22 Set 2023
Suggestioni di Vino

Di Francesco Gasperi: la leggerezza del vino

Di Francesco Gasperi: la leggerezza del vino

Ogni qualvolta penso di averle viste tutte nel mondo del vino, ecco che qualcosa di nuovo mi si presenta, così da chiedermi se mai potrò stancarmi di parlare con chi il vino lo produce visto la moltitudine di storie da raccontare. 

Non so in quanti avranno letto i libri di Diego Da Silva. Magari più facilmente avranno visto la fiction andata in onda su Rai 1. Protagonista dei romanzi, che preferisco di gran lunga alla fiction, è Vincenzo Malinconico, avvocato napoletano che di fare l’avvocato proprio non ha voglia. Lo deve necessariamente fare per sbarcare il lunario.

Personaggio divertente l’avvocato Malinconico. Per la sua schiettezza e per il modo di pensare ed approcciare alla vita. Tutto partenopeo.

Senza divagare e invitando alla lettura dei romanzi, il personaggio che incontro mi ricorda tanto Vincenzo Malinconico. Sarà per la sua avversione a fare, o continuare a fare l’avvocato o per la sua innata ironia. Eppure non siamo a Napoli ma all’estremo nord, in quel di Saint Pierre, piccolo paesino della Val d’Aosta.  Chi incontro è Stefano Di Francesco, istrionico avvocato e, soprattutto, vignaiolo. Titolare dell’azienda vinicola di famiglia, la Di Francesco Gasperi Vino e Spiriti. Credetemi, per molti versi, il modo di pensare di Stefano è tutt’altro che nordico. Meraviglioso!

Io sono un avvocato, mio fratello è un medico e mio padre è un medico. La cupola è questa. Papà Eugenio e mio fratello Nicola. 

La chiacchierata è di quelle che lasciano il segno. Stefano è un personaggio che merita di essere conosciuto per la sua esplosiva personalità ed il coinvolgente entusiasmo. Un entusiasmo vivo per la professione, anzi per l’hobby del vignaiolo. Un passatempo, come lui stesso lo definisce. Anche se si vede che nemmeno lui ci crede: in realtà, quella del vignaiolo è la sua vera professione mentre la pratica forense è relegata al compito di garantire un reddito.

Visto che l’azienda vinicola è piccola e la produzione raggiunge a malapena le 8000 bottiglie l’anno. Parte delle quali le beve lui con gli amici (sempre per sua stessa ammissione eh!). 

L’azienda. Partiamo da qui, anzi dal come Stefano parla dell’azienda. Lo fa al plurale e non già per una questione di nobiltà scomodando il plurale maiestatis ma, unicamente, perché l’azienda è di famiglia.

Il titolare sono io. Il gioco è il mio e sono io che guido la barca. Sono però coadiuvato dalla famiglia. In primis da mio padre che è il pazzo che ha inventato tutto. 

Papà Eugenio, classe 1938. Altra pasta anche se, come dice Stefano

ha qualche acciacco però è sempre stato, per dna, un idealista. Il padre era un orfanello e ha sempre avuto il senso del riscatto sociale. È diventato medico per riscatto sociale.

Stefano invece è diventato avocato per l’insistenza  del padre che desiderava i figli avessero una posizione sociale. Già qui si spiegano molte cose magari.

Saint Pierre è un piccolo paese di 3000 anime a poco più di 8 km da Aosta. Non sembra ma la zona è vocata per il vino. I primi reperti sono dell’età del bronzo. Poi i romani, il medioevo e  Napoleone. Qui si producevano vini con stile francese prima che le difficoltà delle coltivazioni sui terrazzamenti inducessero i produttori ad abbandonare le coltivazioni. 

Avevamo un terreno abbandonato di poco più di 600 metri quadri. Dissi a papà “perché non facciamo il vino per casa?”

Altro elemento per capire come Stefano non avesse poi tutta questa voglia di continuare a fare l’avvocato. Sempre che l’avesse mai avuta. 

Avevo un amico compagno di calcio, Michel Vallet, che ha una delle aziende più importanti della Val d’Aosta. Andavo ad aiutarlo in vigna, mi piaceva l’ambiente e ovviamente mi piace il vino.

Mio papà era ed è un malato di pomodori che pianta anche oggi ovunque. Gli dissi che era meglio la vigna così da farci il vino per casa. Mio padre colse in pieno la quesitone ma, non sapendo fare assolutamente niente, contattammo un vicino, Giorgio Anselmet (tra i più grandi produttori della valle): come si fa? Gli chiedemmo.

Non ci si improvvisa vignaioli. Specialmente se sei in Val d’Aosta dove non è che ci sono terreni facili da coltivare. Qui ci sono terrazze strappate con le unghie alla montagna. Ogni lavorazione la devi necessariamente fare a mano. Poi, sei un avvocato, con padre e fratello medico, saprai di tanto altro, ma di terra e vino, meno che zero.

Ci ha fatto fare un lavoro amatoriale che adesso non farei così. Abbiamo sbagliato tutto e potrei scrivere una enciclopedia su cosa non si fa una vigna. 

Sul fazzoletto di terra terrazzato, piantano quindi 600 barbatelle. 

Volevo solo vitigni autoctoni valdostani. Io amo il Fumin. Così impiantiamo 300 barbatelle di Fumin e 300 di Mayolet. I due autoctoni valdostani. Per piantare ci siamo fatti aiutare da un vicino di casa e caro amico di famiglia nonché dal figlio, i Gaspari. Erano assicuratori di professione. Abbiamo passato un bellissimo week end goliardico tra insulti e canzoni. Ci siamo divertiti.

Sporcarsi le mani per dei professionisti della penna, lascia il segno. Piace. Piace e coinvolge tutta la banda. Ma ve lo immaginate cinque stimati professionisti che passano un fine settimana chini sulla terra ad impiantare le barbatelle, governati da un vero vignaiolo che secondo me se la rideva sotto i baffi? Difficile, faticoso ma al tempo stesso divertente. Insomma una vera soddisfazione deve essere stata vedere la terrazza sistemata e con la barbatelle piantate. 

Soddisfazione che per papà Eugenio, che è uno che non si accontenta facilmente, porta a guardare oltre. Magari animato dalla sua voglia di riscatto o colto da ulteriore entusiasmo, l’anno successivo compra un ulteriore pezzettino di terra dal vicino. Un’altra terrazza. Perché quello c’è in Val d’Aosta. 

In Valle D’Aosta avere due ettari vicini è una impresa. Strappiamo il terreno alla montagna. Ci sono 500 ettari vitati quando nell’800 ce ne erano 3000. La viticoltura era cosa seria. 

Anno dopo anno la pazzia dilaga fino ad arrivare a circa 8000 piante su 2 ettari di terrazzamenti abbandonati da tempo. Abbandonati perché ci vogliono dei pazzi per coltivare tutto a mano.

Non c’è nulla di imprenditoriale qui. Abbiamo trovato due pietre del 1792 che ho messo pure in etichetta. Rivoluzione francese. Qui eravamo Francia con cultura vitivinicola Borgognese.

La storia della viticoltura in Valle d’Aosta non è diversa da tante altre regioni. La fillossera, l’abbandono per le città, ecc. ecc. ecc. Solo che qui coltivare è sempre stato una vera impresa. Non si hanno le superfici di altre regioni alpine italiane ne tantomeno una tradizione particolarmente viva. Così, si perse tutto fino al secondo dopoguerra quando gli abati svizzeri portarono vitigni come la Petit Arvine, adesso considerato autoctono anche se non lo è. 

Avevo scritto in etichetta che era autoctono ma l’ho cancellato perché da presidente della neonata DOC Valle d’Aosta mi hanno fatto le pulci.

Vedi tu a cosa porta la passione. Pure Presidente del Consorzio dei vini valdostani (carica che Stefano ha lasciato poco fa). Passione partita come un gioco diventato un vero secondo lavoro.

Il nome dell’azienda è Di Francesco Gasperi Vini e Spiriti dove Gasperi è un riconoscimento a Luigino Gasperi che ci ha dato una così grande mano e nonostante i sui 85 anni continua a darmi una mano. Lavora in maniera indefessa in vigna ed è un precisino. Conosce tutte le piante. 

L’azienda è intestata a me. Commercialmente è un nome che fa schifo ma il cuore va oltre. Il nome di Luigino è come se fosse il Moët Chandon dei poveri. Ma è giusto dare merito a chi ha lavorato. Vino e Spiriti perché, in maniera abusiva, facciamo anche dei superalcolici.

Anche in questa ultima frase si vede la goliardia quasi ci trovassimo nel film “Amici miei”:  scrivono sul loro nome una cosa che non si può fare. Grandissimi!

Ci piace il rischio!

Nessuno ha smesso di fare la professione. Tutti hanno continuato. 

L’impegno dipende dal periodo dell’anno. Io adesso ho finito di impiantare la vigna nuova. Divido la giornata in due. Mi alzo alle 6 perché mi attivo presto. Passo le prime 3 ore di vigna. Alle 9.30 sono in studio fino alle 12.30. Poi alle 14.30 torno in studio e alle 16.30 ancora in vigna. Sono avvantaggiato perché non sono sposato e non ho figli. Ho dei pesci rossi. Tutti i giorni le mie 4 ore in vigna le passo.

Io restai a chiedermi se l’imbecille ero io, che la vita la pigliavo tutta come un gioco, o se invece era lui che la pigliava come una condanna ai lavori forzati; o se lo eravamo tutti e due

Così il Perozzi, alias Philppe Noiret, riflette sul senso della vita dopo che il figlio lo redarguisce nel primo grande Amici miei del 1975. Allo steso modo è la riflessione di Stefano.

Sono 25 anni che faccio l’avvocato e mi sono anche rotto. Mi dedico più a quello che mi piace. Per dare qualità al tempo. Non posso permettermi di lasciare l’avvocatura perché mi da da che vivere. Mio fratello quando può mi aiuta. La vigna è il mio secondo lavoro, il mio gioco. Mio fratello quando può viene. Giuridicamente non è mia ma è il mio passatempo.

Non ho mai visto Stefano come avvocato ma giurerei che non abbia la stessa verve. Quando parla della vigna senti che è qualcosa che gli scorre dentro e che, soprattuto, lo appaga. Gli da quella felicità che magari un tempo era nella giustizia. Forse l’avere a che fare con tante persone che riversano sulla sua scrivania solo problemi e contenzioni; processi, giudici, carte, tribunali, cancellerie, ricorsi, faldoni ecc ecc ecc, conduce alla nausea rendendo palese la voglia di scappare o di dare semplicemente un senso alla propria vita. Quando poi hai qualcosa di meraviglioso, ancorché difficile, come la terra, l’aria aperta e la produzione di un nettare quale è il vino, la scelta è fin troppo facile e scontata. Si certo, è una logica scappatoia ma non ti spaccheresti la schiena e non passeresti così tanto tempo in vigna lavorando come un matto se non ti scorresse dentro. Lo fai, e Stefano lo fa, solo quando ne ricavi felicità e appagamento.

Dal punto di vista della cantina, avremmo voluto far cantina dove c’è la terra. Per questioni economiche faremo degli appartamenti così che continuo a vinificare presso una cantina sovradimensionata per le vigne che hanno. Affittano gli spazi a piccole cantine come la mia. Pago gli spazi e pago il cantiniere. Li c’è un agronomo che il responsabile della cantina. Lui mi da una mano in vigna. Non c’è un enologo che mi segue. C’è il cantiniere che non hai l titolo ma ha l’esperienza. Mi fido più di questa.

La filosofia di Stefano è quella del buon senso. Quella che porta a credere che da bella uva non può che venire un buon vino. 

Abbiamo una piccola azienda. Non ho problemi di produzione. Se faccio più o meno vino, non mi cambia la vita. Se c’è un grappolo che non mi piace, finisce per terra. Se ce ne sono troppi, finiscono per terra. Ho sempre voluto creare l’immagine di un cosa bella e pulita. Io non diserbo. Stavo decespugliando e vedevo il mio vicino che diserbava. Ho pensato che io ci sto 45 ore a decespugliare e mi faccio due coglioni con un attrezzo che mi fa vibrare anche il naso. Allora, se ci do un colpo di diserbo, risparmio. Ma l’idea di dare schifezze al mio terreno non mi va giù. Cerco di fare il meglio. Voglio molto bene alla mia vigna. È storica e devo darle il rispetto che merita. Ciò che arriva in cantina è bella. Prima di vendemmiare faccio le analisi, porto le uve in laboratorio. So che c’è un cantiniere attento e penso che uno più uno faccia due.

Non è calcolo questo. Non è filosofia. Ne tantomeno esperienza. È solo amore allo stato puro. Come se Stefano abbia la necessità di curare ciò che lo fa stare bene, così bene per continuare a star bene lui. Una sorta di do ut des.

Ci versiamo un calice di Petit Arvine 2021. 

In valle la stanno facendo in tanti ma a me piace la secchezza nei vini. Vini che abbiano finito la fermentazione. La mineralità che si sente al naso è perché qui c’era il mare. Un vino molto alpino per la freschezza che c’è in bocca. Va dall’aperitivo ai primi piatti. In estate qui fa un caldo della madonna. Abbiamo pochissima piovosità. Si sciolgono le nevi. Abbiamo un clima mediterraneo. 

La particolarità che si coglie in questo Petit Arvine è un mix di sapidità e mineralità con agli agrumi del mare che si uniscono alla balsamicità.

 Non sono un sommelier ma un bevitore e ho il concetto di mi piace non mi piace. È un vino che è veramente interessante perché non stanca. Chiama sempre una beva.

La secchezza non lascia sensazioni di durezza in bocca che, grazie all’agrumato percepibile fino in gola, risulta splendidamente pulita. È un vino pericoloso perché una bottiglia basta a malapena.

 Con qualche fanciulla lo chiamo scacciapensieri.

I 14 gradi non sono immediatamente percepibili. Il finale, con persistenza buona, tende ad andare verso l’amarognolo cosi che da renderlo ideale per un aperitivo o un semplice pesce. 

Va anche benissimo con un caprino morbido poiché la pulizia di bocca è assicurata dagli agrumi e da una accentuata salivazione conseguenza della sapidità.

Un vino che mi è piaciuto sia per la semplicità dei sentori sia per le sensazioni gustative. Mi piacerebbe berlo tra qualche anno: il grado alcolico e la poderosa spalla gli garantiscono un sicuro invecchiamento.

Qui in valle ci sono due o meno tre produttori che hanno iniziato ad utilizzare tonneau, barrique e anfora. Sono ottimi ma non nel mio gusto poiché più morbidi. Perdono quella freschezza che adoro. 

Unica accortezza per questo vino è la temperatura di servizio che, a mio parere, non deve eccedere gli 8/9 gradi altrimenti il finale, che vira verso l’amarognolo, potrebbe prevalere eccessivamente.

Io faccio poi due rossi. Il primo è il Planchettes che nasce sulla prima vigna che ho piantato il primo anno. È il mio primo bambino. Nasce da un errore. Anselmet mi fece piantare il Fumin e il Mayolet. Dopo tre anni scoprimmo che il Fumin non era Fumin ma Pinot Nero. Fregare un avvocato così l’ho visto davvero offensivo. Scherzo ovviamente. È che in serra si erano sbagliati!

Un vino che nasce da una provvida sventura. Per uno che voleva solo vitigni autoctoni valdostani, si trova in vigna il Pinot nero. Per giunta in quantità scarsa dunque non abbastanza per produrre un vino in purezza. 

Avrei potuto pure chiamarlo Torrette come da disciplinare della DOC (75% Petit Rouge e il resto ciò che vuoi). Qui ho 90% Petit Rouge e 10% Pinot e l’ho chiamato Planchettes che vuol dire terrazzamenti. Ho voluto creare un vino molto valdostano a tutto pasto

Apriamo quindi il Planchettes. Colore porpora scarico, completamente trasparente. Si intravede la presenza del Pinot. La freschezza è immediatamente percepibile al naso.

Il vino valdostano deve sempre avere freschezza. Si deve sentire l’altitudine. 

Evidente è la frutta tipica di queste parti come il ribes e il mirtillo. Qualche fiore alpino e tanta  minerailtà. Un vino semplice e immediato. Non certo da meditazione!

Non cerchiamo complessità. È un vino di beva. Adesso nel faccio 2500 bottiglie. Sono sempre stato sulle 1000. Il rivenditore valdostano me l’ha preso tutto. Va nella ristorazione in Valle.

La particolarità che si coglie è la continuità con il precedente grazie alla mineralità ed al finale amarognolo. C’èin questo caso una interessante armonicità in bocca ed un tannino giustamente bilanciato.

Questo è quello che piace di più a mia mamma che è la regina di casa e se lo dice lei…

Non fa botte ed è meglio così perché mantiene tutto il suo carattere schiettamente alpino.

 Il cantiniere voleva farci un pò di legno. Dare complessità. Ma io volevo semplicità per mantenere un vino valdostano, minerale e con un bel naso semplice e fruttato. Non impegnativo insomma.

Sic coglie una bella evoluzione tra i due vini. La continuità accennata precedentemente. Nel Planchettes un naso più maturo, passando dagli agrumi ai ribes, mirtilli, erbette selvatiche. Buona persistenza come per il bianco. Si abbia in maniera molto facile con un primo tipo dei pizzoccheri o un secondo di carne.

Faccio 8000 bottiglie in generale. Mi piacerebbe sperimentare l’anfora ma devo fare i conti con la realtà. Ogni anno vorrei impiantare qualcosina. Non posso smettere di fare lì avvocato altrimenti i contributi li perdo. Vorrei tutti i terreni qui vicino. Non sparsi. Il mio rivenditore mi dice che devo fare un quarto vino. Mi dice che devo comprare uva e farlo. Avrei pure qualcuno che lavora bene ma se non ci metto mano io ho paura di perdere la mia identità. Premesso che la mia identità è la buona volontà. Ho anche un rivenditore a New York e Boston tramite un ragazzo che ha studiato in Italia e ha scelto delle piccole aziende. Mi ha infilato in certi posti a New York, pazzeschi. Sono stato a New York ahimè con la mia ex. Me lo ricordo ancora perché mi ha lasciato li. Ma trovare il mio vino a 120 $ la bottiglia, vederlo li, mi ha emozionato.

Finiamo con il Fumin, un vitigno che ha una storia eterna e non finita. Autoctono valdostano usato nel passato per colorare e dare acidità agli altri vini. Negli anni 80 poi si inizia a vinificare in purezza con grandi discussioni per via del suo ruvido tannino. Ne parla per la prima volta Lorenzo Francesco Gatta, definendo il vino derivato dal Fumin quasi che fa male. 

Io lo definisco dal punto di vista del naso come un nostro Syrah con una fastidiosa tannicità. L’ho fatto i primi anni in acciaio ed era imbevibile. Poi vado a fare una degustazione ONAV con i più grandi produttori della valle (e io non ero tra quelli). Tra tutti i produttori, uno era sopra tutti. Era il mio vicino di vigna, non produttore professionale, che aveva una botte di Fumin in purezza dimenticata da 3 anni. Un tonneau scarico. Il vino in tre anni si era migliorato tantissimo. “Voglio fare così” mi sono detto. Le cose belle si copiano. Non piace a tutti perché non è un vino facile ma è molto valdostano. Forse è considerato il più tipico. Molti lo fanno tagliandolo con Syrah o con surmaturazione delle uve ma l’unica mia scelta è l’attesa di 3 anni.

Il colore è un bellissimo rubino. Al naso ricorda molto la Syrah per la nota pepata ancorché più lieve. La frutta è quella di prima, alpina, ma molto più matura. 

Sul nome Fumin c’è chi dice che è per via del colore, chi perché ci sente odore di bruciato. È più un discorso di colore secondo me. Non è un vino facile ma di sicuro, molto caratteristico.

La freschezza che si percepisce in bocca è estremamente importante per un vino rosso. La permanenza in botte per tre anni ha fatto il suo lavoro tanto che il tannino non è poi cosi spinoso e la sapidità si è affievolita. Si coglie ancora una volta la continuità con i due vini precedenti. Il maggior corpo si fa sentire mantenendo freschezza e finale lievemente amarognolo. La persistenza diminuisce leggermente. Un vino molto particolare che ha necessità assoluta di abbinamento: imbevibile da solo. La spiccata freschezza ha infatti bisogno di qualcosa che la stemperi: una bella e succulenta carne arrosto fa al caso suo.

La gamma dei vini così è fatta. Capisco il distributore che richiede qualcosa di maggiormente rotondo. Dopo tanti vini spigolosi forse ci vorrebbe. O forse no perché non è nella personalità di Stefano.

I vini devono piacere a te stesso, senza presunzione. Io assaggio tanto perché sono un amante del vino mondiale. Però sul mio, la mia impronta è questa. Non sono vini facili e pettinati. Ma non cerco di piacere a chiunque. Il nostro terroir è questo. 

Ha ragione da vendere Stefano. Questa è la vera identità territoriale. Che non va affatto snaturata. 

Io ho una sola certezza. Dal mio sito tu vedi le mie vigne. Quello è per me fondamentale. È un territorio tra i più vocati della Valle D’Aosta. Devo rispettare il mio terreno, la mia zona. Sono certo che è una zona bella. Prima o poi avrò un enologo. Non lo so. Ora è facile vendere 8000 bottiglie. Se ne hai 80000 è diverso. E nemmeno le vendo tutte perché ieri ho fatto i conti e ho scoperto che 700 bottiglie all’anno spariscono. E molte le bevo.

Ecco in finale la grandezza di un personaggio come Stefano. Prende le cose con leggerezza. Con trasporto certo. Con impegno e tanto lavoro ovviamente. Ma senza voler essere troppo impegnato. Non prendendosi, mai, troppo sul serio. In questo modo riesce non solo ad ottenere ottimi risultati ma anche a farlo con il sorriso. 

Qui permettetemi di far ritornare il Perozzi di Amici miei.

Ho già sulle spalle un bel fardello di cose passate. E quelle future? Che sia per questo, per non sentire tutto il peso di tutto questo che continuo a non prender nulla sul serio? Oppure che abbia ragione mio figlio?”

Grande Stefano!

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