Vigneti Fontana. Il ritorno, la rinascita, il futuro
1868. Tunisia. La Goletta. Trattato della Goletta.
Ecco, un altro articolo che inizia con qualcosa di strambo direte voi.
La vita delle persone non è stramba. È complessa, intrigata, dolorosa. Pezzi di storia che non si studiano sui libri ma che comunque toccano l’animo, modificano vite e generazioni di vite. Scelte personali o scelte indotte da avvenimenti passati sulla propria pelle. Avvenimenti, fatti, circostanze. Spesso subite, alle volte ricercate, altre ancora avvenute per caso. Storie che rimangono nascoste nelle pieghe di fatti altisonanti che sotterrano le vite dei singoli. Ci si passa sopra senza neanche guardare. Tanto, a chi si occupa di massimi sistemi, interessa altro.
Invece è la vita dei singoli che conta. Ogni singola vita che da quell’evento in in poi, è cambiata per sempre.
La Tunisia è oggi un paese non propriamente sicuro. In viaggio tanti anni fa scoprì Tunisi, Sousse, Hammamet, il deserto, la Medina, le spiagge, le persone. Un paese meraviglioso, ospitale dove le tradizioni del passato berbero si mescolavano con quelle dei colonizzatori francesi. Si viveva in una sorta di pace apparente dove politici corrotti ed incompetenti, incapaci ed ingordi ne hanno, col tempo, decretato la decadenza. Crisi economico finanziaria, mala gestione degli aiuti e dei flussi migratori verso l’Europa lo hanno reso un posto dal quale scappare. Figuriamoci entrare.
Eppure, nel corso dei secoli, tanti italiani entravano in Tunisia in cerca di lavoro. Da ogni parte d’Italia e in particolar modo dalla Sicilia.
Pensate un pò, dalla Tunisia partono oggi i migranti alla volta della Sicilia, due secoli fa e nel secolo scorso dalla Sicilia gli italiani partivano verso la Tunisia. Da una parte o dall’altra mossi sempre da uno stesso motivo: lavoro e vita dignitosa.
Anche dall’Italia si partiva in maniera irregolare. Ci si imbarcava dai porti di Marsala, Trapani, Mazara del Vallo allo volta de La Goletta, avamposto di Tunisi nel Mediterraneo. Qui, un lavoro o un compaesano già introdotto disposto a dare una mano, lo si trovava sempre. Erano i francesi a dettare legge. Erano loro che gestivano aziende pubbliche e private. Erano loro i datori di lavoro.
Serviva manodopera a basso costo e nel 1868 venne siglato tra il Governo italiano e quello tunisino (protettorato francese si diceva tanto per non far vedere chi erano i padroni) il Trattato della Goletta che stabilì il principio della “nazione più favorita” per quanto concerneva la possibilità di immigrazione. L’Italia ovviamente. Se non altro per prossimità.
La colonia italiana in Tunisia si ampliò poi ulteriormente quando Mussolini, non potendo annettere la Tunisia al Regno essendo di pertinenza francese, si prodigò per gli italo-tunisini costruendo scuole, ospedali, banche, organizzazioni assistenziali.
Insomma, tanto sviluppo, tanto lavoro. Benessere. Quello che tutti cercavano e cercano tuttora.
Poi gli avvenimenti, i fatti, le circostanze. Di quelli che si studiano nei libri di storia. Senza però entrare nella vita delle persone. Sulle quali invece le conseguenze ne segnano l’esistenza. Propria e delle generazioni a venire.
È il 1956 quando la Tunisia raggiunge, non senza spargimento di sangue, l’indipendenza dalla Francia (altro che “protettorato”). Si insedia il nuovo governo che fa quello che tutti i governi riscattatosi dal colonialismo fa: nazionalizza le terre. È il 1959. I francesi, gli italiani, gli stranieri, non possono che raccogliere quanto gli è possibile portare con se e scappare. Tornare in quella patria dalla quale sono, dovuti, andar via.
La Tunisia era un ricordo felice fino a quando i terreni non sono stati espropriati. Vivevano insieme in Tunisia e sono arrivati a vivere insieme a Nettuno. Tutti i fratelli e cugini.
Sono tornati tutti insieme.
Mamma era già andata li con la famiglia che veniva da Pantelleria. La famiglia di papà è emigrata li quando lui aveva sei mesi. Per lavoro. Mamma non so perché era li ma suppongo per lavoro. In famiglia di mamma c’erano dieci figli. Papà raccontava che li c’era più possibilità di lavoro.
Qui trovarono le vigne a filari bassi e le lavorazioni che venivano fatte con l’aratro trainato dai buoi. In Tunisia avevano già i trattori. Il vigneto era un tendone. Avevano una grande cantina con grandi vasche di cemento. Ci trasmettevano questi ricordi.
Papà faceva il vino in Tunisia. Viti e agrumi. Lui era siciliano e viveva di agrumi. Qui acquistò il terreno perché all’ingresso c’era l’agrumeto.
Antonella e Rita Fontana sono figlie di Rosina e Michele che dalla Tunisia scapparono proprio dopo la proclamazione della nazionalizzazione delle terre. Antonella aveva due anni, Rita sei mesi. Non lo dicono ma non deve essere stato semplice rivivere un ricordo doloroso. Un ricordo di sradicamento dal luogo ove sono nate. Così come non sarà stato facile per Rosina e Michele lasciare tutta una vita e, provare, ad iniziarne un’altra. Avevano la forza. Avevano la volontà e l’esperienza. Avevano la famiglia. Avevano le figlie da far crescere.
Quando papà torno qui vivevamo della terra. Papà comprò un’altra azienda nella zona di Sabaudia. Poi capì che era troppo lontano per gestirla e venne venduta.
Il vigneto di Sabaudia aveva uve da tavola e da vino. Vinificavamo qui. Papà vendeva il vino all’ingrosso. Venivano i camion con le cisterna. Da ragazze finito il tempo della scuola andavamo ad aiutare i genitori in vigna e in cantina. I profumi erano nostri. Abitavamo sopra…
Papà in vigna aveva degli operai mentre in cantina gestiva tutto luiRicordo le nottate per la torchiatura e il controllo del mosto. Tubi che colavano. Motopompe accesse. Controlla stai attenta, non ti avvicinare che c’è il torchio in moto.
Anche se gli operai non erano di famiglia si creava un rapporto amichevole e familiare. La vendemmia chiudeva il lavoro di un anno e a papà piaceva questo momento di festa e condivisione.
I ricordi di Antonella e Rita si rincorrono e lascio che escano così come capita. Un pò di nostalgia mista a felicità. Nostalgia per quei tempi. Felicità per quei tempi. Un misto di sensazioni che si accavallano e convivono senza che si possano scindere.
Le famiglie in Tunisia vivevano tutte insieme. Fratelli, sorelle, cugini, nipoti. Tutti insieme perché tutti insieme si lavorava. Una piccola grande comune dove ogni cosa era in condivisione. Il concetto di famiglia rappresentava il vero motore di qualcosa che, una volta arrivati in Italia, non si poteva spegnere.
Loro qui hanno ricominciato da capo. Quando sono venuti qui avevano trentacinque anni e due figlie io e Rita mia sorella. Avevano cominciato da capo con una casa e un piccolo appezzamento.
Così in Tunisia, così a Nettuno. Qui papà Michele arriva, prima in avanscoperta, poi con tutta la famiglia. Qui decide di comprare casa e terra. Vicino al mare.
Poco sotto Roma, porta di ingresso nell’Agro Pontino, Nettuno è paese di mare e di terra. Una sorta di congiunzione tra i due elementi, due anime. Probabilmente la fertilità delle terre e la provenienza delle persone che iniziarono ad abitare queste zone, fa prediligere la propensione verso la terra piuttosto che per il mare. Terreni argillosi e sabbiosi che portano con se il ricordo della palude.
Grandi pianure ove qualunque cosa si semini, cresce rigogliosa. Anche il vino, grazie alle barbatelle portate dai coloni del Veneto e dell’Emilia, dell’Umbria e della Lombardia che negli anni ’30 trovarono nell’Agro speranza di vita grazie alla bonifica. Un pezzo di terra e una casa in cambio del lavoro di bonifica. La speranza di un futuro invece che la povertà assoluta.
Poi ci si meraviglia se in queste zone si inneggi ancora al Duce e si voti principalmente a Destra.
Antonella e Rita hanno vissuto la loro vita a Nettuno. Qui sono cresciute. Qui si sono sposate. Qui sono nati i loro figli (cinque nipoti in totale). Qui hanno lavorato anche se non solo nella terra dei genitori. Sono rimaste però nelle case che erano quelle di quando sono arrivate in Italia. Le case con la terra intorno. Quella dove papà Michele aveva impiantato le vigne. Quella dove si facevano le feste della vendemmia.
Siamo andati avanti per diverse anni. Io le ricordo queste scene che ero piccola. Ricordo che con i cugini ci nascondevamo in attesa della festa con i pasticcini e le pesche. Era una festa.
È Simona che si innesta nella conversazione. Lei è una dei cinque cugini: Alessia, Andrea, Sergio, Eva. Rappresentano la nuova generazione. La continuità, la spinta propulsiva necessaria a riprendere in mano qualcosa che non era stato più gestito dopo Michele e Rosina.
Noi che siamo la generazione successiva, abbiamo il ricordo di quello che i nonni ci raccontavano. Nella quotidianità come a livello gastronomico. Il cous cous che tanto va di moda ad esempio. Anche nel parlato quotidiano i termini tipici ritornavano frequentemente. Abbiamo solo le foto e i sapori che ci hanno fatto vivere.
I cinque ettari che circondano le case di Nettuno rappresentavano le uniche terre rimaste. Papà Michele aveva comprato anche dei terreni a Sabaudia che però vendette prima della sua morte avvenuta nel 1994.
Con il pulmino di ritorno dalla vigna di Sabaudia la tappa fissa alla gelateria era un must.
Terre super ancora più fertili probabilmente ma lontane (per quei tempi) da Nettuno dunque difficili da gestire se l’agricoltura non rappresentava l’impegno principale.Abbiamo mantenuto questa azienda per motivi affettivi. C’era ancora mamma. Ognuno di noi aveva il proprio lavoro dunque si vendeva l’uva
È una conversazione meravigliosa quella con Rita, Antonella e Simona che si accavallano nelle parole perché sono i ricordi che si accavallano. Un intreccio di ricordi generazionali che saltano avanti ed indietro nel tempo.
Mamma è vissuta molti anni dopo papà. Deceduta nel 2018. Era gelosissima dei cinque ettari. Abbiamo pensato che lavorare e metterci impegno e vendere l’uva non andava bene. Finiva nel mucchio.
Nel mentre figli e nipoti sono cresciuti e nessuno voleva mollare la presa su quei cinque ettari. I nipoti hanno fatto la maggioranza.
Dopo la morte di papà Michele vinificare non era più possibile. C’erano le figlie con i loro mariti ma si sa che i genitori cercano sempre di migliorare le condizioni di chi viene dopo di loro. La terra non rappresentava più la fonte di vita con la conseguenza che la produzione di quei cinque ettari veniva venduta per intero.
Non imbottigliavamo. Ma vendevamo solo l’uva. Non ce la facevamo. Conferivamo l’uva.
Uve principalmente bianche come era normale in questa che è storicamente terra di bianchi autoctoni come il Bellone, la Malvasia o più avanti nell’Agro Pontini, il Moscato di Terracina. I rossi arrivano dopo, proprio con i coloni che si portarono dall’Alta Italia le barbatelle.
Abbiamo pensato di dar valore a quello che era rimasto. I genitori non c’erano più però quello che era rimasto a noi era dovuto alla loro fatica, al loro lavoro, al loro amore. Questo posto era un posto tranquillo che hanno amato. Anche rispetto alla paura vissuta in Tunisia. C’era pericolo che portassero via noi che eravamo piccole. Questa era una oasi di pace. Anche gli altri che arrivavano si potevano appoggiare. Così l’attaccamento a questa terra. Noi abbiamo ricostruito quando ci siamo sposati per mantenere le radici qui.
Io impiegata dello stato nella Polizia. Ora in pensione.
Io lavoratrice autonoma.
Mio marito lavorava alla Difesa e nel pomeriggio si occupava della vigna. Era il braccio destro del papà.
È un intreccio di voci. Ognuna che prima timidamente poi con maggiore enfasi interviene nella discussione appena un ricordo affiora. La voglia di dire qualcosa che possa mettere un ulteriore tassello alla ricostruzione di una storia che non può cadere nel dimenticatoio.
Vinificare è venuto fuori nel 2018. Una annata non troppo favorevole e non volevamo iniziare in maniera incerta. Il 2019 è stata una buona annata e abbiamo deciso di imbottigliare per dare valore. Purtroppo quando era pronto nel 2020 era tutto chiuso. Ci siamo fatte ricche bevute.
Così ci siamo inventate progetti diversi. Eravamo soddisfatti del risultato del prodotto.
La cantina non era più a norma e rinnovare tutto il macchinario non era possibile. Così appoggiamo presso una cantina.
Sapevamo ciò che volevamo e anche da un punto di vista etico e morale abbiamo cercato le caratteristiche di chi fa vino. Biologici ad esempio. Ci hanno accolto come una seconda famiglia. Abbiamo iniziato a camminare insieme anche con l’enologo.
Nasce Vigneti Fontana insomma.
Un nuovo inizio non è mai semplice. Tante idee. Tanti progetti. Tanta euforia. Tante voci in questo caso. Ciò che però si respira in questa azienda è unione ed allegria. Unione di più famiglie che hanno mantenuto uno spirito di coesione e coesistenza. Lo stare insieme come momento di allegria, utile per ricordare e mantenere le tradizioni.
Cinque nipoti e tre pronipoti. Con le forbici in mano siamo tutti all’opera. Con la vendemmia la squadra è già pronta.
Non solo vendemmie ma tante attività a corollario della cantina. La vendemmia, fatta a mano che coinvolge le famiglie ed i bambini. La pigiatura come si faceva una volta: con i piedi.
Facciamo vedere come si controlla il grado zuccherino. I bambini possono assaggiare anche il mosto. Si preparano dei dolci. Facciamo anche la raccolta delle fascine perché a Nettuno c’è la tradizione del falò della Immacolata e si accende il falò sulla spiaggia. Prepariamo le fascine e le facciamo preparare per essere pronti.
Qui c’è la festa. Quella di una famiglia allargata. Tante persone che sono insieme con la voglia di rimanere insieme. Non un circolo chiuso ma un anfiteatro dove le persone vi entrano iniziando a farne parte.
Festeggiamo Santa Lucia e San Nicola come mix tra Sicilia e Lazio. Tante serate di degustazione e preparazione di biscotti.
Convivialità per stare insieme attorno alla campagna e al vino. Cerchiamo di trasmettere questo.
Il vino si è importante ma è più importante lo stare insieme.
Si respira. Si respira proprio quest’aria di festa ed allegria. Nelle parole e nei fatti. Attaccati alla portafinestra della cantina ci sono i disegni dei bambini che vengono qui per passare le giornate. Sono messi li con grazia e tenerezza. Sono belli. Trasmettono allegria. Trasmettono quella spensieratezza che Rosina e Michele hanno trasmesso alle loro figlie e ai nipoti. Dimenticando la fuga. Dimenticando o provando a dimenticare la paura.
L’azienda c’è e ci vuole essere. Un senso di rispetto verso i sacrifici di Rosina e Michele ma anche e soprattutto un collante per la, anzi, le famiglie che oggi si riuniscono attorno a queste vigne.
Oggi siamo a 5000 bottiglie a secondo della annata. Tremila di bianco, 800 di rosato. 1000 di rosso e 250 di spumante. Dal totale conferito a parzialmente conferito. Con l’obiettivo di imbottigliare tutto e ad un nuovo impianto. Aumentare la vigna per fare più rosso.
Il primo anno abbiamo fatto solo il bianco e il rosso. Nel 2022 il rosato e lo spumante.
Qualcuno diceva che ci volevano i maschi ma papà diceva che erano meglio le femmine. Era contento della sua famiglia e oggi sarebbe orgoglioso che si sta portando avanti il suo nome.
I primi due vini sono dedicati alla famiglia. Madamì e Chery erano i nomi di casa con i quali papà chiamava mamma.
Madamì è un riuscitissimo mix di Malvasia di Candia, Trebbiano e Bellone. Sa di leggerezza. Sa di spensieratezza. Sa di un aperitivo al tramonto in riva al mare. Sa di una cena a base di pesce con i piedi nel mare. Note semplici di fiori bianchi che si fondono con lo iodio del mare. Note di agrumi e di mela farinosa. Note di frutti tropicali ed erba appena tagliata. Note di acacia e camomilla.
La freschezza e frizzantezza di tali sentori, invitano al sorso che, quando arriva, spicca per la sua sapidità. Fresco e secco, per nulla caldo così da essere estremamente bevibile. Tanto bevibile che la chiusura di bocca è un invito al prossimo sorso.
Ben strutturato nella sua sottigliezza, schietto. Un ritorno di melone in bocca, va giù che è un piacere.
Stesso mix per lo spumante brut 5.0. 5 come i cinque nipoti. 5.0 come un nuovo corso che sta per cominciare e in parte è già iniziato. Un bel colore giallo paglierino, quasi dorato nel calice. Perlage non particolarmente fine ma ci sta. Sentori giusti, schietti e poco civettuoli.
Un sorso efficace, non banale e soprattutto incisivo. Ma senza essere invadente. Persistenza giusta. Secchezza giusta. Un brut che accompagna una cena senza voler essere protagonista ma giusto comprimario. Si stappa e si beve. Per creare allegria e continuità.
Cherì è il rosso da Merlot e Cabernet Sauvignon. Il rubino intenso con venature porpora è vivo e avvolgente. I sentori sono freschi e vinosi con ciliegie, arance e anguria ad invitare il sorso. Il floreale e il tocco di balsamico donano vivacità e allegria. Niente è stucchevole, niente è banale. Sembra di vedere il sorriso di una donna che si gira quando la chiami Cherì così che possa venirti incontro e darti un bacio spensierato, di pura allegria. Come il sorso: fresco, non particolarmente caldo, secco e con una marcata sapidità. Il tutto per una sensazione di sottigliezza, non particolare struttura, snello. Uno di quei vini che si può bere anche più fresco, da aprire senza particolari sovrastrutture. Solo per strappare un meraviglioso sorriso.
Été è infine il rosato da Merlot. Immediato e sbarazzino già dal colore quasi aranciato. Sentori vinosi con l’anguria, fresca e appena tagliata, in bella mostra. Se si chiudono gli occhi e si respira, lo iodio e l’anguria riportano immediatamente in riva al mare in una sera d’estate. Arriva poi un pò di limone e dello zenzero a rendere più frizzante il tutto. L’erba appena tagliata e i fiori di campo sono il legame con la terra di Nettuno.
Il gusto richiama ancora l’anguria (o cocomero come si chiama da queste parti), la pesca messa a macerare nel vino, l’arancia. Tutto in fusione con la sapidità del mare. Non particolarmente caldo ce con persistenza non lunga. Cosa questa che rende il sorso fluido, sbarazzino. Il finale di bocca è fine e quasi floreale. Meraviglia!
Papà non era un amante di vini con una gradazione troppo alta.
Nella vecchia cantina nonno teneva le vecchie bottiglie e aperte recentemente abbiamo notato che lo stile era quello di oggi. Lo stile era sempre uno stile francese con vini bevibili e non tosti.
Vogliamo essere apprezzati noi ed il vino laziale. Farlo riscoprire anche andando ad eventi cosi facendo eventi in vigna anche a persone con disabilità. Abbiamo ricevuto tanto e vogliamo ridare.
Dopo Rita ed Antonella ci saranno i figli a portare avanti l’azienda. Una continuità che a Rosina e Michele avrebbe fatto piacere. Non tanto per la parte economica quanto più per l’unione della famiglia. Il vero valore della vita.
Ognuno fa la sua parte e ha i suoi compiti. Siamo cinque teste differenti spesso in contrasto però alla fine è un camminare unico. Un sentiero tracciato insieme da quando eravamo piccoli. Non è mio cugino ma mio fratello. Siamo molto uniti. L’unione tra mamma e zia è come in precedenza una sola famiglia. I valori e i principi sono comunque allineati sullo stesso cammino.
Ognuno con altri lavori. Ognuno con la propria famiglia. La vigna unisce, non divide. Le discussioni non sono discussioni ma un modo per parlare di qualcosa in comune. Qualcosa che non è del singolo ma della famiglia.
Le domeniche si mangiava e si diceva: che nome diamo a questo vino nuovo? Come lo facciamo? Iniziava e finiva tutto intorno alla tavola. Una discussione impegnativa perché siamo tanti.
Ognuno riconosce la parte di competenza dell’altro. Ci si fida molto dell’altro. Piena fiducia nell’altro perché è come se lo facesse con le sue mani. Dal lavoro in vigna al decidere il tipo di vino. La grafica delle etichette. C’è spazio per tutti e per tutte le indoli. Il vigneto è circondato dalle olive. Produciamo olio ma va via subito essendo tanti.
Non ci sono veri obiettivi per il futuro. Si, magari un pò di vigna in più. Magari una barrique per nobilitare il rosso. Magari una cantina vera così da vivere insieme anche la parte della vinificazione. Magari un pò più di struttura per seguire tutta la parte burocratica necessaria dopo esser passati al biologico. Magari più eventi per farsi conoscere e far conoscere il vino laziale.
Nulla di trascendentale e una sola certezza: continuare a stare insieme.
ivan.vellucci@winetalesmagazine.com
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