04 Ott 2024
Dario Sciuto. Manciaciumi: alla fine (o all’inizio), l’Etna
Ci sono espressioni dialettali che in un mondo politically correct sono totalmente bandite. Si usano magari sottovoce, al bar, tra amici. Ma se qualcuno le cita in contesti meno confidenziali, suscitano sdegno, disapprovazione, rigetto. La mia speranza è che non tramontino mai e non già perché offensive, ma perché, spesso, hanno una etimologia che nulla a che vedere con la discriminazione, l’offesa o la denigrazione hanno.
Una di queste è “pepe ar culo” detta alla romanesca maniera. Tradotta letteralmente vuol dire mettere del pepe all’interno dell’ano. Non si tratta però di una pratica omofoba ne tantomeno di una cura naturale o di una pratica di tortura. È un antico modo di dire, derivante dall’effetto che potrebbe provocare effettuare fisicamente l’operazione, che sta a indicare una persona dinamica, eclettica, sempre in movimento, sempre con la frenesia del dover fare qualcosa.
Nella meravigliosa e variegata bellezza tutta italiana, quello che a Roma sa di greve e volgare, assume, in altre località e altri dialetti, forma più criptica ma anche orecchiabile.
È il caso del Veneto dove il prurito è la spisa o della Calabria dove è Mangiasumi. Singolare quest’ultimo perché varcando lo stretto e approdando in Sicilia, diventa Manciaciumi, una parola che deriva dal verbo mangiare. Perché chi lo ha, vuole mangiarsi il mondo intero.
Sono un ragazzo catanese nato e cresciuto a San Giovanni la Punta. Nato in montagna perché l’ho sempre frequentata fin da bambino. Sciavo da piccolo. Tormenta era l’ingiuria di mio nonno che negli anni 40 con un gruppo di pionieri iniziò a sciare sull’Etna quando ancora non c’erano gli impianti. Prese questa ingiuria perché sciava con la giacca aperta cosi da sembrare una tormenta.
Terra e mare in queste zone.
Dario Sciuto ha 35 anni. È lui che ha il manciaciumi. E proprio perché ce l’ha, ha voluto chiamare così l’azienda creata con altri due soci, Giovanni e Leonardo, Manciaciumi. Nomen Omen si direbbe. Si direbbe bene visto come Dario è arrivato fin qui attraverso una storia di viaggi, di lavori, di sperimentazioni, di sfide, di scommesse, di rinunce, di sacrifici, di valori. Ma anche di libertà.
Prima di andare avanti tolgo al lettore il dubbio del termine “ingiuria”. Non è che il nonno di Dario venisse ingiuriato nel senso di offeso. L’ingiuria in siciliano è il soprannome. Quello che tutti hanno e guai a non averlo!
Mi sono laureato in economia per poi iniziare uno stage in uno studio di commercialista alla fine del quale il titolare mi propose di rimanere. L’ho guardato e gli risposti che obiettivamente preferivo andare a lavare i piatti. Così è stato e sono partito per l’Australia iniziando a lavorare proprio nella ristorazione. Ho fatto di tutto: lavapiatti, aiuto cuoco, bar tender.
Vedere una terra come turisti non è come viverla nella quotidianità. La Sicilia, Catania, l’Etna. Come non rimanere stregati. Colori, sapori, odori. Ogni cosa è speciale. Unico. Irripetibile. Irriproducibile.
Viverci è altra cosa. Quando certe cose le hai dentro, nel sangue, puoi avere due approcci: te ne stai “ammucciato” come dicono da queste parti ovvero ti accontenti di quello che hai perché lo apprezzi o non ti va di fare altro oppure vai via alla scoperta del mondo. Ammucciato contro Manciaciumi insomma.
Dario, manco a dirlo, non se ne può stare fermo.
Quando sei giovane hai la spinta per andar via. Vedi tutto il negativo. Tutta la ristrettezza senza avere l’ampiezza di veduta che hai se viaggi. Non vedi ciò che di bello c’è perché ci sei cresciuto. Il mare e la montagna. La natura, il verde. Non le apprezzi. Penso di essere quello che sono perché ho il sangue etneo ma soprattutto perché ho avuto la fortuna di viaggiare.
Questa è una grande verità. Solo se hai vissuto altro puoi apprezzare ciò che hai. Ne vedi le differenze. Ne cogli l’essenza. Ma dai viaggi ti porti dietro sempre qualcosa. Che poi alla fine è quanto ti distingue nella vita.
Sono stato a Sidney quasi due anni. Li ho fatto la prima esperienza in un birrificio che alternavo al lavoro di base. In birreria non mi pagavano.
Quando parlo con Dario capisco che è un ragazzo semplice. Non si atteggia. Parla con il sorriso e la serenità dell’animo di chi è in pace con se stesso. Pur avendo vissuto anni all’estero la “calata” catanese non l’ha persa. Anche se non quella tipica del centro.
Un ragazzo ammirevole Dario. Una laurea in tasca. Un lavoro sicuro all’orizzonte. Una famiglia. Gli amici. Una terra meravigliosa. Eppure parte e non già con un approdo sicuro, un lavoro, un contratto, una casa. Parte per l’altra parte del mondo. Quasi 24 ore di volo (con scalo). Parte. Sarà per quel suo manciaciumi. Sarà perché la Sicilia gli sta stretta. Ma parte. Senza sapere cosa troverà e senza sapere di che camperà.
Le esperienze. Sono quelle che segnano la vita delle persone. Positive o negative che siano, segnano come rughe sul viso. Puoi valorizzarle o cancellarle. Usarle in modo positivo o negativo. Ma sono dentro. Nel sangue.
La passione per la birra partiva dal mio corso di laurea dove avevo iniziato a fare la birra in casa con un poco di amici. In Australia mi dissero che serviva un tecnico ma non potevano pagarmi. Questa esperienza mi ha spinto poi a iscrivermi all’Università di Scienze Gastronomiche a Pollenzo. Facevo un apprendistato per mastri birrai. Qui il primo approccio con Slow Food. Ero orientato all’impatto dei trattamenti sul cibo ecc.
Da studenti si fa di tutto per far baldoria e stare con gli amici. Un periodo meraviglioso della vita di un ragazzo che si inserisce in quel pezzo di curriculum non visibile ma presente. Dario fa la birra a casa. Un modo per fare qualcosa di diverso e cimentarsi in una attività. Vallo a sapere che poi quello che è un gioco potrebbe tornare utile. Strana, stranissima la vita. Ti laurei in Economia e Commercio, parti per l’Australia senza arte ne parte e ti metti a lavorare in un ristorante e nel tempo libero, invece di riposarti, vai a lavorare in una birreria. Gratis.
Cosa gli vuoi dire ad un ragazzo del genere?
Il corso è stato molto breve. Circo un anno. Consisteva in sei mesi di stage in birrifici. Iniziai uno stage in Birra del Borgo inizio uno stage. Qui ho conosciuto Leonardo che oggi è uno dei soci di Manciaciumi. Mi ha buttato in mezzo in maniera esagerata e sono cresciuto in quell’ambiente portando avanti progetti per lui che mi hanno formato. Dal punto di vista di cantina.
Ricapitoliamo. Dario si laurea a Catania, parte per l’Australia dove sta tre anni. Torna per fare l’università a Pollenzo (dopo un anno di giri nel mondo). Esegue lo stage in Birra del Borgo dove inizia a lavorare. Beh direte voi, il prurito sarà un pò scomparso. Ma quando mai!!
Borgo viene acquisito da AB-Inbev e pensavo di mollare perché non volevo lavorare per una multinazionale. In realtà mi arrivò una proposta proprio loro di diventare innovation brewer e direttore di produzione in Asia. Accettai ma dopo un pò mi resi conto che per me era un pò troppo. Non mi piacevano ì meccanismi industriali. I metodi insomma.
Mi licenzio e accetto l’offerta di diventare mastro birraio in una società di Singapore. Torno a casa per le vacanza e arriva il covid. Resto bloccato nel peggior posto al mondo nel quale potevo trovarmi in quel momento.
Il viaggio di Dario dopo essere passato per l’Asia ha uno stop forzato nella sua terra dalla quale era scappato e se ne trovava invece prigioniero. Il Covid non conosce pruriti. A casa dei genitori che era andato a trovare, con il fratello che non vede da un anno.
Ma secondo voi, uno che il prurito ce l’ha endemico, può mai rimanere fermo? Mai!
Con dei vecchi amici, uno dei quali uno è uno dei miei attuali soci (Giovanni Nicita), decidiamo di prendere in gestione una vecchia vigna a Nicolosi. Avevamo in gestione, che poi non avevamo in gestione ma c’era una stretta di mano, anzi neanche perché c’erano le zone rosse. Una stretta di mano virtuale. “Andate in vigna perché noi non ci andiamo più e non è stato nemmeno potata”. Principalmente era un podere di circa 6 ettari. La colata lavica che nel 600 distrusse Catania tagliò questi sei ettari in una lingua dei vigna da circa 1.8 ettari. Alberello, piede franco. Almeno il primo mezz’ettaro in alto. Da li ci siamo trovati un muro d’uva.
Eravamo in tanti i ragazzi che rientrando rimasero bloccati in Sicilia. Tutti con la terra. Questo Covid qualcosa di buono ce lo ha lasciato e ci ha fatto trovare il tempo per noi stessi. Facevamo tremila e cinquecento bottiglie.
Quanto è strana e meravigliosa la vita. Ogni volta che ho la fortuna di catturare queste storie mi sembra di essere come i personaggi di un cartone animato che guardò con mia figlia: Gli acchiappagiochi. Si tratta di una serie di personaggi di fantasia che viaggiano di pianeta in pianete alla ricerca di nuovi giochi. Quando li trovano, oltre a provarli con gli abitanti del luogo, portano indietro il ricordo che poi custodiscono in una sfera di cristallo, la giocosfera. Ogni sfera un gioco. Ogni storia una sfera.
Avevo accettato in Asia una offerta importante, uno sviluppo personale interessante. Il covid è stata una batosta per il dover rinunciare a tutto e rimanere bloccato a casa. Il rimettersi in gioco è stato un momento di pancia. I miei genitori mi hanno appoggiato. La madre del sud quando le dicevo che volevo andare a fare il maestro birraio era un pò perplessa. Ma non ha mai fatto mancare l’appoggio.
In ogni modo, finisce il covid e i sogni si scontrano con la realtà. Il passatempo del lockdown non può certo essere un lavoro. Tremila e cinquecento bottiglie e della birra (fanno pure quella i ragazzi) non consentono di vivere. Anche perché ognuno ritorna al proprio lavoro. Non Dario che di tornare a Singapore non ha voglia.
Riprendo a lavorare per i vecchi proprietari del Borgo che ora sono in Masseria la Cattiva. Con loro passo tre anni stupendi. Li porto qui e si innamorano di questo posto. Nel 2022 sono loro stessi che mi spingono a riprendere. L’aiuto che loro offrono si trasforma in una partecipazione societaria che aiuta a liquidare la parte di soci che non voleva continuare.
Catania, Sidney, Pollenzo, Singapore, Seul, Catania, Turi (Bari). Il tutto in meno di dieci anni. Lavorando e reinventandosi ogni volta fino a diventare vignaiolo. Poi uno dice che i ragazzi non vogliono fare nulla. Certo, non tutti. Non Dario certamente. Ma che non si pensi che adesso, con i soci, sia tutto più semplice.
I vini del 2022 sono stati vinificati in Puglia. Portavo le uve in Puglia. Ho fatto due viaggi. Due viaggi anche quest’anno. È stato l’ultimo anno di questo gioco un pò matto. Venivo la mattina in vigna con il furgone, vendemmiavo, caricavo il furgone, guidavo sei ore e la mattina lavoravo le uve. Arrivavo con quei trenta quintali. Dopo una settimana raccoglievo le uve più in alto. Una follia ma necessaria dal punto di vista degli investimenti. Per capire se il mercato c’era e se eravamo capire se eravamo capaci.
Toh guarda il ragazzo. Umiltà? Necessità? Passione? Di tuto un pò. Di certo Dario non è uno che se ne sta con le mani in mano (manciaciumi…) e le sue esperienze manageriali e industriali, i viaggi, le lingue, sono bagaglio di esperienza. Ma poi si rimbocca le maniche e via.
La vigna prese nel 2020 non ci sono più. Nel 2022 il fervore della nuova iniziativa porta nuove vigne ad Adrano prima e Linguaglossa poi. Tre ettari e mezzo in totale a Nerello Mascalese, Nerello Cappuccio, Grenache, Carricante, Minnella. Piante di 75 anni. Alcune a piede franco. Questa è l’Etna. Questi i territori meravigliosi e al tempo stesso difficili.
L’Etna è un costante ciclo di morte e di vita. Il vulcano è vita e come la vita c’è una nascita e una morte. Dalla morte c’è una nascita. La colata lavica distrugge tutto: brucia, calpesta, inghiotte. Ma poi si solidifica e la ricchezza che proviene dalle viscere della terra, diventa nutrimento per le piante. La fertilità e la ricchezza queste terre si scontra con la difficoltà nel lavorarle. Ciò che si ottiene però è unico. A cosa serve apportare qualcosa dall’esterno se già la natura ti da tutto?
Questo è un territorio che non ha mai avuto bisogno di esagerati trattamenti. Si faceva solo un pò di rame. È un terreno molto fertile e resistente. La mia filosofia di vino passa attraverso il mio percorso. Ho una idea di cibo molto fondamentalista. Essendo stato un produttore da tanti anni mi sento in difficoltà nel mettere additivi in ciò che mangio e bevo. Fare tutto con il miglior aiuto possibile lasciando che l’ecosistema agisca da solo. Evitare di mangiare veleno. Mettere qualcosa di strano in caldaia era inaccettabile e se lo facevo era perché c’era qualche mancanza. Ma se lavori con scienza e conoscenza non serve. Non sono un fan di ancestralità e lune. Toccherà vedere se avrò ragione negli anni.
Il rapporto con il vino di Dario non può che iniziare da bambino. Nella vigna di nonno Tormenta. Poi la fuga e il rientro senza rinnegare nulla.
La laurea è stato comunque importante perché mi sta servendo come Dario imprenditore. Lavorare all’aria aperta è stupendo. Ho vissuto tante metropoli: Shangai, Seul, Roma, Sidney. Mi ero rotto di star chiuso in un ufficio come una sardina. Ho valorizzato altre cose. Stare più su qualcosa a dimensione uomo. La vita della città mi è risultata tossica. Ma ci vuole coraggio. Sono ancora ad un decimo di questo percorso. devo equilibrarmi continuando a viaggiare.
Il passaggio da birra a vino può sembrare strano. Eppure le esperienze, quando le metabolizzi (e allora si che sono servite a qualcosa), portano i suoi frutti.
Essere mastro birraio vuol dire da te dipende la qualità del prodotto finale. La pulizia di ogni cosa che entra in contatto con gli ingredienti del processo di produzione è fondamentale. Errori non sono consentiti. Quando impari questo e poi lo riporti nel mondo del vino (che su questo deve ancora fare passi importanti) ti torna certamente utile. Così come l’utilizzo della tecnologia che c’è e va usata con sapienza. In questo modo ci si deve concentrare solo sul campo: la vigna e l’uva. È li che si gioca la partita.
Sono a zero di solfororsa ma sempre sotto i venti di libera. Ho riportato le procedure birraie in cantina a livello di pulizia, contatto con l’ossigeno. Usare tecnologia e non additivi. La pulizia dei serbatoi con le metodologie della birra dove è più facile infettare visto il grado alcolico più basso.
Questo approccio ti consente, se la uva è sana, di non usare alcun stabilizzante perché non hai alcuna problematica. Guardo la pianta e l’uva e se è tutto sano e se sono estremamente pulito in cantina, non avrò bisogno di alcuna aggiunta. Per i nutrienti, se faccio un buon lavoro in vigna non dovrò aggiungere nulla in fermentazione.
Semplice come bere un bicchiere di acqua. O di birra. O di vino!
Un approccio questo che sfata anche un altro mito, quello del dover avere la cantina prossima al vigneto per non stressare l’uva.
Premesso che molti fanno riposare l’uva per vari motivi, trasportarla su un furgone non refrigerato in un viaggio di sei ore, farebbe drizzare i peli ai puristi. Eppure, sanificano cassette e furgone, caricando poco le cassette stesse e raccogliendo l’uva sana, in che modo si stresserebbe il prodotto? Nessuno appunto. Tanto che i vini non ne risentono affatto.
I vini. Ho avuto la fortuna di assaggiare due vini della produzione di Manciaciumi: Malpelo e Tormenta. Fortuna e sottolineo fortuna per due motivi. Il primo è che la produzione (annata 2022) era molto limitata tanto da produrre 2830 bottiglie di Malpelo e 523 di Tormenta. Il secondo è perché la filosofia di Dario, quella che considera i suoi vini “puro succo d’uva” non è un mero slogan ma realtà. Malpelo e Tormenta sono due vini eccezionali. Due creazioni ottenute senza aggiungere nulla a ciò che la terra riesce a produrre.
Malpelo è il blend di Nerello Mascalese, Nerello Cappuccio e Alicante. Lo versi nel calice, lo vedi di un bellissimo color rubino e ti chiedi come sia stato pulito. Quando ricordi che non c’è stata alcuna operazione ma semplici travasi, le parole legate alla filosofia di Dario, riecheggiano prepotenti. Al naso non ci sono infrastrutture da tostarure e spezie ma semplici sentori di frutta matura (ciliegie, prugna, arance) e fiori (viola e peonia). Poi un interessantissimo sottobosco e un intrigante balsamico. Ogni sentore richiama l’Etna e la Sicilia: sole e montagna che si uniscono.
Il sorso è un equilibrio dinamico tra imponente freschezza e maestosa morbidezza. Tannini ben presenti sui quali sembra essere intervenuto il sole a sedare. La frutta che torna ad invadere la bocca senza essere invadendo donando una bocca pulita ma dopo una lunga persistenza. Non particolarmente corposo.
Insomma, questo vino si identifica davvero con Idda, l’Etna: dall’esterno può sembrare una semplice montagna ma all suo interno custodisce la vera forza. Che ogni tanto rivela.
Tormenta, il vino dedicato al nonno, è blend dei due Nerelli Mascalese e Cappuccio. Se Malpelo meraviglia per la pulizia ottenuta senza niente, Tormenta esalta. Nel calice è stupendo, vivo, scarico di colore, granata che sta diventando aranciato. Incredibile! Fine. Tanto fine nel colore tanto fine nei sentori: delicati e tenui di ciliegia, scorsa di arancia, fiori rossi. Il leggero sottobosco e il velo di balsamico continuano a ricordare che è dall’Etna che arriva.
In bocca è meraviglioso. Lo assaggio, lo riassaggio e la sensazione è quella. Poi capisco cosa mi fa venire in mente: la mano di mio nonno che mi accarezza. Sento il calore e l’affetto che mi trasmette la sua mano. Sento la rugosità di una mano che ne ha viste di lune. Ma non mi da fastidio, anzi, mi trasmette ancora di più l’amore. I frutti si amalgamano, la freschezza si fa sentire, la persistenza è buona, il finale è memorabile. Un senso di benessere mi assale e mi porta nei meandri della mente. Questo è un vino che si deve bere senza nulla di accompagnamento. Porta all’estasi anche cosi.
Il manciaciumi non ti lascia per tutta la vita. È come essere portatori sani di un gene. Te ne fai una ragione senza mai pensare che qualcosa andrà storto. Perché pure se così fosse, qualcosa da fare la si trova sempre.
Dario e i suoi soci hanno bene in mente cosa fare nel futuro. Arrivare alle 40.000 bottiglie per poter avere la giusta sostenibilità. La cantina, la ricezione, un pò di stanze. Tutto programmato. Alla maniera di Dario.
Un piano fatto su una tovaglietta di ristorante. In un pub. Davanti ad una birra. Quella che facevo io. Dovrò metterlo su excel.
Con la resa bassa imposta da Dario sarà un bella sfida. Già perché se si vuole puntare e ottenere il massimo della qualità in vigna stressando meno il terreno, le rese non possono che essere basse. L’approccio al vino, quello che non vuole aggiunte e solo fermentazioni spontanee, porta con se anche tanta sperimentazione e divertimento.
Al momento le etichette fisse sono Malpelo e Tormenta. Ci sarà un rosato che lo scorso anno era Saro. Dal 2020 ci portiamo dietro un bianco, Sindrome, da Carricante e Minnella che faceva 8 giorni di macerazione e sei mesi di tonneau scarico. Poi divertimento. Vorrei interpretare quello che mi da l’annata e la terra. Lavorando in un certo modo non c’è la standardizzazione. Magari c’è spazio per una bolla o un rosato. Occorrerà leggere tra le righe. Di base cinque etichette e poi divertirsi con le annate e nuove collaborazioni. Nel 2022 abbiamo fatto un bianco con uve etnee e pugliese. Mi spaventava per approccio e per vendite ma è uscito bene.
Chiedere a Dario come si vede tra venti anni non sortisce risposte. Ma c’era da aspettarselo da uno che ha il manciaciumi. Cosa vuoi che ne sappia se quello che sta facendo oggi può essere diverso da quello di domani. Però Dario sa che dalla vita vuole questo. L’aria aperta. Il contatto con la gente. La possibilità di sperimentare. Di fare qualcosa che sia legato alla sua terra. Produrre qualcosa di sano e non avvelenato.
Io vorrei che questa azienda facesse qualcosa di buono per il mio territorio e la mia gente. Per dimostrare che qualcosa di diverso c’è. Vorrei che l’azienda si allargasse per comunità e posti di lavoro. Ci vuole tanto lavoro che sono disposto a mettere ma ci vuole anche un pò di culo. Sto investendo tutto per fare in modo che questo succeda. Se mi sono sbagliato si ripartirà. Sono però sicuro che funzionerà. Qui è facile costruire un discorso del genere per via di un territorio unico. Non devo inventarmi nulla.
Dario Sciuto, trentacinque anni. Con Giovanni e Leonardo sono Manciaciumi. Sono ragazzi con tanta voglia di fare, tanta energia ma, soprattutto, tante idee, buone, per la testa. Loro sono la dimostrazione che qualcosa di buono nel futuro ci può essere. E sono sicuro, ci sarà.
Pensando comunque alla storia di Dario, mi vengono in mente le parole di una canzone di Franco Califano
E io che non escludo…il ritorno (e ritorno)
Come a dire che si commette un errore pensando che un grande amore si possa dimenticare mettendo chilometri nel mezzo. Prima o poi capita qualcosa che ti fa sobbalzare il cuore, o nascere un pensiero. Magari capita un ritorno.
Ivan Vellucci
ivan.vellucci@winetalesmagazine.com
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