Suggestioni di Vino

Suggestioni di Vino è la rubrica che racconta le persone del vino. Della loro storia, dell’amore, della passione che inoculano nel vino. Perché il vino è materia viva e le persone ne sono il nutrimento.

Le incursioni enoiche di Ivan Vellucci, ingegnere e manager per dovere, ma soprattutto Sommelier raccontano con passione e trasporto, territori e produttori d’eccezione.
Ivan ci porta a conoscere realtà prima di tutto umane, dove il sorriso e l’ospitalità dei vignaioli sono lo specchio dei vini che producono. La rubrica Suggestioni di Vino propone ogni settimana  suggestive esplorazioni e scoperte enologiche, narrate con trasporto e partecipazione. Al lettore parrà di accompagnare Ivan in queste visite speciali e sarà stimolato a fare lo stesso: vivere il mondo del vino come un bambino, con lo stupore negli occhi e la magia nel bicchiere.

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3 Gennaio, 2024

Andrealetizia e Nicky: amici, amanti, chef

Erano i primi giorni del lockdown dovuto al COVID. Tutti rinchiusi in casa ci siamo scoperti runner, amanti dei cani, chef. Anche i più improbabili si armavano di tute fantozziane e logore scarpe sportive pur di uscire di casa magari a rischio di infarto. Chi aveva un cane, lo faceva uscire molto di più delle canoniche due volte tanto che poi i poveri animali erano sfiniti e crollavano sul divano. Infine, voglio proprio vedere chi non si è sentito chef o pizzaiolo in quei fantastici mesi. Ricordo di essere andato in un supermercato chiedendo, ingenuamente, un panetto di lievito di birra per sentirmi rispondere “aò senti questo che vole…il lievito….qui appena lo metti…scompare”. Andrealetizia e Nicky vivono a Londra. Ebbene sì, anche a Londra c’era il lockdown. Vivono insieme da coinquilini con altre persone. Quattro amici per un appartamento. Ognuno con la sua stanza. Ognuno con la propria identità. Accomunati da un senso di famiglia che diventa necessario quando si è a Londra per lavorare (o studiare). Così come diventa necessario vivere insieme per limare i costi. Difficile insomma vivere a Londra (come in ogni altra città) per due ragazzi alla prima esperienza. Difficile ma non impossibile. Occorre fare sacrifici senza pensare di avere tutto e subito. Si investe nel proprio futuro anche così. Andrealetizia lavora come project manager in uno studio di postproduzione fotografica senza essere propriamente soddisfatta. Nicky anche. Nel senso di essere insoddisfatto del lavoro (designer). Quella insoddisfazione latente che non sai mai cosa sia. Che non dipende da quanto stai facendo che magari ti piace anche. Andrea è di origini emiliane. Dopo le superiori mi sono trasferita. Un pò all’avventura. Non sapevo cosa fare. Non volevo studiare. Ho lavorato per il primo anno e stavo cercando un corso di fotografia finendo per iscrivermi all’università di fotografia. Alla triennale. Mentre studiavo, lavoravo perché mantenersi a Londra è impegnativo. In uno studio di postproduzione dove facevo il project manager. Mi trovavo bene, a mio agio ma non sentivo che la vena creativa potesse andare da nessuna parte. Durante il lockdown il lavoro era pochissimo e mi hanno offerto una posizione più bassa nonostante stessi aspettando la promozione. Cosi mi sono licenziata. Ho iniziato un periodo dove non sapevo cosa fare. Nicky è di Roma da famiglia cingalese. A 20 anni dopo il liceo mi sono spostato prima a Manchester dove ho studiato ingegneria informatica per poi fare un master in design (interazione uomo computer). Quindi ho trovato lavoro a Londra. Eccoli due giovani con la testa sulle spalle. Si certo, qualche pensiero. Qualche insoddisfazione. Ma chi non ce l’ha? Ragazzi che non hanno il mito del posto fisso. Che non hanno paura di rischiare. Che vogliono, desiderano, ardono trovare la propria strada. Il lockdown arriva al momento giusto in qualche modo. Tempo per pensare, capire, programmare il futuro ce ne è. Anche troppo. Chissà quanti in quel periodo hanno riflettuto sul futuro, fatto progetti. Quanti sogni costruiti e mai realizzati. Energia creativa per alcuni. Energia sprecata per altri. Andrea e Nicky danno sfogo alla loro passione: la cucina. Lo fanno insieme. Prima come amici poi come coppia. Si completano in fin dei conti. Precisa, puntuale, attenta Andrea; estroverso, creativo, caotico Nicky. Un bel connubio insomma. Tanto bello che capiscono che la loro forza è lo stare insieme. Tra gli spazi angusti della cucina il sincronismo e l’alchimia che creano li porta, sempre insieme, a credere in ciò che stanno facendo. Il lockdown ha cambiato le priorità con il tempo dedicato alla cucina e ci ha fatto capire quanto ci piacesse. Ma soprattutto quanto ci unisse. Lei era molto più appassionata di cucina di me. Era più sopravvivenza nel senso che vivevamo da soli e non c’era mamma e papà che ti facevano da mangiare. A casa mia si è sempre mangiato bene e a noi piace mangiare. Una necessità che si è trasformata in passione. Per me lei è sempre stata quella che ne sapeva di più. Suo padre cucina tantissimo mentre a casa mia è più cucina cingalese e un po’ italiana. Quando ho incontrato lei ho scoperto un sacco di piatti nuovi dei quali avevo solo sentito parlare. Con il lockdown, con tutti i locali chiusi ci siamo messi a fare la pizza e a grande sorpresa, dopo la terza pizza vediamo che era uscita bene. Il provare è diventata una ossessione. Da allora è quasi una ossessione verso la cucina. Non ho mai smesso di pensare a qualcosa di nuovo. Anche quando sogno, sogno di preparare qualcosa di diverso. Provare, cimentarsi, anche sbagliare. Solo così si capisce se qualcosa ti piace davvero. La fortuna di poter sbagliare senza paure. Andrea lascia il suo lavoro già prima del COVID. Deve capire cosa fare da grande. Ha la voglia di fare qualcosa per gli altri prima che per sé stessa. Solo che non è facile inventarsi. Reinventarsi. Così un giorno decide che vuole iscriversi a Masterchef. Una scelta non per noia ma come unica opzione. Una sorta “o la va o la spacca”. Tentare qualcosa non tanto per farlo quanto per cimentarsi con se stessa. Capire se ce la si può fare in qualcosa che anche gli altri vedono in te. È stato mio padre che continuava a dire: non fate altro che cucinare. Andate a Masterchef. Poi ero così in crisi che non avevo nulla da perdere. Così ho cominciato a crederci. Era un periodo dove davvero non sapevo cosa fare. La sua chiave di lettura nella vita è rendere felici e far star bene altre persone. C’era la medicina e poi c’era il mondo del food. Io non avevo le mie soddisfazioni. Così dopo che mi hanno preso a Masterchef mi sono preso l’aspettativa al lavoro. Quei mesi mi hanno cambiato la vita. Insieme in cucina. Insieme nella vita. Insieme compilano la richiesta per Masterchef. Insieme entrano nella cucina del reality. Insieme è una costante della vita di Andre a Nicky. Per due semplici appassionati, due che cucinano per se stessi e gli amici, entrare nella cucina del più importante reality show food non è un passo di poco conto. C’è da studiare. C’è da impegnarsi. C’è da faticare e tanto. Magari non lo sai prima. Magari te lo dicono durante le selezioni. Li dentro però, è tutto diverso. Il nostro background, ha aiutato il senso estetico. Oltre che buono deve anche essere bello. Noi siamo arrivati a Masterchef molto acerbi e il percorso ci ha aiutato a capire che lo volevamo fare veramente. Dopo il programma, siamo andati dopo a lavorare, insieme, in un ristorante in Corsica, per capire bene circa il futuro. Li ho avuto la conferma che volevamo fare questo per la vita ma non lavorando per altri chef. Noi venivamo visti come i privilegiati. Io da donna mi vivo questo ambiente super maschilista a livelli estremi. Mettendosi a confronto con le cucine degli altri ti rendi conto di un ambiente dove non mi piacerebbe stare. Facendo gli chef a domicilio, magari è limitante, ma a livello di benessere mentale è molto meglio. Io ho scelto di seguire la cucina perché avevo delle mancanze a livello creativo. Per il resto il lavoro da designer mi portava più che una pagnotta a casa. È stata una decisione di cuore ma non voglio essere triste perché obbligato a fare certe cose. Cucinavo e dicevo ad Andrea: impiatta. A Masterchef era obbligo impiattare e li ho capito il bilanciamento all’interno del piatto. Generalmente sono bravo in molte cose che faccio però non superavo mai il mediocre perché facevo tante cose. Non eccellevo in niente. A Masterchef ho dovuto smettere di fare le mille cose che faccio concentrandomi solo sulla cucina. E mi sono innamorato senza stufarmi. A me ha dato il coraggio. Avevo bisogno di trovare certezze dentro di me, trovare autostima. Fermiamoci un momento. Masterchef. Un reality. Tre, quattro mesi, relegati a cucinare, a provare e riprovare i piatti per poi sfidarsi a duello. Ritmi massacranti. Tanta competizione. Tante luci che poi, alla fine, inesorabilmente, si spengono. Dopo la fine del programma gli sponsor ti cercano perché sei diventato, nel bene e nel male, un personaggio da sfruttare a fini commerciali. Poi anche quello svanisce. A meno che. A meno che quella esperienza non sia stata davvero formativa. Non abbia scosso la coscienza aiutando a trovare quella strada che cercavi da tempo. Ascoltando Andrea e Nicky capisci quanto ai ragazzi, spesso, manchi non la luce dei riflettori quanto quella che illumina loro la strada. Anche se poi c’è bisogno di volerla percorrere la strada. Il che consta sacrificio e tanta forza di volontà. Non bastano i follower. Non bastano i like. C’è bisogno di molto di più. Così come c’è bisogno di vivere il dopo. Dopo che hai imparato. Dopo che devi fare tutto da solo (o soli nel loro caso). Andrea e Nicky capiscono che non vogliono lavorare in un ristorante. Hanno bisogno di qualcosa di loro. Qualcosa che oltre a farli stare insieme non sia propriamente “stabile”. Stare nello stesso posto, fare le stesse cose, non è nelle loro corde. Quando avevo 18/19 anni mia sorella mi chiese cosa volessi fare da grande. Io risposi “voglio fà i soldi”. Lei si schifò della risposta dicendomi di ritornare dopo una settimana con la risposta. Stavo alla ricerca del futuro. Anche facendo il designer, qualcosa mancava. Dopo questa esperienza ho scoperto cosa volessi fare da grande e io voglio fare questo fino alla morte. Questa è la cosa più grande. Creare le cose senza alcun limite. Per fare questo non devi aver paura di osare. Di volare senza paracadute. Anche se poi uno dei loro desideri primari è acquistare una casa. Va bene l’instabilità ma fino ad un certo punto! Molto spesso ci veniva chiesto come vi trovate a trovarvi uno contro l’altro. Noi ci siamo trovati bene perché stiamo bene insieme. Se una competizione del genere mette in crisi una relazione allora la relazione non è seria. Competere con il sostegno dell’altro è stato bellissimo. Li dentro noi avevamo l’un l’altro e stavamo bene. Quando sei in un tritacarne come quello di un reality, non hai tempo per pensare a nulla. Sei immerso n questa cosa, prosciugato dall’esperienza. Sei confuso e non hai la lucidità per pensare a ciò che succederà dopo. Però, appena usciti la prima cosa che hanno fatto, identifica chiaramente quello che volevano essere:  Andrea ha comprato un libro di cucina, Nicky ha cucinato. Non vedevo l’ora di cucinare come voglio io. A casa ho tutta l’attrezzatura. Era quasi liberatorio. Masterchef ci ha ripagati almeno all’inizio perché ci sono persone che ti chiamano e vogliono provare a fare qualcosa. Così ti senti spronato a fare qualcosa. Poi no. Abbiamo lavorato non per il nostro nome ma tramite delle app e dei portali. Una volta fuori cambia tutto. Se vuoi che cambi. Altrimenti la vita diventa come un elastico che ti riporta esattamente al punto di partenza. È cambiata la quotidianità perché penso al privilegio di avere la possibilità, faticando, di gestirsi la vita. Fare il libero professionista non è semplice. Pensare alla cucina da quando mi sveglio fino a quando vado a dormire. Sono cresciuta tanto scoprendo le potenzialità che avevo. L’esperienza è stata traumatica ma ci ha fatto capire tanto. Lo rifarei mille volte. Ci ha solo aperto gli occhi su quanto volevamo fare. Il termine giapponese ikigai racchiude il senso della cucina. Quella cosa che combacia a livello lavorativo e di passione che può portare qualcosa al mondo e che nutre te stesso. Chi trova l’ikigai non aspetta la pensione. Andrea Letizia e Nicky sono due ragazzi, due chef con la testa sulle spalle. Una coppia nella vita e una coppia in cucina. Cucinano e si divertono. Oggi fanno gli chef a domicilio con Nicky che si diverte a cucinare e a gestire i suoi canali social facendo lui stesso le riprese (si è attrezzato pure uno studiolo). Cucinano portandosi dietro le loro origini. Fondendole nei piatti. Mantova, Roma; Italia, Sri Lanka. La vera integrazione è qui. Non avrei mai pensato di portare tutte le mie origini nella cucina. Parmigiano, pasta fresca, aceto balsamica. sapori Dolci, rotondi. Nicky invece cerca sempre sapori decisi, piccanti, decisi, pungenti. Nonostante io abbia origini dello Sri Lanka sono vissuto a Roma con piatti romani che ti spaccano il palato in maniera positiva. Nello Sri Lanka con le spezie hai tantissimo sapore in bocca. Anche se delicato, il piatto deve avere una esplosione di gusti. Se non c’è non sono felice. Il successo non li tocca o comunque sembra non toccarli. Hanno tempo per evolversi e imparare. Non hanno bruciato le tappe. Se lo sono guadagnato e meritato. Certo, Masterchef ha aiutato ma poi quel di più ce lo hanno messo loro. Facciamo gli chef a domicilio da quasi anno. Siamo tranquilli ora nel portare cene anche a trenta persone. Sono felice e il motivo è perché non ho mai smesso di cucinare. Due ragazzi sereni. Due persone che, nelle mille difficoltà (perché non sempre è oro ciò che luccica) si completano vicendevolmente. Stare sempre insieme, anche negli spazi angusti di una cucina, dosare, preparare, cuocere, impiattare, non è semplice. Proprio nella diversità funzionano. Insomma, Andrea ha trovato la sua strada. Nicky può finalmente dare una risposta alla sorella. Li vedi felici e realizzati anche se il loro percorso è solo all’inizio. Non pensano ad un lontano futuro. Si concentrano sul migliorarsi giorno dopo giorno, sperimentando senza sognare (anche se Nicky confessa di cucinare anche nei suoi sogni). Senza pensare a cosa sarà il futuro. Hanno fiducia in loro stessi, nelle loro capacità, nella loro tenacia. Magari con un pizzico di stabilità in più che non fa mai male. Trovi sempre un meraviglioso sorriso sui loro volti. Quel sorriso che è trasposto direttamente nei loro piatti perché realizzati con tutta la loro anima. In bocca al lupo ragazzi. Ps Per una esperienza culinaria con loro potete far riferimento al sito internet: Andrealetizia & Nicky Brian Chef A domicilio (andreaenicky.com)     Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969  
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29 Dicembre, 2023

Baron Longo. Anton, le montagne, casa

Cosa non si fa per un figlio? Nulla. Nel senso che si farebbe tutto e di tutto. “E figli so piezz’ ‘e core” in fondo. Ci si prodiga, si fanno sacrifici, si fornisce supporto. Tutto davvero tutto.
Ora, immaginatevi di avere un figlio che sta studiando all’estero per portare nella azienda di famiglia qualcosa. Ma fosse anche per inseguire un sogno come è giusto che un ragazzo faccia. Non fosse altro perché la vita è sua e deve poter fare ciò che più gli piace.
Vi verrebbe mai in mente di richiamarlo a casa? Forse in un’altra epoca. Forse in presenza di difficoltà familiari. Forse anche in funzione della vostra provenienza geografica.
In che senso?
Se si potesse fare un sondaggio sono certo che che un genitore del sud volerebbe sulle nuvole avendo un figlio che studia all’estero. Figuriamoci a richiamarlo a casa.
In questa storia noi siamo al nord. All’estremo nord dell’Italia. Più precisamente in Alto Adige o Sud Tirolo che dir si voglia. Egna, comune poco sotto Bolzano. Non è che adesso, al nord, i figli non siano figli e che il comportamento sia diverso da quello del sud, ma qui spesso conta la praticità. Il lavoro, ce ne è tanto ed è forse la prima cosa. Specialmente se hai da gestire una azienda con decine e decine di ettari.
Chi incontro è Anton Baron Longo. Un sorridente e pacato ragazzo dall’accento tipico di chi, in queste zone, è bilingue. Una di quelle persone delle quali percepisci la serenità anche in presenza di problemi. Non a scacciarli o a non occuparsene (o preoccuparsene) ma a gestire l’ineluttabilità delle cose. Sbagliando si impara diceva Cimabue nella nota pubblicità Sono partito nel 2011. Mio padre mi ha chiamato e mi ha detto. Senti figliolo, hai studiato abbastanza, torna a casa. Anton era a Montpellier a studiare enologia. Certo, 27 anni sono un pò tanti per studiare ancora ma i figli so piezz’ ‘e core anche a Egna. Fino ad un certo punto però. Fino a quando arriva quel momento nel quale capisci che devi renderti utile per l’azienda di famiglia. O che qualcuno te lo fa notare…. Sono ritornato e mi ha dato in mano l’azienda. Come è tipico in Alto Adige, abbiamo frutteti, vigneti, bosco. Pian pianino ho detto che a me piaceva far il vino. Alle volte penso che la legge di gravitazione universale che Newton iniziò a formulare vedendo cadere una mela dall’albero (e qui di mele ce ne sono quante ne volete) si possa applicare anche ad alcune persone. La terra, la propria terra; la casa, la propria casa hanno un potere attrattivo che va ben oltre l’enunciato “Due corpi dotati di massa si attraggono con una forza che è direttamente proporzionale al prodotto delle masse e inversamente proporzionale al quadrato della distanza che li separa”. Anton. Due sorelle. Una famiglia che è da sempre impegnata nel conservare le tradizioni dell’Alto Adige. Il territorio. Il rispetto per questo. La biodiversità. Un grande bosco di circa 70 ettari. I cavalli. Il meleto di dieci ettari (le mele più buone si fanno qui!). La vigna di circa 20 ettari. Davvero molto grande per i numeri dell’Alto Adige dove la media è di poco più di un ettaro di proprietà. Solo che da sempre a casa Baron Longo l’uva si conferisce. Produrre il vino è complicato ed il conferimento fornisce il, quasi, certo contante utile per far girare tutta l’azienda. Nel 2014 ho detto a mio padre che volevo fare un vino a modo mio. Abbiamo quasi 20 ettari E lui ha detto “no, non lo fai”. In passato mio nonno era sindaco di Egna e aveva già fatto vino in passato. Se ne andò durante il fascismo e suo figlio è tornato fondando la cooperativa di Egna e poi di Termeno. Da li abbiamo sempre conferito. Ora qualcuno penserà che Anton abbia voluto far qualcosa “tanto per”. Far qualcosa di più divertente che coltivare e raccogliere l’uva per poi conferirla. Una cantina è sempre di maggior prestigio rispetto al solo semplice (manco tanto) lavoro nei campi. Non è cosi. Infatti Anton racconta questa cosa senza astio o voglia di riscatto. La pacatezza del suo discorso non è di facciata. Forse sa che al posto del papà, con la responsabilità di portare avanti una azienda grande per tutta la famiglia, avrebbe detto che imbarcarsi in un progetto che avrebbe drenato per anni risorse, non sarebbe stata la scelta più saggia.
I ragazzi hanno bisogno di sognare, sperimentare e anche sbagliare. Solo così crescono e diventano persone. Anche a 27 anni. Perché no? Io volevo partire con il progetto di una cantina che portasse il nome di Baron Longo. Così sono comunque partito facendo uno Chardonnay, un Lagrein e anche un Pinot Bianco. Dopo la fermentazione mi sono accorto che avevamo un aceto di quelli belli grandi. Qui e solo qui si vede la grandezza delle persone. Sbagliare si può e per certi versi si deve. Quando accade ci si può scoraggiare e si può scoraggiare nel proseguire. Oppure essere pragmatici, capendo e metabolizzando l’errore come parte del processo di apprendimento. Ho detto a mio padre che il progetto stava andando male. Lui ha detto: facciamo così: Ti do tre ettari cosi puoi andare in banca e li possono darti un mutuo cosi che puoi farti il tuo progetto. La grandezza del papà di Anton è qui. In questa frase. Responsabilizzazione del proprio figlio ma anche supporto. Non importano gli errori che tutti hanno fatto e fanno. Conta ciò che impari e le responsabilità che ti prendi. Per crescere. Così come anche Anton ha fatto la sua parte capendo che quello era il momento, il vero momento della scelta. Da li in poi non si sarebbe più scherzato. Nel 2015 ho ristrutturato la cantina al centro di Egna nel palazzo Longo, la cantina storica. Così ero pronto per la vendemmia. Non andò bene perché abbiamo comunque dovuto fare tutto in un garage: Chardonnay, Pinot Bianco e Cabernet. Utilizzo di legno. Il primo vino era il Libenstein.
Erano poche bottiglie cosi che l’imbottigliatore mi disse che non veniva per mille bottiglie. Così ho fatto dei blend (il Liebnstein è un blend di Chardonnay e Pinot Bianco). E da li sono nate Anton inizia a produrre vino sul serio prendendo la decisione, piano piano di voler fare solo quello nella sua vita. Non gli interessava altro. Produrre vino da queste splendide montagne ricche di calcare e con un clima adatto alla produzione di grandi bianchi. Un ragazzo che sradicato da Montpellier scopre di essere innamorato dell’Alto Adige e della sua vigna. Ho iniziato a capire bene il terroir. Così ho incaricato un geologo per scavare le vigne e capire cosa c’era sotto dunque il potenziale. Ciò che trovano nelle terre, anzi sotto, è tanto calcare che non si può che pensare ad un vitigno come lo Chardonnay che predilige proprio questo tipo di terreni. Oltretutto con le montagne che forniscono un clima ideale. A Egna siamo a 290 metri e abbiamo un maso a 1050 metri. Li abbiamo quasi 4 di ettari dove non è mai stato fatto vino perché troppo alto. Così nel 2011 abbiamo impiantato delle vigne mentre tre anni fa Chardonnay, Pinot Nero e Sauvignon. Solo che avere le vigne (anche) oltre i 1000 metri sarà pure bello e suggestivo ma poi devi fare i conti con la natura. Già l’anno scorso abbiamo perso un ettaro per le gelate. Se decidi di andare su in alta quota devi capire che c’è il rischio di perdere qualcosa. Però se il progetto andrà bene avremo qualcosa che ci differenzia in Alto Adige. Perdere un ettaro di uva può essere un dramma. Ciò che mi colpisce è come Anton ne parla. Il rispetto per la natura è così alto che è come dire “è successo e va bene cosi”.
Anton ci crede e ci crede tanto. Non fa che ripetere la parola “progetto”. È il suo! Tutto ciò che vuole è realizzare qualcosa di unico. Qualcosa che sia unico al mondo. Ambizioso? No. Assolutamente no. È un ragazzo in gamba che sa cosa vuole e si impegna al massimo per realizzarlo. Ogni cosa è per lui motivo di studio e di attenzioni. Per conferire papà voleva tante varietà diverse cosi da coprire tutte le esigenze del mercato. Un anno il Gewurztraminer, un anno il Lagrein. La mia idea era di ridurre le varietà per averne al massimo 4. Così da fare un pò di focus.   Ecco una cosa meravigliosa. Un ragionamento che Anton ripete più volte. Oggi la sua azienda produce 80.000 bottiglie con otto etichette e vari vitigni. Troppi nella sua idea perché capisce che se vuole competere deve avere più bottiglie per etichetta.. Vuole che la sua azienda si identifichi per i bianchi e su questi vuole concentrarsi. Sa di essere parte della storia. Della sua famiglia certamente. Del territorio anche. Ma conferendo l’uva per tanti anni, nessuno li conosce. Ecco perché diventa cruciale concentrarsi su qualcosa che possa portare notorietà. Devo puntare su poche varietà. Siamo una piccola realtà che punta sulla qualità. Perché non faccio vini tipici della zona come Lagrein e Schiava? Ci ho pensato tanto ma ho detto che voglio essere in competizione con il mondo. Voglio che bevendo la mia bottiglia ci sia la leggibilità come chardonnay. Non ho idea di fare gli autoctoni. Io sono più nei bianchi perché credo nel potenziale e perché i miei terreni sono adatti per i bianchi. Se fossi sulla Mosella farei un Riesling. Non sono amante dei Gewurztraminer. Forse non vado bene per l’Italia perché sarei più richiesto come Pinot Nero. Pochi vini e grande rispetto della natura. La cosa che per me era anche importante era il biologico. Papà era già su quella direzione. Quando io sono nato la mamma ha ricevuto come regalo una pecora. Io ora ho 11 maiali dalla Nuova Zelanda (kunekune). Mangiano solo erba e dunque li lasciamo liberi nel vigneto perché sono cosi piccoli che non riescono a mangiare l’uva. Così non dobbiamo più andare cosi spesso con il trattore. Per Anton è tutto spontaneo e meraviglioso. Non ci sono filtri ne tantomeno retro pensieri. Lui è così. Se lo facciamo vorrei anche essere certificato. Nel passato non era richiesto. Ma tutti i vini dal 2020 sono certificati bio e dal prossimo anno saranno biodinamici. Accanto al Liebenstein c’è Urgestein uno vino stupendo da Sauvignon Blanc con affinamento in legno e acciaio che ho recensito sul mio blog Instagram.
Certo, i nomi tedeschi, così complessi non aiutano. Almeno in Italia. Ma Anton ha le idee chiare anche su questo. La scelta di nomi tedeschi è stata fatta da me perché in Alto Adige è partita la discussione per dare ad ogni particella un nome come Mazzon. Li ho pensato se volevo entrare in quel mondo o andare per la mia strada. Come quella della famiglia. Ho scelto questa strada. Liebenstein è il il mio secondo cognome. Urgestein è stato scelto perché nel terreno dove cresce il Sauvignon abbiamo roccia madre. Se qualcuno adesso sta pensando che Anton abbia dalla sua un padre che gli ha dato le possibilità, sbaglia di grosso. Ciò che gli ha donato sono solo i tre ettari e mezzo che ha utilizzato per partire. Tutti gli altri, per un totale di venti, sedici dei quali in produzione, li ha in affitto.
Che grande papà. Per Anton è tutto normale. Sa che probabilmente avrebbe fatto anche lui così. È stupendo come risponde quando gli chiedo “ma come, te li affitta? Li affitta a suo figlio?” Si certo Anton si sta guadagnando ogni cosa. Passo dopo passo. Vendemmia dopo vendemmia. Gli errori? Non sono stati vani anzi, hanno portato i loro frutti. Nel 2014 ho capito che mi serviva un aiuto. Ho chiesto ai miei amici enologi dell’Alto Adige una mano. Ho trovato un enologo che mi ha seguito fino al 2020 quando ho avuto la fortuna di un contatto di un enologo di Angelo Gaja. È un francese e mi aiuta tanto. Mi segue sul quando vendemmiare, quale legno scegliere. Il vino si fa una volta all’anno. Non è come la birra. Iniziò con la potatura poi vendemmi poi in cantina. Basta. Se non va bene hai perso un anno. Grande umiltà nel capire gli errori cosi come circa la necessita di un supporto. Fosse solo per avere qualcuno che ti dice se stai facendo bene o male e con un papà al quale, alla fine, il progetto piace. Il progetto gli piace e dice che un domani dovrebbe essere che funziona anche in maniera economica nel senso che facciamo soldi invece che metterli dentro. Ma con il vino ci vuole tempo. Un progetto che dovrà ancora evolversi. Il biologico che si trasforma (da subito praticamente) in biodinamico. Alcuni vini come il Gewurztraminer non più in gamma. Due bianchi da Chardonnay, Pinot Bianco e Sauvingon e un solo rosso con Cabernet e Merlot. Chardonnay come entrata poi i premier cru e i grand cru. Così avremo una certa quantità di bottiglie. Forte il ragazzo! Forte la sua propensione al biodinamico. Abbiamo basse rese per ettaro. 60 quintali per ettaro. Lavoriamo con la luna. Abbiamo la nostra acqua. Abbiamo i maiali. Tutte cose importati per avere i terreni vitali. Dobbiamo cercare di attivare i terreni perché ci sia equilibrio e vita. Le vigne più vecchie sono di un Cabernet che hanno circa 80 anni. Sono a pergola. Nel passato coltivavano sotto patate, ortaggi. È duro fare vino in Alto Adige. Questa la vita di Anton. Queste le sue ambizioni. La vigna e niente altro. Affitto da pagare al papà, mutuo alle banche. Deve pure finire gli studi di enologia e, tra l’altro, gli manca ancora un pò. Cosa questa che mi lascia pensare di quanto si sia divertito prima. Prima. Non ora. Ora è in equilibrio con se stesso e ciò che lo circonda. Equilibrio perfetto. Anche se è sempre lui a dirigere la vigna e se stesso. Mia sorella mi porta i cavalli in vigna ma quello che sto facendo è un pò un one man band. Faccio tutto da solo tranne la vendemmia. Non sento la solitudine. A me piace stare con le persone e anche da solo. Per fortuna. Ho la mia ragazza, la mia famiglia e pian pianino si cresce in azienda. Ho trovato un ragazzo che mi aiuta in vigna. Il prossimo anno ne verrà un altro. Poi cerco qualcuno che prenda in mano il tema biodinamico. Insomma, alla fine gli rimane solo da convincere definitivamente il papà a cui continua a piacere come vino quello prodotto dal Solaris (precoce nel germogliamento, precoce nella fioritura…adatto per la montagna perché poco rischioso) tanto che Anton un vino ancora glielo produce, lo Sichlburg. Siamo un pò diversi per il vino. Lui ha un altro approccio sul vino. Io ogni giorno assaggio. Assaggio altri vini per migliorare. Se vai a mangiare inizi al McDonald’s ma poi cambi così da capire. Anton Baron Longo. Da Egna a Montpellier e ritorno. Alla propria terra. Alle proprie origini. Con le idee chiare da chi sa cosa vuole. Da chi ci crede. Da chi non accetta compromessi. Da chi sa aspettare che il tempo maturi le cose. Da chi non si arrende. Da chi guarda a ciò che lo circonda rimanendone affascinato ogni giorno.
I suoi vini? Sono una vera scoperta così che quando li assaggi ti viene da pensare: ma dove è stato Anton fino ad adesso? Ivan Vellucci Mi trovi su Instagram come @ivan_1969 BaronLongo | Egna | Facebook BaronLongo (@baronlongo) • Foto e video di Instagram        
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22 Dicembre, 2023

Bacco del Monte. Il Pinot Nero della sana follia

Pinot Nero e Mugello. A chi viene in mente un connubio del genere, alzi la mano!!
Il Pinot Nero è la nobiltà del vino. Dalla Borgogna allo Champagne passando per l’Alto Adige con l’altopiano Mazzon per dar vita a vini spettacolarmente complessi. Espressioni paradisiache di un vitigno che, nella sua difficoltà di gestione, può generare tanta soddisfazione. Maison, Chateau, Tenute. Tutte impegnate da anni, lustri e in alcuni casi, secoli, a produrre esaltanti vini da questo vitigno. Con tante imitazioni o perlomeno interpretazioni. Solo in Italia si contano 93 denominazioni con il Pinot citato, 3 delle qualità DOCG. Espressioni diverse, filosofie interpretative diverse.
Il Mugello invece, che c’entra in tutto questo? Alzi ancora la mano chi riesce ad identificare, anche solo geograficamente il Mugello.
Certo, chi è solito percorrere l’Autostrada del Sole avrà certamente notato l’uscita di Barberino del Mugello. Non è una uscita come le altre. È una delle uscite più agognate dell’intero percorso autostradale. Di quelle che si spera arrivino il prima possibile.
Colpa dei sempre presenti lavori di ammodernamento dell’autostrada e delle interminabili code dei Tir che iniziano a Firenze e terminano proprio li. Il tutto preannunciato (mettendo anche ansia a dire il vero) dalla radio e dalle segnalazioni luminose che recitano sempre “coda fino a Barberino del Mugello”!
Gli appassionati di moto ricordano poi sicuramente il Mugello per il circuito delle gare di moto mentre i malati di shopping per l’outlet. Eppure il Mugello è molto ma molto di più a cominciare dai paesaggi che sono di quelli veri e quasi incontaminati (quasi poiché non so se ne esistano ancora di veramente incontaminati).
Essere a nord di Firenze ovvero zona di mezzo tra la grande ed attrattiva Toscana e la godereccia Emilia Romagna, oltretutto attraversata dalla più trafficata autostrada italiana, fa si che il Mugello sia una zona poco frequentata se non fosse per le occasioni dei raduni e gare motociclistiche.
Poco male se si cerca tranquillità, bella gente e tanta salubrità. Se parliamo di vino, beh la Toscana è la Toscana. Chianti, Supertuscan, Vernaccia. Insomma ce ne è per mettere in ombra tutto il resto. Già il Mugello è in ombra di suo…. Il vino non può che essere una normale conseguenza.
Normale e sensato come ragionamento. Valido solo se non si ha la pazienza di guardare meglio. Ok, ma come ti viene in mente di mettere il Pinot Nero in Toscana? Nel Mugello poi! Occorre essere pazzi è vero. Ma non sono proprio i pazzi che fanno nascere le cose più meravigliose? Pensiamoci bene però. Per chi è così pazzo da voler far vino nelle terre del Mugello, non avrebbe avuto senso impiantare barbatelle di Sangiovese. Chianti del Mugello? Con tutti i Chianti che ci sono, non se ne sente il bisogno di un altro. Il Mugello risulta caratterizzato da terreni argillosi, estati brevi, elevate escursioni termiche tra giorno e notte, alta umidità. Insomma, posta così la questione, sembrerebbero le condizioni ideali proprio per il Pinot Nero. Mio nonno che ha 96 anni ed è ancora vivo, alla fine degli anni 70 piantò un pò di vigna. Gli piaceva e gli piace fare dell’orto. A casa nostra c’è sempre stato. Cabernet Sauvignon, Merlot, Syrah e un pò di Chardonnay. E altre cose. Sai come funziona in Toscana no?
In casa nostra tutti gli anni, a settembre, una volta si faceva a settembre, c’era la vendemmia. Io ci sono nata praticamente.
Io sono nata nell’89 e i miei si sono trasferiti nell’85 dopo che mio nonno costruì questa casa acanto alle vigne. Tutti insieme si abita qui. Noi siamo in 4. Con mio fratello e i nonni.
Senza sapere che ci sarebbe stato tutto questo ho studiato all’università, enologia. Quando ho visto il piano di studi ho detto “ma questa è una roba fantastica”. C’era tantissima chimica e mi sono innamorata di questa cosa. In famiglia mia, mi babbo, mia mamma, il mi fratello sono tutti medici. Hanno fatto tutti medicina Io non ne potevo più di sentir parlare di malati e ho detto voglio fare sta cosa. Facciamo cose serene.
Mi sono laureata nel 2014, papà e mamma sono andati in pensione e io ho detto loro che volevo provare a far vino sul serio. All’inizio quando abbiamo deciso cosa fare abbiamo cavalcato l’onda del Pinot Nero nel Mugello che nasce da vent’anni con il Rio di Paolo Cerrini a cui vogliamo tanto bene. Qui c’è una clima molto particolare al quale il Pinot Nero si abbina bene. Forti escursioni termiche. Mio babbo è un appassionato di meteorologia. Abbiamo una stazione meteo super professionale. Papà ha preso tutti i dati dal 2011 al 2022 e ha detto che non siamo mai andati sopra i 20 gradi durante la notte. Il Mugello si pensava non fosse adatto alla produzione del vino. Ma non è vero che perché non si era ancora trovata la giusta varietà. Ci son delle zone, un pochino più alte dove si fa anche un ottimo sangiovese. Abbiamo piantato dunque i due ettari a Pinot Pero. Silvia Bacci è una donna toscana di gran carattere. Un peperino si direbbe qui. Va a mille. Non si ferma un attimo ne di fare, tantomeno di parlare. La nostra chiacchierata è iniziata così: pronti, via. Lei è partita con la velocità tipica di chi parte per la maratona con il ritmo dei 100 metri piani.
Con coinvolgimento e tanto buon umore. Tipico toscano. Ma Silvia è di più.
Sarà per il suo entusiasmo, la voglia, la passione e soprattutto l’amore che ha per questa avventura. Sarà anche perché Silvia, dopo la laurea, si è messa non solo a fare consulenze ma anche ad insegnare Wine Business, Marketing soprattutto, ai giovani americani che vengono in Europa a studiare il vino.. Sarà quel che sarà, ma non la si ferma. E meno male aggiungo io! L’azienda Bacco del Monte nasce nel 2016/2017 con la prima annata di produzione nel 2019 con un solo vino, il Monte Primo. La terra del babbo e del nonno è piccina: solo due ettari. Non ci si vive. Ma certamente ci si diverte. Non volevamo fare la produzione. Non era previsto. Si era detto: va beh abbiamo piantato da poco non ci sarà niente. Invece si va in vigna con il mi babbo “qui c’è l’uva che si fa, si butta via?” Assolutamente no. Abbiamo fatto la vendemmia praticamente in ginocchioni. Sono stata male una settimana. Se uno vole fa palestra venga in vigna. Prima vendemmia e 2500 bottiglie: da li abbiamo continuato.
Nel 2021 abbiamo differenziato facendo le due etichette Monte Primo e Torre di Ponente. Nel 2022 abbiamo fatto anche un bianco, lo Chardonnay del nonno. 300 bottiglie fumate in un mese. Così con il babbo abbiamo fatto una scommessa.
“Papà se riesco a vendere tutte le bottiglie prima dell’estate si pianta lo Chardonnay.
Questo è avvenuto Dunque abbiamo piantato le barbatelle di Chardonnay. Fermare Silvia quando parte è complicato. Ma ascoltarla è un piacere. Noi abbiamo un problema, ci piace bere. La vigna vecchia la teniamo per noi. Va risistemata perché ha 40 anni. Nonno aveva fatto il cordone speronato. Ci facciamo pure un passito da Aleatico e Malvasia Nera. Ci piace sperimentale. Abbiamo provato pure la sperimentazione. Insomma i due ettari impiantati vengono usati per produrre vino adatto alla commercializzazione mentre la vigna del nonno per utilizzata come consumo interno, sperimentazioni e degustazioni. Papà Enrico, mamma Elena, Duccio il fratello e Silvia. La squadra di Bacco del Monte è completa. Squadra che si rimpolpa durante la vendemmia ovviamente. Una vendemmia fatta con calma e tanta allegria. Nessuna fretta (se non quella di rispettare i tempi enologici). Tanto si vuole stare insieme. Silvia è l’unica in famiglia che non abbia studiato medicina e intrapreso la professione medica. Con la passione che ha per la terra ed il vino, francamente non so se sarebbe stata un buon medico. Eppure papà Enrico dopo la pensione si è riconvertito in fretta. Il mi babbo è bravissimo. Ha studiato tanto. È un appassionato cosmico di chimica e fisica. A differenza mia che ho la parte creativa, lui è precisissimo. Questo è fondamentale. Abbiamo anche un consulente esterno al quale voglio molto bene che ci supporta.
Abbiamo iniziato a vendere vino a novembre 2021. Me lo ricordo bene perché è nato mio figlio. Tutti mi prendevano in giro e dicevano che erano nati due figlioli.
Alla prima degustazione nel nostro paese io non c’ero. Ho partorito due giorni dopo e ricordo che ero al telefono a chiedere come stesse andando. Abbiamo iniziato a vendere nel Mugello con ristoratori nostri amici. Poi degli agenti in Toscana. Ho trovato un importatore molto carino in Repubblica Ceca, poi anche in Francia. Abbiamo una mezza cosa con l’America. Li ce tanta burocrazia.
Quest’anno avremmo fatto 8000 bottiglie in piena produzione. Ma con la peronospora non ce la faremo. Non siamo ancora alla fine dunque non sappiamo cosa possa succedere. Una delle cose che mi ha lasciato con il punto interrogativo stampato sul viso è stato il sito internet dell’azienda. Per chi avrà voglia di andarlo a vedere troverà sulla destra la linguetta “Meteo”. Non è una cosa insolita specialmente per le strutture che offrono degustazioni e alloggi. Diverso e insolito è quando ciò a cui si accede è una vera e propria stazione meteorologica con dati e grafici insoliti e poco orientati all’utente della strada.
È il bello di aziende e persone che sì, fanno questo mestiere come business ma la passione prevale su tutto. C’è la voglia di fare le cose con l’amore e l’animo di chi le vuole fare con il sorriso sulle labbra. Solo però soddisfacendo a pieno le proprie passioni si possono fare le cose con amore. Magari il meteo non c’entra nulla su un sito internet di una azienda vinicola, ma per la gestione di una vigna, certo che è utile.
La passione di Silvia è così intensa che riesce a trasmetterla anche fuori dall’azienda. Io faccio consulenze e insegno wine business e marketing ai ragazzi americani che vengono a studiare qui in Europa. Esperienza stupenda. La adoro perché imparo un sacco di cose. Io sono qui e vi insegno ma voi mi date tantissimo. Poi mi tiene sempre sul pezzo. Quali sono le cose che in genere sottolinei ai ragazzi? Se vogliono lavorare in questo mondo devono sapere come si fa il vino. Occorre poi sempre usare la creatività e il mondo del vino, certo, aiuta perché è edonistico e romantico. Poi c’è il cambiamento climatico e tutto ciò che comporta. Infine, le relazioni. Vere e non per finta. Avere buone relazioni ed essere delle belle persone è fondamentale. Parlare di edonismo e creatività nel vino è facile per un peperino come Silvia. Più complicato deve essere il rapporto con il papà che da medico dunque scienziato nonché meteorologo è molto più legato ai processi, alla tecnica, ai dati. Ma nelle scelte non si può che andare a braccetto. Tecnica e testa unita a cuore e passione. Il Pinot lo abbiamo deciso insieme. Dopo una consultazione lunga nel senso di cosa si fa. L’alternativa era continuare come il nonno, Cabernet, Merlot e Syrah. Ci sembrava però un pò complicato e difficile emergere con un prodotto del genere. Si faceva e si fa per casa. Va tutto bene. Se un anno non è perfetto va bene. Il Pinot ci sembrava più centrato. Il Pinot Nero nel Mugello. E già qualcuno deve sapere dove sia il Mugello. Mi è capitata una degustazione a Gorizia con italiani che dicevano: si viene spesso dalle vostre parti a Montalcino. Impossibili comparare il Pinot Nero del Mugello con quello dell’Alto Adige. La toscanità qui viene fuori rendendolo più corposo, meno raffinato e al tempo stesso più vero. Il terreno, ricco di argilla, contribuisce alla colorazione e compattezza realizzando una sorta di Pinot Nero sangiovesizzato.
Il Pinot è l’amore e odio di tutti gli enologi. L’ispirazione di produrre qualcosa con rese bassissime, complicato come vitigno, delicato. Cosa porti della tua esperienza in azienda? E cosa tu porti agli studenti? Le lezioni spaziano tanto. Cerco sempre di raccontare la mia storia parlando da come abbiamo fatto le nostre scelte. Le etichette, il vino, il logo, ecc.
Con mio papà ci siamo confrontati su tutto. Davvero tutto.
Spiego come si parte da zero arrivando a costruire qualcosa. Gli riporto le relazioni con gli agenti, gli importatori. “Dite la verità” gli dico sempre. Così le relazioni si rafforzano. Avere serietà che è la prima carta da spendere.
Porto sempre con me le loro opinioni. Come vedono le novità, la intelligenza artificiale, ecc. mi tornano indietro tante cose. Quanto la tua attività di insegnante ti blocca e quanto ti stimola? Mi stimola. Non mi limita perché mi lascia del tempo per potermi dedicare a questo. Con il concetto delle degustazioni mi appago perché gli ospiti apprezzano il vino, l’ambiente, l’ospitalità. Facevo anche consulenze per altre aziende ma ho stoppato tutto per dedicarmi a questo e a mio figlio che ha un anno e mezzo. Lui è appassionato di trattori e io glielo ho bello e detto: appena hai l’età per andare sul trattore….uno due tre via! Silvia sorride e ride sempre. È solare. Prende la vita con leggerezza. Anche negli sbagli. Ehhh tantissimi sono gli sbagli che ho fatto. Si sbaglia in continuazione. I primi tempi la vendemmia, le soluzioni, gli affinamenti, le tempistiche. Siamo una azienda familiare e quando si deve far qualcosa occorre far la conta di chi c’è. Meno male che si sbaglia. Nessuno nasce imparato. Cosa cambieresti con la bacchetta magica? Più spazio in cantina perché non è mai abbastanza. Vinifichiamo tutto qui. Imbottigliamo qui In tutto questo, c’è una figura che aleggia rimanendo dietro le quinte. Come un ghost writer. Un consigliere che non appare. Eppure presente. È mamma Elena. Una donna che media creando il collante senza mai tirarsi indietro. È una donna che non ha paura di nulla. Qualsiasi cosa, la fa senza problemi. Ci porta il sorriso. Ci da una mano. Due i vini prodotti da Bacco del Monte: Terra di Ponente, affinato in acciaio; Monte Primo in botte. Abbiamo cominciato con il Monte Primo e affinamento in legno. Poche bottiglie. Poi ci siamo visti e si è detto: che si fa quest’anno? La scelta era nel fare un superiore o un acciaio. Dato che le vigne sono ancora giovani abbiamo detto “facciamo uno vino sotto non sopra”. Nel 2022 faremo qualcosa su. Mi piacerebbe fare un pò più di bianco perché lo Chardonnay è piaciuto molto. Aldilà delle varie prove che ci piace fare, così mia sembra sia più che sufficiente per le forze e le dimensioni che abbiamo. Non vogliamo correre troppo. Ho già recensito il Terra di Ponente sul mio canale Instagram @ivan_1969. Un vino che davvero può essere identificato con un Pinot Nero sangiovesizzato. Interessantissimo. Non ti sei data una progettualità per il futuro? Se devo sognare si ma se devo rimanere con i piedi per terra, dobbiamo vedere. Silvia Bacci. Mamma. Vignaiola. Professoressa.
Pur provenendo da una famiglia di medici, l’analisi e la precisione, non è in lei. Pazzia, visione, passione e tanto buon umore si. Questo si.
Questo fa di Silvia una persona speciale che quando incontri, non puoi che arricchirti. Trasmette tutto il suo buon umore, la sua voglia di fare, la sua dinamicità, l’amore per la famiglia e i suoi luoghi.
Ogni luogo che è casa diventa speciale. Succede spesso anzi, quasi sempre. Non c’è nulla più speciale della propria casa. Ma qui è diverso. Qui c’è una famiglia che vive insieme. Una famiglia che ha costruito una casa nelle terre del Mugello. L’orto, la vigna. Il vino come un semplice prodotto della terra.
Per rompere questo idillio di tranquillità serviva un pò di sana follia alla quale ha pensato Silvia.
Non ha rotto nulla in realtà. Perché quando una famiglia è tale, si stringe attorno ad una idea, ad una prospettiva diversa.
Bacco del Monte e il suo Pinot Nero (oltre allo Chardonnay che era di nonno Sergio e che piace tanto a Silvia) è tutto questo ma anche di più.
Come dico sempre, solo conoscendole le persone possiamo ricevere il dono di un pezzo della loro storia.
Grazie Silvia per questo dono.     Ivan Vellucci Mi trovi su Instagram come @ivan_1969      
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15 Dicembre, 2023

Vin Viandante, il sogno e l'amicizia

La vita è un viaggio….non importa quale sia la destinazione. Come non ricordare Saetta McQueen e Cricchetto. Cars. Era il 2006 (e solo a fare i conti di quanti anni fa erano, mi sento male). Senza lasciarsi vincere dalla malinconia e ancor di più dalla senilità incombente, quella frase mi è ”rimbombata” in testa parlando con Gino e Cesare. Rim bomb ba ta. Avete mai fatto caso a quanto sia onomatopeica questa parola? Rim bom ba ta. Spettacolo. Divago sempre. Parlare di viaggio in ambito enoico non è poi così campato in aria. Si va anche in vacanza per visitare zone meravigliose vocate al vino con la speranza di conoscere aziende, cantine e soprattutto vini. C’è un mondo dietro il turismo del vino. Allora Gino e Cesare sono due organizzatori di viaggi? Non proprio.
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12 Dicembre, 2023

Sparkle 2024: un mondo di bolle

Ricordo di aver letto un articolo scientifico tempo fa che indicava in 1 milione il numero di bolle contenuto in un bicchiere e 49, sempre milioni, in una bottiglia. Dubbi a parte circa la tipologia di bolle derivante dal metodo di spumantizzazione e del rapporto 49:1, sono comunque un numero considerevole. Se dunque ci si trovasse in una sala con oltre 200 etichette di meravigliose bollicine italiane, il numero di bolle presenti sarebbe spaventoso! Fantasia? No, realtà. È quanto accaduto il 2 dicembre scorso nelle sale dell’hotel Parco dei Principi di Roma dove la rivista Cucina&Vini ha presentato la guida Sparkle 2024: l’eccellenza delle bollicine italiane. Ho trovato espressioni indubbiamente interessanti a conferma di quanto le bollicine si stiano affermando ma anche crescendo in quantità e qualità. Accanto ai nomi di produttori blasonati e vitigni affermati si fanno strada realtà tutte da valorizzare e scoprire. La guida Sparkle 2024 ne è l’essenza fornendo un utile orientamento per scoprire il meglio della nostra produzione su tutto il territorio nazionale. Nel mio blog Instagram e storie delle cantine e delle etichette degustate. L’invito che faccio è quello di bere responsabilmente, con gusto, scegliendo anche fuori dagli schemi e non fermarsi a contare le bollicine!   Ivan Vellucci Mi trovi su Instagram : @ivan_1969
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7 Dicembre, 2023

Corte Canella: Gloria, figlia di un sogno

Dico sempre che ero figlia di un sogno che non era mio, era del mio papà. Ora tra le mani ho qualcosa di prezioso: un progetto e qualcuno che crede in me!
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5 Dicembre, 2023

Berebene 2024: i migliori vini italiani sotto i 20€

Districarsi nel mondo del vino è davvero difficile. Nel 2022 l’ISTAT stimava in circa 255 mila le aziende vitivinicole attive in Italia. Avete idea di quante etichette di vino ci potrebbero essere? Solo di vitigni ne contiamo 545. Non voglio fare un calcolo combinatorio ma sono davvero tante. Forse troppe. Una vera giungla nella quale trovare un vino che incontri gusti ed esigenze dei consumatori è arduo. Tanto arduo. Per questo le strade sono molteplici.  Si va in enoteca dove si può scegliere autonomamente o supportati dal proprietario. Oggi ci sono anche i supermercati con cantine di tutto rispetto (Esselunga, Conad e Carrefour sopra tutti) spesso anche con sommelier dedicato.  Ci sono poi le fiere del vino. Qualche produttore li definisce dei “bevifici” ma per un consumatore è una occasione meravigliosa per avvicinarsi al mondo del vino e testare anche etichette prestigiose.  Sui social impazzano gli influencer che si proclamano esperti di vino. Io sono uno tra quelli e mi rendo conto che la credibilità spesso viene messa in discussione da logiche commerciali (che non mi appartengono). Infine le guide. Tante e delle più disparate. Essere presenti all’interno di una guida per un produttore è importante sia per riconoscimento al proprio lavoro sia per riconoscibilità verso i consumatori. Quando però la guida è Berebene del Gamberorosso, dove i vini devono rigorosamente costare meno di 20€ allora il connubio tra qualità e convenienza rappresenta il vero punto di incontro tra produttore e consumatore.  Non tutti possono permettersi vini costosi. Non sempre un vino costoso è sinonimo di qualità. Non si deve sempre bere vini importanti.  La guida Berebene 2024 contiene un nutrito numero di vini italiani (921) sotto i 20€ reperibili in enoteca ma anche nei supermercati. La presentazione è avvenuta nella meravigliosa cornice di Palazzo Brancaccio a Roma domenica 26 novembre dove l’incontro con i produttori ha consentito di testare i vini confermando a pieno la bontà delle scelte. Dunque, se è facile stupire con una bottiglia importante e costosa, più difficile è meravigliare con vini particolari e di assoluto valore. La guida aiuta in questo. Se vorrete poi fidarvi di un onesto blogger, seguitemi su Instagram @ivan_1969 dove trovate tutte le storie dei vini che ho testato. Vi aspetto   Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969  
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1 Dicembre, 2023

San Masseo: suonate, qualcuno vi accoglie

Incontro Michele Badino, un monaco che vive con altri 4 fratelli al Monastero di Bose ad Assisi e, tra le altre cose, è un vignaiolo.
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24 Novembre, 2023

Fattoria di Gaglierano: Auà, sint a mè

Ogni dialetto ha una espressione per catturare l’attenzione. Non è un intercalare. Semmai il preludio che si inserisce all’inizio della frase per assicurarsi che ciò che si sta per dire o fare abbia il giusto livello di coinvolgimento.
In Veneto, dove si è molto attenti a non essere prevaricatori si dice “ascolta”. Questo lo so bene perché non faccio che prendere in giro un mio collega, veneto appunto, al quale conto tutte le volte che me lo dice. A Roma c’è il classico e rude “aò”. Diventa rude perché in genere si aggiunge “ ‘a coso”, “maschio”. Oppure per rafforzare “aò, senti’mpò”.
A Napoli c’è il classico “uè”.
In Abruzzo si usa “Auà”. “Auà, sint a mè” è come dire, “ascolta, fa come ti dico io”. Ascoltami insomma. Auà è un modo per affermare la propria presenza nel mondo. Esisto. Sono, dunque voglio affermarmi. Ma voglio farlo da abruzzese. Con le origini della terra. Con il Gran Sasso e le colline che degradano fino al mare. La grande montagna che divide e unisce. Le terre, le pecore, il mare. E il vino. Già il vino. Quello abruzzese vero e genuino. Come sono tutte le cose in questa terra. Basta si rispettino le tradizioni dei propri avi. Che non potevano che essere contadini o pastori. Auà. È l’inizio dei discorsi ed è l’inizio dell’avventura enoica della Fattoria di Gaglierano. La concretizzazione di un sogno identitario che trova la sua rappresentazione in un marchio. Auà non è un vino ma tre. I tre vini che rappresentano l’Abruzzo nelle sue tradizioni: il Montepulciano, il Pecorino, il Cerasuolo. Incontro quasi per caso Claudio ad una fiera. È con sua figlia Sara e Francesco, il commerciale dell’azienda. Non è la solita chiacchierata. La sensazione che ho è di essere in famiglia. Non so spiegarlo compiutamente ma non mi sento distante o poco a mio agio. Claudio mi tratta come uno di famiglia. Come se mi conoscesse da tempo. Quando mi parla dei suoi vini, dei salumi che produce, della sua azienda, è come se, conoscendomi da tempo, mi dice le cose come stanno.
Il ritorno alle origini e la voglia di rappresentare a pieno le tradizioni non è uno slogan qualsiasi. È convinzione piena. Vedi questo Cerasuolo? Io lo faccio in legno. Perché prima in Abruzzo, mica c’erano i serbatoi in acciaio o in cemento. Il vino si metteva a riposare nelle botti. Quelle c’erano. Già, quelle c’erano. Ci potevano essere le damigiane o il coccio. Così come le botti. Farle, mica era un problema per contadini e pastori.
Ecco, Claudio è così. Schietto. Ma anche sognatore. Fattoria Gaglierano nasce dal nulla. Claudio viveva a Pescara con la moglie e i due figli. Era il 2006 quando l’idea di avere una casa in campagna, sulle colline alle spalle di Pescara prese più forma. La casa l’aveva in mente. La vita che voleva era dentro di lui. Un ritorno al passato. A quella vita in un luogo incantato. La casa voleva progettarla e costruirla lui. Anche se era difficile trasferire questo sogno alla famiglia sempre vissuto in città. Difficile e forse traumatico per i figli spostarsi dalla città con il mare ad un tiro di schioppo alla campagna per uscire dalla quale solo gli autobus potevano essere di supporto. Vaglielo a spiegare a dei ragazzi che devono andare a vivere in campagna. I 20 km che separano Città Sant’Angelo da Pescara sono una enormità. Una vetta insormontabile più alta dei 2.912 metri della cima più alta del Gran Sasso (Corno Grande). Città Sant’Angelo, dove sorge la Fattoria Gaglierano, sarà pure un borgo meraviglioso, ricco di storia e classificato da Forbes tra i 10 migliori posti al mondo dove andare a vivere, ma per gli altri. Non certo per una teenager in piena tempesta ormonale. Ma c’è Claudio in questa storia. Che non solo sogna, coinvolge. Coinvolge la moglie Simona e coinvolge i figli. Il suo è un progetto che non vuole solo per lui ma per la famiglia intera. Qualcosa che resista al tempo e riporti indietro nel tempo. Ai suoi ricordi di bambino. Di quando tutto era semplice e non contaminato.
Ecco, proprio la contaminazione credo sia stato e sia l’elemento della vita di Claudio. Tanto da fondare e dirigere con Simona una ditta specializzata in consulenza ambientale. La sua, la loro attività principale. 15 ettari di cui 5 vitati. Claudio fa impiantare le nuove vigne oltre quelle già presenti. Nel 2009, la prima vendemmia. Per diletto più che altro. Io il vino me lo ricordo in una certa maniera e così lo voglio. Così inizia la ricerca di enologi che in linea con la sua filosofia di vini naturali, senza chimica. La ricerca di un prodotto che potesse rispecchiare la realtà contadina dalla quale proveniva. Che gli ricordava quando era bambino. Fattoria Gaglierano è una piccola oasi. Un casale ristrutturato che serve per abitazione della famiglia. La cantina. Gli ulivi, il bosco, le pecore, gli animali. Coltiviamo tutto noi. Qui ci abitano anche i nostri operai. Un ragazzo dal Marocco e una coppia moldava. C’è bisogno di persone cosi perché siamo impegnati h24. Persone fidate. Del vino in bottiglia all’inizio non se ne parlava proprio. Non era una priorità. La campagna, le coltivazioni, il bestiame. L’idillio insomma. Occorre aspettare il 2015 per vedere la prima bottiglia, utile per capire che il vino veniva bene, con un certo criterio. Pochi esperimenti e tanta passione. Che però non basta se ti manca il tempo. Claudio corre in Fattoria quando può. Il suo lavoro, quello che condivide con Simona, lo porta a viaggiare spesso. Tanti impegni e poco tempo per fare le cose. Relegate al fine settimana quando, per riposarsi va sullo scavatore, nella terra, tra le vigne. Vederlo fermo è impossibile. Claudio si affida nel tempo a più persone. Alti e bassi come è normale in questi casi. Se non altro trova continuità nella parte agronomica ed enologica dove ci sono i due Nicola, uno consulente insieme l’altro forte del bagaglio culturale prodotto della scuola enologica in Moldavia. La vigna sembra una vigna dell’URSS. Precisa e pulita. C’è tanta attenzione ai dettagli. È la fortuna di avere persone attente. Magari siamo stati sfortunati in altro ma non sulle persone. Nicola il moldavo ha responsabilità assoluta della cantina. Nicola l’enologo da i suggerimenti. Claudio mette l’ultima parola. È suo il sogno. Sono suoi i ricordi. Ricordi che ora sono qualcosa di concreto, realizzati, fisici. Qualcosa di così bello che non è possibile tenere solo per se. Il panorama qui è mozzafiato. Mi dispiacerebbe se Fattoria diventasse un luogo di passaggio. Mi piace confrontarmi con le persone. Quando vieni qui vieni a casa. Entri dentro casa nostra. Le persone stanno cosi bene che non se ne vogliono andare. Casa. Casa di tutti. L’accoglienza è qualcosa che devi avere dentro e ce l’hai se intorno a te c’è la pace e la felicità. In questo angolo di Abruzzo sconosciuto anche ai locali. Quando vieni qui non sembra di stare in Abruzzo. È talmente sconosciuto. È talmente difficile da arrivarci. È talmente nascosto che siamo un pò un angolo segreto e incontaminato. Ci fa gioco certo ma dobbiamo investire per comunicarlo. Già. Perché sarà pure vero che vivi in simbiosi con l’angolo di paradiso, ma se quella è la tua vita, quella che hai scelto, hai bisogno di sostentamento. Che solo attraverso quanto produci puoi avere. Produrre e produrre bene, nel rispetto della natura e delle tradizioni non basta. Non è sufficiente. Serve farlo sapere. Altrimenti sei nel limbo e rimani, da solo, nel tuo angolo di paradiso. Ci sono ancora tante cose da fare. Nella sala degustazioni ci mangiamo gli arrosticini noi e quando arrivano gli ospiti, anche loro. Facciamo gli “aperitivi nella vigna eroica” perché siamo con vigne in pendenze del 30%. Claudio è appassionato di cucina e quando arrivano gli ospiti si mette alla brace. Con semplicità. Senza fronzoli. Per gestire una azienda serve anche altro. Continuità certo ma anche notorietà. Farla conoscere. Come se l’identità, abbia bisogno di affermarsi. Auà. La voglia di gridarlo al mondo così che il mondo l’ascolti. Troppo intenso è l’amore per questa terra da volerlo condividere. Non è possibile che sia per pochi. Il paradiso va condiviso. Accanto ai tre Auà allora ci sono i pensieri, i progetti per diffondere la conoscenza di questo paradiso.
Le 15.000 bottiglie di Auà Pecorino, Cerasuolo e Montepulciano non bastano. Commercialmente non ha senso produrne di più così che il resto dell’uva viene trasformata in vino e venduta nelle bag in box. L’idea però è quella di trasformare le box in bottiglia così da commercializzarle magari all’estero. Di questo si discute in famiglia. Capirne i costi. Capirne l’opportunità. L’entusiasmo che si scontra con la tradizione e il non fare mai il passo più lungo della gamba.
Ma c’è anche dell’altro. Abbiamo piantato 0.6 ettari di Pecorino per fare metodo classico. Ma ci vorranno almeno 4 anni. Le riserve di Montepulciano arriveranno. Dalla vigna “Terre dei Vestini” che è l’associazione con la quale facciamo gruppo per arrivare alla DOCG Montepulciano. I tre Auà che ho assaggiato sono delle vere “chicche”. La genuinità c’è e traspare. Non ho mai assaggiato un Cerasuolo migliore di questo tanto che la prima espressione che mi è venuta in mente è stata l’abruzzese “frechete”! (Per chi non lo sapesse è una espressione di stupore che in altre regioni assume forme diverse).
Sul mio blog Instagram la recensione completa.
Pecorino e Montepulciano sono identitari sul serio. La passione è fisicamente dentro i vini. Ogni cosa che ho ricevuto in dono durante la chiacchierata, le tradizioni, la storia, la natura, l’Abruzzo, è qui dentro. Auà, sint a mè, Quànde t’ à’ da ‘mbrijacà’, ‘mbrijàchete de vine bbòne. Ecco, senza ubriacarsi ma bevendo responsabilmente, quando vi verrà in mente di bere vino buono, quello della Fattoria di Gaglierano farà al caso vostro. Con la speranza, con questo articolo di avervi dato l’opportunità di sentire nel calice quanto anche io ho sentito. Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969 PS La recensione di Auà Cerasuolo la trovate sul mio blog qui.
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