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In questa sezione le rubriche che fanno parte della nostra storia

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4 Gennaio, 2024

Esercizi spirituali per bevitori di vino

Cronaca semiseria di una lettura natalizia: Esercizi spirituali per bevitori di vino, di Angelo Peretti. Situazione: previgilia in libreria affollata alla ricerca frenetica e autolesionista degli ultimi regali. Gironzolando tra gli scaffali mi cade l’occhio su un titolo: Esercizi spirituali. Tema coerente con il periodo e sicuramente necessario visto come va il mondo, ma passo oltre. Non è il mio genere. La coda dell’occhio coglie però il sottotitolo: per bevitori di vino. Torno indietro, sì, è invece il mio genere. Ecco, questo me lo regalo io. Ringrazio l’autore, Angelo Peretti, per avere allietato con la sua guida, gaudiosamente laica, la noia di giorni festivi conditi dall’influenza. Che hanno richiamato da non so che angolo della memoria, un detto che mio nonno ogni tanto citava, con pura cadenza monferrina: Mèj ciùc che malàvi. Toh, in perfetta sintonia con uno degli esercizi spirituali elargiti: “Bere in dialetto (ovvero i vini che hanno la cadenza dei luoghi natii) è un esercizio di resistenza culturale”. Ma andiamo con ordine, anche se questa è una tipica lettura che, per struttura dell’indice articolato in micro-storie indipendenti, non richiede di seguire pedissequamente la progressione delle pagine. Il libro, pubblicato da Edizioni Ampelos, si compone di novanta brevi capitoli, o “sorsi”, ciascuno dei quali accompagnato da una coppia di consigli di bevuta, una referenza italiana e una straniera. Non si tratta di un manuale di meditazione o di una ennesima guida ai vini, più o meno alternativa, e sbaglia chi vi cerca tra le pagine un senso religioso. Anche se, rileggendo il titolo, penso tra me e me che ad abbinare vino e spiritualità non si incorre nel rischio di blasfemia, visto che la Bibbia abbonda di metafore sulla vigna e che il vino è elemento portante del rituale cattolico. Se si pensa poi a nettari come Vin Santo, Lacryma Christi o Sangue di Giuda, tutto torna. Il senso dello scritto lo pone in chiaro l’autore in premessa: Mi sono persuaso che il vino rappresenti una specie di esercizio spirituale simile, per certi versi, a quello praticato dai filosofi che riflettono sul senso dell’esistenza. Con la differenza che bere è un esercizio piacevole, alla portata di tutti, e siccome tutti possediamo la consapevolezza di vivere, nessuno può dirsi inesperto. Perfino chi è astemio. Il vero fil rouge che collega gli esercizi enospirituali è presto svelato: il piacere è la stella polare del bevitore. Devi sapere qual è l’origine del tuo piacere. E così Angelo Peretti, con piglio di profonda leggerezza, da consumato giornalista e critico enologico, ci accompagna alla scoperta delle sue novanta stelle polari, tra aneddoti personali, bottiglie memorabili e autocompiaciute “stille di eresia enologica”. Già i titoli sono un programma, in rigoroso ordine alfabetico da Abbiccì a Zapping. In quest’ultimo capitolo si legge: Il vino assomiglia ai libri. Entrambi aprono nuovi orizzonti, appagano la curiosità e non obbligano a lunghi spostamenti per viaggiare: basta la fantasia. Oppure un calice di Etna Bianco o Sauvignon cileno, suggerisce l’autore. Alla voce Ottimismo, Peretti invita a fare un test: Apri una bottiglia, quella che vuoi. Se la stappi con l’atteggiamento di chi è pronto a rinfacciare al vino ogni più piccola pecca, mi dispiace, sei pessimista; ti disobbedirà anche il vino più pacato. Se bevi tanto per fare, sei impegolato nell’indifferenza; il vino ti sarà muto. Se invece l’aspettativa è quella di cogliere il meglio del vino che versi, hai superato la prova. Lo spirito vincente è l’accoglienza”. Vale per il vino quanto per gli uomini, considero. Al lettore il compito di scoprire l’arcano mistero dietro all’abbinamento con un Dolcetto di Ovada e un Pineau des Charentes Rosé. Un Valtellina Superiore o un Vin de Pays des Bouches du Rhône accompagnano il capitolo Variazioni: I vini più puri sono quelli che sanno raccontare il senso delle stagioni, che sono mutevoli, e i sentimenti di chi coltiva la terra, che sono altrettanto volubili. Tutti cambiamo giorno per giorno. Magari impercettibilmente, ma diventiamo diversi. La speranza è di diventare migliori. E così enofilosofeggiando allegramente tra i più disparati concetti, al limite del nonsense: Blu, Degustatori, Discolpe, Felicità, Gatti, Intelligenza, Jazz, K2, Mai, Nulla, Orgoglio, Ossimori, Ribellione, Successo, Tartufi, Unicorni, Xilofono…. solo per citarne alcuni, a dimostrazione che ogni vino è un naturale attivatore di caleidoscopiche emozioni, del tutto soggettive. Fino all’esercizio spirituale di chiusura: Sii sempre curioso di te stesso, della vita e dell’umanità, poiché questa – solo questa, tutta questa – è la vocazione del bevitore. A cura di Katrin Cosseta  Winekult
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25 Settembre, 2023

Guido Martinetti: dal gelato Grom al vino Mura Mura

Che i due enfants prodige di Grom abbiano, alla soglia dei cinquanta, raggiunto saggezza e maturità? Stando al nome che hanno dato ai loro vini, sì. Mura Mura (per puro gusto di suspence si rimanda a qualche riga sotto lo svelamento del significato), a Costigliole D’Asti, è un’azienda agricola a cavallo tra Langhe e Monferrato, di proprietà di Federico Grom e Guido Martinetti. Già, proprio gli artefici del brand sinonimo di gelato italiano del mondo: una case history per modello di marketing, storytelling e imprenditoria giovanile di fulmineo successo. La cessione nel 2015 del marchio al colosso Unilever avrebbe consentito ai due di dormire sonni tranquilli per un bel po’. E invece no. Risorse ed energie si concentrano ora su Mura Mura, i cui frutteti sperimentali fornivano la materia prima per i celebri sorbetti. Oggi questi frutteti sono circondati da vigneti, perché l’eredità di Grom si riversa nel bicchiere, con un patrimonio unico di biodiversità e la coerenza di un “concetto di artigianalità proprio del mondo dell’agricoltura”. L’azienda si estende per 30 ettari (di cui 10 vitati prevalentemente a Barbera e Grignolino) a Costigliole d’Asti, si completa di ulteriori 4 ettari vitati, a Barbaresco – nei cru di Roncaglie, Starderi, Currà e Serragrilli – e uno a Serralunga d’Alba, dove viene prodotto il Barolo nel cru di Sorano. La nuova avventura nel mondo del vino conferma la continuità dei ruoli: Grom responsabile della parte commerciale e finanziaria, Martinetti, enologo, anima del prodotto. È lui a farmi da guida nella tenuta. Fisico asciutto e nervoso da atleta, parlata a fiume sospinta da passione e competenza (se è in grado di snocciolare nomi e sfumature gustative di una mezza dozzina di varietà di fragole, figuriamoci con l’uva), occhio vigile a ogni dettaglio che tradisce l’indole di chi ha le idee molto chiare e non transige sulla qualità. Esordisce prevenendo l’ovvia domanda sul nome della cantina: “Mura, Mura! è un’espressione che sentivamo sempre in Madagascar, dove andavamo per selezionare le migliori vaniglie per Grom. Significa vivere lentamente e con saggezza, avere la capacità di apprezzare le piccole cose. In più nel sud del Piemonte mura vuol dire matura”. Nome esotico ma non troppo, insomma. Rigore e Fantasia In un certo senso Mura Mura è una cantina bipolare: i suoi vini raccontano l’eterno dilemma tra ragione e sentimento (ma cos’è il vino, se non armonia di entrambe le cose?), distinguendosi in due linee: Rigore e Fantasia. Ma riflettono anche l’identità duplice dei territori di confine. “I vini del Rigore sono quelli di Langa, sottoposti a un disciplinare più rigido e menzionano in etichetta le MGA. Si distinguono, anche per estetica, da quelli del Monferrato, che abbiamo chiamato i vini di Fantasia, e ci consentono maggiore libertà, visto il disciplinare meno restrittivo”. I primi sono declinazioni di tre Barbareschi (Faset, Serragrilli, Starderi) fini, eleganti e consistenti che esaltano le specificità dei singoli cru. “Il mio concetto enologico parte ovviamente dal terroir, che vuol dire non avere deviazioni aromatiche. I miei sono vini non amari. Sono molto orgoglioso del mio Fasett, un Barbaresco fresco, pulito, mai ridondante”. Capsula in gommalacca grigia per la linea del Rigore, rossa invece per i vini di Fantasia “perché sono quelli che nascono dalla mia passione. Come la mia prima etichetta, Romeo, dal nome del figlio del mio socio Federico: è il mio regalo come padrino, un blend di quattro vitigni piemontesi (Barbera, Nebbiolo, Grignolino e Ruchè). Ode al Monferrato, e sempre in un’ottica di esaltazione del cru, nella stessa linea troviamo due vini in purezza: la Barbera d’Asti Superiore DOCG Miolera e il Grignolino d’Asti DOC Garibaldi, per cui si apre un capitolo a parte.   Shakespeare in wine Fantasia significa anche seguire le suggestioni dei propri miti, letterari e non. Martinetti parlando del proprio progetto enologico riesce a tirare in ballo fonti di ispirazione eterogenee, da Steve Jobs a Bruce Lee passando per Guccini. Ma se c’è un cantore assoluto del dualismo tra regola e passione, ovvero il dna di Mura Mura, quello è Shakespeare: “sono un ammiratore del Bardo, il più grande indagatore dell’animo umano”. Romeo è infatti il capostipite della linea dei vini di Fantasia che declina nomi shakespeariani. C’è così il Langhe DOC Mercuzio, un Nebbiolo di grande consistenza, ma si incontra anche la dolcezza del Piemonte DOC Ofelia. “Da un punto di vista formale è un moscato passito, ma tecnicamente è per metà botritizzato e per metà un icewine. Nessuna donna mi ha mai resistito… grazie al mio Ofelia”. In senso alcolico, precisa ridendo. La rivalsa del Grignolino Guido Martinetti (nato a Torino con nonni astigiani) si dichiara nettamente più monferrino che langarolo, sia per radici familiari sia per atteggiamento culturale all’insegna dell’understatement.  affascinato dalla storia di povertà e di riscatto (invero trasversale alle Langhe) sull’onda di un’etica del lavoro volta a fare bene nel proprio piccolo. Anche per questo ha scelto di rilanciare il vino povero per eccellenza del Monferrato, il Grignolino. “Oggi ci sono moltissimi vini buoni, ma sono pochi quelli con personalità aromatica che è la vera sfida per l’enologo, piuttosto che la struttura. Proprio il Grignolino ha una personalità aromatica molto rara, punto d’incontro tra la spezia e la frutta di bosco fresca: fragola, mirtillo, lampone, ribes, a seconda della connotazione del terroir. Più il terreno è sabbioso e più emerge la frutta, mentre l’argilla marca la spezia. Un po’ come nel Syrah. Ma la chiave, in un contesto molto moderno, è il vinacciolo, presente in gran quantità nell’acino del Grignolino. Grignolo vuol dire infatti seme. Noi vendemmiamo il Grignolino ‘a vinacciolo’, ovvero quando diventa marrone e croccante, per avere il giusto tannino e un completo corredo aromatico. Fino a qualche tempo fa la stampa specializzata premiava i vini ridondanti, di colore, densi. Il Grignolino ha un colore scarico, un rubino molto vicino al pinot nero, oggi molto attuale, espressione di eleganza. Il Grignolino sarà il vino del futuro nel Monferrato nell’arco di 10 anni. La Barbera è voluttuosa, ma non fine. E non ha forza aromatica e complessità del Grignolino”. Martinetti è talmente sicuro del suo Garibaldi che consiglia di degustarlo alla cieca, insieme con un Barbaresco o un Pinot Nero. “Io faccio i blind tasting col Barbaresco di Gaja. Se perdo ho già vinto”, spiega divertito dalla sua personalissima “prova del Gaja”. La ceramicaia La cantina, inaugurata nel 2019, è un bell’esempio di bioedilizia perfettamente integrata nel paesaggio, a prevalente sviluppo ipogeo. Anche spazialmente l’architettura sottolinea i due opposti punti cardinali del progetto vitivinicolo distinguendo le aree dedicate ai vini del Rigore e a quelli della Fantasia. Ma la vera sorpresa è un ambiente voltato in mattoni che accoglie non una tradizionale bottaia, ma una ceramicaia (rarità in Italia). “Io faccio affinare i miei vini dal secondo anno di età in contenitori di ceramica, un composto di argilla all’80% più un 20% di quarzo e feldspati che cuoce a temperatura decisamente superiore all’argilla delle tradizionali anfore. Oltre al fatto che si puliscono e disinfettano perfettamente, apportano la microssigenazione per me ideale: 3 mg/l al mese, contro i 6 mg/l di una barrique nuova o i 10mg/l dell’anfora”. Le file di botti in ceramica bianca e lucida trasformano la cantina in un luogo dal design quasi avveniristico, che rimanda alle suggestioni di un laboratorio. Un laboratorio che, a Mura Mura, è soprattutto di idee. A cura di Katrin Cosseta 
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24 Maggio, 2023

Cantine storiche d'Italia

Cantine storiche d’Italia, edito da 24 ORE Cultura, è un volume scritto a quattro mani da una giornalista e architetta, Margherita Toffolon, e un sommelier professionista, Paolo Lauria. Due visioni diverse e complementari per dipingere un ritratto completo – dal contenitore al contenuto –  di alcune antiche realtà vitivinicole del nostro paese, datate tra il X e il XIX secolo. “Con questo libro abbiamo voluto condividere la scoperta di questi luoghi, che conservano la propria intima anima ancora intatta, arricchendola con le note di degustazione dei vini più rappresentativi di ogni cantina” spiegano gli autori. Castello Banfi Il volume illustrato nasce da un lungo lavoro di indagine che ha portato all’individuazione di oltre 500 cantine, fino alla mappatura delle 38 che meglio rappresentano il genius loci del loro territorio. Blasonate e non. Note o meno conosciute. Alcune iconiche, altre meno scontate. Di ogni cantina si delinea una vera e propria carta d’identità che comprende le voci: storia, architettura, profilo enologico (ettari vitati, suoli, densità per ettaro, vitigni, produzione media), vini. castello di monsanto Il taglio narrativo di Cantine storiche d’Italia deriva dalla constatazione che “la storia di famiglie, ordini religiosi, produttori spesso sperimentatori o visionari e altre volte veri imprenditori, non solo legati al mondo del vino, è strettamente legata a quella degli edifici che ne sono ancora oggi l’abitazione o la sede aziendale”. Si va dalle abbazie ai castelli medievali, dalle ville nobiliari rinascimentali a complessi ottocenteschi di gusto eclettico. Cantine Storiche Guido Berlucchi Si legge ancora in prefazione: “la ricostruzione della dimensione storico-temporale di alcune importanti zone vitivinicole risulta intrecciata a quella dei loro insediamenti abitativi e produttivi, in alcuni casi veri e propri catalizzatori artistici e culturali”. È certamente il caso dell’altoatesina Abbazia di Novacella che apre la rassegna: fondata nel 1142, è annoverata tra le più antiche cantine del mondo, oltre a custodire preziosi tesori d’arte. Struttura, complessità ed eleganza sono termini adatti tanto al luogo quanto alla linea Cru Praepositus, selezionata come prodotto vinicolo identitario. Castel Salegg L’excursus storico svela spesso aneddoti e curiosità, come il fatto che i vini della cantina di Argiano, nei sotterranei di una villa cinquecentesca in quel di Montalcino, siano citati in un verso di Carducci. “Nella quale asprezza mi tersi col vin d’Argiano, il quale è molto buono”. Non si riferiva certo al Solengo, supertuscan nato dal genio enologico di Giacomo Tachis nel 1995, di cui viene proposta la nota di degustazione per l’annata 2019. Nel libro si scoprono anche le Possessioni Serego Alighieri, in Valpolicella, ancora in parte in mano ai discendenti del Vate. A rappresentarle, l’Amarone Vaio Armaron 2003. Noto è che Fontanafredda (il suo Barolo Renaissance bio 2018 nella scheda di desgustazione) fu teatro delle bucoliche evasioni di Vittorio Emanuele II e della “bella Rosin”, un po’ meno il fatto che il Castello di Spessa in Friuli ospitò Casanova e il librettista di Mozart Lorenzo Da Ponte. Donde il Metodo Classico Brut Millesimato Amadeus, degustato in annata 2016. Villa Sandi Se Toscana, Veneto e Piemonte ospitano il maggior numero delle cantine descritte, non mancano la Sicilia del Marsala Florio, la Valtellina di Nino Negri (e del suo Sfursat 5 stelle 2018), la Basilicata delle Cantine il Notaio (con annesso Aglianico del Vulture Il Sigillo 2015) o i Colli Romani con la cantina Principe Pallavicini che nella sua architettura ingloba un tratto dell’acquedotto dell’Acqua Claudia. Cantine Storiche Fratelli Gancia &Co Si lascia al lettore il compito di scoprire le restanti cantine e degustare, letterariamente, le etichette che le rappresentano. Cantine storiche d’Italia non è una guida per enoturisti; non è un libro di storia dell’architettura né un volume fotografico di suggestivi paesaggi; non è una (ennesima) guida dei migliori vini italiani. È tutto questo, fuso insieme. A cura di Katrin Cosseta 
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24 Aprile, 2023

Buttafuoco, sette produttori per una Masterclass di successo by Fiorenzo Detti

Canneto Pavese, Comune fulcro del vino Oltrepadano, ha ospitato una masterclass di grande successo che ha visto protagoniste 7 aziende di spessore che hanno fatto del Buttafuoco (storico e base ndr) un prodotto iconico apprezzato dalla ristorazione di alto livello e dalla sempre più esigente e curiosa comunità dei winelovers. “Canneto Pavese l’ombelico del mondo vinicolo”  queste le parole di apertura pronunciate dal conduttore, il preparatissimo e coinvolgente Fiorenzo Detti. Sommelier AIS di lungo corso e orgoglioso ambasciatore di questa zona di Lombardia. Una mattinata divulgativa, informativa e anche piuttosto tecnica durante la quale Detti ha accompagnato la sala gremita attraverso un percorso intrecciato tra storia, produzioni agricole, aree geografiche, vocazioni territoriali e dinamiche commerciali. Un viaggio dal generale al particolare che non ha mancato di regalare diversi spunti anche di attualità e di internazionalizzazione. Le sfide della comunicazione del vino, l’incentivazione a consumi consapevoli, la cultura dell’abbinamento, il saper apprezzare l’evoluzione dei vini nel tempo e l’importanza di approcciare con strategia e metodo i mercati esteri più idonei ai propri prodotti. 7 aziende, dicevamo, ciascuna a presentare la propria interpretazione del Buttafuoco. La batteria era così costituita: Buttafuoco Storico: Vigna Costera dell’azienda Francesco Maggi; Vigna del Corno della cantina Giorgi; Vigna Pregana dell’azienda Quaquarini Francesco, Sacca del Prete dell’azienda Fiamberti Giulio, il Bricco in Versira della cantina Piovani Massimo. Buttafuoco Classico: Bricco Riva Bianca dell’azienda Picchioni Andrea e Cavariola, rosso riserva dell’azienda Bruno Verdi. (18 le aziende in totale associate al Club del Buttafuoco Storico)    Gli assaggi si rivelano da subito molto suggestivi e ciascun vino esprime tratti e caratteristiche tipiche della vigna. “Sono tutti vini fratelli ma non gemelli” riassume Fiorenzo Detti che in questa frase fa trasparire, con una sintesi puntualissima, una serie di considerazioni e aspetti rilevanti. Il Buttafuoco si rivela una vino di gran corpo, dal carattere nobile, morbido e robusto. Un focus aggiuntivo è stato posto sull’evoluzione nel tempo e sulla capacità di questo vino di mutare arricchendosi sempre più di sentori e sfumature diverse in funzione del tempo trascorso in bottiglia. Nei piacevolissimi momenti di interazione con il pubblico, Detti ci poneva davanti al dilemma del conservare il vino in cantina per godere delle proprie evoluzioni future o di berlo immediatamente per capirne la prontezza di beva e per dar pronta soddisfazione al duro lavoro dei produttori presenti in sala.     A chiusura dei lavori, dopo i saluti alle istituzioni, guidati dal Sindaco di Canneto Pavese Francesca Panizzari, spazio al tradizionale agnolotto Bata Lavar che deve il proprio nome alle sue grandi dimensioni per le quali, all’assaggio, la pasta batte inevitabilmente sulle labbra. Riccardo Fiamberti, presidente della Confraternita del Bata Lavar ha raccontato che questo prodotto gode della protezione e tutela del Comune e che solo il Ristorante Bazzini ha l’autorizzazione ufficiale a proporlo ai propri clienti. Fiorenzo Detti è stato inoltre insignito del titolo di membro della Confraternita.     In conclusione, la Proloco di Canneto Pavese è stata in grado di organizzare un evento di livello capace di raccontare il passato, il presente e di fornire prospettive future alle eccellenze del proprio territorio. I nostri personali complimenti all’organizzazione e ai produttori per rendersi quotidianamente ambasciatori di un territorio da vivere, scoprire, bere e assaggiare.  Photo Credit: Pro loco Canneto Pavese A cura di: Riccardo Rabuffi
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26 Gennaio, 2023

Botte vecchia fa buon design

A San Patrignano, botte vecchia fa buon design. Barrique, la nuova vita del legno, è un progetto di recupero a 360 gradi: di persone, materiali, saperi. Tutto inizia dieci anni fa dalla collaborazione tra Riva1920, azienda brianzola del mobile con il binomio legno&design nel dna, e la più grande comunità di recupero dalle dipendenze in Europa. Dal legno delle botti esauste della cantina di San Patrignano, e dal suo laboratorio di falegnameria, nasce una collezione di oggetti d’arredo, firmati da noti nomi del design, dell’architettura, dell’arte e della moda. Oggi il progetto prosegue con nuovo slancio, sempre sposando creatività e sostenibilità. Ma andiamo con ordine. La comunità di San Patrignano ha sviluppato negli anni un’importante attività vitivinicola. I suoi ospiti si prendono cura (e viceversa) dei 105 ettari vitati sulle colline di Rimini. Qui, a un’altitudine di 200 metri, sono coltivati sangiovese, cabernet sauvignon, merlot, cabernet franc, pinot noir, chardonnay e sauvignon blanc. Il microclima favorevole determinato dalle brezze marine dell’Adriatico e dalla presenza del monte Titano e la recente direzione tecnica dell’enologo Luca D’Attoma (succeduto a Riccardo Cotarella) parlano di qualità. Alcuni rossi della cantina affinano in barrique e tonneau in legno di rovere francese stagionato all’aria aperta almeno per tre anni. Dopo tre vendemmie questi contenitori esauriscono la loro vita utile, ma il loro legno acquisisce una bellezza intrinseca, ricca di sfumature color vinaccia. Materiale da esaltare in nuove funzioni. Ogni singola doga da scarto si trasforma così in risorsa creativa per i designer chiamati da Riva1920. Come nell’ultimo modello entrato in collezione, il Wine Table di Carlo Colombo: più che da un designer sembra creato da un maestro d’ascia, vista la struttura che evoca uno scafo navale. La doga, nell’omonimo tavolo disegnato da Michele de Lucchi, ripetuta e accostata diventa un piano dal suggestivo pattern grafico. Bottea di Mario Botta non è un gioco di parole ma una panca che l’architetto ticinese rende in grado di trasformarsi in libreria grazie a ingegnosi incastri; poco importa che i piani siano concavi. La sedia Goffo di Alessandro Mendini è un oggetto tra il rustico e lo spiritoso che bene interpreta la personalità colta e irriverente del designer.La chaise longue DOC creata da Marc Sadler è sinuosa come una colonna vertebrale. Nel paravento Plié dell’archi-designer Matteo Thun le doghe si liberano dalle cerchiature metalliche e si distendono in inedite geometrie lineari. La concreta leggerezza tipica del design di Alberto Meda si esplica nel progetto Cinquedoghe: un’altalena per regalare un senso di euforia e di ebbrezza, come fa il vino. Il pop-designer Karim Rashid nello sgabello Inverso rovescia letteralmente la botte, portando all’esterno la parte interna, color del vino. Non possono che esprimere eleganza due progetti legati a nomi della moda. Virgola di Anna Zegna è una variante chic della classica poltrona sdraio, la poltroncina Draghessa di Chiara Ferragamo e Davide Rocchi punta sull’alternanza quasi optical tra gli elementi in tinta vinaccia e rovere. Questi sono solo alcuni esempi della versatilità d’arredo della collezione Barrique, ma soprattutto dell’insospettabile capacità di metamorfosi di una botte. A dimostrazione che, a San Patrignano, una botte non fa solo buon vino, ma anche buon design. Mi è sempre piaciuta l’espressione “botte esausta”. Dà l’idea di qualcuno che ha svolto fino in fondo il proprio compito, senza risparmiarsi. Ha senso dunque che da scarto si trasformi in materiale nobile di progetto, capace di generare, dopo gioia per il palato, bellezza per gli occhi. Tra sostenibilità ambientale e sensibilità sociale. Postilla Leggi&Bevi Vino consigliato per accompagnare la lettura di questo articolo: Colli di Rimini Rosso Noi. È l’etichetta di SanPatrignano che già nel nome celebra la coralità, il carattere collettivo della missione della Comunità e del progetto di cui ho scritto sopra. Per questo non può che essere un blend. Di sangiovese, cabernet sauvignon e merlot, assemblati prima di andare in bottiglia (6 mesi di riposo), dopo un affinamento di 12 mesi in barrique di secondo passaggio. Note di marasca, mora matura e ribes e un a bella trama tannica per un vino per tutte le occasioni. Noi è un’etichetta storica di SanPatrignano e l’annata 2020 è la prima firmata Luca D’Attoma.   A cura di Katrin Cosseta 
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IL BUON VINO NASCE DALLA BUONA TERRA AZIENDA MUSCARI TOMAJOLI Arrow Right Top Bg

12 Gennaio, 2023

IL BUON VINO NASCE DALLA BUONA TERRA

IL BUON VINO NASCE DALLA BUONA TERRA AZIENDA MUSCARI TOMAJOLI TARQUINIA 2022 Come nasce un buon vino? Dalle mani sapienti di chi lavora la terra oppure dal rispetto dell’espressione della terra stessa? Quella che vi raccontiamo in questo articolo è la storia d’amore, di rivoluzione, di rinascita di un’Azienda che ha posto le sue redini nella tradizione e nel valore primario del rispetto per il suo territorio. Devozione che viene mostrata osservando i bisogni della terra e del vigneto, ogni anno diversi e specifici. Un grande rispetto portato avanti da tutte le persone che, attualmente, ne fanno parte. Noi, Partners in Wine, in una giornata uggiosa, siamo andate alla scoperta di questa piccola ma sorprendente ed unica realtà: l’Azienda di Marco Muscari Tomajoli situata a Tarquinia, un piccolo gioiello incastonato su un colle nel Nord del Lazio, Patrimonio UNESCO Etrusco. Con calorosa accoglienza, incontriamo Marco ed il suo fedele amico e collega Pietro Mosci, il quale, con grande gentilezza e disponibilità, ci racconta la storia di questa realtà camminando in mezzo ai filari e accompagnandoci nella visita alla cantina. Come sempre, siamo attratte dai vigneti che, nonostante in questo periodo dell’anno sono a riposo dopo un lungo e faticoso lavoro, ci emozionano. Il vento tra i capelli, il profumo della terra fresca e il tocco della pianta ci fanno sentire vicine alla natura, regalandoci un senso di libertà, di leggerezza e respirando la “vita” che si percepisce in questo luogo. Pietro inizia a raccontarci che l’azienda di Marco è molto piccola e a livello familiare ed è per questo che lui non ha un ruolo ben specifico. “Il mio lavoro dipende dal periodo nel quale ci troviamo: in quello della raccolta sono in cantina con le varie lavorazioni e le ultime sfecciature; durante il Natale mi occupo un po’ anche della parte commerciale con gli ordini dei clienti e nel resto dell’anno sono immerso tra i filari a lavorare la terra. Mi occupo a 360° dell’azienda e sono 5 anni che ne faccio parte. Io e Marco siamo amici da quando eravamo bambini ed è, oltre che un piacere, anche molto facile lavorare insieme a lui per il bene che ci lega. Ho molta esperienza sul campo e faccio continui affiancamenti con l’enologo seguendo molto le sue direttive. Amo molto la terra, soprattutto questa. “ AZIENDA MUSCARI TOMAJOLI  TARQUINIA 2022   (In alto vitigni a bacca rossa, in basso vitigni a bacca bianca ) Se guardiamo dall’alto i filari di Marco, possiamo notare una forma ad elle, da una parte abbiamo i rossi e dall’altra i bianchi, in totale 2 ettari di vigna: il Montepulciano ad inizio filare, il Petit Verdot spostato più verso il mare, due piccoli appezzamenti di Barbera ed Alicante inizialmente sperimentali ed infine il suo meraviglioso Vermentino. Il Montepulciano viene utilizzato sia per la riserva “Pantaleone”, per la quale fanno una selezione scrupolosa dei filari durante l’annata con una raccolta tardiva a metà di ottobre, sia per il rosato “ Velca” raccolto un mese prima. Fanno tutte micro vendemmie, iniziando dal Vermentino per mantenere l’acidità alta, poi il Montepulciano per il rosato, il Petit Verdot e così via. Il lavoro in vigna viene svolto da Marco, Pietro e all’occorrenza da Stefano, un altro loro collaboratore. Gli impianti sono stati tutti innestati nel 2007 dal padre di Marco, Sergio Muscari Tomajoli, toscano di nascita, andato in pensione dopo una grandiosa carriera da ufficiale di Marina. Da sempre è stato un grande appassionato di vino che lo ha portato a vivere un’esperienza anche in Francia con i primi corsi di avvicinamento e da sommelier. Nel 2007 Sergio si ritrova un piccolo appezzamento di terreno lasciatogli dal bisnonno di Marco da parte della madre che, a suo tempo, veniva utilizzato solo per il bestiame. Riprende in mano la situazione facendo varie ristrutturazioni come la cantina, il casale, gli impianti e innestando le nuove viti. Ci fu una prima fase iniziale di sperimentazione anche con il supporto dell’enologo Gabriele Gadenz, il quale sposò subito il progetto di Sergio. L’importanza della Terra Inizialmente dalle prime analisi del terreno è emerso che quella terra era vergine e per questo le viti non avevano bisogno di lavorazioni particolari. Gli esperimenti furono molteplici prima di arrivare alla prima produzione del Nethun, il loro Vermentino, e del Pantaleone. Quest’ultimo in origine era un blend, Petit Verdot, in percentuale maggiore, insieme a piccole partite di Barbera e Montepulciano. Con l’entrata in azienda di Marco, nel 2017, succeduto al padre purtroppo venuto a mancare, insieme allo storico enologo si scelse di vinificare in purezza il Petit Verdot, questo grande vitigno che più si adattava al clima, sempre molto rigoglioso e mai con una malattia. A tal proposito, Pietro prosegue nella sua spiegazione: “Noi lavoriamo con inerbimento permanente, non facciamo irrigazione, non concimiamo, lasciamo fare tutto quanto alla natura. Anche come filosofia aziendale, è una nostra scelta far soffrire le piante e condurle a trovare, da sole, i vari nutrienti. Usiamo solo zolfo e rame ovviamente quando serve. Non siamo certificati biologici, perché al momento non ne sentiamo la necessità, ma ovviamente lavoriamo in maniera biologica e naturale e nel completo rispetto delle volontà della pianta. La cosa bella di una realtà piccola come questa è che puoi lavorare artigianalmente. Per quei pochi prodotti che diamo, usiamo ancora la pompa a mano; stessa cosa per la raccolta, scrupolosamente a mano, dalle potature allo sfalcio del verde. Facciamo molta attenzione ai tempi di raccolta, calcolando anche il clima dell’annata. Infatti, quest’anno, abbiamo dovuto anticiparla poiché è stata un’annata molto calda. Rispettiamo i tempi delle piante e siamo sempre in vigna per intervenire nel momento del bisogno”. Due sono i valori principali di questa azienda: la sostenibilità e la qualità. Quest’ultima si basa sul rispetto della vite e del suo ciclo naturale. C’è purezza e semplicità nel loro lavoro, c’è tanto rispetto e amore per quella che considerano una terra unica e naturale. Tutto questo porta l’azienda ha rese per ettaro bassissime e ad una qualità del vino eccellente. Siamo a 170 metri slm ed i terreni sono argilloso-calcarei, a pochissimi chilometri dal mare e a pochi metri dal bosco circostante. Le viti che si trovano a ridosso del bosco sono protette dai venti freddi e proprio per questa barriera crescono meno in altezza rispetto a quelle a fondo valle. Nonostante la vicinanza al mare, non ci sono terreni sabbiosi, ma in profondità c’è questa pietra particolare, chiamata Pietraforte (come da foto). E’ una pietra calcarea, una marna argillosa che solo loro hanno in questa zona, dovuta alla compattazione di argilla, creatasi in milioni di anni, con cemento carbonatico. E’ possibile infatti notare sopra questa pietra delle striature bianche ovvero il calcare rimasto compresso in essa. Questa composizione la ritroviamo in superficie con alte tracce di calcare attivo ovvero il calcio che dona tantissimi nutrienti alle piante. Ad oggi, questa pietra è ancora in fase di studio analitico per le sue componenti che con ogni probabilità influenzano il vino, come per esempio la grande spalla acida percepita degustandolo che potrebbe essere, secondo Marco, una delle caratteristiche ereditate. All’improvviso un retaggio dal passato Camminando tra i filari, in lontananza, notiamo alcune piccole viti. Cosicché Pietro ci racconta che disboscando una parte del terreno, hanno da poco ritrovato una vigna impianta dal bisnonno di Marco. Le piante hanno sicuramente dai 60 ai 70 anni e sono tutti vitigni misti poiché una volta si mescolavano per ottenere uve diverse e alcuni sono addirittura a piede franco. Al momento, stanno approfondendo l’analisi e l’identificazione genetica per capire se in futuro sarà possibile tenerle in considerazione per qualche progetto interessante. Una piccola ma fruttuosa cantina Entusiaste arriviamo in cantina dove Pietro ci fa strada: “Inizialmente era un annesso agricolo dove il nonno di Marco teneva tutti i suoi attrezzi, poi è stata trasformata in una vera e propria cantina. Facciamo tutto da soli con pochi macchinari e attualmente produciamo circa 7.000 bottiglie l’anno. Un terzo di queste le vendiamo in America, tramite un importatore conosciuto da Marco, il quale, lavora con aziende piccole nella zona del Massachusetts e di New York, e le restanti bottiglie qui in Italia. Tutte le etichette sono state rielaborate dall’artista Guido Sileoni di Tarquinia. Sono disegni meticolosi e precisi. Guido ha seguito varie scuole d’arte ma ha avuto un forte legame, fin da piccolo, con il lavoro del padre che faceva l’architetto. Questo, ad oggi, lo riscontriamo nella sua arte, nelle forme geometriche dei suoi disegni, nella sua precisione e nei tratti spigolosi. Ha creato a Tarquinia un murales raffigurante molte divinità etrusche, sua grande passione”. Entrando, notiamo subito disegnate sui muri varie raffigurazioni di queste particolari e bellissime etichette, una stanza che ospita barrique T5, le protagoniste dedicate soltanto alla Riserva, e in un’altra pochi ma essenziali macchinari. Il modello T5 è una barrique molto particolare, in rovere francese, proveniente dalla foresta di Tronçais, in Francia, stagionata per 5 anni all’aria aperta. Rappresenta il top di gamma della Tonnellerie Taransaud. La loro Riserva, l’Aita, affina qui per 18 mesi prima dell’imbottigliamento per poi riposare almeno altri 9 mesi in bottiglia. Attualmente l’Azienda produce tutto in purezza: per il Pantaleone quasi 2000 bt, per il Nethun altre 2000, per il rosato Velca 1800 bt e infine per la Riserva circa 500 bt annue. AZIENDA MUSCARI TOMAJOLI  TARQUINIA 2022 La cantina di vinificazione e la barricaia Un piccolo casale accogliente: in alto i calici! Terminato il nostro giro nei vigneti e nella cantina, Marco ci ospita nel suo piccolo ma accogliente Casale, risalente ai primi anni del ‘900, ristrutturato completamente dal padre che, ad oggi, funge da sala di degustazione e da base operativa. Iniziamo qui la degustazione insieme a Pietro e Marco, il quale, ci racconta di più sul progetto delle nuove etichette. “Questo progetto è frutto di una bellissima collaborazione con il pittore Guido Sileoni, Italo-argentino, nato a Buenos Aires, da mamma argentina e padre italiano. Si sono trasferiti a Tarquinia quando lui aveva 5 anni poiché a quei tempi la situazione in patria era molto difficile e la famiglia decise di tornare in Italia. Legato da sempre al mondo dell’arte e dopo aver svolto lavori di altro genere, ha deciso di seguire la sua più grande passione. Anche lui ha perso suo padre molto giovane e credo che, proprio dopo questo evento, ha deciso di intraprendere la carriera artistica. Su questo siamo molto simili”. Marco continua a spiegarci che l’inizio della collaborazione con Guido avvenne nel 2012, in seguito alla sua visita ad una mostra da lui creata molto particolare e importante che organizzò nella chiesa sconsacrata di Tarquinia. Un luogo molto evocativo. “In quell’occasione, secondo me Guido, ha definito e concretizzato chi voleva essere, le sue linee, i suoi tratti, i suoi colori ed il suo meraviglioso stile. Io per caso andai a quella mostra e ne rimasi folgorato, da lì in poi gli proposi una collaborazione. Tra bozze, sperimentazioni e prove varie siamo usciti ufficialmente con le prime due etichette nel 2014, il Nethun e il Pantaleone”. L’idea di prendere in considerazione le tombe etrusche per le etichette dei vini fu di Guido. Marco desiderava che rappresentassero un elemento del loro territorio in maniera fedele e autentica e avessero una loro storia. Dovevano essere identitarie e così è stato. “Questa cura che Guido ha dei dettagli, quasi maniacale, mi ha fin da subito colpito perché volevo che trasmettesse all’osservatore tutto il lavoro che si nasconde all’interno della bottiglia”.    VINO, ARTE O STORIA?  Il primo calice che degustiamo è il loro Velca  2021, un Rosato da uve Montepulciano in purezza. Al naso strabilianti note floreali di garofani e note fruttate di ciliegia. Al palato freschi sentori di frutti rossi, banana, arancia e un pizzico di erba fresca. Avvolgente e con un bel finale sapido e minerale. Un vino di un’eleganza straordinaria. Per questa etichetta, Sileoni ha scelto la Tomba dell’Orco che rappresenta una donna etrusca che cinge un uovo, fanciulla realmente esistita che si chiamava Velia Spurinna, considerata un po’ la Monna Lisa della civiltà Etrusca, di una bellezza incredibile. Gli Spurinna, a quei tempi, erano una delle famiglie più importanti della storia di Tarquinia. Il dettaglio dell’uovo invece è stato preso dalla Tomba degli Scudi, raffigurante moglie e marito che si stanno scambiando un uovo, simbolo di vita, di fertilità e di rinascita per le coppie di quei tempi. Il secondo calice che degustiamo è il Nethun 2021, Vermentino in purezza. Il clone è il Corso, proveniente da Sartène, nel sud della Corsica. Qui avvertiamo proprio la salsedine del mare e capiamo fin da subito che il grande potere d’invecchiamento di questo vino è dato proprio dal terreno. Il naso respira intense note di gelsomino, susina e camomilla, toni erbacei e avvolgenti nuance balsamiche. Al palato si avverte una nota netta di pera Williams e agrumi, una sferzante sapidità che lo contraddistingue portandoci con l’immaginazione tra le onde del mare. Lo troviamo molto equilibrato e le note di cedro, mandarino ed anice ci fanno pensare ad un abbinamento ai crudi di mare. Per l’etichetta di questo vino, l’Artista si è ispirato di nuovo alla Tomba dell’Orco sulla quale in un angolo si intravedono dei tralci di vite con delle foglie stilizzate. L’idea è stata quella di voler richiamare il legame del Vermentino con il mare rappresentando la fusione tra i tralci di vite e i pesci stilizzati. Il nome è di origine etrusca come la divinità del mare, Nethuns, per i Romani il Dio Nettuno. Il terzo calice in degustazione è il Pantaleone 2019, Petit Verdot in purezza. All’olfatto avvertiamo immediatamente la sua parte erbacea e balsamica, mentre al palato un insieme di frutti rossi, prugna, cannella, chiodi di garofano e liquirizia legano armoniosamente fra di loro. Una morbidezza eccezionale, un’acidità e una freschezza ben integrate. Un connubio perfetto che ci emoziona. Per l’etichetta, Guido ha preso in considerazione la Tomba dei Baccanti, la quale nella parte più alta è raffigurata la scena di due leoni che stanno cacciando due gazzelle. Il messaggio che vuole essere trasmesso è quello della forza del leone possente e lineare ovviamente nel suo stile artistico.   Per l’ultimo vino in degustazione, Marco ci sorprende con la sua meravigliosa Aita 2020, 100% Montepulciano. Un grande vino che, impenetrabile come il suo colore rubino violaceo, al naso ci regala note di ciliegia nera, mirtillo, mora e prugna in un connubio perfetto assieme a sentori di cioccolato e tabacco. Sul finale leggere note balsamiche e speziate, di cannella e liquirizia. Un tannino davvero molto equilibrato ed elegante. Qui ci lasciamo per un attimo andare degustando le sue dolci note boisé. Etichetta nuovamente ispirata alla Tomba dell’Orco, nella quale, da una parte, viene raffigurata l’Aita, divinità etrusca dell’oltretomba, corrispondente all’Ade Greco. In molti la scambiano per una donna poiché il suo viso tende ad avere dei lineamenti molto femminili, ma in realtà è una divinità maschile con un copricapo raffigurante la testa di un lupo. <<Marco, qual è l’etichetta che più ti rappresenta?>> Con una bellissima risata, Marco risponde: “Ho un legame unico e profondo con ognuna delle mie etichette. Un legame unico ma diverso. Nethun sicuramente è quella più rappresentativa che si è espressa sempre in maniera più nitida ed è quella che ci ha fatto conoscere di più nel commercio.  Il Velca, nel suo piccolo, è stata l’etichetta che ha ottenuto più riconoscimenti importanti”. Come obiettivi futuri, Marco ci confida che vorrebbe ampliare il vigneto e con un po’ di Vermentino in più a disposizione concepire un bianco riserva tra qualche anno. In più continuerà a studiare quelle viti molto antiche ritrovate da poco per capire se possono essere utilizzate per produrre un altro eccellente vino. Marco Muscari Tomajoli  “E’ iniziato tutto da mio padre. Mio nonno è morto nel 2000 ed era quello che si occupava della terra e degli animali. Mio padre invece ha ricostruito tutta la struttura, tutto il casale e impiantato le prime viti nel 2007, ma ha iniziato tutto questo con la visione di un hobby di fine lavoro, di uno sfizio personale. Poi ha conosciuto il nostro attuale enologo, Gabriele Gadenz e insieme hanno iniziato a sperimentare. Io sono subentrato quando mio padre è venuto purtroppo a mancare e mi sono reso conto che è una grande macchina, un ciclo continuo che non si ferma e che ha bisogno costantemente di investimenti”.   Ringraziamo di cuore Marco Muscari Tomajoli e Pietro Mosci per la bellissima visita e accoglienza a noi riservata. Conoscere la storia, la filosofia ed il pensiero di ogni azienda che visitiamo è per noi fondamentale. Ed il rispetto, l’amore, la determinazione e caparbietà che ogni giorno i  produttori mettono per far bene il loro lavoro, può soltanto essere per noi motivo di ispirazione e grande stima. Vi lasciamo come sempre con una frase a noi cara: “Credo che avere la Terra e non rovinarla sia la più bella forma d’arte che si possa desiderare”. Andy Warhol                 Ilaria Castagna e Cristina Santini Partners in Wine Ci trovate su Instagram: Kris_lifes_somm Cristina Santini Winefood_and_therapy Ilaria Castagna                 https://www.youtube.com/watch?v=RakajXgmc-E            
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24 Dicembre, 2022

Vino in abbinamento alle lasagne alla bolognese

Quale vino in abbinamento alle lasagne alla bolognese? Domanda semplice solo in apparenza: per rendere la cosa ancor più interessante, l’abbiamo chiesta a chi non te l’aspetti. Il risultato: un nuovo caso di Degustazione Artificiale. Del resto, con Guccini, una bolognese me la lasciate fare, no? Intro Secondo Eraclito, non si fa mai il bagno due volte nello stesso fiume. Bravo, sembra ovvio ma fa riflettere: cosa cambia? Cosa resta eguale? E, come il fiume, non ci sono due bottiglie di vino uguali (forse imbottigliate dalla stessa vasca, lo concedo, ma poi si evolvono differentemente nel vetro – un po’ come per due gemelli omozigoti) e nemmeno due teglie di lasagne vengono mai proprio uguali uguali uguali. Pensavo, in un mondo di sedicenti oracoli, perché non farsi umili pizie e chiedere all’intelligenza artificiale (ormai di modissima: il BOT ChatGPT è il non plus ultra cui rivolgersi) “quale vino in abbinamento alle lasagne alla bolognese?” Sette volte la stessa domanda, sette risposte dal BOT, sospese tra l’ovvio e l’epifenomeno di mascettica supercazzola: roba da far invidia al sommelierino qualunque insomma. Il commento aggiunto dopo ogni risposta è quindi al limite del pleonastico. LASAGNE ALLA BOLOGNESE, VINO ROSSO 0. chi si somiglia, si piglia. Quale vino in abbinamento alle lasagne alla bolognese? Dice l’oracolo: Per le lasagne alla bolognese, un vino rosso corposo e strutturato come un Sangiovese di Romagna o una Barbera d'Asti sarebbe un ottimo abbinamento. Entrambi questi vini hanno tannini robusti e un buon livello di acidità che si abbinano bene alla ricca e saporita salsa di carne bolognese delle lasagne. Altre opzioni potrebbero essere un Nero d'Avola o un Merlot. In generale, è importante cercare di abbinare il vino al piatto in modo che il vino non sovrasti il gusto del cibo, ma che si equilibri e si completi a vicenda. Abbinamento per consonanza: le cause materiali della lasagna si somigliano a quelle del vino. Emerge però subito quello che in seguito sarà tormentone: la storia dell’equilibrio. VINO ROSSO, BICCHIERE 1. un problema di statica degustativa Quale vino in abbinamento alle lasagne alla bolognese? Dice l’oracolo: Le lasagne alla bolognese sono un piatto molto saporito, quindi potrebbero essere abbinate a un vino rosso corposo e strutturato, come ad esempio un Sangiovese o un Merlot. Tuttavia, ci sono anche altre opzioni da considerare, come ad esempio il Pinot Nero o il Cabernet Sauvignon. In generale, è importante scegliere un vino che possa reggere il confronto con il gusto robusto delle lasagne alla bolognese, ma che allo stesso tempo non sia troppo intenso al punto da sovrastare il piatto. Inoltre, potrebbe essere una buona idea scegliere un vino che abbia una buona acidità, poiché questo aiuterà a contrastare il grasso presente nel piatto. In questo caso, l’enfasi è su forze (forti, nel caso) che, contrapponendosi, si sostengano a vicenda, alla ricerca dell’equilibrio, appunto. DETTAGLIO DI LASAGNA 2. c’è speranza per il vino bianco, oltre al rosso Altra risposta dell’oracolo: Le lasagne alla bolognese sono un piatto molto gustoso e saporito, quindi è consigliabile abbinare un vino che sappia tenerne testa. Un vino rosso robusto e strutturato come un Chianti Classico o un Brunello di Montalcino sarebbero ottimi scelti per questo piatto. Oppure, se preferisci un vino bianco, un verdicchio o un Pinot Grigio potrebbero essere buone opzioni. In ogni caso, è importante scegliere un vino che abbia un buon equilibrio tra acidità e tannini, in modo da esaltare il sapore delle lasagne senza coprirlo. Spero di esserti stato d'aiuto! Unica volta nella quale si azzarda un abbinamento con del bianco: ah, quanto consenso raccoglie il sommelierinismo conservatore! E non ci si dimentichi dell’equilibrio, mi raccomando. ROSSO DEL LUPO 3. Genius Loci Quale vino in abbinamento alle lasagne alla bolognese? Dice l’oracolo: Le lasagne alla bolognese sono un piatto tradizionale della cucina italiana a base di pasta, salsa di carne e besciamella. In genere, si consiglia di abbinare un vino rosso corposo e strutturato per contrastare la ricchezza del piatto. Un vino rosso della regione Emilia-Romagna, come il Lambrusco di Sorbara, sarebbe un'ottima scelta per accompagnare le lasagne alla bolognese. Questo vino ha una struttura leggera ma una buona acidità e un profilo di frutta matura che lo rende perfetto per equilibrare il gusto delle lasagne. In alternativa, un vino rosso delle regioni del Nord Italia, come il Barolo o il Brunello di Montalcino, sarebbe anche un'ottima scelta per accompagnare questo piatto. Le lasagne sono tipiche emiliane (in Romagna sarebbero più per le tagliatélle, ma non rifiuterebbero la lasagna, giammai): ecco quindi una proposta di abbinamento regionalissima – il Lambrusco di Sorbara, adattissimo per… equilibrare, e tè dai (cit. sempre Guccini)! Piuttosto che menzionare nello stesso suggerimento anche il Sangiovese, si preferisce buttarla in caciara evocando il Barolo o… ma sì, alla fine vai con il Sangiovese – attento però, senza chiamarlo tale. SI AVANZI CON LA FORCHETTA 4. La lasagna, un po’ come un certo colore, va con tutto. Altra risposta dell’oracolo, questa volta l’equilibrio è divenuto reggere il confronto: Le lasagne alla bolognese sono un piatto molto saporito e gustoso, quindi per l'abbinamento del vino si consiglia di scegliere un vino rosso robusto e strutturato, in grado di reggere il confronto con il sapore intenso della carne e del sugo di pomodoro. Un buon vino da abbinare alle lasagne alla bolognese può essere un Sangiovese di Romagna, un Morellino di Scansano o un Montepulciano d'Abruzzo. Anche un Cabernet Sauvignon o un Merlot possono essere ottime scelte per accompagnare questo piatto. In ogni caso, è importante assaggiare il vino prima di servirlo per assicurarsi che l'abbinamento sia adeguato. Praticamente restano fuori il Bonarda o il Barbera (ma non temiate, lo recupera dopo): consiglio o semplice dimenticanza? Ma comunque, prima di servirlo… assaggiatelo (Catalano, è lei?). IL ROSSO NEL BICCHIERE 5. Didascalico Quale vino in abbinamento alle lasagne alla bolognese? Dice l’oracolo: Le lasagne alla bolognese sono un piatto saporito e gustoso a base di pasta al forno farcita con un ragù di carne e besciamella. Un buon abbinamento per questo piatto può essere un vino rosso corposo e strutturato, come ad esempio un sangiovese di Romagna o un chianti classico. Sangiovese di Romagna: si tratta di un vino rosso prodotto con uve sangiovese nella regione Emilia-Romagna. Ha un colore rosso rubino intenso e un profumo intenso e speziato, con note di frutti di bosco maturi e sentori di vaniglia e spezie. In bocca è strutturato, tannico e persistente, con un buon equilibrio tra acidità e dolcezza. Chianti Classico: è un vino rosso prodotto nella zona di produzione del Chianti, nella regione Toscana. Ha un colore rosso rubino intenso e un profumo intenso e speziato, con note di frutti di bosco maturi e sentori di vaniglia e spezie. In bocca è strutturato, tannico e persistente, con un buon equilibrio tra acidità e dolcezza. In entrambi i casi, si tratta di vini che si abbinano bene alle lasagne alla bolognese per il loro carattere deciso e strutturato, in grado di contrastare la ricchezza del ragù di carne e della besciamella. Approfittiamo per fare un po’ di ripasso (qui l’equilibrio viene gabolato come la capacità di reggere il contrasto). O per sciorinare altre pillole di pseudosapienza sommelierinica, vedete voi. PRIMA DELL’ASSAGGIO 6. Tannino sì, tannino no. Il vizio della fuga nel truismo. Altra risposta dell’oracolo: Per abbinare il vino alle lasagne alla bolognese, si può scegliere un vino rosso corposo e strutturato, come un Chianti Classico, un Brunello di Montalcino o un Barbera d'Asti. Questi vini hanno tannini ben strutturati e un buon corpo che si sposano bene con la ricca salsa di carne alla bolognese delle lasagne. Un'altra opzione potrebbe essere un vino rosso leggero e fruttato, come un Valpolicella, che può essere un'ottima scelta per accompagnare le lasagne in un pasto leggero. In generale, è importante scegliere un vino che abbia un buon equilibrio tra acidità e tannini per bilanciare il gusto delle lasagne alla bolognese. Si diceva già sopra, la lasagna alla bolognese (ricca, gustosa e saporita: se non avete aggettivi migliori, usate questi) va con tutto (meglio se strutturato, con tannini robusti e buona acidità, anche qui se non avete aggettivi migliori, con questi non si sbaglia). In fondo anche la vita (pare l’abbia detto anche il Buddha, figuriamoci se non mi ci posso appecorare anch’io nella citazione) é una questione d’equilibrio – qui divenuto anche “sposarsi bene”. E vabbé, ad abundantiam. PROSIT Outro Si ringrazia la Trattoria San Biagio, in Parzano di Orsenigo (Alta Brianza) per la lasagna, Tosca Vini Bio, in Riviera di Pontida (tra Lecco e Bergamo) per il Valcalepio Rosso etichetta “Rosso del Lupo” che ci siamo bevuti con soddisfazione. Qualche punto in più per il lettore che, arrivato alla fine, abbia riconosciuto in questo pezzullo un omaggio agli scolastici medioevali, autori di più o meno fortunati Commenti alle Sentenze di Pietro Lombardo.
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22 Dicembre, 2022

L'eredità dei legami con la propria Terra

L’eredità dei legami con la propria Terra Masterclass “Eroica Campania” Il coraggio della resilienza Vini Buoni d ‘Italia 2022 Nei primi giorni di dicembre abbiamo avuto il piacere di presenziare ad un grande Tasting Event all’evento “Vini Buoni d’Italia” che ha visto la premiazione delle Corone e delle Golden Stars di oltre 850 vini di tutta Italia e la partecipazione di molti Consorzi tra cui il Consorzio Barbera D’Asti e vini del Monferrato, Consorzio per la tutela dell’Asti e del Moscato D’Asti Docg, Consorzio Tutela Vini d’Acqui e Consorzio Tutela Prosecco Doc. Nell’occasione abbiamo scelto di dedicare maggiormente la nostra attenzione alla Masterclass tenutasi in una delle sale dell’Auditorium della Tecnica di Confindustria a Roma. Ha aperto l’incontro il Presidente del Consorzio Tutela Vini del Vesuvio, Ciro Giordano, con i ringraziamenti a vini Buoni d’Italia per l’opportunità di parlare della Regione Campania, presentando  poi tutti i relatori presenti: Pasquale Carlo giornalista, referente per la guida vini buoni d’Italia del Touring Club per Campania, Basilicata e Calabria, Chiara Giorleo Critica Enogastronomica, Prof. G. Ferdinando De Simone Archeologo e i Presidenti degli altri Consorzi: Teresa Bruno del Consorzio Tutela vini d’Irpinia, Cesare Avenia di VITICA ~ Consorzio di Tutela Vini di Caserta, Andrea Ferraioli del Consorzio Tutela Vini di Salerno,  Libero Rillo del Consorzio Tutela Vini del Sannio non presente. L’eredità dei legami con la propria Terra : Masterclass “Eroica Campania” Il coraggio della resilienza Vini Buoni d ‘Italia 2022 Relatori da sx: Prof. G. Ferdinando De Simone, Chiara Giorleo, Pasquale Carlo   È una Masterclass particolare, diversa, dove non si racconta solo il vino, ma un percorso sull’intera Regione e sulla sua produzione. Pasquale Carlo afferma: “Berremo dei vini che secondo noi suscitano alcune emozioni, perché questo è l’aspetto più importante, in una formula diversa per far capire che la Campania oltre ad avere un patrimonio di biodiversità ha anche un patrimonio culturale e storico pieno di tradizioni”. LA STORIA FORGIA I TERRITORI Interviene Ferdinando De Simone: “la storia del vino in Italia è abbastanza recente, il modo di produrre vino oggi è un qualcosa che è avvenuto dopo la fillossera, dopo l’industrializzazione. Questi sono dei territori che hanno avuto una grande presenza legata all’occupazione del vino che ha caratterizzato il territorio per dei millenni e che vede una continuità culturale tra le popolazioni. Ad oggi ci sono molti rituali, riti dionisiaci che  sono stati tramandati, ma che in verità hanno perso un po’ il contenuto”. Siamo consapevoli che bisogna guardare al passato per capire meglio l’importanza del vino legata alla cultura del bere che sicuramente in Campania è nata con i greci, a differenza della produzione che si deve ai romani. I vini della Campania arrivavano in tutto l’impero fino alla Bretagna, alla Gallia e alla Spagna e quelli del Vesuvio sono stati trovati addirittura in India. UN DISEGNO CHE SI VA DELINEANDO Strabone, geografo e storico greco, parla della Campania dell’età romana con confini più limitati rispetto ad oggi, partendo sempre dal Monte Massico descritto come un teatro con gli spalti a rappresentare gli Appennini e con questa grande piana alluvionale di fronte all’area del Casertano con Roccamonfina da un lato e la Penisola Sorrentina dall’altro. Come un bellissimo teatro sul mare. Comprendiamo gradualmente l’eterogeneità del territorio campano: c’è il sole, il vento che viene dal mare che spazza via le nuvole, le montagne che proteggono dai venti freddi del Nord, l’acqua dei fiumi, la ricchezza del suolo dovuta alle aree vulcaniche. Ci sono tre aree vulcaniche importanti: quella del Somma-Vesuvio, quella di Roccamonfina, quella dei Campi Flegrei. Poi ci sono le colline con i terreni calcarei e la piana alluvionale. A completare il quadro un mosaico variegato di eccellenze tra Doc e Docg, 23.300 ettari vitati che in realtà sono pochi se pensiamo che dal 1906 al 1932 la Campania era la Regione più coltivata in Italia grazie alla natura dei suoli vulcanici dove la fillossera non è riuscita a distruggere totalmente il patrimonio vitivinicolo. L’eredità dei legami con la propria Terra : Masterclass “Eroica Campania”  Il coraggio della resilienza Vini Buoni d ‘Italia 2022 Territorio campano e Denominazioni   La maggior parte della produzione viene da vitigni a bacca nera; a Napoli si beve esclusivamente vino rosso o “vino nero”. Oggi fortunatamente la moda del mercato si sta orientando verso i bianchi, verso anche la capacità di evoluzione dei bianchi campani. C’è l’Aglianico (28%) che storicamente è il vitigno più presente in Campania, anche se sta perdendo un po’ lo scenario a causa della Falanghina (13%) che negli ultimi 10 anni ha avuto un boom ed è diventata la Doc più importante per il Sannio e, dal punto di vista economico, per la Regione; la Barbera (6%) che non ha nulla a che vedere con quella piemontese; poi ci sono un’infinità di vitigni autoctoni e il Sangiovese (6%). UN VIGNETO DAL TIRRENO ALL’APPENNINO In passato, la provincia di Benevento produceva meno vino rispetto a tutte le province campane; oggi invece rappresenta circa la metà della produzione. Poi viene Salerno, Avellino, Napoli e Caserta. La viticoltura è prettamente di collina e di montagna, resistono bene le vigne antiche e per ora i consorzi stanno pensando alla moltiplicazione dei vitigni a bacca bianca resistenti ai cambiamenti climatici. UN CALICE PER 5 TERRITORI IL SOMMA-VESUVIO Il monte Somma è una montagna che abbraccia il Vesuvio e rappresenta l’antico cono vulcanico. C’è stata un’evoluzione nei millenni e la forma attuale è data dall’ultima eruzione risalente al 1944. È leggermente arretrato rispetto al Vesuvio, esposto sì alle brezze marine, perché siamo a Napoli sulla costa, ma soprattutto a quelle appenniniche essendo verso l’interno con un clima più fresco che porta ad una rigogliosa vegetazione verde. È Il lato nord, quello più antico, dove si coltivano le castagne, i pomodori, le albicocche, ricco non solo di materiale piroclastico ma anche di argilla. Al contrario il Vesuvio è molto sabbioso, più esposto al mare, con ceneri non molto acide utilizzate come fertilizzante per i terreni. Il Somma è l’areale produttivo esclusivo della Catalanesca del Monte Somma, un vitigno a bacca bianca che storicamente arrivò qui per un dono d’amore. Fu portata a Napoli dalla Catalogna da Alfonso I d’Aragona, che conquistò tutto il sud Italia, perché si era innamorato, perdendo la testa, di una giovane ragazza del luogo. Inizialmente era utilizzata come uva da tavola nel periodo in cui c’era poca frutta ed era un privilegio mangiarla. Venne poi coltivata e mantenuta nel tempo grazie alla caparbietà di alcuni produttori che la utilizzarono per produrre il “lambiccato” che veniva poi portato in dono a Dottori, Notai, Avvocati. Fino a che nel 2006, dopo attenti studi, venne inserita nel Registro delle uve da vino e nel 2011 arrivò un disciplinare di produzione dedicato alla Catalanesca del Monte Somma IGP. Il Monte Somma-Vesuvio e la sua Catalanesca   Primo calice: CANTINE OLIVELLA “KATÀ” Catalanesca del Monte Somma IGP 2021 È un’uva con una buccia spessa e resistente quindi si può raccogliere anche tardivamente quando le condizioni metereologiche lo consentono.  È un vino che ha una sua complessità, una sua ricchezza e un corpo più sostenuto rispetto agli altri vini del Vesuvio, incentrati più sulla verticalità e sulla tensione salina. La Catalanesca ha un altro passo – dice Chiara Giorleo – e noi la troviamo con una ricchezza concentrata subito al naso, con un soffio vegetale, spaziando dall’agrume leggermente candito, tipo lime forse un cedro più maturo, alla mela fuji più dolce, più matura, con un leggero tocco tropicale di ananas sciroppata, una sensazione di miele pure essendo un vino giovane. Stessa ricchezza la riscontriamo al palato per concentrazione e per sensazione tattile, di velluto, supportata dalla lavorazione sulle bucce fini. Freschezza e sapidità che non tradiscono il territorio. L’Azienda ha i suoi vigneti tra i 300 e i 650 MT slm, con importanti pendenze, a piede franco e il 90% hanno più di settanta anni di vita. TECNICHE ANTICHE TRAMANDATE NEL TEMPO  Troviamo curiosa la particolare tecnica, usata in questa zona, della “propaggine” che consiste nel far passare un ramo della pianta madre nel terreno in modo che possa radicare e in un futuro staccarsi dalla principale. In questo modo non vengono estirpate le viti che hanno terminato il loro ciclo produttivo e impiantate quelle a piede americano. È una tecnica tramandata di generazione in generazione che assicura il mantenimento dell’impianto genetico del vitigno inalterato. Infatti, ci racconta l’azienda presente all’incontro che, quando vanno a generare le vigne nuove, scavando trovano in profondità altri tronchi delle viti più vecchie proprio perché i nonni avevano già utilizzato questo tipo di operazione. Inoltre sul Monte Somma vengono utilizzate ancora oggi opere di ingegneria idraulica costruite dai Borboni, vasche che permettono all’acqua di defluire su questi forti pendii. A suo tempo vennero fatte anche diverse leggi per tutelare questi grandi canali di età vulcanica con pene severe per chi ostruiva il loro corso e con l’obbligo, per chi coltivava le terre lì intorno, di liberarli da qualsiasi ostruzione. In effetti oggi, grazie a chi vive e coltiva la terra in queste zone, si riesce a contrastare, pulendo e coinvolgendo le amministrazioni a rifare le strade e a sistemare gli alberi, il continuo mutamento dei versanti del Vesuvio, perché geologicamente il materiale vulcanico è antico, poco stabile e a rischio frane. La Provincia di CASERTA Tre le zone importanti del Casertano c’è sicuramente Aversa, dove molti produttori hanno ripreso la coltivazione della vite in zone abbandonate durante l’industrializzazione. L’esempio più vivo è l’Asprinio con i suoi alberi alti più di dieci metri; l’alto Casertano, diventata la zona in cui i romani iniziarono a capire che, più che affidarsi ai greci e ai sanniti che stavano intorno al Vesuvio, potevano coltivare i terreni nella zona alta di Roccamonfina, simile a quella del Vesuvio. La terza è la zona che si trova al limite verso est, Monte Maggiore, denominata “il balcone sulla Campania Felix”, un territorio ricchissimo sia per la fertilità del terreno dovuta alla presenza del Fiume Volturno e all’attività vulcanica, sia per le tante testimonianze sannitico-romane. La Vigna del Ventaglio A Caserta ancora oggi c’è una fortissima impronta borbonica e la Reggia ne è la testimonianza. Nella II metà del settecento, Ferdinando IV di Borbone chiese a Luigi Vanvitelli di creare, nell’area retrostante la Reggia, una vigna, “la Vigna del Ventaglio” nel territorio di San Leucio, formata da dieci spicchi di vigneto, appunto a forma di ventaglio, con a dimora le dieci migliori uve tra cui Piedimonte bianco e rosso, i progenitori del Pallagrello. Nei diari di corte si evince che i vini Piedimonte del Ventaglio venivano serviti nelle grandi occasioni insieme ai Bordeaux e ai Grand Cru. Oggigiorno i vitigni autoctoni della zona, come il Pallagrello bianco e nero, il Casavecchia e la Coda di Pecora vengono vinificati in purezza. Secondo calice: IL VERRO “SHEEP” Coda di Pecora Terre del Volturno IGP 2021 Chiamata così per la forma del grappolo che ricorda la coda di una pecora, è un’uva a bacca bianca a maturazione tardiva, diversa dalla Coda di Volpe o dal Juhfark vitigno ungherese di cui è stato oggetto di discussione, originaria della Magna Grecia e vinificata in purezza da questa Cantina. Unico produttore. Cesare Avenia, Presidente del Consorzio Tutela Vini di Caserta e proprietario della Cantina “Il Verro”, nel 2003, in seguito all’acquisto di un terreno si accorge e incuriosisce di questo vitigno presente tra i filari abbandonati. Al ché avvia esami sul DNA e studi ampelografici per classificare la sua unicità ed essere così inserita nel Registro Nazionale delle varietà, ancora in fase di completamento. Per noi che siamo nel clou di questo viaggio sensoriale, riscontriamo immediatamente una ricchezza aromatica olfattiva dovuta proprio alla maturazione tardiva di questa varietà, dalla mela cotogna, alle sensazioni rinfrescanti di erbette, sbuffi di macchia mediterranea, e sul finale una sensazione di cenere annunciando il suo sorso più austero. Al palato è più imponente con una nota astringente non dovuta alla macerazione sulle bucce, ma alle caratteristiche proprie del vitigno. Grandissima sapidità sul finale che rende il vino gastronomico e beverino. La Vigna del Ventaglio e la Code di Pecora La Provincia è un territorio variegato, con mare, montagna e vulcano, con una produzione limitata in termini di bottiglie, di circa 2.000.000 all’anno su sei denominazioni (4 Doc e 2 IGP). Troviamo il Falerno del Massico, l’Asprinio di Aversa, il Galluccio, la Casavecchia di Pontelatone, Terre del Volturno e Roccamonfina. Cesare Avenia interviene: “Quando mi è stato chiesto di vinificare la coda di Pecora non ci ho pensato due volte visto che è il mio vino preferito.  Provengo da un’altra esperienza professionale, ma questo non mi ha fermato e impedito di creare la mia Azienda perché amavo il territorio e volevo nel modo migliore rappresentarlo e anche riscattarlo.  Il destino dei vitigni autoctoni è delicato, se non trovano uno sponsor fanno una brutta fine. E poi questo bianco matura tardi, ed è un problema per il produttore, a meno che non arrivi uno sponsor che se ne occupa e questo diventa una tipicità e  una ricchezza”. La Cantina ha una produzione di meno di due ettari in regime biologico e si avvale della collaborazione dell’Enologo Consulente Vincenzo Mercurio e del Prof. Moschetti Biologo che si occupa di fermentazioni e di lieviti utilizzati. È una continua ricerca che porta se tutto va bene a produrre 5000 bottiglie all’anno. “Vi assicuro che, se venite dalle mie parti a trovarmi, apriamo una bottiglia di Coda di Pecora del 2011 e vi renderete conto che ancora è in perfetta forma” L’ IRPINIA IN TUTTE LE SUE FORME E’ un territorio multiforme, punteggiato da rilievi, inciso da valli con notevoli valenze ambientali e paesaggistiche. Due sono i racconti storici importanti di questa zona menzionati da De Simone. Il primo riguarda i Colli di Abellinum: Avellino era un’antica città sannitica divenuta in seguito colonia romana e sorgeva dove oggi si trova la città di Atripalda e dove il Cristianesimo è riuscito a legarsi alla fine dell’impero romano. Il problema è che c’erano ancora nella campagna, per quanto perseguitate, persone pagane. Personaggi significativi dell’epoca furono: San Felice di Nola, imprigionato e torturato nel corso delle persecuzioni cristiane, purgatore dei veneratori delle Chiese che distruggevano le statue delle divinità pagane; San Paolino di Nola che, chiudendo un occhio, ha fatto in modo che si mantenessero i riti pagani sulle tombe dei martiri cristiani, conciliando il Paganesimo con il Cristianesimo. In questo periodo molti pellegrini dall’area dell’Irpinia andavano a Nola sulla tomba di San Felice e San Paolino a pregare e compravano il vino lì prodotto. L’Irpinia e il suo Greco di Tufo Una leggenda racconta che nel 1648 Scipione di Marzo scappa da San Paolo Belsito, vicino Nola, per allontanarsi da un’epidemia di peste e si rifugia a Tufo. Porta con sé le uve Greco e da qui nasce la coltivazione di quest’uva antica e pregiata in questo areale. Nell’800, ad affiancare la grande produzione di vino, ci fu il ritrovamento di un ricco giacimento di zolfo che portò ad un insediamento industriale molto importante nella zona. Lo zolfo fu impiegato anche nella coltivazione della vite che ebbe un’esplosione in tutta l’Irpinia, dando origine alla “zolfatura”, ossia alla tecnica di protezione usata contro le malattie della vite. Da Tufo è partito lo zolfo che ha salvato i vigneti di tutta Italia. Terzo calice: “Quattro Venti” PETILIA Altavilla Irpina Greco di Tufo DOCG Riserva 2020 È una DOCG ristretta comprendente otto micro comuni siti in un prestigioso territorio produttivo in provincia di Avellino. Lo scenario verso l’interno cambia completamente rispetto al Vesuvio, con un territorio prettamente montuoso, con inverni nevosi. Dalle parole di Chiara Giorleo: “il Greco di Tufo e il Fiano di Avellino sono esempi importanti in tutta Italia di vini bianchi da invecchiamento e da vitigni autoctoni. In Italia ce ne sono molto pochi”. Questo Greco di Tufo è di grande personalità, è un rosso travestito da bianco. Per noi la sua imponenza e sferzata acida sapida donano una finezza in grado di esprimersi al meglio nonostante le difficoltà di questo vitigno, poco produttivo, sensibile alle muffe e all’ossidazione. Ma se poi si sa lavorare esce un vino estremamente complesso, con note di zagara, pesca non troppo matura, sensazione di mela annurca e macchia mediterranea. Un finale sulfureo che è molto territoriale e che lo ravviva moltissimo con note sorprendenti di pietra focaia. È un’uva che proviene da viticoltura eroica, da una parcella specifica che si trova a 600 MT slm con rese tra i 50/60 q/ha ed è una vigna molto piccola di un ettaro. È una grandissima forza in Irpinia insieme al Fiano di Avellino e al Taurasi che è la DOCG più antica del sud Italia. SALERNO – PENISOLA SORRENTINA Nella provincia di Salerno, la più estesa d’Italia, la cultura del vino è una tra le più antiche con testimonianze lasciate nell’insediamento di Pontecagnano, nell’ultimo sito più a sud, da genti indigene e dagli Etruschi. Ci sono molte citazioni nella storia salernitana dove si parla delle proprietà benefiche del vino. C’era già una grande cultura del bere. Quando si parla della penisola sorrentina ci si riferisce ad una zona originariamente molto selvaggia abitata da popolazioni locali e verso le quali i greci, molto prima dei romani, avevano un certo interesse e anche un po’ un rapporto conflittuale. Per il Greco, l’indigeno non era realmente un uomo, non era civilizzato perché non viveva in città con le leggi in comune, e viveva da solo in campagna, pascolava le greggi, produceva già il vino però non aveva la cultura del bere perché non ancora legata a quel rito della convivialità e del simposio. Quello che hanno fatto i greci è usare quindi il vino come veicolo di acculturazione, di integrazione, di un modo di bere e anche di vivere, aumentando la platea dei possibili bevitori e migliorando di conseguenza anche il suo commercio. Raffaele Ferraioli e suo Furore Quarto calice: Furore “COSTA D’AMALFI” Fiorduva Doc di Marisa Cuomo 2020 È doveroso citare Raffaele Ferraioli, scomparso un anno fa e ricordato, come ci racconta Pasquale Carlo, “non come Sindaco di Furore ma come colui che ha creato Furore e inventato la parola Costa d’Amalfi, fondatore delle Città del Vino in Campania”. Un poeta e un visionario, definito uno dei padri della viticoltura moderna in Costiera Amalfitana insieme a Peppino Apicella di Tramonti. Non produceva vino ma ospitalità in tutti i sensi anche come ristoratore. Ricordata per i vini bianchi, con la Costiera Amalfitana entriamo in un micromondo con le sue caratteristiche uniche, in un mosaico di territori, di microclimi, di sottosuoli e di vitigni autoctoni particolari. Entusiaste beviamo Rivoli, Fenile e Ginestra, vitigni autoctoni in blend con una bella complessità, spaziando dai fiori d’arancio, alla nespola, al melone bianco, ad una sensazione speziata non pungente, rinfrescante come il cardamomo. Un vino salmastro, iodato che ci ricorda un po’ il territorio. Grandissima ricchezza e stratificazione che ritroviamo anche al palato, rotondità grazie alla maturità del frutto e alla concentrazione ben bilanciata con una freschezza non tagliente ma perfettamente integrata al succo. Finale sapido che non rende pesante la beva. Siamo sulla costa a 300 MT slm, con pendenze sopra il 50%, su terrazzamenti stretti e rocce a picco che denotano un certo fascino. Un paesaggio caratteristico di questa zona, dove non si utilizzano sistemi meccanizzati e per il trasporto delle uve vengono impiegati gli animali da soma. Parla il Presidente del Consorzio Tutela Vini di Salerno, Andrea Ferraioli: “Nel 1995, a Furore, parallelamente all’ottenimento della Doc, io e mia moglie attivammo un campo catalogo di circa 3000 metri dove mettemmo a dimora 42 varietà di uva di cui 28 a bacca bianca e 14 a bacca rossa. Contestualmente iniziammo a fare uno studio per la classificazione clonale, con microvinificazioni sperimentali e da qui uscì il protocollo per il Fiorduva con i tre vitigni in blend. Da rese molto basse, con questi tre vitigni insieme, siamo riusciti a produrre un numero di bottiglie congruo e soprattutto il segreto è che insieme si completano. Vinificati in purezza non sarebbero stati bevibili e il vino sarebbe stato squilibrato. Sono ceppi prefillossera disposti a pergola che hanno minimo 60 anni, impiantati su muretti a secco con il sostegno di pali di castagno.  Oggi questi vitigni non sono miei ma della Costiera Amalfitana e sono identitari di un territorio squisito. È importante oggi curare la storia di un territorio.”   Leonardo Mustilli e la Falanghina del Sannio SANNIO Il Sannio è storicamente conosciuto per la Regina delle vie, la Via Appia che passava per Benevento e per le tante testimonianze dall’Egitto dovute alla presenza dei mercanti provenienti da Alessandria d’Egitto. È un territorio vastissimo e il Monte Taburno rappresenta uno dei luoghi più significativi dal punto di vista geografico poiché a difesa della Longobardia. Dopo la caduta dell’impero romano, Benevento fu il più importante feudo longobardo del Sud. IL CREATORE DELLA FALANGHINA Un altro personaggio che ha fatto la storia del vino è Leonardo Mustilli, Ingegnere appartenente ad una famiglia di stirpe nobile che nel ‘500 si trasferì da Ravello verso l’interno. Dopo aver creato un’azienda agricola, negli anni ’70, comincia a studiare e operare microvinificazioni su vitigni antichi tra cui la Falanghina che è sempre esistita nella provincia di Benevento. Però all’epoca veniva conferita alle fabbriche di Vermouth nel nord Italia, perché essendo un’uva con molta acidità raggiungeva un grado alcolico elevato. Tutto finì poi con lo scandalo del metanolo. Leonardo riscopre un vitigno sul Taburno e inizia a vinificarlo con molte problematiche finché alla fine riesce a strutturare un vino che va bene per il mercato e da qui farà fortuna. Nel 1979 imbottiglia la prima Falanghina del mondo. Da allora ad oggi gli ettari vitati a Falanghina sono diventati circa 3000 con una produzione di 12.000.000 di bottiglie l’anno.                       L’eredità dei legami con la propria Terra : Masterclass “Eroica Campania” Il coraggio della resilienza Vini Buoni d ‘Italia 2022    Degustazione 5 calici per 5 territori   Quinto calice: “KYDONIA” di Ca’ Stelle Viticultori in Castelvenere, Falanghina del Sannio DOP Vendemmia Tardiva 2017 affina per il 50% in legno Questa bottiglia è appena uscita sul mercato e premiata da Vini Buoni d’Italia. Per noi questo calice di vendemmia tardiva rappresenta un cammino sensoriale stimolante che, nonostante i suoi 5 anni, si mostra giovanissimo alla vista, ha un naso molto complesso, frutta gialla matura, mele, noci, fiori bianchi. Mostra un palato vivace e concentrato con note citriche evidenti. Freschezza, acidità e grande longevità sono le sue migliori doti. Cantine degustate: Cantine Olivella, Cantina Il Verro, Cantina Petilia Altavilla Irpinia, Cantina Marisa Cuomo e Ca’ Stelle Viticultori in Castelvenere Pasquale Carlo: “Mi fa piacere che siamo stati insieme quasi due ore, sono stati bravi anche i produttori che ci hanno permesso di degustare i loro vini” Ciro Giordano: “Ringrazio i relatori e voi per la partecipazione, da domani gireremo il mondo con questo Format. Quando parliamo del nostro territorio abbiniamo la parte storica, archeologica al valore della produzione vitivinicola in Campania.  Sottolineo la grande unione che oggi hanno i cinque consorzi di tutela, la grande sinergia che c’è tra i cinque presidenti come vedete, per la promozione delle piccole e grandi attività.  L’obiettivo è tirare fuori il valore di questa Regione, il mondo vitivinicolo campano e tutte le eccellenze dei territori che oggi avete potuto ben vedere”.   L’eredità dei legami con la propria Terra : Masterclass “Eroica Campania”  Il coraggio della resilienza Vini Buoni d ‘Italia 2022  Line up: Cinque Consorzi a braccetto   Chiudiamo la nostra esperienza con delle personali considerazioni: La Campania è stata per noi davvero una piacevole scoperta; lei è sinonimo di mare, sole, sapori e profumi che infondono energia ed allegria. È la Terra del fermento, della storia, dell’arte, delle tradizioni e della cultura che, come avete letto, viene da lontano, si respira tra la gente, i monumenti e il suo paesaggio e ci parla dei miti della storia romana e greca. E’ il Territorio che custodisce antichi e pregiati vitigni, ceppi centenari che da soli ci raccontano decine di affascinanti e antiche storie piene di sacrifici, amore e caparbietà. E’ tanto e spesso troppe cose insieme, ma che travolge con una valanga di emozioni chi la vive in tutte le sue sfaccettature. Questa è la Terra della gente che ama. Ilaria Castagna e Cristina Santini Partners in Wine                     https://www.youtube.com/watch?v=RakajXgmc-E            
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19 Dicembre, 2022

Ma vai all'infernot

Ma vai all’infernot non è un’invettiva contro persona poco gradita, ma un invito a scoprire una realtà nascosta nel sottosuolo del Monferrato Casalese. Una singolare forma di architettura ipogea, forte elemento di identificazione territoriale. Non a caso il Monferrato degli infernot è una delle sei voci che compongono I paesaggi vitivinicoli del Piemonte: Langhe – Roero e Monferrato, eletti nel 2014 (prima di Borgogna e Champagne!) Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Le altre cinque voci di questo variegato terroir, di cui l’UNESCO ha riconosciuto l’eccezionalità naturale e culturale, per la cronaca sono: Langa del Barolo, Colline del Barbaresco, Nizza Monferrato e il Barbera, Canelli e l’Asti Spumante, Castello di Grinzane Cavour. Gli infernot sono luoghi per la conservazione del vino, capolavori architettonici nati dalla tradizione costruttiva locale e dal sapere contadino. Cripte laiche, private, in questa verace terra di barbera, grignolino, freisa. L’infernot è una piccola camera sotterranea, scavata nella pietra, priva di aperture per illuminazione o aerazione dirette. Appendice, spesso in profondità, della cantina. Si tratta di uno spazio più o meno complesso e articolato, arricchito di nicchie e gradinate per conservare le bottiglie di vino. Quello buono per le occasioni importanti. Gli infernot si trovano sotto le case private in diversi comuni della collina casalese, scavati direttamente nella pietra locale, un’arenaria impropriamente definita tufo: la Pietra da Cantoni. A questa, e alla cultura degli infernot che ne discende, è dedicato l’Ecomuseo di Cella Monte Monferrato (dal cui archivio sono tratte le immagini qui pubblicate), promotore del censimento di queste strutture sotterranee. Il piccolo borgo di 500 anime è uno dei 14 comuni che costituisce il sistema del Monferrato degli infernot, con relativo itinerario turistico. Meglio se ovviamente accompagnato da relativa esperienza enogastronomica. Ma perché gli infernot si trovano solo in questo angolo di Monferrato? Semplice: per via della pietra locale, particolarmente docile alla lavorazione (e all’estro degli anonimi scavatori) e capace di garantire stabilità di temperatura e umidità. Facile imprimere nella roccia decori (grappoli d’uva, ritratti, motivi geometrici, simboli politici) e date. Quelle rinvenute partono da metà Ottocento, ma sicuramente le strutture sono anteriori. Non esiste un ‘piccolo inferno’ – se si vuole seguire la tesi dell’origine lessicale dal dialetto piemontese, col suo tipico suffisso diminutivo in -ot, rispetto alla più aulica etimologia che riporta a enfernet (prigione angusta) in provenzale antico – uguale all’altro. Gli infernot sono manufatti unici, non riconducibili a regole compositive o costruttive, per questo sono tutti diversi. Esistono declinazioni tipologiche monocamera (quadrata o circolare), multicamera o a corridoio. Nicchie quadrate, rettangolari, ad arco o addirittura a forma di bottiglia, le più scenografiche. Non siamo di fronte a un’espressione di semplice folclore contadino, ma di una cultura materiale e abitativa dai risvolti linguistici specifici, di estremo interesse. Questi caveau, spontanei e per nulla codificati, sono brani di antropologia rurale. Quella che non lascia tracce scritte, ma costruite. La tradizione orale e le cronache familiari tramandano che gli infernot fossero anche luoghi di aggregazione e convivialità, teatro delle cosiddette ribote. Si trattava di ritrovi goliardici ‘underground’ dei giovani del paese, spesso a base di bagna caùda. Inutile dire che in tali occasioni le scorte di vino venivano pesantemente intaccate. Piccola nota personale. Ho vaghissimi ricordi dell’infernot di famiglia. Da bambina il solo sentire nominare la parola dal nonno mi terrorizzava. Per me era l’antro oscuro oltre la cantina. Le botti, enormi, una presenza ostile. Le bottiglie impolverate un oggetto inutile. Però, confesso, il moscato (a dosi di un dito immerso nel bicchiere) già non mi dispiaceva. Come cambiano le percezioni, con l’età! Ora l’infernot è per me un sublime esempio di architettura vernacolare con il fascino da tomba etrusca, le bottiglie hanno assunto tutt’altra attrattiva, il moscato lo tollero al massimo con il panettone. E sempre nella dose minima da infanzia: un dito al massimo. A cura di Katrin Cosseta 
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