riservati a chi ha già acquistato il biglietto.
Ore 24.00 chiusura banchi d’assaggio Costo del biglietto 20 euro Il biglietto comprende il bicchiere, la sacchetta portabicchiere e 10 degustazioni di vini delle oltre 150  etichette presenti. E’ prevista una cauzione di 5 euro. Sommelier Ais, Ars, Assoenologi, Assosommelier, Degustibuss, Fis, Fisar, Onav, Ses riduzione del biglietto, costo 15 euro presentando all’ingresso la tessera dell’associazione. Codice Sconto S27 S28 S29 a secondo dei giorni Operatori del settore ingresso a 15 euro mandando mail di richiesta a accrediti@decanterwineacademy.org dalla pec della società. Stampa: mandare una mail a accrediti@decanterwineacademy.org entro lunedì 22 luglio, specificando testata, numero di tessera e il link di un articolo firmato sull’enogastronomia per i giornalisti. Per i blogger inviare mail che verrà valutata dallo staff. Info: 347-6649100  06-86132308 info@decanterwineacademy.org pagina diVino per info e acquisto del biglietto online. Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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15 Luglio, 2024

lo champagne: la guida definitiva per saperlo bere

La storia e il territorio dello Champagne sono intimamente legati al suo successo e alla sua reputazione come uno dei vini più prestigiosi al mondo. La sua ricca storia, unita alla maestria dei suoi produttori e alle caratteristiche uniche del terroir, rendono lo Champagne un vero e proprio tesoro enologico da scoprire e apprezzare. la lunga storia dello Champagne Nel XVII secolo, la nascita dello Champagne come vino frizzante, attribuita all’abate benedettino Dom Pierre Pérignon, segna una rottura significativa nella storia del vino. Questo vino effervescente è associato per la prima volta a un preciso terroir e vengono utilizzate specifiche tecniche di vinificazione. Il successo dello Champagne si diffonde rapidamente, conquistando prima l’Inghilterra e poi la Francia aristocratica del Settecento. Tuttavia, i produttori di Champagne affrontano sfide tecniche, come la mancanza di conoscenza sulla seconda fermentazione e la fragilità delle bottiglie. Solo dopo decenni di sforzi e innovazioni, come l’uso di sughero e ferro per la tappatura e l’eliminazione dei depositi tramite il dégorgement, lo Champagne diventa il vino della gioia e della festa, simbolo della cultura e dello spirito francese. Nel XIX secolo, le grandi maison diffondono lo Champagne tra le élite aristocratiche di tutto il mondo, mentre nel XX secolo continua la sua ascesa, culminando con la creazione dell’AOC Champagne nel 1936. Oggi, lo Champagne è un universo complesso, popolato da grandi maison commerciali e piccoli produttori artigianali, che hanno contribuito a conferire al vino una nuova vita e prestigio. territorio La regione dello Champagne, con le sue specifiche caratteristiche, gode di un clima oceanico che favorisce una perfetta maturazione delle uve, con un’insolazione di 1.600 ore all’anno e una pluviometria relativamente modesta. Le sue diverse sotto-regioni offrono una varietà di terroir unici, ognuno con le proprie peculiarità. Nella Montagne de Reims, le colline caratterizzate da terreni gessosi assicurano un ottimo drenaggio e una perfetta esposizione al sole. Qui, il vitigno predominante è il pinot nero, e gli Champagne della zona sono rinomati per la loro potenza e struttura. Le sottoregioni includono Montagne de Reims, Piccola Montagna, Massif de Saint Thierry e Monts de Berru. Nella Vallée de la Marne, le colline sono caratterizzate da terreni argillosi e calcarei, ideali per il pinot meunier. Gli Champagne della Vallée de la Marne si distinguono per il loro bouquet fruttato e la morbidezza. Le sottoregioni comprendono Grand Vallèe de la Marne, Coteaux Sud d’Epernay, Vallèe de la Marne rive droite, Vallèe de la Marne rive gauche, Terroir de Condè e Vallèe de la Marne occidentale. Nella Côte des Blancs, i terreni gessosi garantiscono elevate riserve d’acqua e trattengono bene il calore, perfetti per lo chardonnay. Gli Champagne della Côte des Blancs sono noti per i loro aromi delicati e la finezza. Le sottoregioni includono Côte des Blancs, Val du Petit Morin, Côte de Sezanne e Vitryat. Infine, nella Côte de Bar, i terreni gessosi e marnosi sono ideali per il pinot nero, producendo Champagne di carattere e complessità aromatica. Le sottoregioni sono Barsuraubois e Barsequanais, che offrono una varietà di stili e caratteristiche uniche. classificazione Le classificazioni sono tre : Grand Cru (100%), Premier Cru (90-99%) e Cru (80-89%).
Le percentuali stanno a significare che le uve provenienti da un comune Grand Cru, la cui classificazione è 100%, saranno pagate esattamente il prezzo stabilito, mentre le uve provenienti da un comune classificato come 85%, saranno pagate per l’85% del prezzo stabilito. I comuni classificati Grand Cru sono 17, quelli Premier Cru 41, quelli Cru 255.
I 17 Grand Cru della Champagne sono: nella Montagne de Reims Louvois, Bouzy, Ambonnay, Verzy, Verzenay, Maill, Beaumont-sur-Vesle, Sillery e Puisieulx; nella Vallée de la Marne Aÿ e Tours-sur-Marne; nella Côte de Blancs : Oiry, Chouilly, Cramant, Avize, Oger e Mesnil-sur-Oger. Metodo di produzione
Uno degli elementi distintivi dello Champagne è il metodo di produzione, noto come “metodo champenoise” che prevede una seconda fermentazione in bottiglia per conferire al vino le sue bollicine effervescenti. È un processo complesso che richiede grande attenzione e precisione in ogni fase.
Le uve raccolte confluiscono in una pressa che viene riempita con 4.000 kg di uva e per legge si possono estrarre 2.050 litri (cuvée) che saranno vinificati, mentre la pressatura successiva produrrà ulteriori 500 litri (taille) meno pregiati e che normalmente vengono venduti. Il resto viene inviato alla distillazione. Le vin clair e la prima fermentazione La cuveé viene quindi sottoposta alla prima fermentazione alcolica, trasformando gli zuccheri in alcol grazie all’azione dei lieviti. Otteniano un vin clair che riposa fino a primavera in vasche di acciaio o botti di legno, svolgendo l’eventuale malolattica. Quindi viene assemblato con altri vini e messo in bottiglia con l’aggiunta del liqueur de tirage, una miscela di zuccheri, lieviti e sali minerali. In cantina, durante la prise de mousse, avviene la seconda fermentazione che produce CO2, creando le bollicine caratteristiche dello Champagne. Le bottiglie riposano in cantina per un periodo minimo di quindici mesi per i prodotti base e di trentasei mesi per i millesimati. remuage e degorgement: il fascino Dopo il periodo di riposo in cantina, le bottiglie vengono sottoposte al remuage, un processo per far depositare i sedimenti sul collo della bottiglia. Segue il dégorgement, a la volée o tramite una tecnica, sempre più diffusa, che prevede di porre il collo della bottiglia nell’azoto liquido che congela una piccola parte di vino. Ciò permette di aprire la bottiglia e di estrarre le impurità congelate sotto l’azione della pressione interna e senza perdita importante di liquido.. Segue l’aggiunta di rabbocchi o del liqueur d’expédition che definisce il dosaggio finale. L’habillage completa il processo, con la tappatura, l’inserimento della gabbietta e l’etichettatura, preparando gli Champagne per essere apprezzati e condivisi con il mondo. CARATTERISTICHE DEL PRODUTTORE Sulle etichette di Champagne si possono trovare le seguenti sigle che definiscono la natura del produttore:
NM négociant-manipulant: è il caso di una casa produttrice di Champagne che compra le uve e le assembla per elaborare e commercializzare il vino;
RM récoltant-manipulant: sono i vignaioli che elaborano e commercializzano le proprie uve; si tratta in generale di prodotti di alta qualità e di limitata produzione;
CM coopérative de manipulation: gruppi di produttori che associati in cooperativa raccolgono, vinificano e commercializzano;
RC récoltant-coopérateur: viticultori che conferiscono le loro uve a una cooperativa che ha l’incarico di eseguire la vinificazione; le bottiglie vengono quindi restituite ai singoli viticultori per la commercializzazione;
ND négociant-distributeur: un commerciante che acquista le bottiglie pronte per il consumo e le commercializza con il proprio marchio;
MA marque d’acheteur: prodotti creati appositamente per la grande distribuzione. TIPOLOGIE Il processo di produzione e le annate delle uve utilizzate possono identificare lo Champagne come:
Rosé, prodotti con due tecniche: assemblaggio di bianco base con vini rossi, o breve macerazione di uve rosse. Oggi queste tipologie sono molto richieste in quanto a un’immutata qualità e fragranza, uniscono una gradevole nota di colore;
Blanc de Blancs: sono prodotti unendo tra loro unicamente vini ottenuti da uve a bacca bianca chardonnay, anche se di differenti annate;
Blanc de Noirs: sono prodotti unendo tra loro unicamente vini ottenuti da uve a bacca nera pinot nero e pinot meunier, singolarmente o associati, non necessariamente della stessa annata;
Millesimé: vino ottenuto da una sola vendemmia;
BSA brut sans année: Champagne ottenuto con vini base di diverse annate. Benedetta Costanzo
benedetta.costanzo@winetalesmagazine.com
Mi trovi su Instagram come @benedetta.costanzo    
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