WineKult

A cura di Francesca Pagnoncelli Folceri

WineKult è e sarà il contenitore dedicato al mondo del vino ma visto con occhi di un architetto. Il vino è frutto di conoscenze multiple, sapienza contadina che si sposa con le tecnologie più moderne e sofisticate, stratificazioni geologiche e culturali legate ad un luogo, un paesaggio, un territorio, e il loro trasformarsi nel tempo in base all’evoluzione della conoscenza e delle condizioni al contorno.

Ma il vino di per sé non ha forma, eppure costruisce intorno a sé un mondo vastissimo di comunicazione, significati, costruzioni, manufatti. E’ proprio questo il mondo che la rubrica Wine Kult vuole indagare, scoprire, raccontare.

Il vino non ha forma, come si diceva poc’anzi. Il vino prende la forma del suo contenitore. E i contenitori del vino sono molto moltissimi.

Se analizziamo le fasi di produzione del vino dovremmo iniziare a parlare di contenitori di uva, in primis. Cassette, vasche, tini, ecc., un mondo più tecnico che altro, su cui non ha molto senso soffermarsi. E’ sicuramente il caso di farlo però pensando alle “case del vino”: le cantine.

Le architetture del vino, negli ultimi 30 anni, sono diventate protagoniste assolute di sperimentazione, ricerca, studi, la cui finalità è stata quella di trovare il giusto matrimonio tra forma e funzione.

Là dove sono intervenuti grandi firme dell’architettura le forme delle cantine, il loro aspetto estetico, il loro impatto, il loro calarsi in un processo produttivo sino ad allora concepito solo come tale, è stato dirompente. La cantina, da semplice luogo di lavoro e trasformazione delle uve, si è aperta al pubblico. Da qui la vera rivoluzione. Dover mostrare. Questa è la vera discriminante.

Quando le cantine divengono luogo di ospitalità, di cultura del processo produttivo, luogo di visita e, a volte, di pellegrinaggio, ecco che alla funzionalità si affianca la necessità di rendere luoghi di lavoro diversamente ospitali.

Il vino non ha forma, si diceva poc’anzi. Il vino prende la forma del suo contenitore. E i contenitori del vino sono molto moltissimi.

E il primo contenitore del vino, un volta uscito dai tini, è la bottiglia. E la bottiglia non è più spoglia, anonima, mero contenitore appunto.

La bottiglia diventa l’abito del vino, e come tale deve fare il monaco…nel senso che deve, proprio come un vestito, raccontare subito qualcosa di chi lo porta. Bottiglie tradizionali normalmente vestono i vini, soprattutto in Italia e in Francia, dove i disciplinari e la tradizione fanno sentire con forza il loro peso, riducendo al minimo i casi di sperimentazione. Ma se allarghiamo il campo ad altre tipologie di bevande e ad altre aree geografiche di produzione, che non hanno necessità di sottostare alla storia, vediamo che la bottiglia è davvero oggetto di sperimentazioni formali.

E ogni bottiglia, come si diceva, necessita di un vestito, di un’etichetta, e di un’altra serie di accessori “parlanti”. In questo ambito non c’è limite alla creatività, alla sperimentazione, alla voglia di stupire e di farsi notare.

Di questo si parlerà nella rubrica WineKult, ma anche di eventi legati al mondo del vino, del vino comunicato attraverso film, libri, personaggi, pubblicità, mostre, dibattiti.

Il vino è vita, il vino è vivo, e pare che ogni giorno abbia voglia di raccontarsi e di raccontarci frammenti di cultura locale e globale.

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4 Gennaio, 2024

Esercizi spirituali per bevitori di vino

Cronaca semiseria di una lettura natalizia: Esercizi spirituali per bevitori di vino, di Angelo Peretti. Situazione: previgilia in libreria affollata alla ricerca frenetica e autolesionista degli ultimi regali. Gironzolando tra gli scaffali mi cade l’occhio su un titolo: Esercizi spirituali. Tema coerente con il periodo e sicuramente necessario visto come va il mondo, ma passo oltre. Non è il mio genere. La coda dell’occhio coglie però il sottotitolo: per bevitori di vino. Torno indietro, sì, è invece il mio genere. Ecco, questo me lo regalo io. Ringrazio l’autore, Angelo Peretti, per avere allietato con la sua guida, gaudiosamente laica, la noia di giorni festivi conditi dall’influenza. Che hanno richiamato da non so che angolo della memoria, un detto che mio nonno ogni tanto citava, con pura cadenza monferrina: Mèj ciùc che malàvi. Toh, in perfetta sintonia con uno degli esercizi spirituali elargiti: “Bere in dialetto (ovvero i vini che hanno la cadenza dei luoghi natii) è un esercizio di resistenza culturale”. Ma andiamo con ordine, anche se questa è una tipica lettura che, per struttura dell’indice articolato in micro-storie indipendenti, non richiede di seguire pedissequamente la progressione delle pagine. Il libro, pubblicato da Edizioni Ampelos, si compone di novanta brevi capitoli, o “sorsi”, ciascuno dei quali accompagnato da una coppia di consigli di bevuta, una referenza italiana e una straniera. Non si tratta di un manuale di meditazione o di una ennesima guida ai vini, più o meno alternativa, e sbaglia chi vi cerca tra le pagine un senso religioso. Anche se, rileggendo il titolo, penso tra me e me che ad abbinare vino e spiritualità non si incorre nel rischio di blasfemia, visto che la Bibbia abbonda di metafore sulla vigna e che il vino è elemento portante del rituale cattolico. Se si pensa poi a nettari come Vin Santo, Lacryma Christi o Sangue di Giuda, tutto torna. Il senso dello scritto lo pone in chiaro l’autore in premessa: Mi sono persuaso che il vino rappresenti una specie di esercizio spirituale simile, per certi versi, a quello praticato dai filosofi che riflettono sul senso dell’esistenza. Con la differenza che bere è un esercizio piacevole, alla portata di tutti, e siccome tutti possediamo la consapevolezza di vivere, nessuno può dirsi inesperto. Perfino chi è astemio. Il vero fil rouge che collega gli esercizi enospirituali è presto svelato: il piacere è la stella polare del bevitore. Devi sapere qual è l’origine del tuo piacere. E così Angelo Peretti, con piglio di profonda leggerezza, da consumato giornalista e critico enologico, ci accompagna alla scoperta delle sue novanta stelle polari, tra aneddoti personali, bottiglie memorabili e autocompiaciute “stille di eresia enologica”. Già i titoli sono un programma, in rigoroso ordine alfabetico da Abbiccì a Zapping. In quest’ultimo capitolo si legge: Il vino assomiglia ai libri. Entrambi aprono nuovi orizzonti, appagano la curiosità e non obbligano a lunghi spostamenti per viaggiare: basta la fantasia. Oppure un calice di Etna Bianco o Sauvignon cileno, suggerisce l’autore. Alla voce Ottimismo, Peretti invita a fare un test: Apri una bottiglia, quella che vuoi. Se la stappi con l’atteggiamento di chi è pronto a rinfacciare al vino ogni più piccola pecca, mi dispiace, sei pessimista; ti disobbedirà anche il vino più pacato. Se bevi tanto per fare, sei impegolato nell’indifferenza; il vino ti sarà muto. Se invece l’aspettativa è quella di cogliere il meglio del vino che versi, hai superato la prova. Lo spirito vincente è l’accoglienza”. Vale per il vino quanto per gli uomini, considero. Al lettore il compito di scoprire l’arcano mistero dietro all’abbinamento con un Dolcetto di Ovada e un Pineau des Charentes Rosé. Un Valtellina Superiore o un Vin de Pays des Bouches du Rhône accompagnano il capitolo Variazioni: I vini più puri sono quelli che sanno raccontare il senso delle stagioni, che sono mutevoli, e i sentimenti di chi coltiva la terra, che sono altrettanto volubili. Tutti cambiamo giorno per giorno. Magari impercettibilmente, ma diventiamo diversi. La speranza è di diventare migliori. E così enofilosofeggiando allegramente tra i più disparati concetti, al limite del nonsense: Blu, Degustatori, Discolpe, Felicità, Gatti, Intelligenza, Jazz, K2, Mai, Nulla, Orgoglio, Ossimori, Ribellione, Successo, Tartufi, Unicorni, Xilofono…. solo per citarne alcuni, a dimostrazione che ogni vino è un naturale attivatore di caleidoscopiche emozioni, del tutto soggettive. Fino all’esercizio spirituale di chiusura: Sii sempre curioso di te stesso, della vita e dell’umanità, poiché questa – solo questa, tutta questa – è la vocazione del bevitore. A cura di Katrin Cosseta  Winekult
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25 Settembre, 2023

Guido Martinetti: dal gelato Grom al vino Mura Mura

Che i due enfants prodige di Grom abbiano, alla soglia dei cinquanta, raggiunto saggezza e maturità? Stando al nome che hanno dato ai loro vini, sì. Mura Mura (per puro gusto di suspence si rimanda a qualche riga sotto lo svelamento del significato), a Costigliole D’Asti, è un’azienda agricola a cavallo tra Langhe e Monferrato, di proprietà di Federico Grom e Guido Martinetti. Già, proprio gli artefici del brand sinonimo di gelato italiano del mondo: una case history per modello di marketing, storytelling e imprenditoria giovanile di fulmineo successo. La cessione nel 2015 del marchio al colosso Unilever avrebbe consentito ai due di dormire sonni tranquilli per un bel po’. E invece no. Risorse ed energie si concentrano ora su Mura Mura, i cui frutteti sperimentali fornivano la materia prima per i celebri sorbetti. Oggi questi frutteti sono circondati da vigneti, perché l’eredità di Grom si riversa nel bicchiere, con un patrimonio unico di biodiversità e la coerenza di un “concetto di artigianalità proprio del mondo dell’agricoltura”. L’azienda si estende per 30 ettari (di cui 10 vitati prevalentemente a Barbera e Grignolino) a Costigliole d’Asti, si completa di ulteriori 4 ettari vitati, a Barbaresco – nei cru di Roncaglie, Starderi, Currà e Serragrilli – e uno a Serralunga d’Alba, dove viene prodotto il Barolo nel cru di Sorano. La nuova avventura nel mondo del vino conferma la continuità dei ruoli: Grom responsabile della parte commerciale e finanziaria, Martinetti, enologo, anima del prodotto. È lui a farmi da guida nella tenuta. Fisico asciutto e nervoso da atleta, parlata a fiume sospinta da passione e competenza (se è in grado di snocciolare nomi e sfumature gustative di una mezza dozzina di varietà di fragole, figuriamoci con l’uva), occhio vigile a ogni dettaglio che tradisce l’indole di chi ha le idee molto chiare e non transige sulla qualità. Esordisce prevenendo l’ovvia domanda sul nome della cantina: “Mura, Mura! è un’espressione che sentivamo sempre in Madagascar, dove andavamo per selezionare le migliori vaniglie per Grom. Significa vivere lentamente e con saggezza, avere la capacità di apprezzare le piccole cose. In più nel sud del Piemonte mura vuol dire matura”. Nome esotico ma non troppo, insomma. Rigore e Fantasia In un certo senso Mura Mura è una cantina bipolare: i suoi vini raccontano l’eterno dilemma tra ragione e sentimento (ma cos’è il vino, se non armonia di entrambe le cose?), distinguendosi in due linee: Rigore e Fantasia. Ma riflettono anche l’identità duplice dei territori di confine. “I vini del Rigore sono quelli di Langa, sottoposti a un disciplinare più rigido e menzionano in etichetta le MGA. Si distinguono, anche per estetica, da quelli del Monferrato, che abbiamo chiamato i vini di Fantasia, e ci consentono maggiore libertà, visto il disciplinare meno restrittivo”. I primi sono declinazioni di tre Barbareschi (Faset, Serragrilli, Starderi) fini, eleganti e consistenti che esaltano le specificità dei singoli cru. “Il mio concetto enologico parte ovviamente dal terroir, che vuol dire non avere deviazioni aromatiche. I miei sono vini non amari. Sono molto orgoglioso del mio Fasett, un Barbaresco fresco, pulito, mai ridondante”. Capsula in gommalacca grigia per la linea del Rigore, rossa invece per i vini di Fantasia “perché sono quelli che nascono dalla mia passione. Come la mia prima etichetta, Romeo, dal nome del figlio del mio socio Federico: è il mio regalo come padrino, un blend di quattro vitigni piemontesi (Barbera, Nebbiolo, Grignolino e Ruchè). Ode al Monferrato, e sempre in un’ottica di esaltazione del cru, nella stessa linea troviamo due vini in purezza: la Barbera d’Asti Superiore DOCG Miolera e il Grignolino d’Asti DOC Garibaldi, per cui si apre un capitolo a parte.   Shakespeare in wine Fantasia significa anche seguire le suggestioni dei propri miti, letterari e non. Martinetti parlando del proprio progetto enologico riesce a tirare in ballo fonti di ispirazione eterogenee, da Steve Jobs a Bruce Lee passando per Guccini. Ma se c’è un cantore assoluto del dualismo tra regola e passione, ovvero il dna di Mura Mura, quello è Shakespeare: “sono un ammiratore del Bardo, il più grande indagatore dell’animo umano”. Romeo è infatti il capostipite della linea dei vini di Fantasia che declina nomi shakespeariani. C’è così il Langhe DOC Mercuzio, un Nebbiolo di grande consistenza, ma si incontra anche la dolcezza del Piemonte DOC Ofelia. “Da un punto di vista formale è un moscato passito, ma tecnicamente è per metà botritizzato e per metà un icewine. Nessuna donna mi ha mai resistito… grazie al mio Ofelia”. In senso alcolico, precisa ridendo. La rivalsa del Grignolino Guido Martinetti (nato a Torino con nonni astigiani) si dichiara nettamente più monferrino che langarolo, sia per radici familiari sia per atteggiamento culturale all’insegna dell’understatement.  affascinato dalla storia di povertà e di riscatto (invero trasversale alle Langhe) sull’onda di un’etica del lavoro volta a fare bene nel proprio piccolo. Anche per questo ha scelto di rilanciare il vino povero per eccellenza del Monferrato, il Grignolino. “Oggi ci sono moltissimi vini buoni, ma sono pochi quelli con personalità aromatica che è la vera sfida per l’enologo, piuttosto che la struttura. Proprio il Grignolino ha una personalità aromatica molto rara, punto d’incontro tra la spezia e la frutta di bosco fresca: fragola, mirtillo, lampone, ribes, a seconda della connotazione del terroir. Più il terreno è sabbioso e più emerge la frutta, mentre l’argilla marca la spezia. Un po’ come nel Syrah. Ma la chiave, in un contesto molto moderno, è il vinacciolo, presente in gran quantità nell’acino del Grignolino. Grignolo vuol dire infatti seme. Noi vendemmiamo il Grignolino ‘a vinacciolo’, ovvero quando diventa marrone e croccante, per avere il giusto tannino e un completo corredo aromatico. Fino a qualche tempo fa la stampa specializzata premiava i vini ridondanti, di colore, densi. Il Grignolino ha un colore scarico, un rubino molto vicino al pinot nero, oggi molto attuale, espressione di eleganza. Il Grignolino sarà il vino del futuro nel Monferrato nell’arco di 10 anni. La Barbera è voluttuosa, ma non fine. E non ha forza aromatica e complessità del Grignolino”. Martinetti è talmente sicuro del suo Garibaldi che consiglia di degustarlo alla cieca, insieme con un Barbaresco o un Pinot Nero. “Io faccio i blind tasting col Barbaresco di Gaja. Se perdo ho già vinto”, spiega divertito dalla sua personalissima “prova del Gaja”. La ceramicaia La cantina, inaugurata nel 2019, è un bell’esempio di bioedilizia perfettamente integrata nel paesaggio, a prevalente sviluppo ipogeo. Anche spazialmente l’architettura sottolinea i due opposti punti cardinali del progetto vitivinicolo distinguendo le aree dedicate ai vini del Rigore e a quelli della Fantasia. Ma la vera sorpresa è un ambiente voltato in mattoni che accoglie non una tradizionale bottaia, ma una ceramicaia (rarità in Italia). “Io faccio affinare i miei vini dal secondo anno di età in contenitori di ceramica, un composto di argilla all’80% più un 20% di quarzo e feldspati che cuoce a temperatura decisamente superiore all’argilla delle tradizionali anfore. Oltre al fatto che si puliscono e disinfettano perfettamente, apportano la microssigenazione per me ideale: 3 mg/l al mese, contro i 6 mg/l di una barrique nuova o i 10mg/l dell’anfora”. Le file di botti in ceramica bianca e lucida trasformano la cantina in un luogo dal design quasi avveniristico, che rimanda alle suggestioni di un laboratorio. Un laboratorio che, a Mura Mura, è soprattutto di idee. A cura di Katrin Cosseta 
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24 Maggio, 2023

Cantine storiche d'Italia

Cantine storiche d’Italia, edito da 24 ORE Cultura, è un volume scritto a quattro mani da una giornalista e architetta, Margherita Toffolon, e un sommelier professionista, Paolo Lauria. Due visioni diverse e complementari per dipingere un ritratto completo – dal contenitore al contenuto –  di alcune antiche realtà vitivinicole del nostro paese, datate tra il X e il XIX secolo. “Con questo libro abbiamo voluto condividere la scoperta di questi luoghi, che conservano la propria intima anima ancora intatta, arricchendola con le note di degustazione dei vini più rappresentativi di ogni cantina” spiegano gli autori. Castello Banfi Il volume illustrato nasce da un lungo lavoro di indagine che ha portato all’individuazione di oltre 500 cantine, fino alla mappatura delle 38 che meglio rappresentano il genius loci del loro territorio. Blasonate e non. Note o meno conosciute. Alcune iconiche, altre meno scontate. Di ogni cantina si delinea una vera e propria carta d’identità che comprende le voci: storia, architettura, profilo enologico (ettari vitati, suoli, densità per ettaro, vitigni, produzione media), vini. castello di monsanto Il taglio narrativo di Cantine storiche d’Italia deriva dalla constatazione che “la storia di famiglie, ordini religiosi, produttori spesso sperimentatori o visionari e altre volte veri imprenditori, non solo legati al mondo del vino, è strettamente legata a quella degli edifici che ne sono ancora oggi l’abitazione o la sede aziendale”. Si va dalle abbazie ai castelli medievali, dalle ville nobiliari rinascimentali a complessi ottocenteschi di gusto eclettico. Cantine Storiche Guido Berlucchi Si legge ancora in prefazione: “la ricostruzione della dimensione storico-temporale di alcune importanti zone vitivinicole risulta intrecciata a quella dei loro insediamenti abitativi e produttivi, in alcuni casi veri e propri catalizzatori artistici e culturali”. È certamente il caso dell’altoatesina Abbazia di Novacella che apre la rassegna: fondata nel 1142, è annoverata tra le più antiche cantine del mondo, oltre a custodire preziosi tesori d’arte. Struttura, complessità ed eleganza sono termini adatti tanto al luogo quanto alla linea Cru Praepositus, selezionata come prodotto vinicolo identitario. Castel Salegg L’excursus storico svela spesso aneddoti e curiosità, come il fatto che i vini della cantina di Argiano, nei sotterranei di una villa cinquecentesca in quel di Montalcino, siano citati in un verso di Carducci. “Nella quale asprezza mi tersi col vin d’Argiano, il quale è molto buono”. Non si riferiva certo al Solengo, supertuscan nato dal genio enologico di Giacomo Tachis nel 1995, di cui viene proposta la nota di degustazione per l’annata 2019. Nel libro si scoprono anche le Possessioni Serego Alighieri, in Valpolicella, ancora in parte in mano ai discendenti del Vate. A rappresentarle, l’Amarone Vaio Armaron 2003. Noto è che Fontanafredda (il suo Barolo Renaissance bio 2018 nella scheda di desgustazione) fu teatro delle bucoliche evasioni di Vittorio Emanuele II e della “bella Rosin”, un po’ meno il fatto che il Castello di Spessa in Friuli ospitò Casanova e il librettista di Mozart Lorenzo Da Ponte. Donde il Metodo Classico Brut Millesimato Amadeus, degustato in annata 2016. Villa Sandi Se Toscana, Veneto e Piemonte ospitano il maggior numero delle cantine descritte, non mancano la Sicilia del Marsala Florio, la Valtellina di Nino Negri (e del suo Sfursat 5 stelle 2018), la Basilicata delle Cantine il Notaio (con annesso Aglianico del Vulture Il Sigillo 2015) o i Colli Romani con la cantina Principe Pallavicini che nella sua architettura ingloba un tratto dell’acquedotto dell’Acqua Claudia. Cantine Storiche Fratelli Gancia &Co Si lascia al lettore il compito di scoprire le restanti cantine e degustare, letterariamente, le etichette che le rappresentano. Cantine storiche d’Italia non è una guida per enoturisti; non è un libro di storia dell’architettura né un volume fotografico di suggestivi paesaggi; non è una (ennesima) guida dei migliori vini italiani. È tutto questo, fuso insieme. A cura di Katrin Cosseta 
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26 Gennaio, 2023

Botte vecchia fa buon design

A San Patrignano, botte vecchia fa buon design. Barrique, la nuova vita del legno, è un progetto di recupero a 360 gradi: di persone, materiali, saperi. Tutto inizia dieci anni fa dalla collaborazione tra Riva1920, azienda brianzola del mobile con il binomio legno&design nel dna, e la più grande comunità di recupero dalle dipendenze in Europa. Dal legno delle botti esauste della cantina di San Patrignano, e dal suo laboratorio di falegnameria, nasce una collezione di oggetti d’arredo, firmati da noti nomi del design, dell’architettura, dell’arte e della moda. Oggi il progetto prosegue con nuovo slancio, sempre sposando creatività e sostenibilità. Ma andiamo con ordine. La comunità di San Patrignano ha sviluppato negli anni un’importante attività vitivinicola. I suoi ospiti si prendono cura (e viceversa) dei 105 ettari vitati sulle colline di Rimini. Qui, a un’altitudine di 200 metri, sono coltivati sangiovese, cabernet sauvignon, merlot, cabernet franc, pinot noir, chardonnay e sauvignon blanc. Il microclima favorevole determinato dalle brezze marine dell’Adriatico e dalla presenza del monte Titano e la recente direzione tecnica dell’enologo Luca D’Attoma (succeduto a Riccardo Cotarella) parlano di qualità. Alcuni rossi della cantina affinano in barrique e tonneau in legno di rovere francese stagionato all’aria aperta almeno per tre anni. Dopo tre vendemmie questi contenitori esauriscono la loro vita utile, ma il loro legno acquisisce una bellezza intrinseca, ricca di sfumature color vinaccia. Materiale da esaltare in nuove funzioni. Ogni singola doga da scarto si trasforma così in risorsa creativa per i designer chiamati da Riva1920. Come nell’ultimo modello entrato in collezione, il Wine Table di Carlo Colombo: più che da un designer sembra creato da un maestro d’ascia, vista la struttura che evoca uno scafo navale. La doga, nell’omonimo tavolo disegnato da Michele de Lucchi, ripetuta e accostata diventa un piano dal suggestivo pattern grafico. Bottea di Mario Botta non è un gioco di parole ma una panca che l’architetto ticinese rende in grado di trasformarsi in libreria grazie a ingegnosi incastri; poco importa che i piani siano concavi. La sedia Goffo di Alessandro Mendini è un oggetto tra il rustico e lo spiritoso che bene interpreta la personalità colta e irriverente del designer.La chaise longue DOC creata da Marc Sadler è sinuosa come una colonna vertebrale. Nel paravento Plié dell’archi-designer Matteo Thun le doghe si liberano dalle cerchiature metalliche e si distendono in inedite geometrie lineari. La concreta leggerezza tipica del design di Alberto Meda si esplica nel progetto Cinquedoghe: un’altalena per regalare un senso di euforia e di ebbrezza, come fa il vino. Il pop-designer Karim Rashid nello sgabello Inverso rovescia letteralmente la botte, portando all’esterno la parte interna, color del vino. Non possono che esprimere eleganza due progetti legati a nomi della moda. Virgola di Anna Zegna è una variante chic della classica poltrona sdraio, la poltroncina Draghessa di Chiara Ferragamo e Davide Rocchi punta sull’alternanza quasi optical tra gli elementi in tinta vinaccia e rovere. Questi sono solo alcuni esempi della versatilità d’arredo della collezione Barrique, ma soprattutto dell’insospettabile capacità di metamorfosi di una botte. A dimostrazione che, a San Patrignano, una botte non fa solo buon vino, ma anche buon design. Mi è sempre piaciuta l’espressione “botte esausta”. Dà l’idea di qualcuno che ha svolto fino in fondo il proprio compito, senza risparmiarsi. Ha senso dunque che da scarto si trasformi in materiale nobile di progetto, capace di generare, dopo gioia per il palato, bellezza per gli occhi. Tra sostenibilità ambientale e sensibilità sociale. Postilla Leggi&Bevi Vino consigliato per accompagnare la lettura di questo articolo: Colli di Rimini Rosso Noi. È l’etichetta di SanPatrignano che già nel nome celebra la coralità, il carattere collettivo della missione della Comunità e del progetto di cui ho scritto sopra. Per questo non può che essere un blend. Di sangiovese, cabernet sauvignon e merlot, assemblati prima di andare in bottiglia (6 mesi di riposo), dopo un affinamento di 12 mesi in barrique di secondo passaggio. Note di marasca, mora matura e ribes e un a bella trama tannica per un vino per tutte le occasioni. Noi è un’etichetta storica di SanPatrignano e l’annata 2020 è la prima firmata Luca D’Attoma.   A cura di Katrin Cosseta 
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19 Dicembre, 2022

Ma vai all'infernot

Ma vai all’infernot non è un’invettiva contro persona poco gradita, ma un invito a scoprire una realtà nascosta nel sottosuolo del Monferrato Casalese. Una singolare forma di architettura ipogea, forte elemento di identificazione territoriale. Non a caso il Monferrato degli infernot è una delle sei voci che compongono I paesaggi vitivinicoli del Piemonte: Langhe – Roero e Monferrato, eletti nel 2014 (prima di Borgogna e Champagne!) Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Le altre cinque voci di questo variegato terroir, di cui l’UNESCO ha riconosciuto l’eccezionalità naturale e culturale, per la cronaca sono: Langa del Barolo, Colline del Barbaresco, Nizza Monferrato e il Barbera, Canelli e l’Asti Spumante, Castello di Grinzane Cavour. Gli infernot sono luoghi per la conservazione del vino, capolavori architettonici nati dalla tradizione costruttiva locale e dal sapere contadino. Cripte laiche, private, in questa verace terra di barbera, grignolino, freisa. L’infernot è una piccola camera sotterranea, scavata nella pietra, priva di aperture per illuminazione o aerazione dirette. Appendice, spesso in profondità, della cantina. Si tratta di uno spazio più o meno complesso e articolato, arricchito di nicchie e gradinate per conservare le bottiglie di vino. Quello buono per le occasioni importanti. Gli infernot si trovano sotto le case private in diversi comuni della collina casalese, scavati direttamente nella pietra locale, un’arenaria impropriamente definita tufo: la Pietra da Cantoni. A questa, e alla cultura degli infernot che ne discende, è dedicato l’Ecomuseo di Cella Monte Monferrato (dal cui archivio sono tratte le immagini qui pubblicate), promotore del censimento di queste strutture sotterranee. Il piccolo borgo di 500 anime è uno dei 14 comuni che costituisce il sistema del Monferrato degli infernot, con relativo itinerario turistico. Meglio se ovviamente accompagnato da relativa esperienza enogastronomica. Ma perché gli infernot si trovano solo in questo angolo di Monferrato? Semplice: per via della pietra locale, particolarmente docile alla lavorazione (e all’estro degli anonimi scavatori) e capace di garantire stabilità di temperatura e umidità. Facile imprimere nella roccia decori (grappoli d’uva, ritratti, motivi geometrici, simboli politici) e date. Quelle rinvenute partono da metà Ottocento, ma sicuramente le strutture sono anteriori. Non esiste un ‘piccolo inferno’ – se si vuole seguire la tesi dell’origine lessicale dal dialetto piemontese, col suo tipico suffisso diminutivo in -ot, rispetto alla più aulica etimologia che riporta a enfernet (prigione angusta) in provenzale antico – uguale all’altro. Gli infernot sono manufatti unici, non riconducibili a regole compositive o costruttive, per questo sono tutti diversi. Esistono declinazioni tipologiche monocamera (quadrata o circolare), multicamera o a corridoio. Nicchie quadrate, rettangolari, ad arco o addirittura a forma di bottiglia, le più scenografiche. Non siamo di fronte a un’espressione di semplice folclore contadino, ma di una cultura materiale e abitativa dai risvolti linguistici specifici, di estremo interesse. Questi caveau, spontanei e per nulla codificati, sono brani di antropologia rurale. Quella che non lascia tracce scritte, ma costruite. La tradizione orale e le cronache familiari tramandano che gli infernot fossero anche luoghi di aggregazione e convivialità, teatro delle cosiddette ribote. Si trattava di ritrovi goliardici ‘underground’ dei giovani del paese, spesso a base di bagna caùda. Inutile dire che in tali occasioni le scorte di vino venivano pesantemente intaccate. Piccola nota personale. Ho vaghissimi ricordi dell’infernot di famiglia. Da bambina il solo sentire nominare la parola dal nonno mi terrorizzava. Per me era l’antro oscuro oltre la cantina. Le botti, enormi, una presenza ostile. Le bottiglie impolverate un oggetto inutile. Però, confesso, il moscato (a dosi di un dito immerso nel bicchiere) già non mi dispiaceva. Come cambiano le percezioni, con l’età! Ora l’infernot è per me un sublime esempio di architettura vernacolare con il fascino da tomba etrusca, le bottiglie hanno assunto tutt’altra attrattiva, il moscato lo tollero al massimo con il panettone. E sempre nella dose minima da infanzia: un dito al massimo. A cura di Katrin Cosseta 
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10 Novembre, 2022

Nuove cantine italiane

In concomitanza con il Merano WineFestival, è in scena allo spazio Kunst Meran (fino al 20 novembre) la mostra fotografica Nuove Cantine italiane. Territori e Architetture, promossa dalla storica rivista Casabella. Curata da Roberto Bosi e Francesca Chiorino, autori anche del libro di Electaarchitettura che la accompagna, la mostra ha già fatto tappa a Verona per il Vinitaly e a Pollenzo. Il racconto fotografico si snoda tra 10 cantine (più una distilleria) sorte nell’ultimo decennio, le cui strutture coniugano elementi dell’architettura contemporanea a requisiti tecnici, aspetti paesaggistici ed esigenze specifiche dell’industria vinicola. Un itinerario dalle Langhe alla Maremma, passando per Veneto, Piemonte, Alto Adige, Toscana e Sicilia. Allestimento mostra, di Bricolo Falsarella. ph Pietro Savorelli Doveroso citare per prima la Cantina Antinori nel Chianti Classico, inaugurata nel 2012 su progetto di Archea Associati, appena balzata al primo posto nella prestigiosa classifica World’s Best Wineyards. La cantina per Chiorino rappresenta “una delle operazioni italiane più complete dal punto di vista dei circuiti enoturistici, funzionando come una sorta di moltiplicatore di marketing territoriale”. Il tutto inserito in una dinamica a livello mondiale che sempre più spesso, secondo Roberto Bosi, “spinge i viticoltori a individuare nell’architettura lo strumento più idoneo a rappresentare l’originalità delle proprie vocazioni e la qualità dei propri prodotti. Quando il rapporto tra quanti promuovono la costruzione delle nuove cantine e quanti le progettano è virtuoso, ogni nuova costruzione contribuisce a fissare un’immagine, a comunicare una vocazione, a rappresentare un programma di innovazione”. Compito assolto in pieno dall’opera ipogea di Antinori, incastonata nella collina, ma con una scenografica scala elicoidale in corten a fare da landmark. Parola che può essere utilizzata per definire anche l’origami metallico di zinco titanio con cui si impone nel paesaggio nella zona di Bolgheri la Cantina de Il Bruciato (progetto di Fiorenzo Valbonesi – asv3). Cantina de Il Bruciato. ph Cornelia Suhan Poco lontano la Cantina Masseto, opera del duo Zitomori, offre un’immersiva esperienza sotterranea, con pareti in calcestruzzo animate da una texture tridimensionale a evocare le stratificazioni geologiche delle rocce. Cantina Masseto. ph Andrea Martiradonna Sempre in Toscana, a San Casciano dei Bagni, la Cantina Podernuovo dello studio romano Alvisi Kirimoto è sintesi geometrica di rigore ed efficienza (già sperimentata insieme a Renzo Piano nel progetto della tenuta Rocca di Frassinello), in dialogo cromatico con il contesto grazie al calcestruzzo impastato con i pigmenti delle terre senesi. Cantina Poderenuovo. ph Fernando Guerra Anche l’Alto Adige annovera una presenza importante di cantine firmate, spesso da architetti locali. Ne sono esempio il monumentale edificio in legno e cemento di Nals Margreid a Nalles, progettato da Markus Scherer, e la Cantina Pacherhof a Novacella-Vara. Qui lo studio Bergmeisterwolf ha posto all’ingresso dell’architettura sotterranea una torre, un prisma scuro che stilizza una montagna adibita, all’interno, a ufficio-osservatorio dell’enologo. Cantina Pacherhof. ph Gustav Willeit Puntano soprattutto sull’espressività dei materiali due recenti realizzazioni in Veneto. La Cantina Gorgo di Custoza, disegnata dallo studio Bricolo Falsarella, è una lineare annessione in pietra locale (Nembro veronese e pietra di Vicenza) a una villa veneta. Lo studio trevigiano MADE associati alleggerisce il volume monolitico della Cantina Pizzolato, a Villorba, con una ritmica cortina in legno di faggio dai boschi del Cansiglio. Cantina Pizzolato. ph Marco Pavan Alle pendici dell’Etna, la Cantina Planeta Feudo di Mezzo, progettata da Santi Albanese e Gaetano Gulino, si mimetizza nel paesaggio con i suoi tre blocchi rivestiti in pietra lavica che citano i dammusi. Cantina Planeta. ph Lamberto Rubino Stesso riferimento all’architettura rurale, ma di tutt’altro genere, e in tutt’altra zona, le blasonate Langhe, per la Cantina dei 5 Sogni (progetto Matteo Clerici, Fondamenta, hus): una struttura ardita in calcestruzzo e vetro reinterpreta l’archetipo del rustico con tetto a doppia falda. Cantina dei 5 sogni. ph Marco Cappelletti La mostra evidenzia le diverse anime del fenomeno delle architetture del vino firmate, come osserva Francesca Chiorino: “I progetti dei nomi più o meno noti del panorama nazionale oscillano tra la cantina-cattedrale che attira i visitatori per le mirabolanti sorprese tettoniche e morfologiche, la cantina-industria che mette in scena i processi di lavorazione delle uve e infine la cantina-paesaggio che ha l’obiettivo di integrarsi e di aumentare, con la sua stessa presenza, il valore del territorio nelle sue diverse valenze topografiche, culturali e storiche”. A cura di Katrin Cosseta 
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17 Settembre, 2022

Château La Coste: vino, arte e architettura

Château La Coste è un museo en plein air, capace di portare tra le vigne della Provenza il meglio dell’arte e dell’architettura contemporanea. Da Ai Weiwei a Renzo Piano, passando per Bob Dylan. Château La Coste, tra Aix en Provence e il parco vinicolo del Louberon, è una tenuta estesa su 200 ettari, di cui 130 coltivati a regime biologico. Un luogo di produzione di grandi vini rosé (non solo), ma soprattutto di cultura. Una meta da non perdere per chi, come me, ama il vino, l’arte e l’architettura. Meglio ancora se goduti in simultanea, e nella rilassata dimensione del viaggio. Un muro di cemento, un hangar e un enorme ragno: questi i tre “segnali” di benvenuto alla tenuta, non esattamente incoraggianti. Ma non tutto è ciò che sembra, ovviamente. Il grande muro non delimita nulla, è come una quinta d’autore nel paesaggio. Chi mastica di architettura riconosce subito la cifra stilistica di Tadao Ando, progettista cult giapponese. A lui il proprietario della tenuta – il collezionista d’arte e magnate irlandese dell’hotellerie Patrick McKillen – chiede nel 2007 di progettare L’Art Centre, aperto al pubblico nel 2011. L’edificio triangolare in vetro e cemento, che cita Le Corbusier, funge da centro di informazioni e accoglienza, libreria, ristorante, ma anche contenitore museale. Nello specchio d’acqua che lo circonda giganteggia il ragno di cui sopra, dalla celeberrima serie Crouching Spiders di Louise Bourgeois, ma si specchia anche una delle sculture mobili di Alexander Calder. Non male come premessa. Questo è il centro nevralgico da cui si diparte una promenade naturalistica (tra vigneti e boschi), artistica e architettonica unica al mondo, che conta oltre 40 “tappe”, tra sculture, installazioni, padiglioni per esposizioni temporanee. Gran parte delle opere nascono in-situ: artisti e architetti sono stati negli anni invitati nella tenuta (che ovviamente comprende anche un resort esclusivo, Villa La Coste) e hanno personalmente scelto il luogo di ispirazione e collocazione del proprio lavoro. Tra le varie architetture spicca la doppia struttura metallica a tunnel, il già citato hangar. L’avveniristica costruzione in lamiera ondulata d’acciaio non è una rimessa: è la cantina di vinificazione, progettata da Jean Nouvel nel 2008, in sostituzione di quella storica riconvertita a sede espositiva. Poco distante, da un movimento tellurico di coperture in vetro dall’apparente equilibrio precario prende forma il Music Pavillion firmato da Frank Gehry. Inaugurato da pochi mesi, un edificio curvilineo, immerso in una vigna di vermentino, ospita una sala mostre e un auditorium. Ha un valore speciale, perché è l’ultimo progetto del grande architetto brasiliano Oscar Niemeyer: vede la luce a dieci anni esatti dalla sua scomparsa, alla veneranda età di 105 anni. Anche la galleria che si protende a sbalzo nel paesaggio, come un cannocchiale puntato sulle colline, è il testamento del suo autore, Richard Rogers. Non a caso l’estetica industriale della struttura richiama quella del Centre Pompidou a Parigi, coprogettato con Renzo Piano. E poteva forse mancare Piano, in questo gotha dell’architettura contemporanea radunato tra le vigne? Il suo padiglione espositivo si immerge nella terra con una lunga e austera rampa, ma è inondato dalla luce grazie ai lucernari a vela che ricalcano i profili dei colli in lontananza. Al momento della mia visita ospitava la mostra Drawn Blank in Provence: una serie di dipinti di Bob Dylan, evidentemente folgorato dalla luce della regione, come ai tempi Cezanne e Van Gogh. Il tutto in dialogo con opere di Picasso, Matisse, Monet, e Chagall. Chapeau, si dice lì in zona. Il Nobel-cantautore ha voluto definitivamente accreditarsi come artista lasciando allo Chateau anche una grande installazione permanente in ferro, Rail Car. Ci si può arrivare percorrendo un sentiero in pietra, opera di Ai WeiWei, dopo avere magari già apprezzato gli interventi di artisti del calibro di Richard Serra, Sean Scully, Yoko Ono, Sophie Calle, Jenny Holzer, Daniel Buren solo per citarne alcuni. Concludere la visita con la degustazione delle tre gamme di vini proposte dalla Cantina, ognuna declinata in rosé, rosso e bianco (che meritano una trattazione a parte), è la degna conclusione di un’esperienza totale, dei sensi e dello spirito. Château La Coste rappresenta al meglio una tendenza in atto già da qualche anno (anche in Italia, vedi Ceretto, Antinori, Cà del Bosco e molti altri) per cui dalla cantina passano nuove forme di mecenatismo d’arte, di marketing territoriale, di alta ospitalità che unisce gusto e cultura. E la cantina stessa, grazie all’architettura, si trasforma in landmark. A cura di Katrin Cosseta  https://www.youtube.com/watch?v=RakajXgmc-E
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13 Agosto, 2022

Dialogo Adagio

Turriga, vino icona di Argiolas, compie 30 vendemmie. La Cantina lo celebra con la mostra Dialogo Adagio, curata dallo studio creativo Pretziada: oggetti di alto artigianato sardo ispirati al vino raccontano le eccellenze dell’isola. Se siete in vacanza in Sardegna, vale la pena fare una tappa a Serdiana, nell’entroterra cagliaritano, per visitare la Cantina Argiolas. E non solo per degustarne i vini. Qui fino al 30 settembre è in mostra Dialogo Adagio, un omaggio artistico al processo di creazione di Turriga, a cura dello studio Pretziada, interpretato da opere inedite che spaziano dalla ceramica alla tessitura, fino a un’installazione site specific permanente. Valentina, Francesca e Antonio Argiolas con Ivano Atzori e Kyre Chenven (Pretziada) Turriga è un gioiello di enologia sarda, un blend di quattro vitigni autoctoni – Cannonau, Carignano, Bovale Sardo, Malvasia Nera – nato dalla visione “alchemica” del grande enologo Giacomo Tachis oggi perpetuata da Mariano Murru, direttore tecnico Argiolas. L’ultima annata uscita, 2018, è quella del trentennale, con tanto di cofanetto in edizione speciale di 1000 esemplari, comprensivo di magnum e catalogo delle opere raccontate dai curatori. Spiega Valentina Argiolas: “L’idea nasce dalla volontà di raccontare questo anniversario attraverso il vino come fonte di ispirazione per l’artigianato sardo. L’elemento vino che si trasforma in altro è in grado di narrare la profonda essenza della Sardegna attraverso oggetti legati alla tradizione ma in grado di essere internazionali. Nessuno meglio di Pretziada avrebbe potuto interpretare il nostro desiderio, tramutarlo in progetto e creare una mostra selezionando artigiani con una visione diversa e nuova. Il loro lavoro sta contribuendo a salvare l’artigianato della nostra isola e a renderlo contemporaneo”. Pretziada è uno studio di craft&design con base in Sardegna fondato sei anni fa da Kyre Chenven, californiana, e dal milanese Ivano Atzori. Il loro obiettivo è promuovere il patrimonio del territorio isolano operando come traduttori culturali: mettono in contatto creativi internazionali e artigiani locali, ridisegnando pezzi classici e producendo una originale collezione di design che reinterpreta la tradizione. Non fanno eccezione i manufatti creati per la mostra Dialogo Adagio. Le ceramiche di Maria Paola Piras attualizzano le forme dell’antico vaso nuragico denominato s’Askoide, utilizzato in origine per conservare liquidi e vino. L’artista ha plasmato una miscela di argilla con proporzioni variabili di terreno dai vigneti che producono l’uvaggio per il Turriga. L’Arazzo di Mariantonia Urru rappresenta nel disegno il contrasto tra la forma controllata dei tralci di vite e il caos selvaggio delle radici. Realizzato con la tecnica denominata Pibiones (che in lingua sarda significa acino), è tessuto con lana locale, tinta con i quattro diversi vini usati nella produzione del Turriga. Gli Utensili di Karmine Piras, realizzati con vecchio legno di vite, rielaborano i cucchiai agricoli sovradimensionati Sa Muriga, tradizionali oggetti quotidiani nella Sardegna pastorale. Martina Silli ha creato una serie di tre incisioni che traducono graficamente i vari elementi che contribuiscono alla creazione del vino. Matteo Brioni ha infine creato una grande opera site specific. Nel cuore della cantina c’è un tunnel che conduce alla bottaia, usata spesso come scenografia per le degustazioni; trasformato con un rivestimento di intonaco di terra cruda – suo materiale d’elezione – ora si presenta come un’installazione permanente e immersiva dedicata all’elemento primario e ancestrale della viticoltura, la terra. All’interno di questo tunnel-scultura sono ospitate delle campionature di terre provenienti da ogni vigneto Argiolas come rimando a un prezioso dna. Dialogo Adagio è un’elegia sarda, un inno al tempo, all’equilibrio tra uomo e natura, al sapere fare, condensato in un unico elemento, il vino. E cos’è il vino, in fondo, se non un’opera di alto artiginato e di mediazione culturale? A cura di Katrin Cosseta  https://www.youtube.com/watch?v=RakajXgmc-E
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30 Luglio, 2022

Chateau d'Emilia

Un Wine&Balsamic Relais sulle colline di Reggio, come un vero Chateau d’Emilia sposa antichi fasti nobiliari e design contemporaneo. Un progetto innovativo, tra ospitalità colta e ‘Lambrusco (non solo) renaissance’. Venturini Baldini è una storica tenuta, nelle terre di Quattro Castella (RE), che un concept trasversale di recupero, architettonico e produttivo, ha trasformato in una interessante esperienza di accoglienza. Una sosta di charme e di gusto lungo la Strada del Vino e dei Sapori delle Colline di Scandiano e di Canossa e vicino a due poli d’attrazione come la Food e la Motor Valley. Merito di visione e investimenti della nuova proprietà, la famiglia Prestia, che per continuità ha mantenuto il nome della tenuta fondata nel 1976 da Carlo Venturini e Beatrice Baldini. Obiettivo puntare in alto: sia in senso enologico (la consulenza di Riccardo Cotarella dice tutto), con un riposizionamento del Lambrusco elevato dal suo cliché di vino popolare, sia nel senso di una ospitalità di lusso. Di quelle per cui si sprecano parole un po’ abusate, ma efficaci, come experience e lifestyle. Un viale di cipressi in salita segna l’accesso. Straniante, ai limiti di una industrial-industriosa pianura. Non siamo in Toscana, ma il riferimento ai tipici borghi della regione c’è, almeno concettualmente, nell’idea dei proprietari di mettere a sistema gli edifici preesistenti, finemente restaurati, ognuno con una propria funzione, ma partecipi all’armonia d’insieme. Il complesso, o “borgo emiliano” comprende infatti la cantina, un’acetaia del ‘700 (Acetaia di Canossa, la più antica della provincia, praticamente un museo che lavora), una serra trasformata in ristorante, il Relais Roncolo 1888. Questo si articola nella Dimora Anicini, che ospita 11 stanze e nella Villa Manodori del XVI secolo (ma l’impianto è quello della villa padronale ottocentesca), sede di sei nuovissime suite. Unica addizione contemporanea, la piscina. Tutto il progetto ha una forte impronta femminile. Recupero e ristrutturazione del complesso sono opera dell’architetta Elisabetta Fulcheri di DCEF Studio, che ha lavorato nel massimo rispetto delle preesistenze e in un’ottica di ecosostenibilità. Le scelte di arredo e interior design, giocate sul dialogo tra classico e contemporaneo sono invece prevalentemente specchio della personalità e del gusto di Julia Prestia, che si autodefinisce titolare-tuttofare. “Volevo creare una struttura di ospitalità molto raccolta, nello spirito home away from home, con un’idea di una lussuosa semplicità, non pesante. Odio il finto rustico, non sono io! La villa era vuota, senza mobili antichi da recuperare, ma con ricchi affreschi e preziose carte da parati dipinte a mano. Una situazione perfetta per giocare a contrasto, ad esempio con il segno pulito di Gio Ponti, per cui ho una vera passione. Oppure accostando a un tavolo di legno quasi monastico sedie Bauhaus in tubolare cromato. Mi piace anche Fornasetti, tanto che ho messo la sua carta da parati persino in bagno. Quando non sono di modernariato o fatti realizzare su misura, gli arredi (di Molteni&C) sono pezzi di design contemporaneo, a firma Patricia Urquiola e Vincent Van Duysen”. Diversa, quasi industrial, è l’atmosfera che si respira nel ristorante Il Taglierè in Limonaia, all’interno della serra, con annessa terrazza panoramica sulle colline matildiche. “Non è un luogo formale; l’idea è di offrire un fine dining rilassato. Il servizio deve esser top, ma senza appesantire”. Qui lo chef Mario Comitale propone una cucina emiliana moderna, legata al territorio ma rivisitata con un mood ricercato e un respiro internazionale. Esattamente quanto accade anche per i vini: tradizione e innovazione. La tenuta si estende su 130 ettari, 32 vitati, adagiati su una zona collinare tra i 300 e i 400 metri di altezza, con terreni ricchi di argilla e sabbia. Qui Venturini Baldini coltiva (a regime biologico già dagli anni Ottanta), oltre ai vitigni più famosi come Lambrusco di Sorbara, Grasparossa e Salamino, anche Malvasia di Candia Aromatica, Pinot Nero e Chardonnay. E autoctoni che riservano sorprese. Spiega Julia Prestia: “Facciamo 300mila bottiglie l’anno. Siamo piccoli ma molto orgogliosi di essere i primi produttori di Lambrusco in Emilia che due enologi di riferimento come Carlo Ferrini prima e Riccardo Cotarella oggi hanno deciso di seguire. Puntiamo a una renaissance del Lambrusco di alta qualità, secco, anche dosage zero. Cotarella segue la nostra linea di Lambruschi metodo classico che deve ancora uscire, ma lavora anche sui fermi. Abbiamo anche un metodo ancestrale, il Montericco, 18 mesi in bottiglia, che fa parte della linea T.E.R.S. in cui raccontiamo il Lambrusco meno conosciuto. Ma T.E.R.S. è anche nostro il progetto di recupero e valorizzazione di storici vitigni autoctoni, dimenticati, nascosti o senza un’identità precisa, come il Malbo Gentile, la Spergola, il Montericco. Vogliamo infatti narrare anche quell’Emilia oltre il Lambrusco, creare vini fermi, di nicchia, in un territorio che non vi è vocato, facendo molta sperimentazione”. Ovviamente continuando anche a portare avanti le etichette storiche di Lambrusco Reggiano della cantina: Rubino del Cerro e Cadelvento (con una versione spumante rosato, primo blend di Sorbara e Grasparossa, che parla a una nuova generazione). Il segreto è unire tradizione e potenzialità di un territorio. A cura di Katrin Cosseta  https://www.youtube.com/watch?v=RakajXgmc-E
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