Sostenibilità a prova di greenwashing
Più volte e in più occasioni nei miei interventi su questa testata ho rimarcato (e credo anche dimostrato) che non è più sufficiente produrre un buon vino per venderlo con successo, ma occorre affiancarlo ad una efficace comunicazione per farlo riconoscere e per anticiparne le qualità e le ragioni per essere scelto.
Le tecniche pubblicitarie e gli strumenti a disposizione per veicolare informazioni in maniera sempre più persuasiva si servono da tempo delle smart labels, che vanno dal QRCode, a quelle non più adesive, ma inserite direttamente nello stampo in fase di costruzione del contenitore, o quella con l’etichetta lenticolare, (spin thebottleswine) il cui diagramma ricorda il “gioco della bottiglia”: quando il consumatore passa davanti allo scaffale l’immagine della bottiglia di quel vino si anima prendendo a girare, catturando così l’attenzione del cliente. Per non parlare poi della tecnologia NFC (Near Field Communication), la cd. speaking label, un dispositivo da applicare all’interno di una etichetta adesiva, leggibile da tutti gli smartphone; per finire (si fa per dire) con l’adesivo per la personalizzazione di un vino persino con la musica.
Soltanto alcuni esempi (sempre in continuo divenire) per comprendere come la semplice bottiglia di vino diventi la fonte di informazioni, che il produttore intende trasmettere al consumatore, alcune obbligatorie (previste nel reg. UE n. 1169/2011 e tra breve anche dal Reg. PAC 2023/2027), le quali attengono alla cd. normativa orizzontale, e altre, riconducibili alla cd. normativa verticale, che riguardano invece le connotazioni sul prodotto, sul consumo consapevole e sui processi di produzione.
L’obiettivo del produttore è infatti quello di commercializzare un vino che il consumatore possa individuare e scegliere perché ha caratteristiche e pregi migliori di quelle dei suoi competitor e su questo trend, si rileva che gli spazi nelle etichette sono sempre più riservati ad informare e a far conoscere elementi che attengono alla filiera vitivinicola, piuttosto che al prodotto in sé.
La maggiore, e direi, più attuale preoccupazione dell’imprenditore in vigna è quello di essere individuato come colui che è impegnato nella “sostenibilità” delle sue azioni, di colui cioè, che ha adottato misure ed approcci organizzativi, oltre che di coltura, in linea con siffatti principi enunciati in sede internazionale e recepiti anche in ambito nazionale.
Per riuscirvi, ecco l’utilizzo di quei claims che infondono fiducia, che attestano l’attenzione del produttore affinché il proprio vino possa definirsi eco-sostenibile, cioè un prodotto che esce da un’azienda in cui l’assetto organizzativo è improntato alle tre indicazioni, che provengono dall’acronimo ESG e cioè ambiente (environmental) lavoro (social) organizzazione (governance). Far riferimento a questi elementi crea attrattività, fa tendenza (e anche fatturato), accresce il valore del marchio.
Ormai è acquisito che anche questo comparto è soggetto alle regole della cd. sostenibilità, che prevedono prassi, incentivi e sanzioni rispetto a scelte e condotte dell’impresa vitivinicola, che non determinano un miglioramento qualitativo del vino, ma incidono sulle modalità strategiche di fare impresa, agendo cioè in maniera responsabile dal punto di vista economico, sociale ed ambientale (la cd. Corporate Social Responsability – CSR).
Così che le scelte di marketing puntano più ad offrire un’immagine di alta sostenibilità di quel vino, esaltando la politica aziendale di quella cantina, che pur avendo presente il profitto, rispetta con la propria organizzazione, l’ambiente, i dipendenti, i fornitori ed è in linea con criteri, programmi e progetti già ben definiti nella Sustainable Wine Roundtable ed implementati in altri interventi legislativi di politica agricola.
Se è più che lecito per un’impresa vinicola rendere noto al consumatore questo impegno sociale ed investimento nella propria reputazione, illustrando le iniziative prese a riguardo, il problema sorge quando il termine “sostenibilità” viene abusato, sfociando nel fenomeno illecito del cd. “greenwashing”, appunto definito come appropriazione indebita di virtù ambientaliste di elevata sostenibilità.
Datato nell’origine, (1986, quando un giornalista creò questo neologismo per denunciare la pratica di alcune catene alberghiere, che in nome di una sostenibilità ambientale, chiedevano un uso ridotto di asciugamani giustificandolo con la una politica di riduzioni di lavaggi e quindi di consumi minori di acqua e detergenti, richiamo che invece rispondeva ad un mero interesse economico), il greenwashing è un fenomeno che sta sempre più intervenendo nel mondo della comunicazione destinata anche ai prodotti vinicoli, di pari passo con la crescente consapevolezza per l’impresa di dover attuare la transizione ecologica e di dover convincere il consumatore a fidarsi maggiormente di quanto allo stesso offerto, perché quel vino è il frutto di un impegno aziendale che consente di definirlo “sostenibile” o “bio” o “eco friendly” .
Si parla di greenwashing nel caso di comunicazione mistificatoria, il più delle volte subdola perché è un’informazione vaga, priva di riscontri accertabili, decantando magari pregi che, seppur veri, sono richiesti dalla legge e non costituiscono un diverso plus; o ancora si descrive un processo aziendale, riportando soltanto due o tre fasi rispetto all’intero percorso e si omette di menzionare il risultato, o ancora quando rileviamo un proliferare di claims facoltativi o la presenza massiccia di messaggi green.
Sotto un profilo più squisitamente giuridico, tale fenomeno rientra tra le forme di pubblicità ingannevole, di pratiche commerciali scorrette, fino alla fattispecie di concorrenza sleale, incorrendo così nelle sanzioni contenute nel Codice di Autodisciplina delle Comunicazioni (art.6), dovendo il produttore, in caso di accertamenti disposti dal Giurì o dalla magistratura competente, essere in grado di dimostrare la validità dei dati comunicati, delle descrizioni, affermazioni ed illustrazioni riportate, nonché delle testimonianze utilizzate.
La scesa in campo di certificazioni etiche da parte di enti nazionali e stranieri (e tra breve della etichetta ambientale, la cui obbligatorietà scatta il 31.12.2022) agevola il consumatore ad orientarsi, ma l’appello allo spirito critico di quest’ultimo è più che mai necessario e lo si acquisisce con una preparazione, in grado di metterlo in guardia da accattivanti richiami, i quali giocano sull’emotività, piuttosto che sulla concretezza e veridicità del messaggio.
Ma l’avvertimento è anche destinato al produttore dal quale si pretende, proprio richiamandolo ai principi etici (ma anche giuridici, di comportamento e di responsabilità a cui il sostantivo “governance” fa appunto riferimento), che offra una comunicazione veritiera e coerente, non solo del proprio vino, ma anche dei valori della sostenibilità a cui fa riferimento perché siano davvero messi in pratica e, è il caso di dirlo, declinati non solo sulla “carta” (leggi etichetta!).