20 Ott 2023
Suggestioni di Vino

Furnari: orgoglio, riscatto, giustizia

 

Quanto vanno di moda i vini siciliani. Tutti si vantano di conoscere i vari Nero d’Avola, il Grillo, l’Insolia, il Catarratto, il Marsala. Tutti a citare i vini dell’Etna, le meraviglie del Trapanese, la DOCG del Cerasuolo di Vittoria. Insomma si fa man bassa di vino siciliano grazie anche alle numerose cantine che sono sorte in Sicilia negli ultimi anni. E meno male dico io. Meno male che ci siamo arrivati fino a questo punto. Con ancora tanta ma tanta strada da fare per valorizzare una terra così unica e meravigliosa quale è la Sicilia. Isola, continente, nazione a parte. Chi lo sa. Chi può dirlo. Quando a Roma piove e fa freddo, in Sicilia si può fare il bagno. Se mangi un arancio della Sicilia sa di sole e caldo. Così come una pesca tabacchera. Solo qui trovi quelle vere. 

Terra strana la Sicilia. Ricca di tutto. Anche di contraddizioni. 

Pochi ricordano come era un tempo. Non parlo di centinaia di anni fa ma del dopoguerra. Gli anni del boom economico, della voglia di fare impresa, della ricostruzione. Il fermento che pervadeva l’Italia intera qui, in Sicilia, era solo un piccolo refolo di vento. Nulla di più. Si viveva ancora in maniera contadina e pochi avevano voglia di fare impresa. Facile e intuitivo pensare alla innominata Mafia, alla incuria dei governi nazionali e regionali, alla mentalità delle persone. 

Eppure, qualche persona che aveva voglia di rischiare e fare impresa, anche qui c’era. Qualche appunto. Perché fare impresa in Sicilia nel dopoguerra era complicato. Parecchio complicato. Se poi volevi farla nel campo del vino, era più che parecchio complicato. 

Il vino siciliano, quello che oggi vediamo tutto bello imbottigliato ed etichettato, prima non c’era. Il vino si produceva per essere esportato come vino da taglio. O al massimo venduto sfuso.

Chi poteva essere il pazzo che andava a metter su una azienda vinicola per vendere il vino imbottigliato?

Francesco Furnari. Ecco come si chiamava uno di quei pazzi, visionari imprenditori. Lui e pochi altri le cui bottiglie oggi sono in vendita come oggetti da collezione.

Tempo fa lo zio di mia moglie mi disse di aver trovato in cantina una serie di bottiglie storiche degli anni 60 e 70. Voleva venderle e chiedeva una possibile valutazione. Una volta invitatemi le foto capisco che si trattava di oggetti da collezione. Non bevibili ma comunque con un minimo valore da collezionisti. Erano le bottiglie del vino Corvo dei Duca di Salaparuta che insieme ai Florio rappresentavano due delle poche realtà siciliane.

Francesco Furnari era un imprenditore che, partendo da Piazza Armerina, lo splendido paese vicino Enna famoso per i suoi mosaici, creò una azienda vinicola con l’ambizione di vedere le proprie bottiglie sui tavoli dei più importanti ristoranti del mondo. Un prodotto di qualità insomma e non certo un vino da taglio benché mai sfuso.

Francesco era un ragazzo sveglio. Dovevi esserlo per forza in quegli anni dove per campare occorreva arrangiarsi senza appoggiarsi ai genitori. Sportivo di quelli seri (anelli, fondo scherma), politico attivo, aprì il suo primo magazzino per la vendita di birra e vino sfuso dopo la guerra.

Si sa come vanno queste cose. Inizi a vendere merce degli altri ed ad un certo punto ti chiedi: ma perché il vino non ce lo facciamo da noi?

Vigneti ce ne erano in quantità. Solo che per produrre vino, tranne quello di casa, non è che si fosse molto esperti. Francesco però osserva e prende quello che c’è. Che è tanta roba. Perché in quegli anni, le aziende del nord mendavano in Sicilia i propri enologi a comprare l’uva. Bastava agganciare uno per iniziare a collaborare. Detto fatto. Non rimane con le mani in mano però: ci sono da fare le ricerche ampelografiche per stabilire cosa trasformare e creare lo stabilimento produttivo. È così che nel 1962 nasce il primo vino nello stabilimento di Piazza Armerina. 

Tre le linee di prodotto create: Fleming, rosso con Calabrese (Nero d’Avola) e Nerello Cappuccio; un bianco da Catarratto, Insolia e Verdello; un rosato, vero fiore all’occhiello, da Nero d’Avola con vinificazione in bianco e frizzante per seguire la tendenza dell’epoca (vino questo anche più volte  premiato). C’erano poi anche vini di più facile beva e a prezzi ridotti. Tanto per completare la gamma. 

L’azienda, in poco tempo, crebbe molto grazie anche ai tanti premi ricevuti ed alle esportazioni in varie parti di Italia ed Europa. Giovani enologi che diventeranno poi famosi, come Franco Giacosa, si formano nella sua azienda.

Certo, imprenditoria e politica non sono mai andati troppo a braccetto. Chiaro che Francesco non ricevette agevolazioni da questo connubio. Tutt’altro. Andò avanti lo stesso arrivando ad esportare i vini fino a New York.

Per fare questo dovette incontrare Frank Sinatra. A quel tempo occorreva il benestare di chi gestiva tutto. Andò male perché esportò dei container e a New York ma volevano in cambio delle cose che lui non poteva dare. Riuscì a tornare in Italia anche se in maniera rocambolesca.

Così Cristiano Furnari, nipote di Francesco, ricorda l’episodio. Così come ricorda di quando il nonno andò ad esportare il vino anche in Perù quando erano vietate le importazioni di alcolici. 

Fece un accordo con le autorità locali che gli diedero le chiavi della città, lima. Fino a quando gli chiesero in cambio di esportare altro. Si rifiutò.

Difficile anche fuori dall’Italia fare impresa in quegli anni. Davvero complicato. 

Agli inizi degli anni 80 Francesco si ammala e non riesce più a seguire l’azienda che, purtroppo, cade in disgrazia. 

Mio padre era giovane (con due sorelle) e lavorava in cantina da quando aveva 10 anni. Mia nonna lo invogliò a cambiare vita e andare a studiare. Via dalla Sicilia. Era troppo pericolosa.

Con l’azienda in fallimento, i creditori che aleggiavano come avvoltoi, gli avversari politici e quanto altro si possa immaginare di peggio per rendere una permanenza pericolosa, quasi scontato il destino a cui Fabio, il papà di Cristiano fosse indirizzato: sul Continente. A Roma. 

Mio nonno aveva qualche ettaro di vigneto ma comprava l’uva. Tutte le terre sono andate perdute insieme allo stabilimento. Non abbiamo più possesso di niente perché quando nonno è morto, c’è stato un fallimento e fu svenduto tutto.

Il tempo passa e si tenta, si cerca di dimenticare. Ci prova soprattutto Fabio che dall’aiutare il padre in cantina si trova catapultato a Roma cambiando totalmente vita. 

Non ho conosciuto Fabio ma mi sarebbe davvero piaciuto molto. Impegnato nella cultura come cantautore, scrittore nonché titolare della casa editrice e discografica Terra Sommerse. Magari un giorno lo conoscerò e vorrò chiedergli quanto della canzone Mio Padre del suo album Cavalieri e soldati. Dal testo che ho ascoltato, uno struggente mix di amore e denuncia. Denuncia che emerge prepotente anche nella struggente prefazione “Il miracolo del vino” del libro di Fabio, Gasolio, scritta da Maurizio Prestifilippo.

In ogni modo, passa il tempo, inesorabile. Ma la storia rimane. Rimane nei ricordi tramandati ai nipoti di un tempo che fu: Francesco che vive a Bari, Alessandro in Sicilia, Cristiano a Roma.

L’idea alla base era recuperare una eredità morale e anche un sentimento di riscatto per una storia particolare. Con la consapevolezza che riprodurre una azienda come quella del nonno, anche per la sua enorme capacità imprenditoria, non poteva essere nei nostri obiettivi. 

Alessandro, Francesco, Cristiano decidono sedendosi attorno ad un tavolo, che il nome dei Furnari doveva tornare a stare sulla etichetta di un vino. 

Io me la immagino la scena di questi tre carusi che fantasticano di vino, di cantina, di vigna, di commercio. I racconti con protagonista nonno Francesco, quei racconti che si sentono fare da quando erano piccoli, adesso, possono trovare un minimo di realtà. Sentono in loro la possibilità di fare qualcosa. Così come immagino Fabio, che il vino lo ha fatto veramente insieme al padre, con gli occhi che gli brillano. Forse anche di commozione. 

Già, tutto bello. Ma l’azienda e il vino sono tutt’altra cosa che ricordi e volontà. I tre, che carusi non sono più, decidono di partire. È il 2018 e nasce (o rinasce), la Azienda Vinicola Furnari. Nasce la società ed è già un inizio (per mera cronaca ha sede legale non in Sicilia ma a Roma, negli stessi locali di Terre Sommerse). 

Occorre produrlo il vino però. Cosa non semplice senza vigne. 

I tre ragazzi sono ingegnosi e investono i successivi due anni nella implementazione di un piano ben preciso. 

In primo luogo la ricerca delle vigne. Se non puoi comprarle e non hai capacità e competenze, l’unica strada è trovare una azienda che produca uve della tipologie e qualità necessarie. Lo trovano a Butera, poco sopra Gela.

Non abbiamo dei vigneti di proprietà. Per ripartire abbiamo preferito appoggiarci ad un vignaiolo esperto del quale ci fidiamo e sappiamo come lavora. Ci conferisce le uve. Così siamo entrati gradualmente nel mercato. Dopo 35 anni è tutto cambiato. Necessità di ripartire da zero. 

Poi occorre capire che tipo di vino produrre. C’è certamente bisogno di un enologo. Qualcuno però che supporti nella rievocazione delle bottiglie del nonno in chiave moderna. Spazio dunque ai monovitigni che soppiantano i blend. 

Facciamo circa 10.000 bottiglie l’anno. Negli anni 70 ne faceva circa 200mila. Erano tante allora.

Abbiamo voluto ripartire da zero. Con umiltà. Facendo un passo per volta. Richiede tanto impegno e sacrificio. Bottiglie poche. Non ci si vive. 

Nascono così i tre vini della Furnari i cui nomi ricalcano e fanno rivivere quelli di nonno Francesco: il rosso da Nero d’Avola, Flaming; il Bianco di Lidia da Insolia; Velvety, il rosato da Nero d’Avola.

Sul mio blog ho recensito il Velvety, un vino con tutta la Sicilia dentro!

Ci siamo affidati all’enologo con l’idea del vitigno. Mio padre aveva conservato le trascrizioni delle ricette. Per delle cose sono cambiate per altre no. 

Volevamo fare il rosso in blend ma non siamo riusciti a trovare il Nerello Cappuccio. Adesso stiamo tentando di fare un rifermentato in bottiglia sulla base del nostro rosato. 

Francesco Furnari con Franco Giacosa

Tutte lavorazioni semplici. Solo poche bottiglie affinano in barrique. Gli esperimenti sull’insolia con una piccola percentuale di barrique ma non ci ha convinto.

Ora, potrebbe sembrare che questa sia l’opera di tre ragazzi che, ancorché animati da nobili sentimenti, vogliano gettarsi in una attività senza la propria anima. Rendendosi le cose più semplici possibili. Ma credetemi, non è così. I giovani non vanno mai sottovalutati. Perché oltre le idee, fantasiose o strampalate che siano, c’è tanto entusiasmo, tanta passione, tanto studio, tanta programmazione. 

Francesco, Cristiano, Alessandro (e metto dentro anche Fabio), fanno tutto in maniera estremamente intelligente. 

Anzitutto un business plan. Che per molti non vorrà dire nulla ma per chi ne sa un minimo di imprenditorialità è l’elemento senza il quale neanche si costituisce la società.

Poi c’è lo studio relativo agli aspetti che vano dalla coltivazione, alla cantina, alla commercializzazione. 

Abbiamo studiato molto. Io ho molto approfondito tanti aspetti. Il nostro vino viene dal lavoro di una persona che ci sta giorno e notte e la segue bene. Su indicazioni diverse abbiamo trovato chi soddisfaceva le nostre caratteristiche. I contatti ci hanno aiutato. Instradandoci bene. Ci è voluto un pò, quasi due anni per farsi bene una idea. 

Quindi c’è l’ascolto di chi ne sa più di loro a cominciare da papà Fabio.

Ci siamo appoggiati ad un enologo, Donato Lo Vecchio, che aveva curato anche Planeta e Settesoli. Poi ad un agronomo. Con i contatti ci sono state consigliate strade da prendere. Persone più esperte con le quali parlare.

Fabio Furnari

Infine la scelta del luogo e del partner agricolo cui affidarsi.

Siamo andati in un territorio come quello di Butera, vicino Caltanissetta. Vicino Piazza Armerina. Mio cugino vive li e mia nonna ha vissuto li.

Li c’erano i vignaioli di mio nonno che prendeva l’uva li tra Caltanissetta e Vittoria per il Nero d’Avola; Menfi e Alcamo per i bianchi. Siamo andati li perché cera un significato. Quei vitigni esprimono un significato.

Se uno vede le vigne di Butera se ne innamora. I terreni sono molto calcarei. Su sabbia bianca. Conferendo molta mineralità e sapidità.

Scelte precise e non certo improvvisate. Attente e ponderate riflessioni per ripartire con qualcosa che consentisse rischi non elevati e gradualità. Se non è una scelta intelligente questa!

Vorremmo andare in autonomia con una cantina totalmente nostra. Non tanto con le vigne perché ci manca tempo ed esperienza. Nulla toglie che se le cose andassero bene molliamo tutto e ci mettiamo a fare vino al 100 per cento. Sarebbe la mia massima aspirazione.

Tuo nonno cosa ne penserebbe di questo?

Non l’ho conosciuto purtroppo. Forse mio padre ti risponderebbe meglio. Era un altro contesto, un’altra testa. È stato geniale ma ha commesso degli errori per il suo sogno. Sarebbe comunque contento perché abbiamo ripreso questa attività. Magari troverebbe anche altre soluzioni. Noi, anche forti di quella esperienza, consapevoli, abbiamo fatto un’altra scelta.

Ecco, questa la storia di un sogno infranto. Questa la storia di chi, per senso di riscatto, rispetto e orgoglio (forse anche di giustizia) sta tentando una resurrezione. 

Non so come andrà a finire questa storia e cosa aspetterà i tre carusi (che carusi non sono più) tra qualche anno.

Spero solo di poter, un giorno, scrivere ancora di loro e di come siano riusciti ad onorare la memoria di nonno Francesco. Francesco Furnari.

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