Arpepe. Il sangue inizia a parlare
Le storie delle famiglie hanno un non so che di magico. Ricordo quando mio nonno Antonio mi teneva sulle ginocchia dinanzi al fuoco del camino raccontandomi le storie di lui giovane, della campagna che era la sua passione nonostante dovesse andare ogni mattina a lavorare al cantiere della Centrale Nucleare del Garigliano. 40 km ad andare e 40 a tornare. In bici.
Ma non voglio perdermi nei ricordi perché questa non è la pagina per nonno Antonio.
Dicevo delle storie delle famiglie. Quelle di un tempo. Quando c’era il capofamiglia. Quando ai figli maschi spettava il lavoro nei campi e alle donne quello di casa. La vita alla fine dell’800 non era semplice in campagna. Figuriamoci poi se i campi giacevano su piccoli lembi di terra strappati alle montagne: le terrazze.
In Valtellina si coltivava e si coltiva così. Certo, non nei pascoli, non nelle valli. Ma quando la montagna inizia la sua salita, le terrazze sono l’unico modo per coltivare. Si coltivava per le necessità di casa ma anche per vendere i prodotti. Si coltivava per tutto. Anche per la vite.
Incontro Isabella Pellizzatti Perego. Insieme ai fratelli Guido ed Emanuele gestiscono Arpepe, l’azienda di famiglia.
Isabella è una di quelle persone che riesce a prenderti per mano e trasportarti nel suo mondo, nella storia della sua famiglia e di un padre verso il quale prova ancora un amore misto ad ammirazione. Sconfinati.
Papà Arturo, una vera Araba Fenice capaci di far rinascere l’azienda di famiglia ormai andata persa.
Simo in Valtellina dove il vino si produce dal tempo degli antichi romani e dove grazie ai monaci arriva stancamente fino al cinquecento. Solo in questo periodo, l’annessione della Valtellina al Cantone dei Grigioni determina il vero sviluppo vitivinicolo della zona. Mica scemi gli svizzeri. Scemi noi che abbiamo dovuto aspettare loro per decretare il successo di una zona meravigliosa. Almeno da un punto di vista commerciale.
La successiva annessione alla Repubblica Cisalpina quindi all’Italia vive sulla traccia della strada aperta dagli svizzeri.
In questi anni, è il 1860, Giovanni Pellizzatti fonda la sua azienda per la produzione di vino.
Oggi, insieme ai miei fratelli Emanuele e Guido portiamo avanti l’azienda che è alla quinta generazione. Esiste dal 1860. Nel 1960 il nostro bisnonno Arturo, figlio di Giovanni, celebrò i 100 anni dell’azienda con uno tra i primi clienti svizzeri. La Svizzera è sempre stato un nostro naturale sbocco mercato. Non so come facesse il trisnonno Giovanni a commercializzare li il vino, magari a dorso d’asino, ma se ci riusciva il nonno anche noi potevamo.
Le storie della famiglia Pellizzatti si intrecciano con quelle dell’Italia e della Valtellina. Salire faticosamente la china e scendere velocemente di quota è un attimo. Certo, se si parla di storia, gli attimi sono anni e negli anni la Valtellina ha visto le epidemie prima (oidio, peronospera e fillossera), le guerre poi, i trasferimenti verso le città. Tutto questo con il risultato di passare da oltre 8000 ettari vitati a circa 850 di oggi (dei quali 160 in mano ad un solo produttore, Nino Negri).
Epidemie e guerre a parte, basta venire da queste parti e alzare lo sguardo verso i pendii per capire il perché solo pochi ardimentosi si cimentano nella viticoltura. Eroica ovviamente.
Eppure oggi di ardimentosi ce ne sono sempre di più. Negli ultimi venti anni le aziende sono passate da venti a circa 50. Chi conferiva ha iniziato a produrre. Magari non ancora ad imbottigliare, ma ci si sta arrivando. In questo modo le micro vinificazioni valorizzano il territorio in tutte le sue sfaccettature: Inferno, Sassella, Grumello, Maroggia, Valgella. Zone tanto meravigliose quanto difficili, complicate e da basse rese: i disciplinari prevedono per il Rosso di Valtellina DOC, 10 quintali per ettaro che diventano 8 per il Valtellina Superiore DOCG. Rese da pazzi.
Nel 1973 nonno si ammala avendo solo papà che lo aiutava mentre le altre persone in famiglia erano interessate solo alla proprietà. Nonno e papà decidono che la soluzione migliore è vendere le cantine. Inclusa quella odierna interamente scavata nella montagna e tale da garantire condizioni perfette di temperatura ed umidità. Odierna perché papà riuscì poi a ricomprarla. Vendono il vecchio marchio, Arturo Pellizzatti, creato dal bisnonno. Per fortuna non vendono le vigne che vengono invece divise tra tutti i membri della famiglia. Papà con la sua parte di vigna decide di ripartire. Erano state affittate per un tempo di dieci anni. Al termine dell’annata agraria 1983 riprende l’attività. Con l’84 riparte. Avendo venduta la cantina ne torna in possesso con difficoltà. Tutte le altre sono state oggetto di speculazione edilizia. Si salva solo quella.
In queste poche righe c’è tutta la storia di una famiglia. Quella del papà di Isabella e dei suoi fratelli Emanuele e Guido.
Non è la prima volta che una azienda non resiste alla propria famiglia. Ne tantomeno sarà l’ultima. Quando viene a mancare il fondatore o la persona che ha portato avanti l’azienda per tanti anni, non è sempre detto che i figli abbiano la voglia di continuarne l’opera. Diverso è l’animo. Diverso è la concezione di futuro. Diverse le necessità economiche.
In questo caso però c’è una lungimiranza davvero notevole. Si può vendere la cantina perché, tanto, non c’è nessuno disposto a portare avanti l’attività. Nessuno tranne Arturo ovviamente che da solo non riuscirebbe mai a farcela. Si può vendere il marchio perché, tanto, non imbottigliando più tanto vale capitalizzare. Di certo, vendere le vigne sarebbe stato un sbaglio: almeno dall’affitto delle stesse ci si sarebbe ricavata una rendita (e i soldi non sarebbero stati sperperati subito).
Affittati per dieci anni. Dieci lunghi anni.
Arturo, il papà di Isabella è uno di quelli tosti. Orgogliosi ma soprattutto con quella voglia di fare che ti brucia dentro fino all’anima. È per questo che deve fare qualcosa e riprendersi i suoi 6 ettari. Già, dei 50 iniziali ne sono rimasti solo 6!
Arturo vuole ripartire e riparte. Aspettando dieci lunghi anni durante i quali, oltre che a rodersi il fegato, si da da fare come può. Come deve. Perché la famiglia da mantenere c’è.
Le vigne ci sono. La cantina è stata ricomprata. Manca il nome. Quello vecchio e storico non c’è più. Andato per sempre con la tristezza di non poter nemmeno utilizzare il proprio nome sulle proprie bottiglie. Allora utilizza l’acronimo Arturo Pellizzatti Perego. ArPePe.
Bene allora si può partire finalmente.
Ehm…no. Come no? Eh no perché Arturo ha una concezione tutta sua del vino. O meglio, ha la concezione di un vino che arriva dal passato, che deve essere aspettato per smussare le asperità di quel meraviglioso vitigno che è il Nebbiolo e che qui chiamano Chiavennasca (chiù vinasca, più vinoso).
Per sei anni lavora e vendemmia senza vendere neanche una bottiglia. Voleva produrre vino con lunghi invecchiamenti come faceva con il nonno. Papà aveva una piccola squadra che venivano per la maggior parte dalla vigna del nonno. Affiancato dalla mamma che lo aiutava per la parte amministrativa. Si improvviserà anche venditrice stupendo il papà per gli ottimi risultati. Furono anni difficilissimi. Ricomprare la cantina con i tassi del mutuo altissimi fu durissimo. Aveva affittato una parte della struttura perché era sovradimensionata per lui all’epoca. Affittò una parte della cantina ad un deposito di acque minerali.
Le parole di Isabella escono come un suono dalla sua bocca. Parlare del papà è come parlare delle radici della vite piantata proprio sui terreni calcarei di queste zone: si va in profondità, si scava piano piano, si arriva al cuore del nutrimento. In fondo. Tanto in fondo. Nel cuore e nell’animo. Quello che Isabella prova per il papà è un misto di ammirazione, amore, devozione.
Le prime bottiglie della neonata ArPePe arrivano a fine anni 90 quando il mondo del vino era qualcosa di profondamente diverso rispetto al passato. Supertuscan, tagli bordolesi, uso di botti, vini e vitigni internazionali. Altro che valorizzazione dei territori e del lavoro di piccoli vignaioli. Posso immaginare quanto sia stata dura andare avanti e farsi strada anche solo per sopravvivere.
Arturo aveva una idea e quella voleva realizzare. Senza sconti per nessuno. Meraviglioso!
Io stavo facendo il liceo insieme a Guido. Abbiamo fatto il liceo classico. Emanuele che è dell’80 nell’84 trotterellava ancora. Papà con grande coraggio si mise in questa avventura. Era del 42 dunque a 40 anni riparte da zero. La mamma lo aiutò a ripartire. Oggi siamo arrivati a 15 ettari. 9.5 nel cuore della Sassella storica, 4.5 nel Grumello ed il resto in zona Inferno. Quello che ho apprezzato di papà è che ci ha lasciato fare il percorso di studi senza mai mettere pressione.
Isabella dopo il liceo classico si trasferisce a Milano per studiare Scienze e Tecnologie alimentari specializzandosi con un Master in Enologia a Piacenza.
È il papà che la spinge ad accettare lo stage in Diageo nella vecchia sede della Cinzano.
Dal 97 al 2001 ho lavorato prendendo ferie per le fiere, le degustazioni importanti in azienda. Volevo esserci. Volevo essere al suo fianco per i momenti cruciali. È stata una bellissima palestra. Quello che ho visto e fatto in quattro anni vale per dieci.
Dopo 4 anni Isabella decide che è il momento delle scelte e della responsabilità. Tornare a casa per usare le propri energie nell’azienda di famiglia. Anche per decidere autonomamente.
Papà volava. Mesi prima diceva di avere la segreta speranza che uno dei tre lo affiancasse. Ma senza mettere pressione. Il primo anno pieno fu il 2002 cercando di assorbire tutto da lui. L’idea era che, con papà che aveva sessanta anni, si sarebbero potute fare tante cose insieme. Lo seguivo in tutte le parti tecniche. Lui che aveva studiato a Conegliano Veneto era presente su tutto. E io su tutto lo aiutavo. Ma anche nella parte commerciale e amministrative.
In tutte le saghe familiari, quando tutto sembra andare per il meglio arriva sempre qualcosa che devasta. Un pò come quando pensi che gli acini stanno crescendo bene e che sarà una meravigliosa annata e invece arriva la grandine che fa portare al macero tutto il raccolto.
L’antivigilia di Natale ha un problema di salute e gli diagnosticano un tumore. Come accadde al nonno. Pochissime speranze di vita.
La prospettiva dell’azienda non può che cambiare drasticamente. Isabella è già dentro e per fortuna. Emanuele, al tempo 22 anni, comprende che anche per lui è arrivato il momento delle scelte. Pur avendo fatto un percorso diverso (geometra, seguendo le impronte materne alla quarta generazione di costruttori stava affiancando lo zio) decide di tuffarsi per dare una mano.
La vigna era ancora al maschile. Papà si sobbarcava di tutti i trattamenti. Il lavoro era impegnativo e pesante e non avrei potuto fare tutto da sola. La cosa bella è che io penso che il sangue inizia a parlare. Emanuele infatti si innamora di tutto affiancando il papà nelle lavorazione della vigna e della cantina. Impara l’abc con lo spirito libero e non condizionato dagli studi. Tuttora lo guardo e gli dico: questo dove lo hai imparato? Ha studiato nella pratica e sui libri di papà. È più enologo di molti altri enologi.
Quanta intimità c’è in questo racconto. Ascoltando Isabella mi sembra quasi di essere un intruso nella loro vita. Ma non lo sono affatto. È proprio Isabella, con la sua grazia e con la tenerezza dei suoi ricordi a coinvolgermi. Lo fa ancor di più dicendomi delle parole del papà poco prima che morisse.
Poco prima che papà venisse a mancare (due anni dopo, prima di natale 2004), lui ci dirà: adesso io sono pronto. Se dovesse essere tra un mese un anno io sono pronto. È stato il suo testamento. Lo pensiamo felice perché portiamo avanti tutto questo all’ennesima potenza cercando di migliorarci mettendo in pratica tutto ciò che ci ha insegnato. Con la certezza che non vogliamo lasciare i fondamentali che ci ha dato. Quando è ripartito tra le mille difficoltà e forse nessuno avrebbe voluto che lui ripartisse, veniva guardato come l’ancien regime del gruppo. L’Arturo che ripartiva con vini tradizionali quando andavano vini che erano tutt’altro. A partire dal colore con la logica che ogni vino deve avere il suo colore. Senza tolettarlo. Senza mettere il fard. Per cui la grande soddisfazione è che i vini del territorio, guardati per anni come fumo negli occhi perché facevano vedere la verità a molti, adesso sono stati apprezzati a tutto tondo. Lui che era considerato l’ultimo è salito agli onori della cronaca postumo. Da qualche parte sta sorridendo.
Una storia raccontata di trasporto. Con grande enfasi. Con il papà ad aver trasmesso il rispetto della materia prima da cui proviene tutto. Il lavoro in vigna come primissima cosa per portare a casa la materia prima più sana possibile. Imparando ogni anno qualcosa di diverso che va raccontato proprio nella bottiglia.
Abbiamo la fortuna di avere il Nebbiolo, la nostra Chiavennasca. Vitigno fortissimo che ci deve insegnare tanto perché quando è in mezzo alle avversità da il meglio di se. Una pianta austera ma che ci regala tanto. Tutta la nostra trasformazione in cantina verte attorno a questo. Non vogliamo rovinare il frutto e la sua integrità in tutte le lavorazioni. Con le macchine di nuova generazione riusciamo a fare questo. Lasciamo l’acino il più integro possibile. Non pigiamo ma diraspiamo. Fermentazione ad acino intero in tini troncoconici piegati a vapore. Questo era un sogno che avevamo nel cassetto con papà che siamo riusciti a realizzare solo dal 2005 perché materialmente non c’erano le possibilità neanche di acquistare questi macchinari. Abbiamo acquistato poco per volta facendo i nostri esperimenti e verificando che quello che si diceva con papà era vero. Il legno è fondamentale per una micro ossigenazione. Non si vuole dare gusti ma solo ossigeno.
Il tempo è sempre il nostro grande amico. Papà ci ha insegnato a rischiare e saper aspettare per raggiungere la maturazione fenolica. Meglio qualche giorno in più che qualche giorno in meno. Il tempo ci deve accompagnare sempre anche nel corso dei lunghi affinamenti. Abbiamo sperimentato anche le lunghe macerazioni senza una ricetta. Occorre usare i propri sensi per capire cosa abbiamo tra le mani.
Isabella aspetta. Si sente in lei la calma serafica di un saggio cinese (valtellinese in questo caso), che aspetta. Senza fretta. Facendo le cose con calma. Senza correre. Senza affanno. Il papà ha aspettato tanto. Così tanto che il tempo che serve per attendere una vendemmia, attendere una macerazione o un affinamento di anni, non è nulla in confronto. Il giusto tempo del Nebbiolo bisogna saperlo aspettare.
I lunghi affinamenti non sono scritti da nessuna parte. Il disciplinare recita un minimo di 12 mesi in botte per il Valtellina DOCG Superiore (che diventano 24) più altri 12 in bottiglia. Alla ArPePe si va molto più su con il tempo.
Noi seguiamo per le riserve il vecchio disciplinare che ci ha insegnato papà ovvero un minimo di cinque anni complessivo tra legno, cemento, acciaio e bottiglia. Noi le riserve le facciamo uscire mediamente dopo sei anni. Per noi è interessante cosi. Prima di tuto c’è la qualità dei nostri prodotti. Noi aspettiamo. È doveroso.
Doveroso. Mi rimbomba in mente questa parola. Mi distraggo un attimo dal racconto di Isabella ma non posso farci nulla. È davvero incredibile come ci siano principi forti come questi. Solo con questa parola finalmente capisco a pieno una cosa che ho visto raramente in un sito Internet. Già, perché ai più attenti non sarà sfuggito notare come nella pagina del sito ArPePe dove ci sono “I Nostri Vini”, proprio in fondo, magari un pò nascosto ma solo per timidezza, ci sia un allegato “annate_vini_arpepe_2022.pdf”: è la tabellina che riporta tutte le annate uscite dalla quale si evince come alcune annate non siano proprio state messe in commercio.
Si certo, magari capita anche ad altre aziende. Però è doveroso non solo farlo ma anche dirlo. Ecco, quella parola mi riporta direttamente al link dell’allegato segno di una statura morale incredibile.
Nel 2008, il sei luglio abbiamo subito una grandinata e abbiamo scelto, nonostante le fatiche immense, di non uscire con nulla. Non è uscita neanche una bottiglia di Rosso di Valtellina. Abbiamo prodotto meno del 20% che non ci soddisfaceva. Così abbiamo venduto il vino a qualche altro. Ma non siamo usciti. Totalmente saltata. Ci ha insegnato molto perché devi essere per forte per assorbire una annata del genere. Da qui i prezzi per la valorizzazione. La Valtellina ha dei costi abnormi per la produzione: abbiamo all’incirca 1500 ore per ettaro per anno mentre, in collina, con un pò di meccanizzazione, siamo intorno alle 500 ore per ettaro. Noi siamo tre volte tanto. È iniziato un lento progressivo lavoro di valorizzazione. È doveroso perché se uno vuole la qualità la devi far pagare.
Anche qui torna “doveroso”. Doveroso rispetto per il lavoro, per la materia prima, per il territorio, per gli investimenti, per la qualità. Per il lavoro.
Non so dire se i vini di ArPePe siano più o meno costosi rispetto ad altri. So di certo che, oltre ad essere fantastici prodotti, provengono da un territorio che si può capire se non vedendolo. Se riesci (perché non è semplice) vedere le viti dalle strade di fondovalle, intuisci qualcosa. Se poi ci sei vicino o addirittura sei sulla terrazza che ospita le viti, ecco, allora capisci quanto sia complicato, impervio e anche pericoloso lavorare li.
Prima di mettere in commercio una annata ci pensi tre volte. Cerchi di dare la giusta dimensione alla annata. È la annata che decide. La prima annata nella quale nasce il rosso di Valtellina è il 2003. Papà fa in tempo ad approvare anche l’etichetta creata a mio marito che è architetto (piemontese che poi ha dato tanto aiuto per realizzare lo spazio di accoglienza per festeggiare i 150 anni). È stata l’etichetta che incarnava la nostra idea di un rosso facile da bere a spingerci a produrlo. Era nato per scherzo in quella annata nella quale l’Intera produzione era di facile beva. Siamo stati spiazzati da una annata del genere ma è stato importante farlo perché è diventato il nostro biglietto da visita. Oggi la gente ci scopre con quello e se piace quello viene voglia di assaggiare gli altri.
ArPePe si estende su tre delle cinque zone della Valtellina: Sassella, Grumello e Inferno. Non è stata una scelta ma frutto semplicemente di quanto toccò ad Arturo in eredità. La filosofia dei figli è stata quella di continuare ad espandersi in zone limitrofe senza cercare di andare in altre. Una filosofa intelligente visto i costi che ci sono da queste parti. Sostenibilità.
Se continueremo ad espanderci lo faremo in queste zone. Non ha senso spostarsi in altre zone. Ha senso consolidare e capire cosa succede accanto a noi. Nei momenti chiave io non manco mai. Poi visto che con papà mi sono dedicata la parte commerciale così come alla accoglienza, posso dire che quello che non era il mio ruolo poi lo è diventato. Mio fratello lo ha affiancato nella vigna e in produzione. Quindi è li. L’altro fratello, Guido, lavora con noi ma in remoto. Lui è architetto e ha studiato più comunicazione per l’architettura. Così si occupa di comunicazione per un gruppo bancario. È lui che è dietro il sito e i social media. Ci aiuta da remoto amplificando quello che facciamo. È sempre al nostro fianco.
Isabella ama in maniera sconfinata il suo lavoro, la sua azienda, le sue uve. Così come ama i suoi prodotti provenienti da questo Nebbiolo delle alpi dotati di freschezza e mineralità con il frutto della montagna che si riesce a cogliere, pieno e integro nel bicchiere.
Devi chiudere gli occhi e vedere la pendenza e la ripidità della montagna che gli sta dietro. Questo deve essere il minimo comune denominatore di tutti. Dopodiché c’è la bellezza di scoprire ogni singola vigna, ogni singola particella. Ogni tanto scherziamo che dovremmo far il vino per ogni terrazzino. Sarebbe la paranoia totale ma è veramente cosi perché ogni angolo ha la sua espressione. Una vigna viene divisa in due botti e ogni botte ha la sua faccia ed è lievemente diversa dell’altra. È una gioia immensa quando ti trovi con le botti e te la ridi perché è il bello di quello che facciamo.
In queste parole c’è non solo il bello di questo amore. C’è la meraviglia e lo stupore di chi riesce a fare e guardare le cose con gli occhi incantati di un bambino. Così, come un bambino sorride quando riesce a farsi capire con la sua lallazione, allo steso modo Isabella e i suoi fratelli quando ciò che loro percepiscono viene riconosciuto anche da una persona che beve un loro vino.
Nessuna voglia di fare qualcosa di diverso. Nessuna voglia di cedere alle sirene delle novità, bollicine in testa. Il solo pensiero di espiantare qualche pianta di Nebbiolo per sostituirla con qualche altra diventa un colpo al cuore per Isabella.
La nostra direzione è chiara. I rosati vanno magari un sacco ma non mi interessa niente. Preferisco fare più bottiglie di Rosso di Valtellina.
Una azienda solida e ben determinata che difficilmente si incontra. Una azienda che può sembrare ferma nel solco della tradizione ma non è affatto così. Ogni annata è certamente diversa. Ogni vino è certamente diverso ma occorre sempre migliorarsi. Isabella, Emanuele, Guido, lo sanno bene. Sanno bene che il sogno del papà non è ancora compiuto.
Nulla è mai compiuto perché c’è sempre da migliorarsi ma è bello che abbiamo dato più voce e più spazio al suo disegno. Non è un quadro finito e non lo sarà mai. Faremo del nostro meglio con le generazioni che verranno che aggiungeranno nuovi tasselli e nuove sfaccettature. Tempo al tempo. Il giusto tempo ci darà le risposte e non dobbiamo avere fretta. Il futuro è con le stesse etichette ma magari con nuove singole vigne. È più facile nascano altre riserve per raggiungere tavole sempre più belle in giro per il mondo. Sono contenta quando una nuova nazione ci viene a cercare. La nostra produzione è piccola perché quando siamo fortunati siamo sulle 100/110 mila bottiglie.
Non abbiamo mai parlato dei vini di ArPePe in queste pagine e non intendo farlo alla fine. Sono vini che vanno scoperti più che raccontati. Espressioni di singole vigne certo ma espressione delle montagne e delle loro pendenze. Bevendoli si potrà apprezzare la loro estrema prontezza nonostante derivino dal Dio Nebbiolo (o Chiavennasca) che in altri palcoscenici assume sembianze totalmente diverse e maggiormente spigolosi. Qui, la grande mineralità offerta dal territorio, il gioco delle temperature e, soprattutto, la lunga attesa, rendono i vini falsamente facili. Falsamente perché in essi si ritrova la complessità del Dio Nebbiolo (o Chiavennasca) legata alla immediatezza del gusto.
Per tutto il resto, posso solo augurare a tutti noi che ArPePe non cambi mai questa filosofia. L’Italia ha bisogno di realtà come questa.
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