Diana e Giacomo: due cuori e una vigna
Quando parlo con Diana e Giacomo e li vedo insieme mi torna in mente la canzone “Due Destini” dei Tiromancino. Iniziamo il nostro incontro e gli dico di getto “Sembrate una coppia ben affiatata”
Dobbiamo esserlo. Per forza. Tra figli e lavoro insieme dobbiamo per forza andar d’accordo.
Una bimba di 4 anni e un bimbo di 1 anno.
Giacomo si occupa dell’azienda dal punto di vista fisico. Io della burocrazia.
Io ne sono ben felice.
Una coppia unita e solida. Con compiti divisi e una unione che non teme lo stress. Anche se di stress in queste zone non ce ne è traccia. Siamo a Brentonico, 4000 anime circa della provincia di Trento. Il monte Baldo e il Nago alle spalle e il lago di Garda dinanzi,con l’Ora, il vento che spira dal lago, a mitigarne il clima pur sempre alpino. Una zona tranquilla ed assolata dove il tempo scorre lento e le stagioni si susseguono senza particolari scossoni. Tutto sembra al proprio posto. Lo scenario che si presenta è incantato. Non c’è un granché da fare qui, eppure Diana e Giacomo scelgono di vivere proprio qui, a Brentonico ad occuparsi di poco più di tre ettari che furono del bisnonno di Giacomo.
In realtà era il mio trisnonno. Avevano iniziato avendo le viti, tabacco, poi classici campi per il sostentamento della famiglia.
Bisnonno e nonno di Giacomo iniziarono dopo la seconda guerra mondiale a produrre e vendere vino. Ma non solo, perché in quel periodo l’arte di arrangiarsi li condusse a produrre anche distillati di contrabbando.
Adesso si può dire
Diana sorride guardando teneramente Giacomo.
Siamo in una zona di confine in fondo. Qui passavano in tanti lasciando sul territorio i segni e una estrema povertà.
Le notti di luna piena, mio nonno, insieme alla sorella Ester, partivano con zaino in spalla portando grappa e vino rosso. Partivano, scendevano in valle, arrivavano ad Ala e proseguivano per la Lessinia dove c’erano le Malghe. Qui scambiavano vino e grappa con formaggi e mortadella e altro per poi tornare indietro.
Un percorso non proprio agevole ma necessario. Per la sopravvivenza.
Ho sposato Diana che era della Lessinia. In qualche modo è tutto collegato
Magari i nostri nonni erano insieme a fare business
Il nonno di Giacomo vinificava, come di consueto da queste parti, per conferire le uve alla cantina sociale. Quello che rimaneva era per il consumo della famiglia. Poi con il papà si perse la passione della vinificazione e le uve si conferivano tutte alla cantina sociale.
Ci tengo a precisare che mio suocero è astemio. È un grandissimo viticultore perché se non ci fosse lui avremmo tanti problemi.
Nel territorio del monte Baldo quasi tutti conferiscono alla cantina sociale. Nessuno ha avuto il coraggio, il genio, la pazzia di dire “inizio a vinificare” per valorizzare il territorio. Gran parte dell’uva qui va a finire a Ferrari per lo spumante
In fondo come si fa a non comprendere le persone di questa zona. Qui la viticultura è eroica. Le terrazze sono ripide e le lavorazioni non possono che essere manuali. Terrazze belle a vedersi e a visitare con gli estasianti paesaggi da offrire alla vista. Ma gestire le lavorazioni, qui è altra cosa.
Penso che tanti hanno fatto la scelta lasciar perdere la vinificazione perché dopo l’impegno in vigna non avevano voglia e soldi per la cantina.
Giacomo, con il bisnonno (anzi tris nonno), nonno e papà che si ritrova non può non aver sempre lavorato in campagna. Oltre che fare il consulente agronomo.
Adesso ho ancora qualche cliente che seguo in maniera tecnica però principalmente mi occupo dell’azienda agricola.
L’incontro con Diana segna la vita di entrambi.
La nostra scelta è nata dal momento in cui ci siamo conosciuti. Lei viveva più in città, io in campagna. Cosa facciamo? Vieni tu da me? Io da te? Abbiamo scelto di restare con tutte le difficoltà del caso ma con lo scopo di portare vita in un territorio che rischia l’abbandono. Siamo in montagna, ci sono i vigneti ma prevale il bosco e le spine.
La scelta di valorizzare il territorio è lodevole. Pochi gli ardimentosi impegnati a produrre vino in queste zone. Eppure il territorio è bellissimo e vocato. Mancano forse le possibilità. O la voglia di valorizzarlo fino in fondo.
Per Diana la scelta di passare dalla vita che scorre velocemente della città a quella di un luogo dove tutto scorre più lentamente non è stata difficile. L’amore? Per Giacomo sicuramente ma anche per questi paesaggi incantati dove si vive al passo delle stagioni, del canto degli uccellini.
Fino all’altro giorno non c’era nulla ora ti svegli al mattino e cantano tutti.
Diana e Giacomo con i loro figli, iniziano la loro avventura pochi anni fa con l’azienda unica fonte di sostentamento.
Siamo partiti nel 2020. Maggio 2020. Dopo diversi anni di prove per raggiungere il prodotto che volevamo avere e vendere. L’azienda esiste come vitigni dal bisnonno di Giacomo. C’era un’ottima base ma volevamo dare una identità all’azienda attraverso i prodotti.
Prove e controprove. Le classiche micro vinificazioni fatte in maniera casalinga. Gli amici che provano, qualche esperto e tanta allegria mista a passione. La sfortuna di essere pronti proprio nel 2020, anno nefasto. Ma quando parli con loro sembra non essere stato così. Anche perché non è che qui si stesse proprio “chiusi” in casa. In ogni modo il periodo è stato utile per pensare, provare, stare ancora più insieme.
Noi ci mettiamo la sera e facciamo tutto noi. Anche le etichette. Questo è merito del Giacomo. Qualche merito devo pure riconoscerlo.
Giacomo si occupa della vinificazione coadiuvato da un consulente esterno. L’azienda è piccola e i soldi sono pochi. La cantina non può che essere in affitto con tutta l’intenzione di ristrutturare parte della casa per dedicarla al vino.
E dire che il nonno di Giacomo la cantina l’aveva. Solo che non era a norma
Bisnonno contrabbandiere. Nonno con la cantina non a norma. Che miti!
Ogni tanto io aiuto lei nelle pratiche e allo stesso tempo lei mi aiuta in vigna nella potatura verde, la potatura normale in inverno e autunno e durante la vendemmia quando c’è la massima agitazione
Da quando ho sposato lui le unghie non sono più quelle di una volta. Io vengo da un ambito diverso, il marmo, e stare in campagna, nonostante la difficoltà, le emozioni che hai con il panorama, è impagabile
Quando chiedo loro il perché di un nome come Sondelaite, Diana dimostra la sua, condivisa con Giacomo, passione per la storia. La storia di questi luoghi, degli avvenimenti, della gente. È un fiume in piena ogni volta che c’è un riferimento da cogliere, da approfondire e studiare di più.
Sondelaite è una crasi di parole tedesche modificate nel tempo. Tano per non dimenticare che questa è zona di confine con l’influenza, presente e passata (nonché futura) dell’Austria. Sondelaite identifica i delaite, terrazzamenti, esposti costantemente al sole
Una parte del territorio si chiamava una volta Sondelaite e abbiamo deciso di usarlo per l’azienda. Anche la contrada della Lessinia dalla quale io provengo si chiamava Sondelaite.
Coincidenze? Casualità. Come non credere che due destini si possano in qualche modo unire.
In questo che sembra un paradiso, la vita è difficile e al tempo stesso meravigliosa. C’è grande attenzione perché l’azienda rimane pur sempre l’unica fonte di sostentamento della famiglia. E la partenza per via della pandemia non è stata delle più fortunate. Ma adesso che i magazzini si svuotano, i sorrisi diventano più aperti.
Tre vitigni e due vini in portafoglio più alcune idee per il futuro.
Anzitutto lo Chardonnay per la presenza di terreni calcarei. Ma anche perché c’era già. Come i rossi Lagrein e Rossara. Quest’ultimo in particolare grazie ad un terreno preso in affitto da un signore anziano dove ve ne erano alcuni filari.
Non c’è Rossara al monte Baldo e in Trentino è presente su pochi ettari. Abbiamo pensato di valorizzarla per valorizzare la zona. Solo che non potevano vinificare in purezza per le poche piante così che abbiamo usato il Lagrein realizzando un prodotto meno pieno e di facile beva con attenzione alla freschezza ed ai profumi.
Due soli vini abbiamo detto. Il primo è il Kronil da uve Chardonnay. Ecco, fermi tutti. Se provate a chiedere a Diana del perché del nome, parte in quarta (preparatevi anche per il rosso) con una spiegazione che è una favola sensuale. Diana ha un modo semplice di raccontare le cose che sembra essere quello del racconto di una avventura per i suoi figli. La sua voce riesce a portarti indietro nel tempo.
Quello che abbiamo voluto fare è produrre prodotti artigianali e di qualità ma soprattutto (perché siamo innamorati del territorio) raccontare la storia del territorio. Siamo appassionati di storia e delle nostre radici. Della popolazione di Brentonico. Ci siamo prefissati con ogni prodotto di raccontare una storia del vitigno e del paese. Cronil è una parete rocciosa a strapiombo sopra l’abitacolo di Santa Cecilia. Prossimo ai vigneti da dove proviene l’uva. Questo posto è stato molto importante perché nel 1703 vi si rifugiarono gli abitanti del borgo di Crosano per sfuggire dell’esercito francese del generale Vendôme (l’invasione del Trentino si inserisce nella Guerra di Secessione spagnola ndr).
Cronil è l’unico posto dove nasce e cresce spontaneamente il prezzemolo. Forse per via delle sementi che portarono quelle persone. L’ultima volta che l’abbiamo visitato, abbiamo deciso di mettere in etichetta la tria (il tris, ndr) perché incisa sulla roccia che da sullo strapiombo: le persone passavano le giornate a giocare alla tria. Ci è venuto in mente il periodo trascorso in casa nel 2020 e l’unico nostro svago era buttarsi sull’azienda agricola. Il collegamento con loro che erano in questo angusto spazio non avendo altro della tria per passare le giornate è stato immediato. Insomma, la tria come auspicio di ritorno alla libertà!
Sono dei geni. Davvero bravi. Se il lockdown ha generato queste idee, è servito a qualcosa!
La vendemmia, manco a dirla, manuale con rese sui 70 quintali. Due vigneti di 7 anni e 40 anni. Pre-vendemmia per base spumante (la novità in arrivo…). Poi massima maturazione e blend tra i due vigneti. Pressatura soffice. 70% in acciaio resto in barrique di secondo passaggio di media tostatura.
Utilizzamo un tappo di Nomacorc. Nuova tecnologia con barbabietola da zucchero. L’azienda non emette co2. Ha una microossigenazione controllata. Non saprà mai di tappo. Nessuna alterazione.
L’animo ambientalista anche nelle piccole cose.
Il risultato è un vino che recepisce la freschezza dal vigneto giovane e la complessità e struttura dal più vecchio.
Al naso ci sono certo frutta e fiori, ma ciò che piace di più è la sapidità. Una spiccatissima mineralità che si lega ai sentori di camomilla viranti verso il miele. Viene fuori la pera, la mela, la nota di pompelmo nonché la pietra focaia che emerge prepotente. Una grande finezza ancorché non particolarmente complesso, cosa questa che rende il prodotto estremamente bevibile.
Volevamo fare prodotti adatti a momenti conviviali. Bella beva, estivo, fresco. Come per il rosso. La semplicità fa la differenza.
Non è un vino né estremamente fresco né particolarmente verticale. È caldo e morbido, di quella morbidezza che solo le vecchie viti sanno dare. Ha un ritorno retro olfattivo tenue. Persistenza buona. Spicca anche in bocca la sapidità. Bocca che chiude decisamente bene. Risulta alla fine un vino facilmente abbinabile che si lascia bere anche da solo per la sua estrema piacevolezza. Il finale, che tende ad andare verso l’amaro senza mai arrivarci, lo rende ben abbinabile con un semplice pesce (di mare). Schietto, diretto. Bel prodotto. Bella immediatezza.
Proviamo il rosso 2021, Galee.
Anche questa è una storia straordinaria del nostro territorio raccontata attraverso l’ancora di galea veneziana in etichetta ritrovata al largo del Lago di Garda. È la storia della “Gales per montes”, una impresa compiuta da persone ed animali del territorio nel 1439 e voluta dalla Serenissima Venezia, con l’obiettivo di liberare Brescia dal dominio milanese: l’unica strada libera da Venezia per arrivare a Brescia era l’Adige!! Percorsero l’Adige per Verona risalendo fino all’abitato di Marco vicino Rovereto. Qui si fermarono per creare una strada che li conducesse aldilà dei monti fino al Garda. Abbatterono case e alberi per realizzare una via sulla quale far scivolare, su grossi tronchi, le imbarcazioni trainandole con tutto ciò che era possibile. Raggiunsero il Lago di Loppio (prosciugato negli anni 50), rimisero le imbarcazioni in acqua fino ad Nago. Da qui le Galee vennero trainate su per il monte per poi farle scendere verso il Lago di Garda spiegando le vele e usando l’Ora (il vento che spira da sud verso nord e che tanto bene fa alle vigne, ndr). Da Torbole salparono per Desenzano riuscendo a rifornire Brescia che riuscì così a resistere un altro anno. L’anno seguente, la Serenissima volle ripetere l’impresa smontando però stavolta le navi a Venezia per rimontarle nel porto di Torbole. Le successive battaglie condussero alla vittoria sul Ducato di Milano. C’è un dipinto (di Tintoretto, ndr) che raffigura questa battaglia all’interno di Palazzo Ducale a Venezia. Una impresa alla pari di quella di Annibale!
Bella la storia e bella l’idea di realizzare un “vino da sete” ovvero un prodotto che potesse in qualche modo somigliare al vino che bevevano le persone che trainarono le navi, il nettare per darsi forza. Insomma qualcosa di meno raffinato e “pesante” di un Lagrein.
Loro non potevano bere un vino pesante. Dovevano bere qualcosa di fresco che desse energia.
80% Lagrein, 20% Rossara. Blend in acciaio per il 60% ed il restante barrique di secondo/terzo passaggio per 9 mesi. Lagrein coltivato a 350metri di altitudine; la Rossara, che maturerebbe prima, a 470metri così da bilanciare le maturazioni. Terreni, profondi, calcaree con depositi sabbiosi. In bottiglia per almeno 4 mesi.
Nel calice i sentori appaiono vivi e schietti. Fiori e frutta la fanno da protagonisti esprimendo a pieno il territorio. La frutta nera ancora non matura come mora, ribes, prugna lo rendono quasi civettuolo. Non mi aspetto una estrema morbidezza al sorso. C’è una interessante nota mentolata e di liquirizia che fa capolino insieme a del balsamico, al sottobosco, alle spezie dolci e al pepe: complessità non eccessiva ma tanta immediatezza. Il colore rubino con riflesso porpora indica la possibilità di maggiore affinamento (in fondo è solo un 2021).
Al sorso è fresco, secco, non particolarmente caldo, sapido. Decisamente sapido! I tannini non sono aggressivi. Leggera punta di amaro verso la fine che aiuta l’abbinamento con piatti tipici tipo polenta e capriolo o una merenda con speck e formaggi.
È stato tutto studiato perché facciamo anche una piccola quantità di farina per la polenta. Farina super integrale. Molto saporita con sementi di mais antichi dei quali non sappiamo nemmeno la provenienza. Ce li ha tramandati il nonno. Li abbiamo sempre utilizzati per autoconsumo. Coltivati a dieci metri da qui
Qui tutto è artigianale. Poche bottiglie prodotte (1500 bottiglie di bianco e 2000 di rosso) con lo Chardonnay prodotto tramite lieviti selezionati, il rosso senza alcuna aggiunta.
Miracoli in cantina non si possono fare ma c’è cura nella vigna da parte di mio marito e mio suocero.
Diana e Giacomo non sono due persone che se ne stanno ferme. Dinamiche, molto attive. Hanno sempre qualcosa su cui ragionare.
Piano piano siamo cresciuti. Prossimi alla quarta vendemmia, vediamo che il magazzino si svuota. I feedback sono positivi. Adesso c’è una piccola novità
Adesso sembra che sono incinta
Il prossimo anno usciremo con il primo metodo classico. Abbiamo terminato da poco il luogo dove fa l’affinamento: una grotta in campagna che ha umidità e temperatura sempre costante. Farà tre anni di affinamento sui lieviti. Uve chardonnay
In questi luoghi dove camminando tra i vigneti si vedono paesaggi degni di un film, dove si trovano fossili resti di epoche geologiche passate, dove il terreno cambia metro dopo metro, Diana e Giacomo hanno trovato il loro luogo ideale. Un luogo che custodisce la loro vita e quella dei loro figli. Un luogo che vogliono e devono preservare e valorizzare.
Per noi l’agricoltura non può che essere sostenibile. Fa parte di noi.
Basta venire per vedere il numero di coccinelle che ci sono qui.
Continuereste a far vivere i figli qui?
Siamo contenti che i figli crescano qui perché qui abbiamo tutto. Qui è più difficile dunque danno più importanza alle cose. Domani vorremmo solo che diventino cittadini del mondo. Qui le radici poi chi lo sa.
Due destini che si sono uniti. Due destini diventati oggi quattro. Una famiglia. Il loro sogno. La voglia di emergere. La passione per il territorio. L’amore per le cose. Il senso di appartenenza. La necessità di fare bene. La ricerca della serenità. Lo sguardo sempre rivolto al futuro. Il sorriso. La positività. Due meravigliosi vini (che presto cresceranno come numero).
Ecco, questo è Sondelaite. Questo Diana, Giacomo e i loro figli. Una famiglia.
Un grande, immenso, in bocca al lupo.