03 Mag 2024
Suggestioni di Vino

Cantina Murales. Piero, su strangiu. Anzi no, su sambenau

Su sambenau” o “sangunau” è una termine sardo (e il sardo è una lingua) che denota il cognome di una persona: il nome di sangue. Il nome che è legato alla terra sarda per nascita. Una vera appartenenza. Si contrappone a “su strangiu o “istranziu” ovvero il forestiero, lo straniero, l’estraneo. Non sempre in accezione negativa. Ma comunque non sardo, non nato sull’isola. 

Ora, immaginatevi di essere ad Olbia, in Sardegna e di incontrare una persona con tipico accento nordico, quasi milanese o giù di li. Magari non saprete bene distinguere la zona ma la differenza con il modo tipico di parlare di questo luoghi sarebbe evidente. 

In fondo Olbia è limitrofa alla Costa Smeralda e di milanesi o lombardi ce ne sono a iosa. Turisti certo ma anche strangiu, stranieri colonizzatori. Proprietari di ristoranti e hotel frequentati, per via dei prezzi stratosferici, solo dai ricchi. O perlomeno benestanti. 

Se poi il presunto lombardo vi accoglie nella sua meravigliosa cantina insieme alle sue figlie che parlano varie lingue, beh allora ogni dubbio è fugato. Un altro strangiu in terra sarda. 

Eh le apparenze le apparenze quanto ingannano e quanto possono fornire una visione distorta del mondo. Fermarsi in superficie è sempre un errore. Vedere il cielo da un oblò come cantava Gianni Togni vuol dire perdersene un bel pezzo. 

Quando conosco Piero Canopoli in qualità di titolare della Cantina Murales, non posso fare a meno di chiedergli: scusa, ma sei sardo? E lui: certo che sono sardo? Ma con questo accento?

Ecco qui inizia la mia conversazione con Piero. La scoperta di quante vite ci siano al mondo, quante storie possano celarsi dietro le persone, è meraviglia. Quanto ognuna sia diversa dall’altra e rechi in se la meraviglia di un racconto. Sono le storie come questa che meritano di essere raccontate.

La mia anima oltre ad esserlo è sarda. Ragiono da sardo. Amo questa terra in maniera viscerale.

Accento del nord Italia ma sardo fino al midollo. L’accento non mi colloca sulla mia terra di origine. Con quell’accento li non sei sardo dice la gente qui. 

Se cinquanta anni fa i giovani scappavano dalla Sardegna era perché non c’era possibilità di lavorare. Forse possiamo dire che non c’era “ancora”. Poco il turismo sviluppato. Poche le necessità ricettive. Poco il focus sulle risorse locali. Toccava emigrare. Spostarsi altrove. 

Il papà di Piero faceva un lavoro antico e nobile. Un livello di artigianalità che in Sardegna non si sarebbe potuto esprimere al meglio. Restaurava arazzi. Un lavoro particolare. Unico. 

Il destino gioca scherzi strani. C’è chi arriva e chi va. Sfiorandosi senza mai incontrarsi davvero. Capita questo in un paese sulle sponde del Lago Maggiore, Leggiuno, provincia di Varese. 

Leggiuno. Un paese sconosciuto e sfido chiunque non sappia di calcio a dirmi se lo conosce. 

Calcio? Si, proprio calcio. In questo paese di poco più di 3000 anime, nacque nel 1944 Rombo di tuono. Così un maestro del giornalismo sportivo italiano, Gianni Brera, definì Gigi Riva. La leggenda del calcio italiano da poco scomparso. 

Una bandiera per i sardi. Una specie di Dio. Qui lo vedevano come qualcosa di unico. E probabilmente lo era. Da bambini all’oratorio lui ci spiegava il calcio. Anche io come Gigi Riva sono tornato in Sardegna. Però dopo 40 anni. 

Gigi Riva in Sardegna approda, al Cagliari nel 1963. Gioca con la squadra sarda per 14 anni vincendo anche uno scudetto (campionato 1969/70) ma dalla Sardegna non se ne andò mai più. Legato a questa terra. Stregato da questa terra. Un sardo di adozione adorato dai sardi. 

S’istranziu“ (o S’istranzu), l’ospite d’onore che diventa uno del luogo. 

Piero invece torna in Sardegna nel 2000. Molti anni dopo di Gigi Riva. Piero ad Olbia, Gigi Riva a Cagliari. 

Gli anni a Leggiuno Piero li dedica al mondo del vino. Insieme alla moglie Giuliana fanno consulenze, formazione, didattica per associazioni. 

Da sommelier ci siamo occupati di questo modo sia dal punto di vista produttivo sia formativo. Ma anche commerciale. Facevo molto estero come consulenza. Prendevo 120 aerei all’anno. Prenderli da Malpensa mi creava fastidio. Perché non vivere dove ci piace vivere? Farò uno scalo in più ma almeno viviamo dove ci piace. Così ci siamo trasferiti in Sardegna.

Insomma, trasferirsi in Sardegna è solo un modo per tornare alle origini. Per vivere nella terra che si ama e nella quale si riesce a tornare solo nel periodo estivo come vacanzieri. Si continua a fare il lavoro di prima. Si continua a fare la vita di prima. Piero, Giuliana e le tre figlie Martina, Arianna e Greta. 

La scelta di andare via è stata anche legata a loro, le nostre figlie. La grande ha finito le scuole a Leggiuno e poi si è trasferita qui. Le altre due erano in età prescolare. Abbiamo ritenuto giusto che quel momento lo vivessero qui. Nessun trauma e adesso nessuna vuole spostarsi da qui.

Su strangiu. Piero è sardo. Il papà era sardo. La sua famiglia è sarda. Ragiona come un sardo. Però parla con il tipico accento del varesotto. Lui come la sua famiglia. È lo straniero. Non certo quello del quale occorre temere perché Piero, solo a vederlo negli occhi, è un buono.

La sua professione, quella che continua a portarlo fuori dalla Sardegna per le consulenze, non passa certo inosservata, cosa questa che gli comporta l’iniziale ad essere coinvolto in piccole consulenze enologiche. 

Hanno cominciato a chiedermi delle piccole consulenze. Poi senza quasi e rendermi conto ho acquisto dei terreni insieme a qualche altro che non era all’altezza. Ci siamo ritrovati soli e cosi partiti con il progetto definitivo di Cantina Murales. Inizialmente, nel 2007, erano 5 ettari poi sono diventati 8, poi 12, adesso 25. L’idea è ridurli per concentrarci ancora maggiormente su un concetto di nicchia. È brutto dire di nicchia perché sembra che produciamo solo per pochi. Però produciamo 100.000 bottiglie e io le voglio ridurre a 60.000 per aumentare e stressare il concetto di qualità.

Che non potesse più fare il lavoro di prima, viaggiando per mezza Europa, Piero non l’aveva messo in conto anche se, inesorabilmente, i viaggi iniziano a diminuire con il crescere dei vigneti.

Adesso quasi non viaggio. Non me ne sono praticamente accorto. Adesso a mia volta pur non avendone necessità, ho un consulente. Sono sempre stato un tecnico con le mani in pasta. Dunque non c’è stato un cambiamento. Mi avvalgo di collaboratori perché delego molto. E mi piace. 

Spesso si dice che i consulenti siano dei teorici. Persone certo preziose per il bagaglio di esperienza derivante dagli studi e dal poterli applicare in molteplici e variegate realtà. Quanto però a mettere personalmente in pratica i loro dettami, è altra cosa. Piero invece, è riuscito in questo salto. Magari per qualcosa presente nel DNA in maniera innata.

Siamo una famiglia di sei fratelli cinque dei quali sono imprenditori. In vari settori ma imprenditori. Ristorazione, gelati..siamo sparpagliati tra Sardegna, Germania, Canarie. Forse nostro padre, con intenzione o meno, ce l’ha trasmessa. Anche se papà non è riuscita a vedere questa imprenditorialità.

La differenza con i produttori locali, raramente con esperienze fuori dall’isola, è evidente. Piero ha nel bagaglio, grazie alla sua precedente professione, una grande conoscenza del mondo enologico. Capire cosa si possa ottenere da un suolo, da un ambiente piuttosto che da una filosofia di vita o necessità commerciale è un valore aggiunto che porta con se.

Ho fatto una sintesi e l’ho applicata al territorio. Così i nostri vini non sono tradizionali. Tipici si ma non tradizionali. Anche se il concetto di tradizionale è strano. I territori vanno sperimentati e bisogna farli evolverli attraverso la conoscenza. 

25 ettari sono una discreta superficie. Le 13 etichette in gamma sono certamente compatibili con tanta vigna ancorché sembrano un pò troppe. Troppe se non si capisce nel profondo l’uomo e il professionista Piero. Pacato si ma istrionico e sempre alla ricerca, per necessità caratteriale, di sfide e di qualcosa da inventare. Sperimentare per capire. Non c’è da parte sua esigenza di una personale consacrazione. Per lui i vini sono suoi fino a quando non vengono messi in bottiglia. Poi li considera del cliente. Una filosofia che lo porta a cercare quella tipicità territoriale volta a capire cosa il terroir può fornire. 

La molteplicità nasce un pò per esigenze di natura commerciale della quale si occupa mia moglie. Aveva esigenza di toccare più segmenti. Io sono stato in disaccordo con questa filosofia anche se i territori che si esprimevano in modo diverso. Mi permettevano di fare questo. Non mi è mai andato di contaminare i vigneti combinandoli tra loro. Ogni territorio esprime un vino e per questo tante etichette. Ma sono tante. Andrò ad eliminarne qualcuna. Almeno cinque etichette sono di annate eccezionali. Ogni due tre anni e non di più. Quando tappo la bottiglia ho la sensazione che non mi appartenga più. Il giudizio sul vino che c’è dentro sono gli altri che devono darmelo. Fino a che non lo chiudo in bottiglia lo sento mio. Poi dopo no. Credo che questo appartenga a molti tecnici. Mi piace sentire i feedback. Il nostro è un mondo dove parlare e giudicare è alla portata di tutti. 

Prima si diceva che eravamo tutti tecnici della Nazionale di calcio e Gigi Riva ne sapeva qualcosa pur essendo stato (e ancora lo è) il miglior realizzatore di sempre. Ora siamo tutti sommelier e abili degustatori. Bello comunque assistere ad un confronto di sensazioni. Siamo soggetti sensorialmente diversi uno dall’altro e le differenze sono senz’altro preziose. Ciò che però non si capisce è come, per diventare Commissario Tecnico della Nazionale di calcio occorra studio, preparazione, esperienza. Idem per essere un divulgatore di vino. Non ci si improvvisa.

La personalità di Piero è in ogni suo vino. A partire dall’etichetta. Lui è una di quelle persone che usa l’istinto e l’improvvisazione. Non in maniera geniale ma in modo viscerale. Sono gli attimi, sono le situazioni, è l’ascolto a nutrire questa capacità. 

È un pò di follia anti commerciale. È l’istinto. L’etichetta nasce con il vino. Il vino mi ha dato degli stimoli. Sono accadute delle cose, belle e brutte. Così nasce il nome e l’etichetta. Tutto è legato al momento. 

Vermentino Lumenera. È un Vermentino di Gallura superiore. Ha poco a che fare con i Vermentini tradizionali perché ragionato in stile Borgogna. Le uve fermentano in tonneau per poi affinare in cemento con bâtonnage quotidiani. Ne deriva un vino corposo e strutturato, complesso e armonioso. Un vino che piace e si fa piacere senza snaturare il vitigno.

A fine fermentazione, nello spostamento dalla tonneau al cemento, il vino aveva un colore che sembrava brutto, crepuscolare, come quando sta per tramontare il sole e la luce ci abbandona. La prima volta questa operazione l’abbiamo fatta proprio a quell’orario. Aveva un colore crepuscolare, eravamo al crepuscolo ed è andata via la corrente. Per cui abbiamo acceso delle lampade ad olio che in Sardegna si chiamano Lumenere. Queste lampade sono state accese durante il primo travaso ed il vino ha ripreso luce tornando ad essere bello. Era la prima sfecciatura. L’etichetta ritrae proprio questa scena.

È proprio Piero che abbozza le etichette. Metto giù le idee e lascia fare ad un suo amico grafico che le mette in bella.

Miradas è un Vermentino di Gallura. Classico direi ma dal gusto che ricorda in pieno la Sardegna per la sua finezza ed eleganza. Iodio ed agrumi, frutta tropicale, biancospino, macchia mediterranea avvolgono il naso per poi lasciare spazio ad un insolito balsamico che punge il naso. L’agrume spinge ancora. Senza dare fastidio o ingolfare il naso. Le noti risultano dolci, non pungenti, non stucchevoli. Un naso che invita clamorosamente al sorso. Lo chiama e, quando arriva, appaga riempiendo completamente la bocca con l’agrumato che, anche qui, non sovrasta bilanciandosi perfettamente con la dolcezza. C’è quasi una botta di salmastro che affascina per la sua forza e pienezza. Un vino secco e fresco con un finale quasi mandorlato, ma mandorla dolce. Persistenza decisamente buona. Un vino  mai banale, mai civettuolo. Al contrario, preciso e che in una tavola della Costa Smeralda colmo di crostacei diventa una celebrità. 

Quando nasceva quel vino in cantina avevamo due ragazzi che facevano l’alternanza scuola lavoro. Erano un giovane e una giovane. 14/15 anni. Erano li per osservare. Una signora che lavorava con noi, aggredì questa ragazzina parlandone in sardo. Chiuse la sua invettiva dicendole Miradas. “Ma perché l’hai aggredita e perché le hai detto Miradas?” Mi disse che la ragazza, nascosta da un velo, mandava dei messaggi in codice al ragazzino. Il vino voleva essere un pò ammiccante ed ammaliante. Dunque ci stava.

Bastat una mirada
ch’essit dae su coro
po ti narrer chi t’amo.
Columba mia amada
ses su meu tesoro
ischis cantu ti bramo

Il Sentenzia, da uve Viognier rappresenta le anime di Piero. Da un lato quella del tecnico, del professionista che vuole sperimentare perché capisce che in una terra come la Gallura un vitigno del genere ha tutte le potenzialità per esprimersi. Dall’altro quella del sardo, testardo per antonomasia, che quando si mette una cosa in testa, la vuole fare. 

Ha un punto esclamativo che sta per perplessità. Ho piantato un vigneto di Viognier che in Sardegna nessuno aveva mai fatto. Io lo volevo ma ho beccato un sacco di no. Dalle istituzioni dai tradizionalisti, dalle persone. Ma volevo sperimentare. È partita una diatriba territoriale che è finita con il vino Sentenzia. Una sentenza. Oggi è diventato un IGT e tutti possono piantare Viognier poiché nell’elenco regionale. 

Ha fatto bene Piero ad insistere perché la versione Sentenzia è una positiva e inappellabile sentenza per il Viognier qui. L’eleganza, la complessità, la capacità di questo vitigno di raccogliere qui ogni sentore del territorio e del mare è a dir poco magico e sorprendente. Rotondità e sapidità i punti di forza in bocca. 

Nativo è il rosso da Carignano che esprime la forza e la magia di questo territorio. È come se la Sardegna, centro del Mediterraneo, sia riuscita a raccogliere tutto nel calice. Poderoso, armonico, equilibrato, possente ma al contempo morbido e speziato. Un vino che nasce tra la macchia mediterranea che generosamente restituisce.

Bisogna guardare l’etichetta. È un tronco di pianta da sughero. Molto bella. Rispecchia la nostra volontà di essere una azienda molto rispettosa dell’ambiente. Per impiantare quel vigneto abbiamo tolto qualche pianta da sughero. Un ciocco di albero era rimasto nel vigneto. Dopo un anno passando di li vidi che aveva buttato un germoglio. Ho fatto una fotografia e l’ho data al grafico. Voglio questa per l’etichetta. “L’etichetta è già fatta” risponde lui. Il germoglio è diventato dorato perché prezioso. Vicino ci ho messo un’ape che idealmente aspetta un fiore per ripartire per l’impollinazione. 

Il Cannonau Riserva è Arcanos. Un vino che lascia l’impronta e che può lasciarla per molto visto la sua capacità di essere longevo. Ribes, mirtilli, prugna, arancia. Poi sentori di muschio e fiori rossi che si uniscono alla cannella, al pepe, alla noce moscata. Infine un insolito incenso che rende il balsamico e la macchia mediterranea, davvero uniche. In bocca arriva subito una importante freschezza. Arriva come lo schiaffo di gelosia, intenso, passionale, vibrante di una donna che ti ama e ti vuole per se e solo per se così da baciarti intensamente subito dopo. La freschezza lascia infatti spazio ad un sorso pieno e morbido. Corposo. Così corposo da avvolgere completamente la bocca con un vero calore. Quello dei suoi 14 gradi, dei quali te ne freghi perché il bacio è ancora lungo dal finire. Come la sua persistenza. Sublime

Se guardi l’etichetta ci sono dei compagnoni festosi. Sono i nonnetti della Sardegna. Mi piace molto di questo territorio. Quando mi voglio rilassare prendo la macchina, vado in uno dei paesi sulle colline, mi siedo in una piazzetta e mi metto a chiacchierare con queste meravigliose persone. È un pò una dedica a questo mondo di persone meravigliose.

Certo che me lo vedo Piero che si va a sedere con i vecchietti del paese. Li ascolta, li guarda. È uno di loro. Immagino però quando è lui a parlare. 

Devi capire che il sardo è quello che parla meglio di tutti l’italiano. Il sardo è una lingua e quando parlano l’italiano, è quello corretto. Hanno l’accento sardo però non lo contaminano con forme dialettali come fanno in altre regioni. Al limite ci mettono dento un aiò 

Continuando a parlare di vino ci sono altre etichette che Piero definisce “di nicchia” perché prodotte raramente. Non eccezioni ma veri e propri inni. 

Come Millant’Anni, inno alla longevità del territorio. Blend di Cabernet Sauvignon e Syrah.

C’è un murales realizzato dal professor Francesco Del Casino, colui  che ha iniziato il muralismo in Sardegna. Mi piaceva concettualmente quel tipo di idea. Questo uomo anziano con la maro enorme che ha lavorato tanto nella vita. Il bastone ha il profilo dorato per esaltare la qualità del lavoro e dell’esistenza. 

Ai Posteri rappresenta, come Sentenzia, la voglia di Piero di sperimentare in Sardegna attraverso la sua esperienza. Da uve Cannonau, Merlot e Syrah lasciate ad appassire in pianta fino a novembre. Possibile solo in particolari annate ovviamente. 

C’è una mano timida che si vede poco che concede un grappolo d’uva ad una mano preziosa, dorata, che ha il compito di trasformarlo in un grande vino. 

Ai posteri l’ardua sentenza insomma!

PEP infine. Un vino che Piero ha nel cuore poiché legato all’amicizia. Quelle amicizie che ti porti dentro nel cuore. Che hanno quel sapore speciale dolce ed amaro. Un ricordo di un amico che non c’è più che ad ogni sorso riemerge per parlarti dei bei momenti trascorsi insieme. Cannonau, Syrah e Malvasia Nera vinificati separatamente dopo una appassimento in pianta. Lungo affinamento in cemento e in botte. Tempo di meditazione per un vero amico. 

Lo chiamo il vino dell’amicizia. PEP è diminutivo di Peppino o Peppino e Piero. Era un ingegnere nucleare che aveva una fabbrica sua nel padovano. Per passione aveva realizzato un grande caveau e due o tre volte la settimana radunava alcuni amici industriali veneti. Guadagnava di più con le degustazioni che con la sua fabbrica. Mi ha coinvolto in un progetto a Dubai. Gli era stato chiesto di fare un vino assoluto. Così lo chiamava. “Piero lo faccio cont te o non lo faccio”. Siamo partiti per realizzarlo e raggiunto l’obiettivo con una etichetta diversa da quella che doveva avere ed era stata già pubblicizzata sulla rivista Living. Doveva chiamarsi Santabarbara. Nel bel mezzo dell’operazione Peppino è venuto meno e ho deciso di non seguire più quel business ma di dedicargli una bottiglia. 

Nonostante Piero sia un tecnico di grande professionalità ha deciso di avere in cantina una sorta di contro altare. Confrontarsi per sentire non solo la propria testa. Confrontarsi per non farsi prendere dal facile entusiasmo. Maurizio Saltini è con lui da vari anni. 

Mi piace confrontarmi perché spesso il mio gusto tende ad ingannarmi. Lui è un amico e mi rimette con i piedi per terra. Poi ci sono due cantinieri e un genero che lavora in vigna con la squadra. 

Parlando con le donne di casa, definiscono, amorevolmente, Piero “fuori controllo”. Anche se non sembra è uno di quelli che non si ferma mai. Di quelli che quando hanno finito un progetto ne iniziano subito un altro.

Sto lavorando su una mia personale versione del Vermouth che non ha nulla a che fare con quelli sul mercato. Non sarà la conseguenza di un vino da smaltire ma partirà dalle uve. Ho studiato molto e sono andato a vedere le origini del Vermouth. A Berlino, alla Biblioteca Culinaria, ho trovato un manoscritto del 1720 dove ci sono delle indicazioni. Sono quattro anni che ci lavoro e adesso ho trovato la formula giusta. L’ho messo sul mercato di nicchia degli amici e ora è il momento. Ma poi avrò bisogno di altro. Ho già testato per nicchia è metodo classico utilizzando i fichi d’india. Ho raggiunto una età che posso giocare.

Martina, Arianna e Greta le tre figlie di Piero e Giuliana lavorano in azienda. Una azienda che si concentra certo sul vino ma, forte del richiamo turistico della Gallura e della Costa Smeralda, ha fatto dell’enoturismo un pilastro fondamentale. Martina si occupa della locanda e le sue dieci camere oltre che della parte amministrativa dell’azienda. Arianna che forte delle sue quattro lingue parlate correttamente si occupa dell’accoglienza (e qui di persone e arrivano davvero tante). Greta si è integrata nel gruppo e si sta formando in cantina.

Abbiamo un bel flusso di persone. Abbiamo anche realizzato una linea di cosmetici con gli scarti della lavorazione della vinificazione: Acini nobili. Abbiamo anche la vinoterapia. Fanno massaggi con i nostri prodotti, poi una sauna e infine il bagno in un tino colmo di vino ed essenze. Magari facendo l’aperitivo. Li vedo che arrivano stressai e vanno via sollevati ad un metro da terra.

La Sardegna è una terra meravigliosa ma impegnativa. Di quelle terra che ami o odi. Anche se sei nato qui, puoi scappare perché pensi di non amarla o perché pensi di non trovare la tua strada. C’è chi la lascia per trovare uno sfogo alle proprie attitudini anche se poi, il richiamo, il richiamo di questa terra è forte. 

Un’isola che fa storia a se nel bacino del Mediterraneo. Qui sono approdati popoli prima di qualunque altro posto. Qui ci sono tradizioni antiche che si perdono nella notte dei tempi. Qui dove si parla una lingua vera, incomprensibile se non sei un  sangunau.

I giovani scappano nonostante ci sia tanto da fare. Nella accoglienza come nell’agricoltura. Giovani che scappano e adulti che tornano. Come Piero. 

E se anche un campione come Gigi Riva decise di vivere qui, diventando di fatto, sardo, vuol dire che questa terra rappresenta, anzi è, qualcosa di speciale. 

Però. Però, invece di parlare di Piero e di Gigi Riva vorrei concludere lodando le donne della famiglia di Piero. Giuliana, la moglie, che ha scelto di seguire Piero. Una scelta consapevole e mai rinnegata. Le figlie Martina, Arianna e Greta perché pur non scegliendo ma subendo la scelta dei genitori adesso non se ne andrebbero più. Avere una azienda non è condizione necessaria e sufficiente per rimanere. C’è molto di più in questa scelta e se un merito si può dare a Piero, oltre a quello di produrre vini che sono sogni, è quello di aver fatto innamorare della sua terra a chi gli sta intorno. Sarà per quel suo carattere mite. Sarà per la gentilezza nei modi. Sarà per l’istrionicità e la capacità imprenditoriale. Sarà qualcosa che non ho visto. Ma l’unione di questa famiglia ne è il risultato. 

Così, il risultato di questo amore, di questa necessità di essere sardi e come tali parte di un tessuto sociale non può che aver trasformato se stesso e tutta la sua famiglia da Su strangiu in Su sambenau. Non si è ospiti nella propria terra. Si è parte di essa.

Ivan Vellucci

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