I Chicchi, dove l’amore c’è
La Pontina, Strada Statale 148, collega Roma a Latina e prosegue poi per le località balneari di Sabaudia, San Felice Circeo, Terracina. Ogni mattina è percorsa dai pendolari che dalla pianura pontina vanno a Roma e dai romani che fanno il percorso contrario. L’avrò percorsa centinaia di volte in entrambe le direzioni, spesso, per evitare il tremendo traffico mattutino e del fine settimana, costretto ad uscire in quel di Ardea, piccolo paesino a pochi km da Roma. Questo per dire che non ho mai nutrito una grande stima per Ardea. Almeno fino a quando il caso non mi ha portato ad incontrare Enrico e Federica dell’azienda I Chicchi. Di Ardea appunto.
È proprio vero che “l’essenziale è invisibile agli occhi”. Pur percorrendo quella strada così tante volte non mi sono mai spinto un pelo più in là, quel tanto che sarebbe bastato per incontrare non solo due splendide persone ma anche per comprendere come qualcosa di buono, di tremendamente buono si possa fare anche in un luogo inaspettato.
Ardea dunque. La leggenda dice che venne fondata da Ardeas, figlio di Odisseo e Circe. La certezza invece è che da essa prese il nome la mitica vettura Lancia. Va beh sto divagando.
Qui il suolo è un incontro di argille marine e materiali eruttivi: siamo proprio a metà strada dal mare e dai vulcani spenti dei colli albani oggi laghi (Albano e Nemi). Colline non troppo impervie ed esposizioni giuste. Ecco, allora c’è da chiedersi: cosa c’è di meglio per produrre vino?
Enrico e Federica sono una di quelle coppie che quando le vedi capisci subito la sintonia che c’è tra loro. Sono due persone miti, di animo meraviglioso che quando li incontro la sensazione immediata è quella di conoscerli da sempre. Ci sono anche due cani che sembrano usciti da un cartone animato della Warner Bros chiamato “Pappy’s Puppy” dove Ettore, cane mastodontico, riceve dalla cicogna un piccolino che non fa altro che gironzolargli intorno.
Qui tutto è semplice e all’insegna della semplicità e della schiettezza. Ogni cosa è realizzata senza fronzoli, con la essenzialità di chi non ama sovrastrutture e artificiosità. Guardi Federica, guardi Enrico e capisci che hanno tutto ciò che serve. Amore incluso.
La loro è una storia non semplice. Enrico è nato qui vicino. Con i nonni che e la passione per la terra come per il vino.
Nonno Umberto aveva una sensibilità particolare per la terra e le piante. Possedeva un pescheto e coltivava la terra per vendere i suoi prodotti. Principalmente frutta.
Ricordo che quando ero piccolo aveva la vigna rossa ma lasciò solo un filaro di Malvasia e Cacchione per fasse il vino per casa.
Nonno Fausto aveva pure una bella cantina ma gli mancava la sensibilità di Umberto. Stava sempre a smucinare il vino.
Nonna gli diceva “che stai a fa co sto vino? Lo stai sempre a toccà. Così se snerva”. “Ma non me rompe li cojoni” rispondeva Fausto. Il vino comunque diventava imbevibile.
Nonno Umberto invece, con la sensibilità che si ritrovava faceva poco più di 300 litri di vino. Ed erano buoni nonostante li tenesse nello scantinato in mezzo all’olio del trattore e alle cose che gli servivano per lavorare
Veniva il vino perché lui era dolce. Come il suo vino.
Federica invece viene da una famiglia del nord trasferitasi qui in zona negli anni 70. Il papà che lavorava nelle acciaierie financo in Germania dove lei ha imparato il tedesco. Persone semplici. Vere. Di quelle che sanno cosa voglia dire sacrificio e lavoro.
La loro avventura enoica inizia nel 2011 quando comprano il terreno che impiantano nel 2013. Immediatamente biodinamico.
Ecco, biodinamico. Chi pensa che quello del biodinamico sia un mondo di persone esaltate, sbaglia di grosso. Tantomeno chi dice che si diventa biodinamici per scelta commerciale.
Quando conoscerete Enrico e Federica vi renderete conto che non è così. Si può essere biodinamici per il semplice pensare che la terra ci dà già tutto per produrre qualcosa di magico come il vino. Senza aggiungere null’altro. Così come non si ricercano certificazioni. Perché i timbri e la burocrazia servono per chi li vuole vendere non per chi ha la coscienza a posto.
Enrico ha fatto la scuola agraria. Non con tanta convinzione.
Al terzo e quarto mi hanno dato due materie. Forse perché quando si cominciava a parlare di concimi e veleni mi sono storto. In terzo iniziano le materie tecniche con i concimi, gli insetti e come ammazzarli. Mi sono disturbato e disamorato. Al quinto mi hanno dato sto 39, mi sono diplomato e poi mi sono laureato in scienze antropologiche.
“Mettece ‘na pezza” come dicono a Roma.
Enrico, pur da laureato, deve sbarcare il lunario. Lavora come giardiniere e anche così prova disturbo nel dare il veleno per le piante. Nel 2006 poi, l’illuminazione.
Sulla rivista Porthos n.26 c’era una intervista a Carlo Noro e lì mi si è accesa la lampadina. L’articolo mi fece nascere l’idea che qualcosa mi avevano nascosto durante gli studi.
Ciò che balena per la testa di Enrico è per lui dirompente. Come se nel corso degli studi gli avessero raccontato solo una parte della storia. Nel 2009/2010 segue i corsi di Carlo Noro e diventano amici. È l’inizio dell’avventura.
Faccio biodinamico da 13 anni. Non certifico nulla perché mi sono rotto le scatole della burocrazia. Ispettori biologici e Demeter. Non c’è bisogno di certificare. Venite a fare le analisi al terreno e all’uva.
Federica è sempre presente. Con il suo sorriso. La sua semplicità. Supporta Enrico in tutto. Si vede che non è solo una spalla. Gli sguardi sono quelli di due persone che sono una cosa sola. Mandano avanti loro l’azienda anche se Federica ha un lavoro. Perché le spese sono tante e non riescono altrimenti. Si percepisce un’aria meravigliosa come se ci fosse in giro tanto amore. Amici e parenti che li supportano nella vendemmia come se fosse una grande famiglia. In cantina poi li supporta Michele Lorenzetti della scuola di Carlo.
Assaggiamo i vini. Siamo noi tre e i due cani. Il più piccolo mi salta continuamente sulla gamba. Vuole giocare e giocare ancora. È tutto così meraviglioso.
Partiamo da Dimà, un bianco da Malvasia di Candia per un 95% e Trebbiano Toscano. Serviva una etichetta di uve bianche per generare un po’ di cash. Ma qui le uve devono essere quelle giuste e di giusta provenienza. Enrico ci tiene ed è inflessibile in questa. 23 giorni di fermentazione in cemento con le bucce più il 15% di grappoli interi. Torchiato e messo in vasca per tre/quattro travasi. Imbottigliato a metà giugno.
I sentori sono davvero interessanti tanto che appena si scalda un po’ il vino nel bicchiere, virano sul miele. Un vino tranquillo e semplice con fiori e frutta e sentori iodati che si beve bene anche senza aspettare che si raffreddi bene in frigo (anche perché tenderebbe ad appiattirsi). Secco, fresco, pulito. Con una bella pulizia di bocca e un finale lievemente ammandorlato. Da aperitivo con i suoi 11.5 gradi ma anche da “carbonara”: si sposa benissimo.
Proviamo Maros un rosato di Grenache che fa solo acciaio così da mantenere inalterati i sentori delle fragoline croccanti e delle ciliegie. C’è la rosa e la mineralità del suolo ma anche dell’influenza marina. Il sorso non può che rappresentare a pieno i sentori: c’è la freschezza, c’è la sapidità. È secco e caldo quanto basta ma soprattutto è avvolgente e pieno. Mi piace e già lo vedo per un aperitivo o per accompagnare un piatto di crostacei.
Enrico e Federica amano i rossi. Quando ne parlano gli occhi sono ancora più brillanti del solito. Due etichette con lo stesso uvaggio: Cabernet Franc e Sauvignon. Come in Borgogna. Anche per le rese visto che qui al massimo si arriva a 60 quintali per ettaro. Quando va bene. Altrimenti si è intorno ai 40!
Il primo dei due è l’Incastro 2021. Fermentazione in cemento con il 20% di grappoli interi: con il raspo insomma. Non ricorda la Borgona? Un vino giovane già dal colore e dai semplici e croccanti sentori vinosi così da essere piacevole anche in estate. Non è impegnativo neanche alla beva ancorché da abbinare per la presenza di tannini maturi ma decisi. Secco, caldo, sapido e dalla persistenza non elevatissima.
Enrico e Federica producono anche l’olio. Biodinamico ovviamente. Con delle bruschette i vini si accompagnano meglio.
I vini cambiano con l’annata. Ogni anno è diverso dall’altro e non sai come debba essere interpretata. Il bagaglio ci serve per interpretare le annate. Piano piano riusciremo ad andare da soli.
Con questa premessa non possiamo non assaggiare due annate del gioiello di casa: il Torrebruna.
Quando hai a che fare con una viticultura biodinamica che non ti permette alcun “aggiustamento”, le annate sono quelle che sono. La meraviglia è proprio questa: il vino rispecchia la natura e le caratteristiche che il tempo (meteorologico) dona. Le uniche licenze che ci si può permettere sono delle macerazioni più o meno lunghe o l’utilizzo di raspi. Poco altro.
Nel 2018 la fermentazione in cemento è durata 17/18 giorni con bucce e raspi. Poi dopo essere stato torchiato e ripulito è stato rimesso in cemento per dieci mesi e sei tra tonneau e barrique di secondo passaggio.
Avevo tonneau e barrique e li ho messi li.
Il colore è rubino impenetrabile e al naso si affaccia un ampio bouquet che fornisce una sensazione di morbidezza. Ed è strano visto che non l’annata non calda. La ciliegia che viene fuori prepotente, sembra quella che si sente quando si apre il vasetto della confettura: avvolgente. Sentori dolci come tabacco, vaniglia, chiodi di garofano arrivano puntuali. La bocca è coerente con l’olfatto. Secco, caldo, sapido con i tannini maturi e quasi eleganti. Si può quasi bersi senza accompagnamento poiché morbido ma non troppo. Un gran vino nonostante che si abbina bene anche con una pasta.
Il pubblico alle fiere si divide a metà tra la 17 e la 18. Nel 18 le piante erano inchiodate perché la peronospora bruciava i getti verdi e non si riuscivano a sintetizzare gli zuccheri. Abbiamo fatto la pre-vendemmia e ci abbiamo fatto un rosato
Assaggiamo quindi il Torrebruna 2017. L’annata calda, otto mesi di cemento e dieci di legno hanno donato a questo vino una profondità ed una intensità pazzesche. Al naso i sentori sono scuri e penetranti come se nel calice ci fosse tutta l’immensità del mare. Le differenze climatiche risultano particolarmente evidenti anche ai meno esperti. Vengono fuori le spezie, e le tostature, la macchia mediterranea, la frutta in confettura, i fiori in potpurri. Tutti i sentori sono corposi, masticabili. Anche al sorso c’è avvolgenza e armonicità con un tannino presente ma non aggressivo, particolare. La persistenza è lunga. Secco e caldo ovviamente. Fresco il giusto. Un vino che è viscerale, da camino e meditazione. Veramente interessante. Lo mangi con una carne arrosto, magari con prugne, ciliegie, castagne.
Andiamo in cantina ad assaggiare l’annata 2020 direttamente dalla botte: promette bene e va tenuta d’occhio.
I vini del Lazio sono stati a lungo derisi e bistrattati per motivi storici ma anche per una qualità oggettivamente non eccelsa. Tanta quantità, poca qualità. Tranne rari casi nel passato, più frequenti oggi. Realtà come I Chicchi rappresentano esempi da seguire per l’utilizzo di tecniche volte al rispetto dell’ecosistema nonché di vitigni nobili e complicati ma esemplificativi di come si possano produrre grandi vini in zone considerate non vocate.
Tutto questo però non sarebbe assolutamente possibile senza l’amore di persone come Enrico e Federica che vedono tutto ciò che è loro intorno con il cuore. Perché “Si vede bene solo con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.