19 Mag 2023
Suggestioni di Vino

Terracruda e l’entusiasmo che può tutto

Terracruda e l’entusiasmo che può tutto.

Quello dell’entusiasmo non è uno stato d’animo che si riduce ad una semplice eccitazione partecipe. È qualcosa di estremamente più profondo, potente, massiccio. È il risvegliarsi di una forza tramite la quale non c’è meta che non sia a portata di mano, non ostacolo che non possa essere abbattuto, non collettività che non ne possa essere travolta e coinvolta. È lo stato d’animo attivo, centrato e sorridente che schiude l’infinita realizzabilità dei sogni. L’entusiasmo è qualcosa che coinvolge. Si trasmette come un virus diffondendosi prima intorno formando una vera e propria aureola per poi attaccare gli altri.

L’entusiasmo è quello che diffonde Luca Avenanti dell’azienda Terracruda in ogni sua esternazione. Ha un sorriso e una vitalità unica. Ride di se stesso. Ride della vita. Ride dei propri errori. Non è una risata forzata o sciocca. È qualcosa di vero, propria di quelle persone che sanno non prendersi sempre sul serio. Anche se dirigere una azienda è cosa seria. Specialmente quando ci sono sedici ettari (o venti) da condurre e quando occorre garantire lo stipendio a quasi venti persone. Leggerezza e spensieratezza sono proprie delle persone che ne hanno passate tante così come di quelle che hanno sbagliato per poi riuscire. Solo sbagliando si può arrivare alla soluzione.

Terracruda è una cantina a gestione familiare. C’è lo zio Vincenzo che invece di godersi la pensione dopo aver lavorato da sempre nell’agricoltura non si è tirato indietro nella gestione dell’azienda. Così è lui che dà le linee guida per la vigna. Poi c’è la sorella Maria Vittoria che solo una brutta malattia riesce a tenerla a casa. Gli studi in Wine Management ne fanno una risorsa fondamentale per il marketing. La cugina Emma che ha un altro lavoro ma nei week end e in estate da una mano in cantina. Il papà Zeno che non può che essere in direzione generale. Infine Luca che ha preso le redini insieme al suo compagno Carlos con il quale sono insieme da oltre 11 anni. Senza dimenticare mamma Adele e zia Nadia!

Siamo in sei di famiglia più cinque a supporto tecnico e dieci in vigna. Io sono il frontman che fa la gestione commerciale. È bello dire vado a fare il commerciale ma se bisogna fare il travaso nella botte o andare in vigna, io ci sono

Agricoltori e vignaioli non ci si inventa ed infatti le radici della famiglia Avenanti in qualche modo avevano a che fare con la terra.

La famiglia di mia mamma, mio zio, i miei nonni lavoravano nell’agricoltura. I miei nonni erano i mugnai e lavoravano il grano. Vivevamo già qui. Erano dei contadini e lo dico in maniera orgogliosa.

Da parte di padre invece si producevano, artigianalmente, mobili. Qualità e tanta attenzione ai dettagli. Due famiglie con tanti ettari a disposizione e la necessità di fare una scelta.

Venti anni fa si è detto: cosa facciamo con i terreni? Vogliamo perseverarli per bene o non facciamo nulla. Ai tempi avevo venti anni ed erano affascinato dalla vigna. Piantiamo un po’ di vigna e produciamo una piccola quantità di vini. Così non mandiamo in malora i terreni dei nostri nonni.

Da qui parte l’avventura. Una partenza che senza entusiasmo non si sarebbe trasformata nella realtà che oggi rappresenta nel territorio marchigiano.

Siamo a Fratte Rosa, un piccolo comune di poco più di 800 anime in provincia di Pesaro Urbino, nel cuore delle DOC Bianchello del Metauro, Pergola Aleatico, Sangiovese Colli Pesaresi tra le colline equidistanti dal mare e dal monte Catria. Una zona dove si vinifica da tempo immemore anche se in molti si sono lasciati attirare dalle sirene di vitigni internazionali o comunque non autoctoni.

La scelta di Luca e dell’azienda è invece diversa. Identitaria e territoriale.

Solo se hai l’entusiasmo te ne vai in giro a ricercare i vitigni abbandonati ancorché presenti sul territorio da sempre. Perché poi oltre a trovarli devi ottenere le barbatelle, devi classificarli, devi normarli. Insomma serve tempo, visione, forza d’animo. Ed entusiasmo.

Incrocio Bruni e Garofanata sono due esempi di vitigni poco noti e pressoché abbandonati. Il primo è del 1936 ed è merito del prof. Bruni che al suo tentativo n. 54 di trovare un incrocio resistente alla fillossera provò un mix tra Verdicchio e Sauvignon. Non resisteva alla fillossera ma il risultato fu comunque buono tanto da spingere i contadini marchigiani a coltivarlo.

Siamo andati con il nostro enologo a cercarli dai contadini. Abbiamo iniziato con mezzo ettaro e adesso ne gestiamo quasi due ettari.

Del secondo, sempre a bacca bianca, non si hanno tracce certe anche se negli appunti del pro. Bruni (sempre lui!) se ne trovano cenni.

Va bene l’entusiasmo ma se hai tanti ettari non è che puoi lavorare solo con due vitigni quasi sconosciuti. Ecco che allora si pianta l’Aleatico di Pergola che va ad affiancare il Bianchello e Sangiovese (siamo nelle Marche ed è quasi un obbligo!).

Varietà autentiche ed uniche. Basse rese per ettaro con la conseguenza che non puoi che fare qualità!

Siamo in collina. Dunque la zona è vocata. Riusciamo a produrre l’Aleatico in versione secca con alcolicità accettabile. Un equilibrio tra freschezza, maturazione e alcolicità.

Arrivare ad imbottigliare oltre 150 mila bottiglie denota la capacità di una azienda di compiere un percorso di crescita. Certo, ci sono voluti quasi venti anni. Si sono commessi errori. Si è sperimentato molto. Si è faticato molto. Con l’entusiasmo però, si ottengono risultati.

Un entusiasmo che porta a non abbattersi negli incidenti di percorso. All’inizio l’azienda non era solo un affare di famiglia. La poca esperienza e le vigne appena piantate indussero ad inserire un socio che portava in dote vigne storiche, passione per il vino, capacità in vigna. Poi però, quando si capisce che l’essere biologici e diminuire le rese in vigna può essere non solo una questione di identità ma anche di distinzione sul territorio, le strade si dividono.

Nel percorso eravamo partiti con una idea di agricoltura tradizionale ma ci siamo resi conto che in un terreno poco blasonato se arrivavamo a produrre il Bianchello così, il mondo non se ne sarebbe accorto. Allora abbiamo detto: noi passiamo al biologico e corriamo i nostri rischi.

La cosa è riuscita benissimo. Sarà stato l’entusiasmo o comunque la scelta delle persone in vigna, dell’agronomo, dell’enologo. Fatto sta che nel corso degli anni, sperimentando, sbagliando, i risultati sono arrivati. Ed è arrivata anche una vera filosofia aziendale individuabile nella produzione di vini da mono vitigno. Nessun blend insomma per esaltare le cultivar e far apprezzare appieno ogni singolo acino.

Noi abbiamo creduto sin da subito nel mono uvaggio e nelle varietà autoctone. Il Bianchello del Metauro DOC venti anni fa era come oggi. Noi volevamo fare una versione superiore, uno spumante ma era difficile. Se facevi un passito ad esempio dovevi scrivere vino da tavola. Al momento invece sono sette tipologie da una che era.

Una gamma che è fatta di tanto lavoro. Ed entusiasmo.

Il Bianchello si presta alla spumantizzazione così che facciamo lo charmat, l’ancestrale e il metodo classico. Facciamo il giovane di annata, la vendemmia tardiva con surmaturazione nei migliori anni, il superiore. Ci sono voluti dieci anni per arrivare a quello. C’è un bel percorso.

Per arrivare a dei risultati con il mono uvaggio devi sperimentare tanto. E sbagliare tanto.

Tantissimi giorni e ore ma questo lavoro lo fai solo se hai passione.

Come per il Metaurum. È il Bianchello superiore, prodotto per surmaturazione (un tempo si chiamava Campodarchi Oro perché proveniente dalla vigna che ha il medesimo nome) come evoluzione del vino che una volta sostava due anni di barrique sur lies.

Era una impostazione anni 90. Lo facevamo bene. Con la raccolta delle uve a mano. Una chicca insomma. Però poi l’impronta del legno era troppo marcata per il mercato così l’abbiamo alleggerito cambiando solo la lavorazione in cantina per una piccola produzione.

Vediamo all’assaggio come si comportano i vini. Ne scegliamo tre.

Non possiamo che partire dall’Incrocio Bruni 54 annata 2021. È biologico e dal 2022 sarà certificato. Colore verdolino che sa di giovinezza. Nel calice si sente sia verdicchio sia sauvignon. Molta mela. Agrumi. Molta pera. Fiori bianchi. Un vino semplice che fa solo acciaio.

Abbiamo ricercato la semplicità perché ci siamo resi conto che nel mercato locale della ristorazione ce lo richiedeva.

Il risultato è un vino beverino forte di una buona aromaticità e giusta persistenza. Agrumi che tornano in bocca insieme a grande freschezza e sapidità rendendolo perfetto con il pesce. È un bel prodotto che fa risaltare i due vitigni sia per le caratteristiche dei singoli sia per la loro unione. Non ritroviamo l’opulenza del Verdicchio perché i sentori sono semplici e definiti, la freschezza è importante, la persistenza non stanca. Il colore verdolino attira forse poco inducendo comunque a non aspettarsi in bocca la piacevolezza che ti fa bere tutta la bottiglia. Insomma, un vino estremamente potabile che dopo qualche ulteriore mese di bottiglia sarà ancora più rotondo. E piacione. Ottimo con un pesce.

Poi il Campodarchi Bianchello Superiore. Colore simile al precedente stavolta quasi luminoso. I sentori, grazie alla vendemmia tardiva di fine ottobre, sono più importanti. La frutta è matura e i fiori sono di camomilla che con l’aumentare della temperatura virano sul miele. È un vino che non va bevuto molto freddo. In bocca si presenta fresco, sapido, secco e molto caldo. Parte con una sorta di dolcezza ed aromaticità finendo con una nota amarognola che esalta la capacità di sposarsi con piatti di tendenza dolce come la pasta o anche un rombo con patate.

Per un rosso non potevamo che provare l’Aleatico Ortaia 2018.

È il nostro vino di punta anche se io prediligo il Sangiovese perché più secco e tannico. Se bevi una volta l’aleatico lo vuoi bere più frequentemente.

L’uva viene raccolta verso metà settembre ovvero tardivamente considerando la maturazione precoce dell’Aleatico. Seguono 30 giorni sulle bucce, un anno di barrique dal secondo a quinto passaggio, poi un ulteriore anno di bottiglia.

Il colore è un rosso rubino ciliegioso non troppo carico. In fondo l’Aleatico ha la buccia sottile e di antociani ce ne sono pochi. Il risultato è corredato da una bella limpidezza. Quasi trasparenza.

Al naso è la balsamicità che emerge immediatamente. Poi c’è sì la frutta ma dopo il tabacco, il pepe, i chiodi di garofano. C’è la rosa, la violetta, il petalo di rosa appassito. La frutta (ici) è esotica ma anche nostrana: il melograno e l’arancia rossa ancora non matura. La frutta in generale non è pienamente matura.

In bocca spicca l’aromaticità dell’Aleatico che tende a virare verso l’amarognolo senza mai farlo percepire in pieno. Continua ad esserci sapidità portata dai terreni argillosi con sabbia stratificata. Grande coerenza con l’olfatto e persistenza non particolarmente lunga così che l’abbinamento con un brodetto o una zuppa di pesce (ma anche con un ragù) è assicurato.

È un vino che quando lo si beve ricorda in pieno il Pinot Noir arrivando ad essere una grande espressione di Aleatico!

Se Luca voleva trasmettere il suo entusiasmo attraverso i vini, devo dire che c’è riuscito in pieno. Io almeno mi sono entusiasmato e non posso che dirgli grazie per avermi coinvolto e contagiato. Quella di Luca e della sua famiglia è una realtà che dimostra a pieno come l’entusiasmo, la determinazione, la passione, lo studio, la programmazione e mai l’improvvisazione possano portare a produrre vini che meriterebbero tanta ma tanta maggiore notorietà.

Ivan Vellucci

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