19 Dic 2022
WineKult

Ma vai all’infernot

Ma vai all’infernot non è un’invettiva contro persona poco gradita, ma un invito a scoprire una realtà nascosta nel sottosuolo del Monferrato Casalese. Una singolare forma di architettura ipogea, forte elemento di identificazione territoriale.

Non a caso il Monferrato degli infernot è una delle sei voci che compongono I paesaggi vitivinicoli del Piemonte: Langhe – Roero e Monferrato, eletti nel 2014 (prima di Borgogna e Champagne!) Patrimonio Mondiale dell’Umanità.

Le altre cinque voci di questo variegato terroir, di cui l’UNESCO ha riconosciuto l’eccezionalità naturale e culturale, per la cronaca sono: Langa del Barolo, Colline del Barbaresco, Nizza Monferrato e il Barbera, Canelli e l’Asti Spumante, Castello di Grinzane Cavour.

Gli infernot sono luoghi per la conservazione del vino, capolavori architettonici nati dalla tradizione costruttiva locale e dal sapere contadino. Cripte laiche, private, in questa verace terra di barbera, grignolino, freisa.

L’infernot è una piccola camera sotterranea, scavata nella pietra, priva di aperture per illuminazione o aerazione dirette. Appendice, spesso in profondità, della cantina. Si tratta di uno spazio più o meno complesso e articolato, arricchito di nicchie e gradinate per conservare le bottiglie di vino. Quello buono per le occasioni importanti.

Gli infernot si trovano sotto le case private in diversi comuni della collina casalese, scavati direttamente nella pietra locale, un’arenaria impropriamente definita tufo: la Pietra da Cantoni. A questa, e alla cultura degli infernot che ne discende, è dedicato l’Ecomuseo di Cella Monte Monferrato (dal cui archivio sono tratte le immagini qui pubblicate), promotore del censimento di queste strutture sotterranee.

Il piccolo borgo di 500 anime è uno dei 14 comuni che costituisce il sistema del Monferrato degli infernot, con relativo itinerario turistico. Meglio se ovviamente accompagnato da relativa esperienza enogastronomica.

Ma perché gli infernot si trovano solo in questo angolo di Monferrato? Semplice: per via della pietra locale, particolarmente docile alla lavorazione (e all’estro degli anonimi scavatori) e capace di garantire stabilità di temperatura e umidità.

Facile imprimere nella roccia decori (grappoli d’uva, ritratti, motivi geometrici, simboli politici) e date. Quelle rinvenute partono da metà Ottocento, ma sicuramente le strutture sono anteriori.

Non esiste un ‘piccolo inferno’ – se si vuole seguire la tesi dell’origine lessicale dal dialetto piemontese, col suo tipico suffisso diminutivo in -ot, rispetto alla più aulica etimologia che riporta a enfernet (prigione angusta) in provenzale antico – uguale all’altro.

Gli infernot sono manufatti unici, non riconducibili a regole compositive o costruttive, per questo sono tutti diversi. Esistono declinazioni tipologiche monocamera (quadrata o circolare), multicamera o a corridoio. Nicchie quadrate, rettangolari, ad arco o addirittura a forma di bottiglia, le più scenografiche.

Non siamo di fronte a un’espressione di semplice folclore contadino, ma di una cultura materiale e abitativa dai risvolti linguistici specifici, di estremo interesse. Questi caveau, spontanei e per nulla codificati, sono brani di antropologia rurale. Quella che non lascia tracce scritte, ma costruite.

La tradizione orale e le cronache familiari tramandano che gli infernot fossero anche luoghi di aggregazione e convivialità, teatro delle cosiddette ribote. Si trattava di ritrovi goliardici ‘underground’ dei giovani del paese, spesso a base di bagna caùda. Inutile dire che in tali occasioni le scorte di vino venivano pesantemente intaccate.

Piccola nota personale. Ho vaghissimi ricordi dell’infernot di famiglia. Da bambina il solo sentire nominare la parola dal nonno mi terrorizzava. Per me era l’antro oscuro oltre la cantina. Le botti, enormi, una presenza ostile. Le bottiglie impolverate un oggetto inutile. Però, confesso, il moscato (a dosi di un dito immerso nel bicchiere) già non mi dispiaceva. Come cambiano le percezioni, con l’età! Ora l’infernot è per me un sublime esempio di architettura vernacolare con il fascino da tomba etrusca, le bottiglie hanno assunto tutt’altra attrattiva, il moscato lo tollero al massimo con il panettone. E sempre nella dose minima da infanzia: un dito al massimo.

A cura di Katrin Cosseta