13 Set 2024
Suggestioni di Vino

Tenuta Maffone. Eliana e Bruno. Ancora, ancora, ancora

Era fatale che anche per lui come per tutti i pensionati, scattasse la mortale trappola degli hobbies. 
Primo hobby di Fantozzi: l’aeromodellismo. 
Secondo hobby di Fantozzi: il golf
Terzo hobby di Fantozzi: il ciclismo
Alla fine capì che l’unico vero hobby possibile per lui era…il lavoro

Fantozzi va in pensione è un film di Neri Parenti del 1988 con il mito, indimenticabile Paolo Villaggio. Per anni, il ragionier Ugo Fantozzi ci ha fatto ridere e riflettere con le sue verità nascoste dietro la goffaggine di un triste impiegato ingabbiato in un lavoro e una vita colma di conformismo e squallore. Una inesistente vita privata che ha come riflesso la necessità di un lavoro, unica vera alternativa di esistenza. La speranza è che lo squallore e la monotonia finiscano con la pensione, la agognata pensione arrivata la quale si può finalmente fare tutto. Tutto cosa? Non si è mai fatto nulla oltre il lavoro. La fabbrica, l’ufficio, i colleghi, il dopo lavoro, le poche risicate vacanze con la speranza di tornare presto al lavoro. Una schiavitù non scelta. Un girone dantesco degni ignavi. La pensione risulta invece essere la consapevolezza della propria inutilità con la necessità di ingannare il tempo i per non morire di noia. Purtroppo, neanche gli hobbies riescono ad alleviare la pena.

Per tutti (quelli che lavorano occorre aggiungere) arriva inesorabilmente l’età anagrafica e lavorativa a partire dalla quale si inizia a pensare al dopo. Con le attuali leggi in materia pensionistica è meglio non pensarci proprio. Ricordo che tempo fa sono andato sul sito dell’INPS per capire la mia situazione contributiva e il tempo che mancava alla pensione: ho chiuso il sito immediatamente!

Quando si intravede, anche da lontano, la pensione, nella mente iniziano a fare capolino i progetti. Quelli sul futuro. Come se il futuro apparisse solo dopo, senza averci mai pensato prima. Pensieri. Fantasie. Idee che si costruiscono come se fossero copri divano. Messe li per coprire la ver realtà per la quale, arrivata la pensione, sarà solo monotonia e depressione. Tutto tipico dei fantozziani. Individui che non hanno nulla da fare fuori dal contesto lavoro e che con tutta probabilità pregheranno per fare i consulenti o i lecca francobolli. Un lavoretto piuttosto che stare a casa in depressione. 

Eliana e Bruno hanno risolto la faccenda prima della pensione, licenziandosi per andare a fare i contadini. 

Ho iniziato questa avventura nonostante l’età avanzata con mio marito esattamente quindici anni fa, nel 2009.

Quella cui Eliana Maffone fa riferimento è davvero una avventura. Una di quelle già difficili solo a pensarla in senso lato ma se poi la contestualizziamo al territorio, diventa una missione.

La vignaiola o, come dice Eliana, la contadina. In effetti, si può colorare quanto si vuole questo mestiere, ma prima che produttore di vino occorre essere contadino: l’uva non è che nasca in cantina….

Eliana e Bruno sono coppia di vita che da giovani, partendo da un piccolo paesino dell’entroterra ligure, costruiscono la propria vita in città. A Savona. Sole, mare, una casa, un buon lavoro, niente figli. Insomma, grande stabilità e la pensione che si intravede. Memento tanto lontana. Ci si può preparare a girare il mondo.

Le cose però non capitano mai per caso. Arrivano. Il libero arbitrio che ciascuno di noi possiede ci  fa scegliere. Come se arrivati ad un incrocio possiamo andare a destra o a sinistra. Scegliamo senza mai sapere cosa sarebbe accaduto se fossimo andati dall’altra parte. 

È il 2008 quando il papà di Eliana viene a mancare e la mamma non se la sente di mandare avanti l’azienda di famiglia che produce uva da vino e olive. 

Il bivio è arrivato. 

Che facciamo? Mamma da sola non poteva fare nulla. Mamma ci disse “fate ciò che volete”. Solo l’idea di abbandonare i terreni dove tutta la famiglia si era rotta la schiena non mi andava giù. Dissi a mio marito che mi sarebbe piaciuto fare qualcosa ma non sapevo bene cosa. Non pensavamo di cambiar vita in quel momento. Pensiamo di darli in gestione. Venderli no. Abbandonarli tanto meno. Mio marito mi dice: io tra cinque sei anni potrei andare in pensione. Magari facciamo qualcosa noi con una persona che ci aiuta. I vigneti sono meravigliosi in zone speciali. Pre fillossera a piede franco. Era un delitto abbandonarli.

Se vi dicessi che siamo ad Acquetico probabilmente il 99.9% delle persone non saprebbero minimamente dove si trova. Aggiungendo che Acquetico è una frazione del piccolo comune di Pieve di Teco (poco più di 1200 abitanti), la percentuale degli ignoranti (in senso letterale sia bene inteso) scenderebbe di pochissimo. Ipotizziamo un 99%. Purtroppo temo che pure dicendo che siamo in provincia di Imperia la percentuale non scenderà mai sotto il 60%. L’ho sempre detto che prima di concedere il passaporto dovrebbero chiedere un test di geografia!

Comunque sia, il luogo è uno di quelli dove non si capita per caso. Ci si passa, ad esempio, se da Torino si vuole andare ad Imperia o viceversa. Anche se difficilmente ci si ferma. Nella eventualità che vi capitasse di passare per Acquetico venendo da Torino, alzate lo sguardo verso sinistra per ammirare le terrazze con i vigneti. 

Fare il contadino prima, il vignaiolo dopo, è già un mestiere faticoso. Farlo su questi lembi di terra posti tra i 500 e i 700 metri di altezza, è eroico. Complicato insomma. Tanto che se i bisnonni di Eliana coltivavano la terra, se i nonni di Eliana coltivavano la terra, se i genitori di Eliana coltivavano la terra, la generazione di Eliana non ne ha voluto sentire di coltivare la terra. Un lavoro in città sarebbe stato sicuramente meno faticoso e indubbiamente più stimolante. 

Mio nonno tiene duro e continua a fare il vino. Negli anni 70 non c’era ancora la DOC Ormeasco. Era un vino rosso e nonno lo faceva, anche molto buono dicono, e lo vendeva a damigiane. Sfuso. L’unica erede era mia madre. Si sposa con papà che faceva altro mestiere. Da appassionato di queste terre decisero di mantenere i vigneti iniziando a vendere l’uva. 

Allora erano circa 2.5 ettari. Tanti perché pezzettini sparpagliati. Oggi abbiamo 7.5 ettari su 22 appezzamenti. Neanche tutti nello stesso paese. Tocchiamo quattro paesini diversi. Abbiamo un carissimo amico che ha una bella realtà in Piemonte e lui ha 25 ettari di vigneto e dice che impiega un giorno e mezzo. Noi impieghiamo oltre tre giorni. 

La terra è qualcosa che hai nel sangue. L’odore delle piante che si mischia a quello della terra. Il vento che accarezza le cime degli alberi. Lo scricchiolio sotto le scarpe. Il sole che ti scalda il viso. Ogni sensazione è un tatuaggio che non è possibile cancellare. Anche se vai altrove come hanno fatto Eliana e Bruno, i ritorno per la vendemmia o la raccolta delle olive, tengono vivi i ricordi e le sensazioni. 

Da ragazza venivo qui con il nonno. Tutto quello che ho imparato lo devo a mio nonno. Fino a venti anni.  Mio marito era un responsabile tecnico di una multinazionale francese Saint-Gobain del sito di Savona. Io ero un funzionario di Poste Italiane. Avevo una bella posizione. E anche lui.

Eliana è una donna solare. Può sembrare un pò chiusa ma poi ti conquista quando parla con tono soave che sa di tenerezza e leggerezza proprie delle persone innamorate della vita. Delle cose che fanno. Di ciò che potranno fare. Senza pensare, mai, a ciò che avrebbero potuto fare se avessero preso altre strade. Cosa fatta, capo ha.

Non avevamo idea a ciò che saremmo andati incontro. Non avevamo cantina. Nulla. Iniziamo a studiare e a confrontarci. Cercare di capire.  Ad un amico che aveva una cantina qui vicino chiesi se potevamo fare un pò di vino da lui. Lui disse che spazio ne aveva e se si poteva fare potevamo prendere in affitto un pezzo della sua cantina. Così abbiamo fatto. Abbiamo comprato due botticelle ridicole. Era 2009 e 2010. La prima etichetta. 2000 bottiglie. Eravamo emozionantissimi. Adesso che ne facciamo? Per una che ne comprava due per fare la cena….Così è cominciata l’avventura. 

Emozione e adrenalina che si uniscono. Produrre vino dalle proprie vigne è una sensazione indescrivibile. A casa Maffone non si produceva vino da un pò e arrivare a realizzare addirittura le bottiglie, 2000 bottiglie, era cosa da non stare più nella pelle.

Bello. Bellissimo. Affascinante. Stimolante. 

Certo, tutto bello e tutto grandemente interessante ma Eliana ha il suo lavoro e Bruno non è da meno. Fare i vignaioli (eroici) ad oltre un’ora di macchina, non è quello che si può definire un hobby dunque una passeggiata di salute.

Abbiamo cominciato a vedere vino ai nostri amici che avevano bar e ristoranti. Insomma è iniziato tutto per gioco. Poi però l’impegno era grande anche se avevamo una ragazza che ci aiutava. Alle 16 in estate mio marito terminava di lavorare. Arrivavamo qui dopo le 17. Facevamo i trattamenti, poi in cantina per preparare un pò di bottiglie. Tornavamo a casa doveva arrivavamo all’1 di notte. La mattina alle sei di nuovo operativi. Lo abbiamo fatto due tre anni. Era massacrante anche se la cosa ci appassionava sempre di più. Dissi a mio marito che uno dei due avrebbe dovuto fare la cosa a tempo pieno. Era impossibile continuare cosi. Lui mi diceva: io non me la sento di licenziarmi. Tu te la senti? No, nemmeno io.

Era un mezzo bivio insomma. Una strada non propriamente intrapresa. La terra fino ad un certo punto. La cantina a metà. Il lavoro, quello che aveva permesso loro di emanciparsi e di garantirsi una vita serena, quello, li identificava. Ancora. 

Il vero bivio prima o poi arriva. Come quando guardi il cielo e non ci sono nuvole ma poi il temporale ti sorprende mentre sei allegramente per strada senza ombrello.

Siamo andati avanti ancora. Nel 2012 penso che qualcuno da lassù ci ha guardato. Chiamano mio marito dalla direzione e gli dicono: sig. Pollero, lei è stato bravo ha fatto un lavoro meraviglioso. Il prossimo anno questo impianto lo trasferiamo in Polonia. Lei deve andare li e farlo funzionare come ha fatto qui. Mio marito è tornato a casa e ha detto: forse hai ragione te, mi licenzio. Il destino ci ha dato una mano. Niente vien per caso e ne sono sempre più convinta. Da li è cominciata l’avventura. 

È Bruno dunque che inizia a lavorare alla vigna a tempo pieno. Un perfezionista che ha l’occhio per i particolari. Certo, deve farsi le ossa ma la mentalità è quella giusta tanto che il modo con il quale tratta i vigneti attira subito l’attenzione dei veri esperti locali. Quei vecchietti che le terrazze le hanno sempre avute ma adesso non hanno più la forza per coltivarle. 

“I vecchietti del paese venivano a cercarci vedendo che i vigneti venivano trattati bene: lo vuoi? Te lo do senza che mi dai nulla in cambio. Basta che me lo mantieni bene. Io non ce la faccio più. 

Gente attaccatissima a questi territori.

Pensateci bene. Qui ad Acquetico, che stesse andando tutto in malora era chiaro. Di giovani ce ne erano pochi e di quelli con la voglia di coltivare i vigneti sulle terrazze, probabilmente nessuno. Chi ad Acquetico c’è nato e vissuto vedere qualcuno che, finalmente, si prendeva cura delle terre, deve essere sembrato un miracolo divino. L’unico modo per la conservazione della specie. 

Anche non volendolo apertamente, Eliana e Bruno si trovano a vedere la propria azienda crescere pezzettino dopo pezzettino. Terrazza dopo terrazza. Cantina inclusa.

Il ragazzo che ci aveva affittato il pezzo di cantina mi disse dopo un pò: io non lo faccio più, se vuoi ti do tutto. Vigneti, cantina. Avevamo nel frattempo iniziato a farci la nostra cantina. La prendemmo e ora la usiamo come magazzino. Abbiamo preso tutti i sui vigneti raddoppiando la superficie. Un’altra cantina ci ha fatto la stessa proposta. Siamo cresciuti in pochi anni. In dieci anni la crescita è stata enorme.

Crescere vuol dire investire e per investire ci vogliono i soldi. Risparmi, dilapidati, a parte, uno stipendio comunque serviva. Quello di Eliana ovviamente.

Mi sono licenziata a fine 2018. 

Il lavoro di una vita è andato tutto li. Nell’azienda. In una attività che non era poi nemmeno un progetto di vita. 

Non abbiamo figli. È l’amore per questa terra. Ho una nipote che è la figlia di mia sorella. Speriamo che non abbiamo fatto questo lavoro per venderlo ai cinesi. Ma sono contenta per quello che stiamo facendo. La passione, l’impegno, la determinazione ci ha fatto costruire un bel nome in pochi anni. 

Va bene la determinazione. Va bene le vigne. Vanno bene i vecchietti del paese. Va bene la cantina. Ma il vino? 

Il vino in Liguria bisogna farlo e anche bene. Per ben due motivi. Il primo è che qui sono tutti con il mugugno facile e a criticare ci si mette un attimo. Il secondo è relativo alle piccole quantità che l’intera regione riesce a produrre visto che rappresenta lo 0.1% della produzione nazionale. Fanno meno solo la Basilicata e la Valle d’Aosta.

Siamo nella valle dell’Arroscia, un piccolo (o grande giudicate voi) torrente che scorre tra le grandi colline dell’entroterra imperiese. Proprio a Pieve di Teco diventa meno impetuoso grazie alla congiunzione di due altri torrenti: l’Arrogna e il Giara di Rezzo. 

In queste valli prende vita la DOC dell’Ormeasco di Pornassio (paesino di poco più di 500 anime) che altro non è se non il Dolcetto. Oltre alla versione base se ne produce anche una superiore, poi un passito e un passito liquoroso. Senza poter dimenticare la versione Sciac’tra ovvero il rosato.

Un altro colpo di fortuna che non vien per caso. L’enologo. Senza sapere cosa stavamo facendo (la contadina della famiglia ero io ma non sapevo nulla di enologia), compriamo due botticelle provando a fare il vino. Sarà meglio cercare un enologo dico a mio marito. Qui non siamo in Piemonte dunque gli enologi non abbondano. C’era un enologo che faceva un pò l’enologo di tutti. Era anziano con problemi di salute. Evitiamo di andarlo a cercare. Cerchiamo. 

Partiamo un giorno con Bruno per andare ad Alba a comprare un attrezzo per la cantina. Entriamo nel centro enologico che ci avevano indicato (bellissimo sembrava di stare ad Hollywood). Bancone bellissimo con i ragazzi dietro. Ci presentiamo e spieghiamo cosa ci serviva. Ci fa parlare un attimo e ci dice: avete un enologo? Vi ha indicato lui cosa serve? In realtà no non ce lo abbiamo ancora. Lo stiamo cercando. Mentre pronuncio queste parole passa dietro un signore di una certa età e il ragazzo del bancone dice: prendetevi lui. No no io sono anziano non faccio più niente. Ma chi sono questi ragazzi? Curiosissimo. Inizia a chiederci le cose e noi raccontiamo brevemente. Ma lei è un enologo? Si ma adesso faccio solo consulenze. Ma scusi noi siamo in difficoltà, si avvicina la vendemmia e non sappiamo come fare. Se lei ci desse una mano. Anche solo per quest’anno. Poi cerchiamo. Io una mano ve la posso dare ma non vengo giù. Non riesco. Se avete bisogno portate su i campioni e le analisi le faccio qui. Ok vi do una mano. 

Il racconto di Eliana è di quelli veri, spontanei e che sgorgano dalla memoria come un fiume, anzi un torrente visto dove siamo, in piena. Rimango ad ascoltarla ed è come se fossi li a vedere la scena. Lei e Bruno sembrano come Totò e Peppino che entrano in un negozio non avendo la più pallida idea di cosa serva. Solo che Eliana lo ammette. È meravigliosamente e orgogliosamente onesta. 

Un enologo che passa per caso poi. Che spasso. Ma ve la immaginate la sua faccia quando da dietro il bancone dicono “prendetevi lui”?

Ora, se si trattasse di un enologo “qualsiasi” sarebbe come dire “il primo che passa”. In questo caso non era proprio così. 

Questo signore ha compiuto da poco 89 anni e non lo abbiamo più abbandonato. Poi abbiamo capito con chi ci eravamo imbattuti. Una persona di una sapienza incredibile. Si chiama Marco Biglino. Un grandissimo barolista. Persona eccezionale. Una conoscenza incredibile. Un guru. Ha fatto grande tante cantine del Piemonte. Ma lo abbiamo saputo dopo. È stata la nostra grande fortuna. Ci abbiamo messo la nostra forza, impegno determinazione. Ma lui ha messo la capacità di saper fare del vino come va fatto. Quando lo abbiamo portato nei vigneti ci ha detto che la fortuna è avere dei vigneti bellissimi con uva bellissima. Devo solo aiutarvi a non rovinarla.

Devo solo aiutarvi a non rovinarla”. Ecco, questo dovrebbe fare un bravo enologo. Non creare ma assecondare la natura e i suoi prodotti. Supportare i produttori nel fare bene le cose prima, non correre ai rimedi, dopo. 

Abbiamo fatto tuta la conversione in biologico. Siamo biologici da sempre con coltivazione super tradizionale ma mancava la certificazione. Eravamo troppo impegnati. È una storia un pò cosi 

Quella di Eliana e Bruno non è una storia un pò cosi. Ci hanno creduto e creduto tanto. Basta crederci in fondo e le cose arrivano. Le cose sono arrivate, si sono incastrate nel modo giusto e loro hanno avuto il grande merito di averci messo tanto di loro. Impegni fisici ed economici. Notti insonni. Viaggi su e giù da Savona. In giro per vendere il loro vino. Spostarsi da una vigna all’altra. 

Stiamo andando avanti. Abbiamo recuperato altri vigneti. Adesso stiamo recuperando un altro vigneto che oggi è bosco. Tutto terrazzato. Stiamo continuando andando avanti. Abbiamo piantato un altro vigneto abbandonato da trenta anni dove andavo con mio nonno a vendemmiare. Una soddisfazione immensa. 

È la bellezza di questo mondo. Ti spacchi la schiena, dilapidi i risparmi, imprechi contro il tempo e i parassiti, vai di matto se qualcuno fa le cose come non vorresti. Ma poi, quando vedi una bottiglia con la tua etichetta, quando la stappi, quando qualcuno ti fa un complimento per il tuo vino, passa tutto e capisci che ne hai bisogno. Hai bisogno di queste terre. Hai bisogno di far si che quello che vedi intorno, ritorni alla vita. Non c’è, come non c’è in Eliana e Bruno la voglia di accumulare ricchezze attraverso i terreni. Figli ai quali lasciare ciò che stanno vivendo, non ce ne sono. Tempo e voglia per goderne loro, non ce n’è. Ma vuoi mettere la soddisfazione di recuperare terreni abbandonati producendo da questi i loro vini? Una sorta di creazione che non vuol dire, nella maniera più assoluta, onnipotenza. Vuol solo dire essere contenti di ciò che si fa. Non cosa si farà o cosa si è fatto ma di ciò che si sta facendo.

Lavorando in questo modo, con questo grande enologo stiamo valorizzando l’Ormeasco che è sconosciuto fuori dai confini regionali. Meraviglioso e con potenzialità pazzesche. Partiamo con il metodo classico che avevamo creato sperando che qualcuno ci seguisse ma niente. Abbiamo iniziato con poche bottiglie. Siamo arrivati a 72 mesi perché abbiamo visto che possiamo ottenere un prodotto migliore. Oltre l’Ormeasco avevamo poco Pigato. Poi dal terzo anno l’Ormeasco rosato Sciac’tra. Quindi Ormeasco superiore per fare invecchiamento. Ci siamo innamorati dell’invecchiamento. Viene considerato come il vino rosso che si fa e si vende. Invece per come la vediamo noi vale la pena di valorizzarlo con dei prodotti meravigliosi. L’anno scorso siamo usciti con poche bottiglie di Superiore 2016. 

Eccola l’Eliana che si inorgoglisce e sfodera tutto il suo amore per il territorio e l’Ormeasco del quale ne parla nella maniera più entusiastica possibile. Convintamente e con determinazione. Ci crede Eliana. Ci crede Bruno. Non è solo la voglia di vendere i loro prodotti ma la necessità di far capire quanto qualcosa di buono si possa ottenere da queste uve di questi terreni. 

Ho avuto il piacere e la fortuna di assaggiare tre vini di Eliana e Bruno. 

Partiamo dal rosato Sciac’tra. Un colore cerasuolo che al sole si esalta diventando luminosissimo. 
Il naso lo si deve tenere a lungo nel calice perché non smette di meravigliare. Un leggero agrume, poi la mela verde, poi le fragoline di bosco, poi la mentuccia, poi la banana, poi l’erba fresca. Freschezza e frizzantezza che già esaltano ancor prima di assaggiarlo. 
In bocca conferma queste caratteristiche con una piacevolezza che non consente di aprirne una sola bottiglia. Fresco e secco ha una fantastica nota di agrume miscelato con fragoline di bosco. Sapido e poco caldo, ha un equilibrio praticamente perfetto. Persistenza anche lunga e una chiusura di bocca memorabile. Meraviglioso.

L’Ormeasco di Pornassio 2023 sa di vino di altri tempi. Vero e sincero ma al contempo complesso e bilanciato. La sua veridicità è chiara già dal colore rosso porpora. Un colore che sa di freschezza e nessuna modifica di affinamento. Al naso arriva subito il balsamico così da apprezzare al meglio pochi ma efficaci e schietti sentori: ciliegia ancora non matura, prugna, erba appena tagliata, sottobosco, melograno, arancia. 
Il sorso non sa di struttura ne di grande complessità. La sua semplicità però lo rende grande, piacevole e grandemente apprezzabile. Fresco e secco, non particolarmente caldo per una quasi verticalità. Meraviglioso e impagabile il delicato e mai invadente ritorno della ciliegia che si mischia all’arancia.
Persistenza non elevata così che con una zuppetta di pesce si esalta. Buonissimo.

Ligagna Granaccia ovvero la Grenache, Garanacha, Cannonau. Chiamatela come volete ma la derivazione è l’Alicante. Qui in Riviera trova il suo spazio con connotazioni profondamente diverse da quello coltivato in altre zone (poi non ditemi che il mondo del vino è meraviglioso!). In genere la Grenache dovrebbe far generare ad esempio una colorazione rosso scuro. Ma non in questo caso: il rosso c’è ma è un rubino scarico con riflessi porpora. In genere la Garnacha dovrebbe avere sentori di frutti neri che richiamano lo scuro del calice. Ma non in questo caso dove i frutti sono rossi: fragoline di bosco, lamponi, ribes, arancia (poi c’è anche tanto vegetale di sottobosco ed erba tagliata,  tanto che al rosso si associa molto facilmente il colore verde) e tanta ma tanta viola. La sensazione è di tanta freschezza. Sarà anche per la vinosità che viene fuori in maniera prepotente ma gentile.
Al sorso la grande differenza è nella mineralità che questo Ligagna ha in dote. I tannini sono comunque maturi così che, unendosi alla grande freschezza, ci si aspetterebbe una particolare durezza. La morbidezza del vitigno viene fuori e rende tutto ben bilanciato con una punta di morbidezza in più. Interessante la persistenza: la sensazione all’inizio è di un vino tranquillo che si esaurirà in fretta. Non è assolutamente così. Stupisce davvero in questo. La bocca infine chiede in maniera precisa con un cenno di amarognolo ben bilanciato dai frutti. Rimane comunque latente nel sottofondo a galleggiare insieme alla mineralità lasciando, di fatto, un’aurea di mistero. Interessante poi quel senso di ardesia che si percepisce ogni tanto. Intrigante!

Giuanò è il Pigato Superiore. Un vitigno tipicamente ligure che in questo caso viene ammorbidito da batonnage e passaggio in botte (anche se per poco). Nel calice è uno di quei vini che non meravigliano: il colore giallo paglierino lo rende abbastanza anonimo. Mai fidarsi delle apparenze però. Già portandolo al naso le prime avvisaglie di qualcosa di “diverso” si palesano. I sentori sono infatti immediatamente floreali arricchiti da un velo di balsamico. I fiori di pesco e di mandorla si avvolgono al biancospino per poi lasciare spazio agli agrumi (limone ma più lime). I fiori di camomilla si trasformano in miele e cera d’api per poi tornare a mela e pera. Non può mancare la mineralità dello iodio e la vaniglia. Nel perdersi in questo meraviglioso effluvio il vino si è leggermente scaldato così che il limone arriva prepotente nelle sembianze di una granita di limone. Insomma è un abbraccio ventoso, di quei venti caldi che si respirano solo in queste zone.
Quando il primo sorso arriva in bocca le avvisaglie dell’olfatto trovano non solo conferma ma si rafforzano. Se prima c’era un abbraccio ventoso adesso diventa accoglienza pura. Come se quel vento si fosse immediatamente placato per consentire di godere appieno di ogni piccola sensazione. La mela, la pera, la banana e la menta si mescolano con lo iodio del mare e la mineralità dei monti. Un bellissimo e piacevolissimo potpurri di sapori che si mischiano meticolosamente creando un bilanciamento incredibile. Secco, non particolarmente fresco, decisamente morbido e con una intrigante nota finale che sa di mandorla amara: non invadente, non forte. Sensazioni, suggestioni, abbracci. Anche con un piatto di terra, sta da Dio

Il Vermentino Riviera ligure di Ponente. Un classico vermentino giovane (i riflessi verdognoli non si nascondono) di quelli senza fronzoli ma efficace per la sua morbidezza non stucchevole. I fiori di campo e di camomilla si fondono con i frutti tropicali e la pesca ed il melone bianco donando rotondità legata ad una spalla non particolarmente importante. Il Vermentino Maffone rientra in uno di quei vini che non si perde in fronzoli olfattivi ma una volta sorseggiato conquista senza possibilità di scamparla. Il percorso degustativo parte in bocca con una bella rotondità fruttata, di quelle che piacciono a tutti, per poi terminare con un non so che di amarognolo che bilancia e stempera tutto. Giusta persistenza e una bocca che vuole solo un ulteriore sorso. Buono e al tempo stesso discreto (nel senso di un vino che vale ma non sembra). Da tenere sempre in cantina. Pardon, in frigo

Per me il vino deve essere fatto bene. Nel modo più naturale possibile. Stiamo molto attenti già dai solfiti perché a me non fanno bene. Sui rossi siamo a meno della metà di quello consentito per il vino biologico. Abbiamo la fortuna di avere delle uve sanissime che non ci danno problemi in fase di vinificazione. Utilizziamo lieviti indigeni. Non aggiungiamo niente. Le uve ce lo consentono. Abbiamo la vita un pò più facile anche per via delle forti escursioni termiche. Importanti. Arriviamo prima della vendemmia con venti gradi di differenza fra giorno e notte. 

60.000 bottiglie con circa 25.000 di Ormeasco nelle varie forme e particolare dedizioni all’invecchiamento e all’affinamento (si sperimenta l’anfora ad esempio).

Le altre tipologie sono frutto dell’acquisizione delle vigne. Come il Pigato, il Vermentino, la Garnacha.

Volevamo avere dei bianchi per un fine commerciale. In estate se non hai il bianco sei morto.

Abbiamo cercato di prender più vigne possibile. Facciamo un passito sempre di Ormeasco e poi un prodotto che ormai non fa più nessuno: con le vinacce fresche di solo Ormeasco facciamo distillare una grappa che è veramente eccezionale. Non pensavamo venisse un prodotto cosi. 

Sapete quale è il contrappasso di tutta questa storia? È che con l’azienda che si ingrandisce di tempo per andare in vigna, ne rimane sempre meno. Per una come Eliana che si era licenziata per fare la contadina, ritrovarsi sulla scrivania in mezzo alle scartoffie non deve affatto essere piacevole.

Ci ride sopra però Eliana. Ride in maniera soave e soddisfatta. Della vita di prima non le manca nulla. Forse qualche amica che ritrova ogni tanto per mangiare una pizza e dalle quali deve sempre sentire discorsi relativi alla fortuna di essersene andata perché in fondo la vita della vignaiola è bella specialmente nella vendemmia.

Ho avuto delle amiche che sono volute venire a vendemmiare. Arrivavano la mattina belle pimpanti e alle 17 erano stravolte. Non ce la facevano più.

Si diverte Eliana. Vive la vita da quella passionale che è. Nel lavoro alle Poste prima, in quello di vignaioli a dopo. Non si risparmia e vive. Il momento. L’oggi. Del doman non v’è certezza. 

Non ricordo quasi più cosa facevo. Mai avuto un istante di rimpianto. Ho fatto la scelta giusta

Un equilibrio raggiunto come persona e come coppia. Quell’equilibrio che di instabile non ha nulla. Che consente di guardare al passato con la consapevolezza di aver dato e ricevuto tanto, ma senza rimpianti. Che consente di pensare al futuro con la serenità e felicità di chi sa che, svegliandosi la mattina, sarà contenta di vivere quel giorno, poi quello ancora. E ancora e ancora. Come nella canzone di Mina (scritta da Cristiano Malgioglio nel 1978)

è importante questo mio momento perché 
io ti chiedo ancora il tuo corpo ancora 
le tue braccia ancora
di abbracciarmi ancora di amarmi ancora 
di pigliarmi ancora 
farmi morire ancora 
perché ti amo ancora. 

La maggior parte degli amici ci disse che eravamo stufi di star bene prima di iniziare questo lavoro. Senza figli e con la casa di proprietà. Ora ci chiedono perché cresciamo senza figli. A noi piace fare questo. Siamo appassionati. Adesso abbiamo sette ragazzi che lavorano con noi e abbiamo la responsabilità di sette famiglie. Siamo noi una grande famiglia. Sono super contenta. È una famiglia allargata. In questa dimensione ci stiamo benissimo.

Ecco allora la vera felicità. La dimensione dell’essere che non ha bisogno di alcun hobby, perché c’è la vita. La propria, quella del compagno di una vita, delle persone che lavorano in azienda. 

La vita. Quella che merita di essere vissuta con il sorriso e la voglia di un nuovo ancora.  

 

Ivan Vellucci

ivan.vellucci@winetalesmagazine.com

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