28 Lug 2023
Suggestioni di Vino

Barbara Violati, la terra e l’acqua

Barbara Violati, la terra e l’acqua

l grillo disse un giorno alla formica
“Il pane per l’inverno tu ce l’hai
Perché protesti sempre per il vino?
Aspetta la vendemmia e ce l’avrai”
Mi sembra di sentire mio fratello
Che aveva un grattacielo nel Perù
Voleva arrivare fino in cielo e il grattacielo adesso non l’ha più

Fin che la barca va lasciala andare
Fin che la barca va tu non remare
Fin che la barca stai a guardare

 

Si può amare una terra, la propria, in maniera viscerale. Così tanto da comprarla da chi non ne è interessato per preservare l’azienda di famiglia. Quella dei propri genitori. Quella di una vita. Sì, certo, puoi comprarla, per possederla. Come si può possedere un grattacielo nel Perù. Ma se poi il cuore va altrove insieme a tutto te stesso, la terra, comunque, rimane lì. Ad aspettarti. Silente. In attesa di qualcuno che la sappia far rivivere. Come meriterebbe. Come è giusto che sia.

Barbara Violati è una donna forte. Almeno all’apparenza. Di certo non te la manda a dire. Determinata, di polso. Ma sempre con un latente velo di malinconia che, ogni tanto, traspare nelle pieghe della voce. Di quei silenzi che sembrano un intercalare. Sarebbe troppo facile pensare che avrebbe voluto che il papà fosse lì ad ammirare quanto realizzato nelle terre di famiglia. Già il papà. Non un papà qualsiasi. Barbara lo definisce così:

Era un amante della vela e delle macchine. Quella è stata la sua vita. Ha sempre avuto questo attaccamento a San Gemini e alla terra. Però non ci ha mai creduto e non ci ha mai investito. Due pinze ed una tenaglia.

“Amante della vela e delle macchine”. Eppure, Fabrizio Violati, il papà di Barbara, non era solo un “amante della vela e delle macchine. Era considerato il Collezionista di auto. Non auto qualunque, Ferrari. Si divideva tra l’essere Amministratore delegato delle acque di famiglia (Sangemini e Ferrarelle..), la passione per le auto (che collezionava e sulle quali correva) e la vela. Collaborava alla progettazione di barche a vela. Non barche a vela qualunque. Meravigliosi scafi utilizzati per le regate. Gli appassionati di macchine e di vela non potranno non ricordarlo. Insomma, tempo per la terra di famiglia, non credo ne rimanesse molto.

L’azienda Violati nasce, anzi, rinasce grazie a Barbara. Alla sua tenacia. Alla voglia di vivere e far rivivere qualcosa che lega lei e la sua famiglia a San Gemini, in Umbria. Un’azienda che arriva dagli anni trenta del secolo scorso quando i nonni la fondarono prima di passarla ai tre figli tra i quali, Fabrizio. A cavallo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, Fabrizio rileva l’intera azienda dal fratello e dalla sorella.

C’era di tutto e coltivato in mezzadria. Finanche le mucche c’erano. L’azienda aveva circa 400 ettari con 40 vitati. C’era la cantina, il frantoio e le stalle per allevamento.

Arrivarono poi i tempi nei quali si incentivava l’eliminazione dell’attività zoologica, così che si fece a meno delle mucche da latte.

I nonni chiusero la cantina ed il frantoio. L’uva veniva dunque conferita alla cooperativa e l’olio venduto più che altro all’ingrosso.

All’ingrosso, come gran parte della produzione senza che venisse trasformata. Olio a parte perché questo, almeno in parte, si continuava a fare. Il tutto gestito da un agronomo.

Tecnicamente l’azienda era seguita dal papà. Tecnicamente appunto. Le passioni del papà non erano certo compatibili con la stanzialità della gestione della terra.

Nel 2000 l’agronomo, dopo più di venti anni di lavoro, decide di andare via e Barbara inizia a metter il naso nell’azienda dopo aver confidato al padre:

Vorrei capire come funziona.

Trovatasi sola, da donna intelligente quale è, capisce che fare tutto da sola non era cosa. Impossibile per una persona senza esperienza in campo agricolo.

Io di agricoltura non ne capivo niente. Zero spaccato.

Così capita che le parlano bene di Marco Zannoli, un giovane appena uscito dalla scuola agraria.

L’incontro con Marco regala subito affinità. Marco dal suo canto, capisce le potenzialità dell’azienda dunque del suo sviluppo. Servono investimenti che tra il 2000 e il 2010 gli investimenti sono davvero pochi e quando ci sono legati ai contributi per il rinnovo dei vigneti. Esigui per una azienda così grande.

Noi avevamo vigne di 40 anni. C’era una vite e dopo 4 metri ce ne era un’altra. La produzione non poteva che essere poca. Stavamo sempre li. L’uva la conferivamo, l’olio non si vendeva. Fino a che non è venuto a mancare mio padre. Anche se nel frattempo avevo cominciato a pensare che, se si voleva andare avanti, serviva una cantina. Ma papà non mi veniva dietro.

Già, il papà. Il 2010 segna l’anno, all’inizio del quale Fabrizio viene a mancare. La perdita. Perdere il papà è comunque un trauma. Figura rilevante per tanti motivi. Rilevante e allo stesso tempo anche una sorta di collo vulcanico: una volta tolto, il vulcano può esplodere in tutta la sua potenzialità. Barbara e le sue idee possono venir giù come lava.

Papà non ha mai creduto nell’azienda. Ha fatto altre cose. Pazzesche. Non gli ho mai chiesto perché non credesse all’azienda. Ho sempre immaginato fosse troppo impegnato nel suo progetto con le macchine e le barche.

Il rapporto tra Barbara ed il papà non deve essere stato facile. Lei stessa lo definisce “difficile”. Penso però sia una questione privata ed è bene rimanga così.

Alla morte di Fabrizio, Barbara si ritrova a con i fratelli che desiderano vendere tutto.

Mi dicono vendiamo tutto perché non ci interessa niente.

Come biasimarli? Altre vite. Altri interessi. Una proprietà di tali dimensioni che non può che spaventare chi di terra non se ne è mai occupato.

Barbara ci pensa su anche lei. Si rende conto che ciò che l’aspetta non sarà affatto semplice. Il pensarci su però dura poco. Giusto il tempo di un battito di ciglia. Il vulcano si è svegliato. Rileva così l’azienda nel 2015. La storia del papà si ripete: come lui l’aveva rilevata dai fratelli, anche Barbara trova la forza per farlo. Supportata comunque dalla famiglia. Sempre vicina. Sempre dalla sua parte: si può cedere la propria quota ma l’attaccamento alla terra fa si che ogni cosa si debba fare in armonia.

Neanche il tempo di cominciare e capita che l’immobile adibito ad agriturismo presente all’interno della proprietà ma venduto da tempo ad un terzo, va all’asta dopo essere rimasto sette anni invenduto con tutte le aste andate deserte. Insomma, nessuno che voglia investire a San Gemini. Barbara invece vuole, vuole fortemente quella proprietà nella sua interezza. Così nel 2016 acquista l’immobile nel deserto dell’ultima asta.

Nel 2015 prendo l’azienda. Nel 2016 prendo l’immobile. Nel 2017 c’è la prima vendemmia in cantina: in un anno e mezzo tutto si è stravolto.

L’opera di Barbara e Marco è certosina. Rimettere a posto i venti ettari di vigneto e ripristinare l’oliveto non è cosa da poco. Il progetto, il senso di una azienda, piano piano prende forma. Con la cantina. Con la voglia di creare una filiera corta in regime biologico. Accanto alla vigna e agli olivi anche una parte di seminativi dove si coltivano ceci, lenticchie e farro.

L’immobile rilevato non è certo piccolo. Dotato di camere e di un ristorante è la struttura ideale per realizzare un wine resort. Progetto ambizioso ancorché di grande respiro: la piscina con vista sui vigneti, le degustazioni, l’ospitalità. Suggestione e meraviglia di questo territorio. Manca la ristorazione ma anche Barbara sa essere prematura poiché complicata. Arriverà prima o poi. La lava primo o poi arriva.

A progetto finito verrà una bella cosa. Vogliamo promuovere il territorio e soprattutto questa zona dell’Umbria che ha potenzialità grandissime. Voglio riportare il nome dei miei nonni che hanno contribuito a creare San Gemini. Riportare il nome della famiglia con qualcosa che crei lavoro e magari una possibilità per mio figlio.

(Marco) Portare la gente qui per vedere il vino in maniera diversa. Riusciamo a tramettere a chi viene da noi i nostri valori. Riuscire a trasmettere qualcosa perché vengono fuori gli episodi della nostra vita, la sofferenza che è stata necessaria per arrivare dove siamo ora.

Quando guardi banalmente la pagina del sito internet della cantina dedicato ai vini, appare subito evidente una sorta di “anomalia”: spumanti in primo piano con etichette raffiguranti barche a vela. Strano per una azienda umbra. Per niente strano perché sanno tanto di omaggio al papà. Marco ci tiene immediatamente a spiegare.

La spumantizzazione nasce dalla volontà di Barbara, appassionata di bollicine. Lei ti racconterà perché si chiamano in un determinato modo. Comunque sia, per noi farsi fare lo spumante ovvero fuori dall’azienda non ha senso. Abbiamo deciso di farli in cantina con i nostri metodi e la nostra uva.

Così c’è Vinca è il brut rosato realizzato con ciliegiolo. Vihuela, dosaggio zero con base Grechetto, Sangiovese vinificato in bianco e Malvasia. Entrambi Charmat lunghi con sei mesi di fermentazione. Poi il metodo classico Kheira con 18 mesi almeno sui lieviti.

Forse questa avventura è nata anche dalla mia passione per la bollicina e le bollicine le ho volute come dedica a mia madre e mio padre.

Barbara parla del suo passato con un misto di allegria e tristezza. Di un tempo di sorrisi e famiglia. Delle estati passate a bordo delle barche create dal papà e che venivano adibite a luogo di convivenza e convivialità. Lì, a bordo, dove gli spazi angusti erano nidi per stare tutti, finalmente, insieme. Quel tempo che trascorreva leggero con la speranza che non finisse mai.

Il metodo classico, Kheira, prende il nome dalla barca storica dei miei nonni che hanno trasmesso la passione per la vela a mio padre. Il Kheira non me lo ricordo ma ho ancora le foto dalle quali ho ricavato l’etichetta. Gli Charmat sono le due barche, Vinca e Vihuela, che mio padre ha progettato insieme a Giulio Cesare Carcano un ingegnere di Genova. Due barche da regata al tempo altamente competitive. In estate venivano allestite e si partiva per due/tre mesi con noi ragazzini e gli amici di mio padre. Si facevano queste vacanze pazzesche. Vacanze molto “mangiarecce”. Goliardiche. Sempre, tutti i giorni, la mattina dopo mezzogiorno e il pomeriggio dopo le sei mio papà diceva “diamo un senso alla giornata”. Si tirava fuori una bottiglia di vino frizzante che mio padre comprava a Ponza dove c’era una signora al porto che la vendeva, e la stappava. Così facevamo l’aperitivo e iniziava la festa.

Piccola digressione. I ricordi di Barbara sono meravigliosi anche se illuminati da una luce fioca. Come se fossero soggetti ed oggetti messi in secondo piano nelle inquadrature di un film. Eppure, a guardar bene, rovistando tra le sue parole, emerge un pezzo di storia d’Italia. Quella realizzata dal genio di persone speciali, pionieri e innovatori vissuti in periodi di grande fermento sociale che probabilmente non rivedremo più nel loro entusiasmo e forza propulsiva.

Giulio Cesare Carcano non è un ingegnere qualunque. È il pioniere delle barche a vela d’altura e progettista della mitica Moto Guzzi. Un genio che ha fatto della “V” il suo credo, realizzando per primo la prua delle barche: a “V” così come il motore della Guzzi. Le barche venivano realizzate non da uno qualunque ma dalla famiglia Gallinari, ad Anzio, maestri d’ascia da sei generazioni. Quelle barche non solcavano il mare, volavano sulle onde. Fabrizio Violati, forse il più grande collezionista di Ferrari al mondo (suo l’idea di un museo a San Marino) e ideatore di barche fantastiche. Gallinari, Carcano, Violati. Geni, innovatori, pionieri. Memorie di un fantastico tempo che fu.

La bollicina, la barca, il mare, l’acqua: abbiamo creato tre vini e sono gli unici che hanno un nome. Gli altri no.

Quasi come a dire che questi tre, le bolle, solo questi tre meritassero un nome. Una dedica. Una memoria.

Il Metodo Classico è arrivato per ultimo. Perché Barbara non è una che si improvvisa. Aveva bisogno, non fosse altro perché si trattava di dediche, di certezze. Lo Charmat, rigorosamente fatto in cantina, offriva la possibilità di sperimentare senza molti rischi.

Partendo dal niente avevamo bisogno di capire se li sapevamo fare. Stiamo ora valutando se lasciare gli Charmat per fare solo il Metodo Classico. Andiamo avanti sempre a piccoli passi e dove vediamo che sbagliamo, cambiamo strada. Abbiamo iniziato con il bianco, dosaggio zero. Poi il rosato. Il covid ci ha un po’ fermato. Infine, solo quando i due prodotti sono piaciuti, è partito il metodo classico

Per rappresentare al meglio il territorio non possono ovviamente mancare vini fermi prodotti con uve locali.

(Marco) I primi anni non abbiamo vinificato tutto ma creato micro vinificazioni con uve provenienti da zone diverse della tenuta. Abbiamo vinificato un po’ tutto per capire come venivano i prodotti.

La gamma prevede un Grechetto, un Bianco blend i Malvasia e Grechetto, un Rosso da Sangiovese, il Ciliegiolo, il Merlot. Nessun nome di etichetta. Semplicità pura.

(Marco) Vini abbastanza semplici e poco artefatti. Puntiamo sulla qualità dell’uva con la giusta raccolta. Parecchia tecnologia in cantina. Autonomi in tutto.

Quello che facciamo deve essere fatto con queste manine. Niente deve venire da fuori. Abbiamo investito nella cura del vigneto. Molti sono lungo la strada e quando passi durante la stagione non puoi non esserne estasiato.

(Marco) La raccolta a macchina consente di raccogliere in tempi brevi assicurando la qualità. Quando porto gente in cantina e dico che raccolgo a macchina mi guardano strano. Ma la tempestività nella raccolta dei bianchi supera la poesia della raccolta manuale. Siamo passati in biologico. Per scelta ma anche perché la qualità è migliore.

Marco ci crede. Senza essere talebano e semplicemente guardando i risultati.

(Marco) Oltre all’omino che fa i trattamenti con il trattore che ha i filtri, ci sono pure quelli che stanno in mezzo alle vigne. Il solo pensiero che le persone potevano respirare chimica mi disturbava.

Abbiamo anche un occhio alla tradizione. Una parte di uva la vendiamo in cassetta e la raccogliamo a mano. Così come anche la parte di uve, dedicate al Ciliegiolo, che vanno in appassimento.

Una gamma davvero consistente che necessita di un assestamento ma anche di sviluppo.

Abbiamo fatto una Malvasia Orange. Forse qualche etichetta dovremmo eliminarla per facilitare la gestione in cantina. Ma non ora. Per adesso rimaniamo fermi. Abbiamo tre spumanti, due blend bianco (Chardonnay e Malvasia) e, a breve, un rosso (Sangiovese e Montepulciano), monovarietali (Merlot, Ciliegiolo, Malvasia, Grechetto), il passito. Per il momento come gamma stiamo bene.

(Marco) C’è l’idea di dare un nome al Merlot. È l’unico nostro vino che può permettersi un invecchiamento.

Lavoriamo bene con il vino sfuso perché abbiamo fatto uno sfuso alto di qualità. Quello che va in bottiglia ha una attenzione particolare, come ad esempio il passaggio in legno.

Assaggio il Ciliegiolo che rappresenta, per molti versi, l’azienda nel territorio umbro: grande attenzione in vigna, mix di raccolta manuale e meccanica, parte di vendemmia tardiva, passaggio in legno.

(Marco) Il Ciliegiolo è fresco e di pronta beva con un colore accattivante per via del grande estratto. Per irrobustirlo un pochino abbiamo scelto di far appassire un 10/15% delle uve in pianta per circa 10/15 giorni. Questa parte fa botte grande per qualche mese per poi unirla alla massa che ha fatto acciaio. Così c’è più struttura.

Si sente in effetti la struttura che si coniuga alla freschezza. Colpisce al naso la balsamicità. È un naso che si apre completamente grazie a dei sentori quasi di mentuccia. C’è frutta a profusione e non può mancare la ciliegia ovviamente. Tutta croccante, quasi matura. Ci sono e spezie.

Nelle degustazioni chi assaggia il Ciliegiolo viene colpito. Anche chi non lo ama particolarmente.

La particolarità di questo vino è il connubio tra rotondità e freschezza. Un gioco doppio, quasi ambiguo che non mi dà certezze su cosa berrò. Bellissimo. Intrigante. I sentori freschi, anche d sottobosco, si uniscono a quelli dolci tipici dell’appassimento. Non è complessissimo ma invoglia a mantenere il naso nel bicchiere.

Al sorso è bello caldo, corposo, secco. Il tannino è importante e si sente come abbia bisogno di qualche anno per ammorbidirsi. Non è un tannino forte, comunque, poiché la sensazione in bocca è piacevole. Non è particolarmente sapido. Chiude bene in bocca con un retronaso che torna a ricalcare le sensazioni olfattiva. Lineare e coerente; regolare e preciso. Ottimo per una merenda a base di salumi ma lo abbinerei anche con una tagliatella al ragù. Non avendo una lunga persistenza ci sta bene.

È uno di quei vini per i quali servono due bottiglie. La prima da assaggiare adesso, l’altra tra due o tre anni allorquando si ammorbidirà maggiormente creando una beva quasi più ruffiana.

Ho iniziato questo articolo con una canzone di Orietta Berti, Fin che la barca va. Spero abbiate, ora che siamo giunti alla fine, intuito il perché.

Barbara e le sue barche. Quelle che ha nella memoria. Quelle che le hanno ispirato le bollicine. Quelle che ha dedicato ai genitori. Al papà che di esse è stato il creatore. Quella barca che a mio modestissimo modo di vedere rappresenta anche la sua vita che con la morte del papà ha potuto prendere il largo. Capitanata solo da lei, Barbara. Con forza, coraggio e tanta volontà.

La canzone di Orietta Berti chiude con queste due righe

Quando l’amore viene il campanello suonerà
Quando l’amore viene il campanello suonerà

Barbara, l’amore per la terra che era dei suoi nonni, poi di suo papà, ora sua. Per lei il campanello ha veramente suonato. Segno che l’amore è arrivato a compimento.

 

Ivan Vellucci

Mi trovi su instagram : @ivan_1969