19 Lug 2024
Suggestioni di Vino

Maurizio (Pio) Rocchi. Le mani, l’artista, il vino

Vino d’Artista. Io sono un artista che fa il vino con le proprie mani.

Una volta, tanti anni fa, ero alla Biennale di Venezia e mi imbattei in un’opera di Lucio Fontana. Avete presente quelle tele con un taglio verticale?
Alla Biennale di opere di questo tipo se ne trovano tante. Diverse, strane, stravaganti. Eppure profonde. Con un significato non propriamente immediato. L’arte moderna è questa. Trovare il significato attraverso un percorso. Spesso non visibile. Quasi mai illuminato. Arrivare al significato scavando dentro di se. Trovare la risposta senza che sia qualcuno a fornirla.

Ci si può anche ridere e scherzare su opere così. Nel 1978 Luciano Salce dirige nel film ad episodi, Le vacanze intelligenti, Alberto Sordi e Anna Longhi, di mestiere fruttaroli.

che…semo fruttaroli?
Si.
Che cosa vuol dire fruttaroli che vi piace la frutta?
Che ce piace…No, no noi la vennemo la frutta

Venivano letteralmente spediti alla Biennale e in altri luoghi culturali dai figli emancipati con il risultato di sentirsi, sempre, completamente fuori luogo.

Mi sentii anche io così nel non capire il messaggio dietro quel taglio. Dietro. È proprio la preposizione giusta per il significato che Fontana voleva attribuire al risultato del taglio sulla tela. Non un semplice squarcio ma qualcosa oggetto di studio, prove, applicazioni (provate voi a fare un taglio sulla tela con un cutter e vedete cosa esce!). Dietro dicevamo. Voler scoprire ciò che appartiene allo spazio che non è quello immediatamente visibile. La ricerca dell’oltre. Oltre lo spazio. Oltre gli spazi.
Quante volte ci siamo chiesto cosa c’è dopo o semplicemente dietro? Quante volte abbiamo rifiutato l’idea di capirlo? Quante volte ci siamo accontentati di quanto immediatamente visibile ai nostri occhi?

Maurizio (Pio) Rocchi mentre mi parla, prende un foglio, lo frappone tra di noi e dice

Io non ti vedo.

Poi lo strappa in due creando un frastagliata e casuale linea verticale e continua

Adesso mi vedi. Questa è una frattura. È tanto grande quanto grande è l’interesse da parte tua, se c’è l’interesse, verso di me. Fratture è la ricerca del nuovo. Il vulcano ad esempio: la lava esce dalla frattura. Esce nuova roccia. È la voglia di rompere la pellicola che ci impedisce di guardare oltre. Nasce dalla mia infinita continua curiosità.

Lo premetto, questa storia potrebbe virare da un momento all’altro nel corso della lettura. Ciò a causa del personaggio che incontro per caso ad una fiera del vino. Maurizio Rocchi. Anzi, per la precisione Maurizio Pio Rocchi. O forse ancora meglio Maurizio Ivan Pio Rocchi. Di professione… Ecco di professione difficile da identificare. Almeno in prima battuta.

Maurizio è prima di tutto un artista. Poi un vignaiolo. O viceversa vallo a sapere. Sarebbe come risolvere l’eterno enigma se è nato prima l’uovo o la gallina.
Non credo sia possibile.

Ti fa subito simpatia Maurizio. Alto, la barba incolta. Abiti normali, quasi grunge forse. Una faccia che ricorda, anche se molto più magro, quella di Carlo Verdone dei primi tempi. Lo guardi e ti fa simpatia. C’è poco da fare.

Romano di Roma come si suol dire. Con alle spalle una storia di quelle che ti lasciano con il punto interrogativo sulla faccia. E forse ho proprio quello quando iniziamo la chiacchierata. Anche se al tempo stesso mi viene da ridere perché mi ricorda quel Manuel Fantoni del film Borotalco. Sempre con Carlo Verdone.

Un bel giorno senza dire niente a nessuno me ne andai a Genova e mi imbarcai su un cargo battente bandiera liberiana.
Feci due volte il giro del mondo e non riuscii mai a capire che cazzo trasportasse quella nave, ma forse un giorno lo capii: droga!

Sono nato a via dei Banchi Vecchi al numero 53 al terzo piano. Un bel giorno mia madre si presenta con l’uovo, il limone e il caffè dicendo: dobbiamo diventare coltivatori diretti. Tu sei il terzo di cinque. La prima domanda fu: ma perché proprio io? Perché dovevamo diventare coltivatori ancora non l’ho capito. Avevo 19 anni e adesso ancora non l’ho capito .

Una famiglia normale. Di quelle di una volta. Figli, figlie. Papà imprenditore edile che dava lavoro a oltre 120 persone. Mamma casalinga che si trova ad ereditare le terre dal proprio padre. Quella casa con la terra intorno dove si andava in vacanza in estate per dovere o per intramezzare le giornate al mare.

Avevo sessanta giorni di vita quando mi hanno portato per la prima volta li. Poi ci si andava d’estate dopo la scuola. Ho cominciato ad andarci sempre più spesso e nel 1978 mi sono fidanzato con una ragazza di Tuscania.

I flirt estivi. Che ricordi. Che emozioni al solo ricordare quei momenti. Erano flirt che duravano poche settimane o si trasformavano in storie di una vita. Vi ricordate il film Sapore di sale? Ecco così erano le estati. Perfetta rappresentazione di quei momenti. Perché di momenti si trattava.
Quel “fidanzamento” per Maurizio (Pio) non rappresenta certo l’amore della vita. Quello arriverà dopo (abbiate pazienza nel leggere). Di certo segnò il suo destino.

La mia prima piccola tela l’ho dipinta il 22 settembre 1979. Ero fidanzato con la nipote di un pittore di Tuscania, Giuseppe Cesetti. Cominciai a dipingere sulle tele che lui scartava. A scuola andavo molto bene e i miei disegni venivano esposti. Ognuno di noi nasce artista ma decide giorno dopo giorno se rimanere tale. La creatività la si mette in tutte le attività che facciamo.

Ve l’avevo detto che questa storia poteva prendere una piega inaspettata. Maurizio (Pio) è artista. Nell’animo. Voleva e vuole tutt’ora fare l’artista. Voglia di studiare il giusto e necessità (della quale si deve ancora capirne il perché) di diventare coltivatore diretto. Fatto sta che frequenta la nipote del pittore fino al 1984 quando diventa ufficialmente coltivatore diretto imparando ad essere un coltivatore diretto in tutto e per tutto.

C’erano 33 ettari all’epoca. Adesso non c’è più molto. C’era tabacco e tante altre coltivazioni.
Per tutta una serie di coincidenze negative ho comprato l’azienda di mia madre come contadino. Era il 1991. Non volevo smettere di essere artista ma dovevo fare l’agricoltura. Mi ero pure iscritto ad agraria e mi mancano cinque esami per diventare agronomo. Non me ne è più fregato niente. Uno sono!

Uno solo ma con tante energie. Maurizio (Pio) fa pure l’attore al cinema. Per nove anni, tra il 1985 e il 1994 partecipa con piccole parti ad una serie di film.

Piccoli ruoli. Parlavo. Ho smesso quando Christian De Sica mi disse per te c’è qualcosa e per la prima volta ho fatto la comparsa. Ho detto basta. Ho imparato molte cose. Le maestranza nel mondo del cinema sono artisti. Grazie a quelle esperienze mi sono girato tre video. Ho fatto incontri molto interessanti. No mi sono mai risparmiato. Quando vedo che le cose non marciano come voglio io, lascio.

Ci mancava pure il cinema adesso per ingarbugliare la storia. Artista, attore, contadino.
Il vino?
Il vino Maurizio (Pio) inizia a produrlo veramente nel 1991 senza sapere come si facesse. Da bambino entrava nelle botti di cemento per pulirle. Poco altro.

Prima mio padre faceva il vino da un ettaro e mezzo vicino casa e legato all’oliveto. Facevamo il nostro vino. Ho ripiantato le varietà che conoscevo. Barbera e Sangiovese per il rosso, Trebbiano, Malvasia e Moscato per i bianchi. Ho imparato tutti gli errori che commettevo dai contadini che lavoravano li. Volevo fare il vino di artista. La prima etichetta era dipinta a mano. Mandai la prima bottiglia ad un dirigente della Regione Lazio. Le prime edizioni delle bottiglie le firmavo e numerate uno ad una. Al primo Vinitaly mi sono portato le bottiglie e le etichette per firmarle e numerarle a mano. Ho scoperto poi finalmente la stazione mobile e non dover imbottigliare ed etichettare a mano è stata una svolta.

Nel 94 ho partecipato al mio primo Vinitaly. Alla camera di commercio era rimasto un solo stand. Lo prendo io ho detto. Sono andato con 500 bottiglie di vino rosso fatte a mano. Ne ho vendute 200 ad un signore di Monaco. Grazie a lui ho fatto anche una mostra a Monaco. Grazie al vino. Li mi sono gasato perché funzionava. Ho fatto il secondo nel 1995 ed è stata una esperienza tragicomica. Nel mondo del vino i rapporti tra produttori sono sempre connotati da un filo di ipocrisia. Ma io sono piccolo e non me ne frega nulla. Al secondo giorno mi si presenta Sergio Mottura. Una persona che io stimo tantissimo. Il primo impatto non è stato tanto carino. “Mi fai assaggiare il vino bianco?”. Beve, fa un sorrisetto e se ne va. Dopo tre quarti d’ora torna con un suo amico. “Mi fai assaggiare il vino bianco?”. Bevono, si mettono a ridere e se ne vanno. Dopo due ore tornano in tre. Stessa storia. A quel punto gli ho detto: senti, c’è gente che compra le mie bottiglie a prescindere da quello che c’è dentro. Lui mi disse: voi siete il futuro dunque dobbiamo capire bene. Seppe che mia moglie faceva la grafica. Così è venuto in cantina, ha ribevuto il vino ed è stato zitto perché era veramente buono. Non dico che siamo diventati amici ma abbiamo iniziato a rispettarci. Io lo apprezzo e stimo per le cose che fa. Mia moglie gli ha fatto due etichette. Una è l’istrice che ti guarda. Mia moglie era molto brava poi come mamma ha un po’ smesso.

Come può non farti simpatia uno come Maurizio (Pio) Rocchi? Impossibile direi. Lui è uno di quelli con il quale ti ci faresti le serate insieme solo per l’idea che possa raccontare aneddoti come questi. Pezzi di vita vissuta che non puoi non ascoltare ridendo a crepapelle immaginandoti li con lui.
La sua idea di vino è di quelle semplici e soprattutto senza alterazioni che non sarebbe nemmeno in grado di pensare.

Io scrivo che sono vini veri. Noi cerchiamo di arrivare con la uva sana e poi assecondo solo la natura. Si aggiunge solo la solforosa per conservarlo. Meno di un terzo di quello che è consentito.

Insomma, vini semplici, di quelli che si fanno senza nulla partendo da una agricoltura semplice e sana. Un pò perché è un puro, un pò perché non saprebbe nemmeno come fare diversamente. L’azienda biologica Vino d’Artista, che poi ha sede a Tuscania, ha in gamma solo tre vini: un bianco, un rosso e un rosato. Di farne altri non se ne parla proprio.

Io sono con i piedi per terra. Sono un autodidatta. A forza di testate ed errori che mi sono costate anche economicamente perché il vino doveva essere quello mio non quello dell’enologo. Ho fatto talmente tanti errori che ho saputo correggerli. Al Vinitaly facevo domande a mezzo mondo. La cantina professionale mi ha messo sulla giusta via. Senza demonizzare la tecnologia. Insomma non sono un professionista del vino. Non faccio le bollicine perché non sono capace. Ho imparato a fare questo e ho capito che se dovessi evolvermi andrei ad infilarmi in un labirinto che sarebbe difficile. Non voglio smettere di fare l’artista. Ho voglia di sporcarmi con i colori. Mi sono sporcato anche di fango.

Sporcarsi con i colori. È quello che fa Maurizio (Pio). Quando parli con una qualunque persona di un argomento e avrei voluto parlare di vino con lui, difficilmente ti trovi a parlare di qualcosa di completamente diverso. Quando capita occorre proprio essere rapiti dall’altro argomento per non avere voglia di ritornare al più presto al punto di partenza. Con Maurizio (Pio) è tutto più fluido. Si passa da un argomento all’altro senza soluzione di continuità. La verità è che lui fa il vignaiolo o il contadino che dir si voglia, solo per poter continuare a fare l’artista. Quella è la sua vera anima. Anzi, adesso ha pure ceduto totalmente l’azienda al figlio Enrico (che scherzosamente chiama “il boss”).
Ha trovato però il suo equilibrio. Nel vino e nella famiglia.

L’uomo ha bisogno di un ancoraggio. Adesso che ho imparato a fare il vino voglio rimanere con questo. Potrei sperimentare ma perché? C’è una parte da estendere e una parte di stabilità. I figli sono persone delle quali andare orgoglioso. Con mia moglie abbiamo fatto un lavoro quotidiano. Non li abbiamo mai trascurati. Se non c’era lei, c’ero io. Anche la famiglia ti porta in una certa direzione. I miei fratelli mi prendono ancora in giro perché sono stato l’ultimo a sistemarsi. Le mie sorelle mi prendevano in giro ma io ero uno che telefonava alle ragazze in agenda fino a che trovavo una che usciva da me.

Poi non ditemi che non vi viene in mente Carlo Verdone? Se non è così, per cortesia, di corsa a farvi una cultura cinematografica. Nel film “Un sacco bello” Enzo sfogliava la sua agendina chiamando a tutti gli amici per trovare un compagno di viaggio verso la Polonia.

Per Maurizio (Pio) la famiglia è un elemento essenziale ed imprescindibile della sua esistenza. Qui punti fermi dei quali anche un uomo curioso e con la necessità di esplorare il “dietro” o il “dopo”, ha necessità.

Mia moglie è olandese. Si chiama Petra. Petra – Rocchi è perfetto. Abbiamo messo una pietra enorme davanti casa. L’ho conosciuta in una galleria ad una mostra collettiva a Roma dove esponevo le mie opere. È stato un momento magico della mia vita. Sono andato li con la mia ex e lei con il suo ex. Non ci siamo manco visti. Sono andato a fare una mostra in Danimarca e la gallerista mi chiama per un finissage. Lei era sola, io solo e mi sono detto: chi è sta bionda. Lei stava parlando con un mio amico purtroppo morto, un bravissimo artista. L’ho guardata per trenta minuti fissa. Fino a che non si è separato da lui. Allora sono andato da lei, mi sono introdotto dopo di che sono scappato via. Lei poi mi ha detto che mi è corsa dietro ma non mi ha trovato. Poi mi ha richiamato, ci siamo visti e ci siamo sposati e tutto quello che he abbiamo fatto è stato insieme. Tutti i rischi che abbiamo corso insieme.

Petra si occupa del bed&breakfast. Poi fa fotografia e lo fa molto molto bene. Sull’etichetta del rosato, che si chiama Petra, ci sono le sue foto. Adesso sta preparando una mostra a settembre alla camera dei deputati. Facciamo ancora i genitori perché abbiamo un figlio di 16 anni, il terzo. In mezzo c’è la femmina che vive a Roma e frequenta la Lumsa. Enrico è il boss ovvero il responsabile dell’azienda. È in mano a lui. Poi c’è Eloise Dies e Arno Marzio. Fa il portiere di calcio. È un personaggio pure lui. Lo seguo perché sono il suo manager. Parliamo tantissimo. Guardiamo le partite della Roma insieme.

Arte e vino si mischiano ma non si contaminano. È come se Maurizio (Pio) le tenesse completamente separate. Il vino che serve per poter fare l’arte. Ma non che l’arte debba in qualche modo avere a che fare con il vino. Se non fosse per le etichette, vere opere d’arte, che cambiano di anno in anno, forse non ci sarebbe nemmeno il sentore di un qualche riferimento artistico.

Il vino è stata l’arma di compromesso per continuare a fare agricoltura senza smettere di fare l’artista. È una cosa produttiva che mi fa sta bene con me stesso. In vita mia avrò piantato oltre diecimila alberi. Porto i miei figli nella sugheraia perché i sugheri mi fanno impazzire. Andavamo a portare le ghiande dove le piante non erano cresciute.

Io faccio le mie performance che non sono sempre legate al vino. Non mi interessa più tanto fare le mostre. Mi piace il confronto con un altro artista come la danzatrice. Con la musica che è la prima arte. Poi con il pubblico, uscire dalla tranquillità dello studio. Le mie opere si intitolano fratture. Attraverso le fatture io sono futuro. Sono proiettato verso il futuro, verso il domani in una corsa verso il nuovo. La mia vita è sempre stata mettere in gioco quello che avevo creato una ora prima. Non avere paura e cercare qualcosa di nuova. Voglia e coraggio di guardare dietro l’angolo. Avere il coraggio di aprire una porta e se non ti piace chiuderla e aprirne un’altra.

Quando si sente di avere un talento, occorre assecondarlo. Far si che abbia il suo sviluppo. Il suo corso. Solo che spesso non è semplice capire quale sia il proprio talento. Alle volte capita che lo si scopra per caso. Altre volte perché stimolati. L’importante, e lo dico da genitore, è di non confondere i propri desideri con quelli dei figli.

Uno pensa che l’arte sia dipingere e basta. L’arte è qualcosa di profondo che va a finire nell’anima. Anche un bicchiere di vino ad esempio. L’arte la guardi e basta. Un bicchiere di vino lo guardi, lo annusi, lo assaggi. Quando tu cambi la temperatura di controllo della fermentazione, cambia qualcosa. Il vino lo trasformi e se non lo trasformi bene diventa aceto.

La cantina di Maurizio (Pio) è piccola. Una bomboniera di 60 metri quadri dimensionata per fare non più di diecimila bottiglie. Di più, sia per via dei pochi ettari che sono in produzione (2.6) o di quelli che entreranno a breve (1.2), sia per la mancanza di necessità, non se ne vogliono fare.
Nessuna barrique. Solo acciaio. Cose semplici. Tuttalpiù il controllo delle temperature.

I vini
Mercurio è il bianco da Malvasia di Candia, Trebbiano e Moscato. Già l’etichetta è bella. Quella del 2020 è diversa da quella del sito (che è del 2017) e da quella che sarà. Tutto cambia in fondo. Il colore è una pennellata d’oro e i sentori si lasciano permeare del Moscato. Poi c’è del miele e della frutta secca insieme a dell’uva passa e ad un pò di vedetele per stemperare ed impreziosire. La pera croccante Smith arriva insieme alla mela granulosa. Poi mentuccia, salvia, fieno. Una altalena di note dolci e pungenti a dimostrare come la sapiente scelta di vitigni a loro modo semplice, porta note di livello.
Il sorso evidenza ancora la nota del Moscato e della Malvasia lasciando al Trebbiano la capacità di essere fresco. In bocca si materializzano i sentori con una freschezza che non ti aspetti da un vino di quattro anni. C’è ancora del vegetale gentile ad impreziosire il sorso. Secco certo ma con la sapidità che irrora la bocca lasciando la bocca pulita e pronta, direi vogliosa, del prossimo sorso. Un gioco di dolcezze e durezze interessantissimo perché giocato su un filo che non si valica mai. Credo che Mercurio rappresenti una porta che si può o meno varcare, ma quando lo si fa, è perché c’è la voglia, anzi l’interesse, di scoprire qualcosa di diverso nella apparente semplicità.

Petra, il rosato da Sangiovese e Barbera. Da quando il vino è sceso nel bicchiere, non ho smesso di guardarlo, affascinato da una colorazione che sa di arancia ambrata. Una pennellata di colore ottenuta mischiando del giallo, del rosso, del nero. Come se la luce giocasse donando sfumature di colore diverse. Da arancione diventa ambra per poi cangiare e virare sul mattone per tornare all’arancia. Se si chiudono gli occhi e si avvicina il calice al naso non si può fare a meno di pensare ad un colore proprio ambrato per poi concretizzarlo in una mela annurca, pastosa e intensa che vira verso la carruba rinfrescata dall’arancia. Poi anche l’arancia vira e diventa candita, come quella che si trova sulla cassata siciliana. Vira ancora diventando mandarancio. Timo e salvia insieme alle foglie di limone e mandorla nonché alla violetta, completano un bouquet dal quale non ci si vorrebbe mai staccare perché offre sensazioni diverse ad ogni olfazione. Ha un non so che di avvolgente, vellutato e sensuale come solo l’ambra può rappresentare.
Anche il sorso è definibile come ambrato. Chiudendo gli occhi e riempiendo la bocca di questo meraviglioso liquido, mi viene in mente il brandy. È una avvolgenza incredibile, pazzesca. Qualcosa che dona alla bocca pienezza e corposità. Spessore insomma. Fresco ma non troppo. Secco ma non troppo. Caldo. Sapido. Un insieme di sensazioni e sapori che richiamano perfettamente anche i sentori con la mela annurca e l’arancia, impreziositi da una leggera essenza di menta e liquirizia. Persistenza anche lunga con un equilibrio e chiusura di bocca, pazzeschi. Un vino decisamente memorabile. Ottenuto senza fare botte ma con tanta tanta arte.

Rosso del Lupo è infine il rosso da Sangiovese e Barbera. Ho assaggiato il 2019, un vino che al pari degli altri fa solo acciaio. L’etichetta è di quelle che non si guardano, si ammirano. Capisco così perché quando Maurizio (Pio) me ne parlava attribuendola alla moglie Petra aveva gli occhi che brillavano. C’è una sorta di freccia che non, inizialmente, non capisco bene. Ho un déjà vu con le tele di Fontana. Poi, con il naso nel calice, capisco. È quella sensazione di balsamico celata dietro tanto altro. Non arriva, non subito, ma solo dopo ricercandola o meglio quando vuoi respirare dal vino. Incredibile.
Nel calice è rubino con riflessi granata. I sentori sono freschi di piccola frutta nera e rossa con una arancia sanguinella, rossa e polposa che emerge prepotente insieme al melograno. C’è spazio per i  fiori di violetta e peonia. Fiori che sembrano quasi in appassimento, come se il sole li avesse avvolti, cotti. Un flebile sentore vegetale dona poi freschezza. La sorprendente balsamicità  infine che fa scoprire anche la nota ferrosa e un indimenticabile Mon cheri.
Il sorso è fresco, meravigliosamente avvolgente con i frutti che diventano immediatamente maturi, quasi pastosi. Il tannino è come il lupo che ulula per poi ammansirsi, quasi a chiedere una carezza. La persistenza non è elevata e la bocca è incantevole per un bellissimo equilibrio tra un finale con nota dolce leggermente acidula. Non particolarmente caldo mi ha conquistato per la sua estrema bevibilità e la capacità di accompagnare in maniera egregia una bistecca alla brace.

Tutti i vini sono caratterizzati da un incredibile equilibrio. Ancorché instabile. Come se fosse un equilibrista sul filo che oscilla senza cadere, dondola dolcemente come su un’amaca all’ombra di un grande albero.

L’equilibrio trovato nel vino. Come la famiglia. L’uomo ha bisogno di un ancoraggio. Adesso che ho imparato a fare il vino voglio rimanere con questo. Potrei sperimentare ma perché?

Maurizio (Pio) Rocchi è così. Prendere o lasciare. Amare o odiare. Io sono convinto che quel pezzo di carta che ha squarciato dinanzi i nostri volti è stato come un modo (o una scusa) per aprirsi e raccontare di se e della sua vita. Senza freni e senza paure. Con onestà e voglia di farlo.
Forse per molti aspetti la vita ha scelto per lui. La madre ha scelto lui diventasse agricoltore. Petra lo ha scelto rincorrendolo e richiamandolo. L’uva e la terra hanno scelto di essere plasmati da lui. Ma nella vita niente accade per caso e, generalmente, le cose accadono solo se in qualche modo si pongono le basi affinché accadano. Maurizio (Pio) Rocchi ha sempre guidato la propria vita e lo ha sempre fatto con l’ardore di esprimere e sperimentare la sua curiosità attraverso l’arte. Vignaiolo per necessità, artista per anima.
C’è però una cosa che per Maurizio (Pio) Rocchi è una costante irrinunciabile: la famiglia.
In fondo, l’ancoraggio del quale lui parla, è proprio la famiglia.

Il resto, è arte.

 

Ivan Vellucci

ivan.vellucci@winetalesmagazine.com

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