29 Set 2023
Suggestioni di Vino

Tenute Santoro: come “Calabrisella” insegna

Tenute Santoro: come “Calabrisella” insegna

Jeu ti vitti ‘nsonnu e mi guardavi.
Se m’arrobbasti ‘u mègghiu muccaturi,
M’assasti ‘nta lu cori ‘u mègghiu hjuri.
Calabrisella mia, Calabrisella mia,
Calabrisella mia, rosa d’amuri.
Ora chi di la città jeu su’ tornatu,
Mi guardi e mi sorridi, malandrina:
Jeu dassarrìa ‘u meu dutturatu
Sulu pe’ avìri a ttia sempri vicina.
Se voi mu ‘nd’hai a mmia sempri vicina,
Non c’è bisognu ‘u dassi ‘u dutturatu:
Va’ e parla cu’ me’ patri e lu curatu,
Se no’ vattindi e non penzari a mmia.
Se chissu è amuri veru, se jè amuri puru,
Va’ e parla cu’ me’ patri e cu’ me’ mamma.
Jeu ti dugnu ‘u me’ cori e ‘a me’ fidi,
Jeu parlu cu’ to’ patri e cu’ to’ mamma
E tu ‘ngrata assai se no’ mi cridi
Calabrisella mia, chi canti e arridi.
Mègghiu ‘na contadina bona e fina,
Ca signurina bùrbara e sgarbata;
Mègghiu vedana bona e aggraziata
Ca ‘gnura superba e ‘mbelenata!
Calabrisella mia, Calabrisella mia,
Calabrisella mia, rosa d’amuri!

 

Ogni volta che mi approccio alla Calabria enoica, quasi per riflesso condizionato, parte nella mia mente il ritornello della canzone Calabrisella.

Calabrisella mia, Calabrisella mia,
Calabrisella mia, rosa d’amuri!

Me la facevano cantare in terza elementare. Non che avessi un maestro di origini calabresi (il mitico maestro Testa era di Santi Cosma e Damiano, lo stesso paese di papà) ma era una delle tante canzoni popolari che si cantavano. C’era “Vitti ‘Na Crozza”, “Ciuri Ciuri”. Così come le tante altre, ognuna a rappresentare di una regione italiana. Insomma, quello c’era all’epoca per cantare (parlo del 1978 se la memoria non mi inganna). Mica si cantavano le canzoni dell’estate come ora!

Mai come in questo caso però la trovo pertinente. Nella versione (ce ne sono tante…) cantata anche da Mino Reitano (all’anagrafe Beniamino da Fiumara, meno di 1000 anime a 20 km da Reggio Calabria) c’è un verso che racconta di come il ragazzo corteggiatore offre alla ragazza che sta corteggiando la rinuncia agli studi pur di starle vicino. Lei, immagino io con grande piglio, gli risponde che non serve abbandonare gli studi ma che vada dal prete e dal padre così da prenderla in sposa. Grande pragmatismo!

Mi guardi e mi sorridi, malandrina:
Jeu dassarrìa ‘u meu dutturatu
Sulu pe’ avìri a ttia sempri vicina.
Se voi mu ‘nd’hai a mmia sempri vicina,
Non c’è bisognu ‘u dassi ‘u dutturatu:
Va’ e parla cu’ me’ patri e lu curatu,
Se no’ vattindi e non penzari a mmia.


Si può abbandonare gli studi per tanti motivi tanto che nella canzone lo si offre come pegno d’amore. In questa storia invece, il nostro protagonista, Giuseppe Santoro, lascia gli studi universitari, a detta sua perché non era portato. Dall’idea che mi sono fatto durante la nostra chiacchierata, per amore della terra. Della sua terra.

Andiamo per ordine e cerchiamo di raccapezzarci un pochino.

Siamo a Cirò. Tra le montagne della Sila ed il meraviglioso mare calabrese che dista in linea d’aria meno di 3 km. Qui il vino si fa da migliaia di anni. Dai tempi dei Greci che sbarcarono su queste coste nell’VIII secolo a.C. Per la cronaca e, tanto per capire come qui il vino fosse cosa seria, a Cirò Marina venne costruito (sempre dai Greci) il Tempio dedicato a Bacco, il Dio del vino.

Ora, non per divagare ulteriormente, quando scrivo di queste cose e dei vini calabresi, oltre a Calabrisella mi prende anche un certo nervosismo. Si, proprio nervosismo perché la Calabria, oltre a poter vantare una storia vitivinicola millenaria, ha anche un territorio fantastico per la produzione dei vini. Vocato è dir poco.  Eppure, è forse la regione italiana meno conosciuta in ambito vinicolo. Dubito che sia conosciuta anche a livello geografico perché voglio vedere chi saprebbe dirmi in che provincia è Cirò.

Crotone! Anche se per omaggiare sempre gli antichi greci la provincia è Krotone, con la “K”. Poiché la storia (o leggenda) vuole che Eracle, avendo ucciso per errore il suo amico Kroton, decise di seppellirlo sulla sponda del torrente dove fece sorgere la città che prese proprio il nome dell’amico.

Ho divagato anche troppo.

Giuseppe Santoro è il titolare di Tenute Santoro, l’azienda di famiglia. Persona squisita e amabile. Di quelle che sanno quanto sia difficile fare questo mestiere ma che, nonostante ciò, non riescono a non sorridere e a capire che occorre far affidamento sulle proprie forze. Con la consapevolezza che ce la si può fare. Ecco, consapevolezza. La stessa che oggi fa dire a Giuseppe come occorra concentrarsi sulla promozione commerciale. Della sua azienda, dei suoi vini, del territorio. Saggezza e soprattutto voglia di guardare verso il futuro.

Dietro, a far da solide fondamenta, c’è la storia. Quella che ha portato lui e la sua famiglia fin dove è ora. Base per il futuro. Mica da buttare via.

Il mio bisnonno ha iniziato tutto. Prima di lui se c’era qualche altro questo non lo so. Nel 1850 lui è andato in America dove si facevano le ferrovie tutte a mano. Poi ha comprato 6 ettari qui e ha impiantato tutte vigne.

Se andaste a leggere sul sito internet trovereste scritto che fu il trisavolo Giuseppe Santoro a cominciare tutto e che oggi sono alla quinta generazione. Ora, facendo un po’ di calcoli, io mi fermerei al bisnonno. Quinta generazione, non so. Ah però c’è la figlia di Giuseppe. Allora ci sta!

Questo solo per dire quanto Giuseppe sia meravigliosamente spontaneo nelle sue cose. In fondo, non è importante se siamo alla quarta o alla quinta generazione. Ciò che conta è che Giuseppe ha preso il testimone dal padre e questi a sua volta dal padre fino ad arrivare al 1850. Lunga storia in Calabria. Storia di quando si emigrava in America a fare fortuna. E fortunati sono coloro che sono riusciti a tornare sani. O anche coloro che sono rimasti li a rappresentare la Patria.

Nel 1850 si faceva solo vino. Per casa ovviamente. Non si vendevano le uve. Dal 1960 in poi si è cominciato a vendere le uve senza vinificare. Le famiglie si facevano il vino in casa e il resto se lo vendevano. Poi si è iniziato a vinificare.

Le terre di famiglia passate attraverso i figli, i nipoti, gli zii. Un po’ di spezzatino come accade nelle famiglie. Specialmente quelle numerose. Fino a quando qualcuno non decide che è quello il mestiere che vuole fare. Vuole, non deve fare.

“I terreni si dividevano così. A mio padre è rimasto un ettaro. Poi mio zio gli ha venduto i suoi.

Capirai. Non a tutti va di gettare il sangue sulla terra. Per molti la terra non è né nobile né utile per vivere bene. È così che si svuotarono le campagne per riempire le città.

Ho iniziato a vinificare non per esigenza. Mi piaceva creare una cantina.

Una storia come tante altre si potrebbe dire. Il salto generazionale con qualcuno impegnato, volenteroso e soprattutto appassionato della terra, qualche altro no. Qualcuno dedito al business, qualche altro no.

Mio nonno non è stato tanto imprenditore. Mio padre era appassionato e imprenditore. Appassionato dei vigneti. Non molto oculato magari.

Giuseppe come gran parte dei figli in queste zone, frequenta la scuola agraria. Lavorando ovviamente in vigna quando ce ne era bisogno.

In estate non avevo mai pace perché mi alzavo presto la mattina e andavamo in vigna. Avevano 6 ettari di vigna

La vera vita inizia dopo la scuola. Le strade per i più si dividono tra chi cerca di distinguersi andando all’università e chi rimane nell’azienda di famiglia. Giuseppe, ci prova. Per poi capire che non è cosa per lui. Che lui ama la terra. Ama il lavoro dei campi. Ama vedere i risultati del suo lavoro.

Mi sono iscritto a scienze agrarie ma non mi piaceva stare seduto a studiare. Ho lasciato l’università dopo sei mesi. Nemmeno sono stato tanto. Non mi sono ambientato. In fondo nemmeno mi volevo iscrivere. Mi sono iscritto perché ho due zii medici da parte di mia mamma e due zii professori da parte di papà. “Dato che sei un ragazzo intelligente perché non ti iscrivi e ti prendi una laurea? Così mi dissero. Non era per me.

È questa una sconfitta o una presa di coscienza? Il seguire le proprie ambizioni e inclinazioni o assecondare quelle degli altri? Giuseppe lo ha capito prima che qualcuno glielo facesse notare. Ha avuto quella consapevolezza che solo in pochi hanno. Consapevolezza unita alla voglia di tornare alle proprie terre. Un po’ come la Calabrisella che dice che non si ha bisogno di prendere la laurea (in realtà era il dottorato).

Non c’è bisognu ‘u dassi ‘u dutturatu:
Va’ e parla cu’ me’ patri e lu curatu,

In questo caso patri e curatu non sono altro che la terra e vite alla quale professare il proprio amore e dedizione. Magari Giuseppe non era portato. Ma sarebbe potuto andare a lavorare la terra a malavoglia, oppure a fare un lavoro tanto per sbarcare il lunario. Invece ha scelto, consapevolmente, di lavorare la terra del padre per poter costruire qualcosa. Consapevolezza. Costruire. Che meraviglia!

Ho zappato nelle vigne facendomi esperienza. Più allarghi l’esperienza più impari. Con il trattore dopo la vanga. Ho creato la cantina dove anche abitiamo. In mezzo ai vigneti.

40 ettari dei quali circa 20 vitati non sono pochi. Specialmente se devi costruire qualcosa come ha fatto Giuseppe. Potendo contare solo sulle proprie forze

Ora mi sono fermato nel fare investimenti perché devo consolidare quello che ho. Essendo da solo. In famiglia ho due sorelle che non si occupano di questo. Poi io mia moglie e mia figlia. Mia moglie lavora da venti anni, ora in smart working. Si sta amalgamando nell’azienda. Mi figlia ha 11 anni. Piccolina ancora.

Difficile fare azienda nel sud. In Calabria ancora più complicato. Occorre stare attenti ai costi certamente ma anche e soprattutto al clima che può giocare brutti scherzi.

Avevo 4 operai. Ora ne ho solo due perché la resa non era molta. Gli altri li assumo saltuariamente per i lavori. In cantina ho Giuseppe che lavora un po’ in cantina e un po’ in vigna. Ho un enologo pugliese anche se mi sono fatto esperienza. In fondo non faccio un prodotto sofisticato. Magari di nicchia.

Eppure, le basse rese hanno fatto bene alle vigne di Giuseppe (Santoro). Gli hanno dato l’opportunità di concentrarsi sulla qualità e non sulla quantità come sono stati abituati, male, al sud per molti anni.

Coloro che al sud iniziarono a vinificare, non lo facevano nemmeno poi così tanto bene. O senza aggiungere qualcosa (anche perché era dal tempo dei greci che non lo facevano). Attenzione alla qualità dunque. Che qui non è mai scontato.

Mi vinifico le mie uve e faccio un prodotto naturale. Non aggiungo prodotti esterni. Faccio un biologico in vigna. Potrei avere la certificazione ma ancora non l’ho fatto.

Cinque le etichette in portafoglio, tre rossi, un rosato e un bianco per un totale di 30.000 bottiglia. Poco utilizzo della barrique e tanta territorialità. Anche perché, dico io, se dalla Calabria togli anche il profumo della terra, quello del mare, quello delle piante di liquirizia, che ne rimane?

Il primo rosso è Caposerra, blend dei due vitigni autoctoni coma Gaglioppo e Magliocco. Un lieve passaggio in barrique (sei mesi) del blend (Giuseppe dice che in realtà è Gaglioppo in purezza) e nasce il Patris 42. Infine, quello che per me è davvero un vino “tutta una scoperta”, lo Zonaro con sempre blend ma Gaglioppo che raggiunte il 90%.

Ho recensito sul mio blog proprio lo Zonaro 2015 e per capire il perché della definizione “tutta una scoperta” basta cliccare sul link @ivan_1969.

Da Gaglioppo in purezza vinificato in bianco arriva il Noveno. Per finire, non potevano mancare i vitigni calabri Mantonico e Greco Bianco per dar vita ad Apice.

Sono vini questi che andrebbero bevuti alla cieca. Senza guardare o sapere da dove arrivano. Così da superare tutte le diffidenze che ci sono sui vini calabresi. Spesso a ragion d’essere ma oggigiorno, ancora più spesso, infondate. Basta saper scegliere. Puntare sul territorio limitando al massimo i vini con l’utilizzo di barrique

Il vero vino è quello che fa solo acciaio. Perché questo non le prende né le dà.

Sicuramente vero. Quando infatti bevi uno Zonaro senti appieno il territorio con la sua frutta matura e il sole che le brucia e che si mischia ai delicati rametti di liquirizia. Senti quanto inutile e fuori luogo sarebbe la barrique.

Per il futuro, Giuseppe ha le idee decisamente chiare. Sia per la necessità di concentrarsi sulla parte commerciale dell’azienda dunque non investendo in altri campi, sia sulla parte di prodotto.

Ho in mente di fare un IGP Calabria di fascia alta. Durante la pandemia avevo fatto dei vini di fasica bassa per supermercati e banchettistica. Sempre con Tenuta Santoro.

Bravo Giuseppe. Oltre ad essere orgoglioso di quello che hai fatto, devi, assolutamente devi andar fiero di averlo fatto in Calabria. Perché solo grazie a persone come te, questa terra, potrà tornare ai fasti che merita.

 

Mi trovi su instagram : @ivan_1969