Suggestioni di Vino

Suggestioni di Vino è la rubrica che racconta le persone del vino. Della loro storia, dell’amore, della passione che inoculano nel vino. Perché il vino è materia viva e le persone ne sono il nutrimento.

Le incursioni enoiche di Ivan Vellucci, ingegnere e manager per dovere, ma soprattutto Sommelier raccontano con passione e trasporto, territori e produttori d’eccezione.
Ivan ci porta a conoscere realtà prima di tutto umane, dove il sorriso e l’ospitalità dei vignaioli sono lo specchio dei vini che producono. La rubrica Suggestioni di Vino propone ogni settimana  suggestive esplorazioni e scoperte enologiche, narrate con trasporto e partecipazione. Al lettore parrà di accompagnare Ivan in queste visite speciali e sarà stimolato a fare lo stesso: vivere il mondo del vino come un bambino, con lo stupore negli occhi e la magia nel bicchiere.

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26 Gennaio, 2024

La luna del Casale. Se una cosa si può fare, la facciamo

E in mezzo a questo mare
Cercherò di scoprire quale stella sei
Perché mi perderei
Se dovessi capire che stanotte non ci sei Sarò un romanticone ma credo che quando un uomo porta la propria donna a vedere la casa che ha scelto per loro, fosse anche per passare i fine settimana o le vacanze estive, queste sono le parole che riecheggerebbero nella testa. La sera dei miracoli di Lucio Dalla.
Siamo alle porte di Roma a Lanuvio. Terra di mezzo tra i colli Albani e Lanuvini e quella che era la palude pontina tanto da essere chiamata Malcavallo o Malpasso già dal medioevo a causa della difficoltà di attraversamento. Terreni fertili con una matrice di riporto vulcanico di ere remote. Una terra di mezzo meravigliosa. Docili colline che rendono il paesaggio armonioso e mai banale.
Luigi e Nicoletta vivono a Roma. Luigi è sempre all’estero con la sua azienda. Necessitano di una casa per quando nei fine settimana rientra in Italia. Roma, il suo caos. Voglia di trovare anche un luogo dove essere tranquilli. Magari la desideri, ma vallo a trovare il tempo di girare nel fine settimana.
Così il caso fa il suo mestiere e Luigi, mentre gira con un suo amico geometra per le campagne Lanuvine, si imbatte in un cartello vendesi. Il casale non è che stia messo proprio bene ma l’occhio di chi fa l’imprenditore edile è tale che vede aldilà dei muri. Amò ho comprato casa Pagherei per essere stato li a vedere la faccia di Nicoletta!
Già perché per Luigi ora arrivava il momento più critico: far vedere il casale alla moglie. Giocando di strategia la porta di sera, quando le stelle brillano nel cielo e la luna è li, nel mezzo del firmamento, ad illuminare quel tanto che basta per vedere. E non vedere.
Per due persone che vengono dalla città, arrivare nel mezzo del nulla, senza quell’inquinamento luminoso che ti impedisce di vedere la distesa di stelle che è sempre li ma che non riusciamo a vedere, deve essere stata una emozione forte. Così forte che quel casale, certo non in ottimo stato, va bene così come è e il nome è preso fatto: La luna del casale. È il 1999 e ci vuole un anno e mezzo per la ristrutturazione. Così come ci vuole ancora meno a capire che un posto del genere non puoi viverlo solo a tratti. Devi viverlo tutto l’anno. Una volta che ti immergi, riemergere diventa impossibile.
C’è già una bambina, Sara e dopo poco arriva Alessandro e poi Sebastian.
C’è anche una vigna anzi due. Una davanti e una dietro il casale. Entrambe abbandonate. Poca uva che si raccoglie più per devozione alla terra che per altro tanto che non si può che conferirla alla locale Cantina Sociale.
Nicoletta però si appassiona alla terra e soprattutto alla meraviglia di questi luoghi che sono poi anche Parco dei Castelli Romani. Mamma si è da subito appassionata al territorio e non voleva vedere le vigne abbandonate. Si è impegnata nel valorizzarle. È partita da astemia. Ha cercato di convertirle e quando è arrivata l’uva per la prima volta l’hanno portata da un vicino per la vinificazione. Alessandro Caverni è il secondo genito di Luigi e Nicoletta. 22 anni. Animo pacato e una modestia che spiazza. Giovane che sa di esserlo. Esperto più di un ragazzo della sua età perché nato qui proprio nel 2001, quando i genitori si sono trasferiti. Tanta voglia di imparare nelle tante vendemmie ancora da fare. Eppure, come tutti i ragazzi, ha da poco scoperto la magia di questo mondo. Come ogni ragazzino non bevevo. Lontano da tutto. Svegliarsi per un mese e mezzo alla 5 per la vendemmia non era il massimo. Poi scopri il fascino del vino e capisci che tutti i lavori che fai hanno un senso. Quando ho iniziato a capire, dai riscontri delle persone, il valore di ciò che stavamo facendo, l’ho apprezzato ancora di più. La prima mini vendemmia è stata quella del 2002 per capire subito dopo come qualcosa di più si poteva ottenere. Magari facendo del vino buono.
Luigi, da imprenditore, pensava che produrre vino potesse tornargli utile per regalarlo a clienti e dipendenti della sua azienda in Romania. Lontano anni luce dal pensiero di diventare una azienda vinicola, comunque le cose si fanno bene. O non si fanno. Così serviva una cantina che si inizia a costruire terminando i lavori nel 2008. Nel mentre, sempre perché le cose bisogna farle bene, la terra viene convertita al biologico e altri terreni intorno all’azienda vengono acquisiti fino ad arrivare a 14 ettari vitati. Qui si impiantano immediatamente varietà autoctone: Malvasia Puntinata, Malvasia di Candia, Trebbiano Verde e Bellone. Noi abbiamo uno dei pochissimi appezzamenti ancora certificati DOC Colli Lanuvini. Prima erano un centinaio di ettari. Oggi ne rimangono sei e noi ne abbiamo due. Quando però si inizia a vedere che le cose riescono bene ovvero che alla fine il vino è buono, la mente fa quel piccolo passettino in avanti che ti fa dire: perché non sperimentare altro? Anche perché se vuoi capire le potenzialità di un territorio, è necessario spingersi su vitigni internazionali e tecniche particolari. Non abbiamo agito alla cieca ma con la consulenza di agronomo ed enologo. Siamo passati da che nei Colli Lanuvini non si potevano fare grandi vini rossi a vini che escono dalla cantina dopo 8/10 anni. Così come dalla curiosità di mio padre che era stato in Francia dove aveva assaggiato uno Chardonnay di Borgogna affinato in legno è tornato e ha detto: facciamolo pure noi. Questo è un pò il motto della cantina. L’enologo non era nemmeno così d’accordo. All’inizio almeno. Era il 2009 con il secondo anno della cantina. Ci poteva stare. Luigi spinge per farlo, comprando il tonneau. In fondo è imprenditore e se si mette una cosa in testa (guarda proprio il casale e la cantina), difficile fargli cambiare idea. Alcune bottiglie del 2009 le beviamo ancora oggi. E sono ancora in ottime condizione. Sono evolute. Sono andate avanti. Nel giro di pochi anni, La luna del Casale opera una vera e propria evoluzione partendo dai bianchi dei Castelli e dal Novello per arrivare a vini strutturati e particolari. Affinamenti lunghi, utilizzo del legno, vitigni internazionali che si fondono con quelli autoctoni. Un livello decisamente più alto. Noi come cantina piace portare fuori le etichette quando siamo pronti. Si aspetta tutto il tempo necessario. Per supportare queste etichette qui ci sono anche etichette più fresche. Come gli spumanti che abbiamo fatto da subito. Il rosato da Montepulciano e Sangiovese prima, lo spumante da Chardonnay poi insieme ad un rosato fermo da Cabernet Sauvignon. Queste sono nate da richieste dei clienti che volevano questo tipo di vino. Alla fine di etichette ce ne sono dieci con una voglia di continuare ad evolversi nella sperimentazione puntando l’attenzione su vitigni autoctoni. Magari in blend. Anche perché una volta visto la potenzialità del territorio, si può puntare su altri. Ecco, il territorio. Martoriato da tempo immemore dalla presenza di Roma e dalla sua sete di vini a basso costo dunque qualitativamente non eccelsi, i colli qui intorno hanno sfornato vino a profusione. Non per nulla Franco Silvesti, siciliano di nascita e nemmeno romano di adozione, compone Nanni ovvero ‘na gita ai Castelli. Lo fa per il grande Ettore Petrolini Lo vedi, ecco Marino, la sagra c’è dell’uva
Fontane che danno vino, quant’abbondanza c’è   Magari la canzone sarà più nota per le interpretazioni di Lando Fiorini, ma il punto è che le fontane danno vino perché c’è abbondanza. Spesso, direi sempre, abbondanza non fa rima con qualità.
Eppure qui nel tempo sono nate splendide realtà vinicole sdoganando il territorio con vitigni autoctoni ed internazionali. Qui in fondo, la matrice è vulcanica e il mare è poco lontano. Le escursioni termiche ci sono insieme alle brezze marine e collinari.
Basta crederci. Come ci hanno creduto Luigi e Nicoletta e i loro figli.
Alessandro è rimasto in azienda insieme a Sebastian. Sara? Ha lavorato con noi in azienda e poi ha voluto fare un viaggio studio di sei mesi in Australia. I sei mesi sono diventati sei anni. Li lavora come sommelier. Non ha lasciato il mondo del vino. È pure fidanzata con un responsabile dell’approvvigionamento dei vini per una catena di ristoranti. Mamma Nicoletta si occupa della parte amministrativa e produzione del vino. Un ragazzo che si occupa delle lavorazioni in campagna e cantina insieme ad una ragazza che si occupa della cantina. Poi un commerciale che si muove sul territorio. Alessandro fa il jolly. Sebastian si occupa della parte finanziaria Solo che è astemio ma lo convertiremo. Siamo io e lui che abbiamo più il desiderio di portare avanti l’azienda. Lui sembra fatto apposta per l’aspetto finanziario numerico e io commerciale e di produzione/vinificazione. Due fratelli uniti e in sintonia per la crescita dell’azienda. Voglia di far diventare la propria azienda come un punto di accumulazione dei clienti.
Alessandro appare molto più maturo della sua età. Non lascia nulla al caso e la pacatezza con la quale si pone fa capire l’umiltà che è in lui. Così quando gli chiedo “Sei quello che dirige l’azienda?”, la sua risposta non fa che confermare le mie intuizioni. No assolutamente no. Mamma al 100% anche perché lei è una imprenditrice giovane e sente che non ha tutto sotto controllo Papà Luigi, lui che l’imprenditore lo fa da una vita, continua a lavorare all’estero. Lo sguardo sempre rivolto verso la cantina che cresce e deve crescere proprio dal punto di vista imprenditoriale. Ha avuto un ruolo fondamentale. Perché se fosse stato per mamma avrebbe fatto l’orto. Papà l’ha vista in maniera imprenditoriale. Ci siamo accorti che il vino doveva essere venduto. Veniva da Bucarest il venerdì sera e nel fine settimana faceva il commerciale. Ora magari scriverò una cosa criticabile ma sono fatto così e dico le cose che penso.
I vini de La luna del Casale sono dei grandi vini. Ho avuto modo di assaggiare Alessandro, blend Merlot, Montepulciano e Cabernet Sauvignon del 2015 e l’ho trovato un grande vino. Così come Sara, Chardonnay fermentato in barrique.
Ecco, questi vini non sfigurerebbero in nessun ristorante stellato ne al cospetto di tanti mostri sacri. Invece sono di Lanuvio, sotto i Colli Albani e Lanuvini dove ci sono le fontane che danno vino, quant’abbondanza c’è e dove l’azienda che li produce è composta da persone squisite che non se la tirano e che fanno del lavoro e della modestia il loro punto di forza. I nostri vini sono spontanei perché non forziamo. Se una cosa si può fare la facciamo. Se il terreno lo concede li facciamo. Ci sono stati casi dove sono andati male e lo abbiamo riconosciuto. Non vogliamo forzare la mano. Questa frase di Alessandro racchiude tutto. Ne più ne meno di quanto sopra. Modestia.
Allora, cosi come l’inizio, anche la fine è tratta dalla stessa canzone di Dalla È la notte dei miracoli fai attenzione
Qualcuno nei vicoli di Roma
Ha scritto una canzone
Lontano una luce diventa sempre più grande
Nella notte che sta per finire
È la nave che fa ritorno
Per portarci a dormire Spero che la luce della luna, quella che rappresenta il Casale, abbia la forza per continuare con questo esatto spirito. In una notte che prima o poi finirà e porterà alla luce, stavolta del sole, territorio e prodotti che meritano. Davvero tanto.     Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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19 Gennaio, 2024

Le sorelle Zumbo e l’Etna che scorre nelle vene.

La Montagna, Idda, l’Etna, domina la Sicilia dall’alto dei suoi 3.357 metri. Un dominio che non smette di reclamare attraverso le eruzioni, i risvegli. Te ne accorgi dai boati terribili, dalla pioggia di cenere che arriva fino a Catania, dalle colate laviche oggi più “controllate” rispetto al passato (se di controllo si può mai parlare).  Il paesaggio lunare che si offre alla vista è surreale. La “petra lavica” è ovunque. Nera come la pece. Dura e tagliente. Inospitale e brulla.  Eppure, quello che Idda toglie, Idda da. Perché dalla devastazione, nasce la vita. Un ciclo continuo del quale non ce ne si capacita e tale da rendere il territorio dell’Etna baciato da Dio per le coltivazioni. Ciò che un tempo era lava, oggi è terreno fertile, ricco di minerali e metalli così da restituire prodotti meravigliosi. E unici.  Le vigne qui non sono tantissime. Perché complicato è produrre vino. Terreni scoscesi, pietra da scavare. Raccolte solo manuali e un rischio sempre presente del risveglio di Idda. Quando però arriva il raccolto, e nel caso del vino, la vendemmia, l’unione degli elementi che baciano questa terra la si ritrova tutta nel calice: il sole, il mare, la montagna, il vulcano.  Anche quando non erutta, il vulcano è presente. La sua presenza è nei luoghi, nei paesaggi, nell’aria. Soprattutto nelle vene delle persone. Delle donne soprattutto. Che qui, da sempre, si sono occupate delle terre poiché gli uomini facevano altro. Ogni donna qui, sulle pendici dell’Etna, appare cheta, silenziosa. Tanto cheta che il fuoco che scorre nelle vene ci mette un attimo ad esplodere come il vulcano. Non di odio. Quello mai. Ma di amore. Di passione. Di voglia di esprimere tutta la loro potenzialità.  Donne che amano la propria terra in maniera viscerale perché viscerale è il rapporto con essa.  Erica e Ramona Zumbo sono due donne dell’Etna. Due sorelle che hanno scelto di continuare il sogno del nonno in quel di Solicchiata, piccola frazione di Castiglione di Sicilia.  Il versante è quello nord, quello che da verso il Continente con le Nebrodi a fare da schermo e creare un vero anfiteatro naturale. Forse la zona meno esplorata dell’Etna. Non so se la più selvaggia ma certamente la più esclusiva. In queste zone c’è perfino uno stupendo campo da golf (Il Picciolo) e le Gole dell’Alcantara.  La nostra è una storia di famiglia che parte da lontano. Nonno aveva impiantato questo vigneto in Contrada Santo Spirito nel 1972. Un impianto a propria immagine e somiglianza.  Nonno Salvatore uomo tutto di un pezzo era (per dirla alla siciliana e vi prego di leggerlo con la giusta intonazione). Una di quelle persone che non si faceva comandare e gestire da nessuno (come Erica e Ramona ma questo lo scopriremo dopo). Duro come la pietra lavica ma dal cuore che più tenero non si poteva. La vigna non era il suo mestiere. Semmai un passatempo. Un modo per scaricare le fatiche della sua impresa che si occupava di lavori edili, scavi, frantumazione della pietra lavica (sempre presente!).  Sette ettari di vigna impiantato nel 1972 a controspalliera. Controspalliera? Sull’Etna?  Davvero un visionario e uomo tutto di un pezzo non c’è che dire. Impiantare a controspalliera e a pergolato in un luogo dove tutto è sempre stato impiantato ad alberello, la dice lunga su tipo di carattere che nonno Salvatore doveva avere. Tutti i lavori fatti vigna in Contrada Santo Spirito, Passo Pisciaro, sono stati fatti dal nonno. Dal togliere le pietre a fare l’impianto. Mio nonno era dalle idee proprie. Un visionario che non si faceva comandare e gestire da nessuno.  Sette ettari di vigneto per pura passione personale. Tutto il vino che veniva fuori lo utilizzava per gli ospiti che mangiavano alla sua azienda agricola, per venderlo come sfuso o semplicemente per regalarlo agli amici. Magari dopo aver passato una serata insieme.  Non ha mai voluto fare una bottiglia o una etichetta. Mai. Sosteneva Che il vino doveva stare nella damigiana. Oggi ci troviamo con una etichetta nuova ma con esistenza sull’Etna tra le più antiche. I passanti compravano lo sfuso a bidoni da 5/10 litri. Era nemico nel dare quantità elevate a qualcuno.  Il vino scorreva nelle sue vene e tutto ciò che produceva lo sentiva suo. Abbiamo trovato tantissime lettere di persone passate per la sua azienda e che scrivevano come ringraziamento per le giornate li trascorse, per la sua gentilezza, per il piacere di aver assaggiato ciò che produceva. Oltre al vino produceva la carne, il formaggio di pecora, gli ortaggi.  Nonno Salvatore purtroppo viene a mancare lasciando un solo figlio, il papà di Erica e Ramona, che per coltivare la terra non ha tempo poiché impegnato nel continuare l’attività edile del padre.  A morte sua ci siamo trovati con sette ettari di vigneto che non sono pochi. L’abbiamo lavorate il primo anno, le abbiamo lavorate il secondo anno. Poi papà ci disse: ragazze cosa volete fare di questo vigneto? La passione di lavorare sette ettari di vigna, non ce l’abbiamo perché tantissimo altro lavoro da fare c’è. Cosa facciamo? Non è che la famiglia Zumbo di cose da fare non ne abbia. Un magazzino edile, un cantiere di calcestruzzo, frantumazione e lavorazione della pietra lavica, la gestione dei cantieri. Pure uno stabilimento balneare a Fondachello. E il vigneto? Sette ettari non sono affatto pochi.  Si sarebbe certamente potuto vendere. In fondo i terreni, le vigne, sull’Etna vengono pagati a peso d’oro.  Erica e Ramona però si guardano dritte negli occhi e capiscono che se non lo gestiscono loro, il lavoro e il sogno di nonno Salvatore, finirà dimenticato.  Ci siamo trovati io e mio sorella nel 2018 decidendo di mettere su l’azienda. Dovevamo fare una etichetta per dare una identità al vino e farlo conoscere al mondo intero. Ecco qui il temperamento di Erica e Ramona. Da piccole andavano con il nonno in campagna. Giocavano e aiutavano nonno Salvatore. Ma di vino, picca e nenti (poco o nulla). Ora si ritrovano a tirar su l’azienda con un obiettivo ambizioso. Senza intenzione alcuna di cedere a compromessi. Ciò che il nonno ha insegnato loro nel solco della tradizione e del concetto di famiglia, è sacralità. Non esiste che si faccia qualcosa che vada contro questo Credo.  Il vigneto? Trattato con metodi naturali. Tanto che il concime è quello degli animali che scorrazzano liberamente tra i filari.  La cantina? Niente vasche refrigerate perché così faceva il nonno. Vasche in vetro resina e contenitori in acciaio. Quelli degli anni 70. Va bene la tecnologia ma non che snaturi tradizione e prodotto. La nostra vendemmie è un esempio di tradizione. Facciamo tutto a mano. Abbiamo gli animali che sono liberi nel vigneto e concimano loro. Non siamo a guardare la maturazione con metodi moderni ma andiamo in vigna, prendiamo un chicco di uva, lo assaggiamo. Ci ritroviamo in cantina con questi discorsi.  Il risultato sono 6 etichette per un totale di 30.000 bottiglie (e un potenziale di 60/70 mila). Nella vigna di Contrada Santo Spirito nascono vini come il rosato CiùriCiùri da Nerello Mascalese, il Bianco Settantadue da Catarratto. Insieme alle due chicche Sannedda, Nerello Mascalese in purezza e Pinea, blend di Cattarrato, Insolia, Minnella, Carricante. La scelta del Pinea è la scelta ben precisa di continuare quanto iniziato dal nonno che aveva impiantato tra i rossi queste varietà di bianco per dare profumi. Invece di estirpare le piante per il Carricante abbiamo deciso di vinificare qualcosa che identifica veramente il territorio. Non è un Etna doc ma un IGT che identifica le nostre origini. Dal vigneto di Contrada Marchisia (un ettaro e mezzo solo di Nerello Mascalese) ereditato dalla nonna materna nasce Andìco, il rosso base e l’Etna doc Manata. Ogni vino è una storia. Ogni vino è un ricordo. Così Pinea ricorda i pini della vigna sotto i quali Erica e Ramona giocavano a Nascondino. Andìco per identificare la terra nera della colata lavica del 1890. Settantadue è l’anno del primo impianto. CiùriCiùri ricorda Ramona: Il nome di un vino è come quando sei in gravidanza e devi decidere il nome della figlia. Eravamo in cantina con un calice di vino per la prova. Mi aveva chiamato Eerica dicendo che il nostro rosato era pronto. “Vieni qui e dimmi che te ne pari”. “Madonna mia sembrano ciuri” (fiori in siciliano) dissi spontaneamente. Da li ci siamo guardati : ok si chiamerà CiùriCiùri. La recensione del CiùriCiùri la trovate anche nel mio blog Instagram. Sono tutti figli unici i vini e per questo tutti uguali. Ma ce n’è qualcuno che è più uguale dell’altro. Tanto da dedicarci una etichetta specifica curata personalmente da Ramona. Così l’etichetta di Sannedda è ricavata da una fotografia di nonno Salvatore in cantina. Manata è nonna Peppina nella contrada Trimarchisa. Sannedda? Manata? Manata è il ‘ngiurie, il soprannome della nonna e Sannedda del nonno. Il nome “manata” è legato al vino perché la nonna si occupava della gestione degli uomini in vigneto. In periodo di pota quando occorreva raccogliere le sciammedde, i rami potati, andava per i filari a dire agli uomini “raccogliete a manata a manata! Abbbasce abbasce!”. Da li Peppina ‘a Manata. Se a Castiglione dicevi Peppina Santoro non la conosceva nessuno. Sannedda era il  nonno. Era chiamato Turi Sannedda e lo abbiamo onorato dando il nome e la sua immagine. Vene prodotto da un piccolo quadrato in Contrada Santo Spirito dal quale nascono solo circa 1500 bottiglie. È stata la prima parte impiantata dal nonno. Era pure il primo quadro di vigna dal quale si iniziava la vendemmia.  Donne di temperamento Erica e Ramona. La lava scorre nelle loro vene e fanno fatica a tenerla a bada. Non accettano compromessi ne sono disposte a cedere un millimetro per quanto riguarda il loro Credo. Temperamento forte ma sorriso sempre presente.  Nostro padre ci da una mano da fuori e mette la parola e le mani al momento giusto. Non abbiamo un enologo interno per scelta nostra. Abbiamo provato e per disintossicarci da questo ci sono voluti due anni e mezzo. L’enologo voleva snaturare la nostra azienda nel senso che noi vogliamo mantenere le nostre origini e tradizioni. Oggi l’Etna è messa oggi in vetrina e si tende a portare le aziende verso ciò che la gente richiede. Il nostro vino è questo. Non si accettano compromessi. Si aspetta qualcuno che vuole capire la nostra storia. Erica e Ramona. Caratteri forti e diversi. Diverse tra loro ma unite. I contrasti che fanno parte del gioco. Un pò perché sono sorelle, un pò per caratteri diversi, un pò perché donne. Un giorno ci tiriamo i capelli il giorno dopo non è successo nulla. Siamo fatte cosi ed è bello questo. Le nostre giornate non sono sempre rose e fiori. Siamo due femmine e ciò è bella tosta. Ogni tanto guardo i ragazzi che ci aiutano nel vigneto e gli dico: “mi fate pena perché lavorare con due donne. Spesso vengono da noi e ci dicono di metterci d’accordo. Ma va bene cosi. Separare i compiti è stato importantissimo. Ci confrontiamo però ci occupiamo di cose diverse.  Erica in cantina e in vigna. Con una frase che mi ha detto Ramona che secondo me è un complimento meraviglioso: non è enologa di studio ma di sangue. Certo, c’è una consulenza esterna perché il confronto diventa importantissima. Ramona che si occupa della parte commerciale e della accoglienza.  Un corpo unico quando stanno insieme e insieme decidono cosa farne. Con tutti gli altri, i maschi, fuori. Guai a entrare nella loro realtà. Non devono mettere bocca. Mio padre ci prova a mettere bocca ma in base al nostro sguardo, capisce. La sua supervisione è però fondamentale. Ci guarda dall’esterno, in punta di piedi come ha sempre fatto. Non sempre le cose vanno bene. Ci sono giorni nei quali il risveglio porta demoralizzazione e l’idea di portare avanti le tradizioni scostandosi da quanto richiede il mercato diventa debole. Le soddisfazioni di chi le esorta ad andare avanti cosi è benzina sul fuoco. O sulla lava. Le accende e fornisce loro la carica. Ci piace pensare che ci sia una parte del mondo che vuole cosi. Alla  gente che si ferma, raccontiamo la nostra storia. Erica se li porta nell’orto a raccogliere le melanzane, i pomodori che ha piantato lei. Così poi mangiano il prodotto che hanno raccolto. Ok la modernità ma questo, le tue origini, è quello che conta. La fierezza di due donne. L’orgoglio e la fortuna di essere nati in un posto baciato da Dio. La consapevolezza ma anche la fatica nel portare avanti qualcosa che nonno Sannedda avrebbe voluto veder evolvere nella tradizione.  Io dico sempre che abbiamo la fortuna di essere nate qui. Ci sono tantissime parti del mondo importanti ed è vero che l’Etna è stato conosciuto in ritardo. È stato conosciuto grazie ai grandi. Siamo state graziate nell’avere ciò che abbiamo. Ci siamo nate dentro. Stiamo curando l’azienda senza toccare i punti salienti. Apportiamo modifiche che in una storia di sessanta anni, servono.  Tanta è la strada ancora da fare e tanto il sudore ancora da versare. Senza mai abbattersi e senza mai darsi per vinte. Certo, se il nonno avesse imbottigliato quel vino, adesso avrebbero la strada più spianata dinanzi. Combattere con le grandi realtà dell’Etna non è semplice. Così come non è resistere alle richieste di chi vuole acquistare i loro terreni. Ma si va avanti. Se il nonno avesse dato un nome al vino, avrebbe tolto lavoro a noi ma saremmo oggi più avanti. Lui però era un gran lavoratore ed è come se ci avesse detto “allacciatevi la scarpe strette e iniziate a camminare da sole. Io ho fatto adesso fate voi” Si va avanti e si andrà ancora avanti. Sempre al femminile. Ramona ha una bimba di dieci anni. Erica una di due. Le femmine continuano la dinastia delle vignaiole.  Chanel che è mia figlia è contenta di raccontare la nostra storia quando siamo in degustazione e Marzia, la figlia di Erica, nel suo piccolo, ogni volta che va in vigna la troviamo a raccogliere i chicchi di uva o spostare in cassetta. Noi siamo cresciute cosi ed è giusto che sia così anche per loro. Il lavoro non ha mai fatto male a nessuno. Non ha avuto età per noi e non la ha per loro. Nuttata persa e figlia fimmina. Così un vecchio proverbio siciliano. In questo caso, sono però le donne che stanno creando il futuro della famiglia (oltre quello dell’azienda edile). Oggi ci sono le sorelle Zumbo, Erica e Ramona. Un domani magari ci saranno le cugine Zumbo, Chanel e Marzia. Chi lo sa. Per adesso c’è solo da applaudire a queste due forti e coraggiose donne che non solo dimostrano quanto sia possibile gestire una azienda tutta al femminile ma anche e soprattutto come la voglia di mantenere le tradizioni possa essere vera ragione di esistenza. Contro tutto e tutti. Forza, determinazione e carattere che trasmettono direttamente ai loro vini. Impetuosi come la lava che scende dal cratere. Caldi come il sole che scalda la Montagna. Sapidi come il vento che sale dal mare. Minerali come la petra lavica. Intensi come i sapori di questi luoghi. Soprattutto veri!  Provare per credere. Le sorelle Zumbo e l’Etna che scorre nelle vene.     Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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12 Gennaio, 2024

Tenuta Scuotto. Adolfo, cuore e testa

Quando ero studente in ingegneria, andai a Firenze per una tesi sperimentale. Un laboratorio della Alenia Spazio dove c’erano tanti cervelloni in camice bianco. Uno di questi, tipo simpatico, milanese, mi chiese: cosa vuoi fare dopo la laurea? Io risposi “il manager!”. Lui mi guardò un pò storto dicendomi “non farei mai il manager perché questo è colui che sarebbe in grado di sputare sul migliore amico”.  Erano gli anni ‘90 e forse, all’epoca, i manager erano così. Spietati, poco attenti alle risorse umane, arrivisti. Nella mia ventennale vita da manager, non mi è mai capitato di “sputare” (metaforicamente e ancor meno fisicamente) su una persona. Il rispetto e la cultura forse hanno salvato tutti i manager (e i dipendenti!). Visione, leadership, capacità di gestione delle risorse umane ed economiche, conoscenza dei processi, marketing (in ogni accezione possibile). Queste alcune delle caratteristiche che un manager moderno deve avere. Ora, perché sto scrivendo di questo in un articolo che dovrebbe riguardare il vino? Perché nelle mie peregrinazioni enoiche mi sono certamente imbattuto in manager di grandi aziende con centinaia di migliaia di bottiglie all’attivo ma mai, fino ad ora, di una che di bottiglie ne produce poco meno di centomila, numero che per molti è un ambizioso traguardo. Ecco, per molti ma non per Adolfo Scuotto. Per lui sono un passaggio. Intermedio.  Adolfo non è un vignaiolo. O almeno non lo è nel senso stretto del termine. È il manager di una azienda creata insieme al padre e che deve gestire in modo tale da farla diventare non buona, non ottima ma eccellente.  Nel film “Il sapore del successo” lo chef Adam Jones interpretato da Bradley Cooper recita la bellissima frase “D’ora in poi tutto deve essere perfetto. Non buono, non eccellente…perfetto!”. In quel caso serviva per la terza stella Michelin. Nel caso di Adolfo e della sua Tenuta Scuotto, c’è molto di più. Ci sono motivazioni profonde e proprie di una persona, una famiglia, che sa cosa voglia dire “azienda”. Da valorizzare, da portare al successo, da tramandare a chi verrà dopo. Visione del futuro, progettualità, pragmatismo, studio, risorse umane, marketing, intraprendenza, spirito pionieristico. Ecco, tutto questo ho ritrovato nella chiacchierata con Adolfo Scuotto. Tenuta Scuotto nasce dall’idea di due folli, papà ed io, che se pur con percorsi diversi erano accomunati dal sogno di una bottiglia con il proprio nome. Un vino che rispecchiasse la nostra idea di vino ma anche la paternità della nostra famiglia. Nato e prodotto dalla nostra famiglia. Le aziende non nascono mai per caso. Sono frutto di idee. Magari visionarie, magari fantastiche, magari concrete. Idee. Pensieri. Sogni. C’è sempre una scintilla che riesce a produrre un fuoco. Il vero problema è ciò che ne consegue dopo. Riuscirà il fuoco a divampare o rimarrà una fiammella? O peggio ancora, si spegnerà?  Prima del covid l’ISTAT indicava come circa 276.000 le aziende che nascevano ogni anno e 274.000 quelle che cessavano. Va bene il turnover ma così appare una ecatombe.  Non sono le idee a mancare (altrimenti non nascerebbero così tante aziende) semmai la capacità di creare continuità.  Torniamo alla partenza. Serve una idea e la famiglia Scuotto, ce l’ha. Servono dei fondi e anche questi non mancano visto che il papà di Adolfo, è da tempo un affermato imprenditore in altro settore. Serve capacità e quella, oltre alla imprenditorialità del papà, Adolfo può mettere in gioco la sua esperienza nel business management e marketing strategico guadagnante lavorando per alcune società di consulenza. Per iniziare una avventura nel mondo del vino c’è ovviamente bisogno di un terreno, una cantina e di una squadra che sappia far funzionare questo “meccanismo”. La scintilla dunque. A meno che non si tratti di un motore a scoppio dove la scintilla è provocata e calcolata, in tutti gli altri casi, è casuale. Mio padre era nel territorio di Lapio per trovare degli amici e si imbatté in un cartello vendesi di un terreno: un casale molto spartano cinto da quasi due ettari e mezzo di vigna. Mi chiamò e mi disse “che faccio chiamo?”. In realtà aveva già telefonato e pure preso appuntamento. Era un bluff. La visita e la trattativa andò ovviamente a buon fine e da li l’avventura ebbe inizio.  Anche qui la mentalità può tanto.  Si può partire e ragionare con una sorta di “vediamo come va” oppure si può programmare e gestire lo sviluppo.  Adolfo e il papà non sono due persone sprovvedute. Oltretutto, quando capiscono cosa ci vuole per mettere su una azienda dal nulla in termini di investimento e tempo, in quel momento realizzano che per sopravvivere occorre una azienda solida, strutturata, con un progetto e una visione chiara. Tanto più chiara quanto chiaro è l’obiettivo. La prima frase detta nella riunione di start up da mio padre fu “Io voglio fare un vino che non esiste sul mercato”. Da li l’enologo fece capire che l’affermazione cosi semplice racchiudeva una serie di insidie e costi. Fermiamoci un attimo.  Un imprenditore ed il figlio hanno un sogno: produrre vino che abbia in etichetta il nome della famiglia. Fin qui ce ne sono tante di aziende familiari no? Beh si certo ma poi questi continuano. Non basta produrre vino, vogliono che sia un vino che non c’è.  Ok. Ma basta produrre un blend particolare, un vitigno strano che ne so ed il gioco è fatto. Ehm non proprio. Perché se poi questa azienda deve produrre pure utili, premesso che non basta un vino solo ma serve una gamma, o questo fantomatico vino che non esiste è il migliore (o tra i migliori al mondo) oppure la vedo difficile. Impresa davvero ardua quella che attende Adolfo (è a lui che il “giochino” è affidato). Adolfo però pensa e lavora con metodo e attitudine (poi dicono che studiare in questo campo serve a poco!!). Inizia il progetto della cantina (siamo nel 2008). I vigneti, non gestiti secondo tecniche agronomiche moderne, vengono espiantati e ripiantati. La prima fase del progetto investe dunque la parte produttiva: terreno e produzione. Tanto per essere pronti per la commercializzazione. Poi si pensa, nella seconda fase all’ampliamento della capacità produttiva, alla logistica, alla accoglienza in ottica experience.  Volevamo un ambiente confortevole ed affascinante.  Va bene la parte strutturale, quella che si può costruire con l’esperienza pregressa. Quella che si progetta e si realizza. Le cose materiali insomma. Però, per far funzionare il tutto, c’è bisogno del materiale umano. Persone, anime, cuori, cervelli. Anime che gettano il cuore oltre l’ostacolo sposando il progetto, condividendo l’ambizione. La causa si direbbe.   Durante la fase di costruzione abbiamo pensato che essendo un progetto importante necessitava di risorse di alto profilo. Know how e competenze nel mondo del vino che noi non avevamo. Chi oggi prende una bottiglia di Scuotto immagina che siamo viticultori da sempre. In effetti il processo di crescita dell’azienda è stato così veloce che anche io stento a crederci. La scelta delle persone dunque. Non dovevano essere semplici consulenti ma veri e propri padri putativi di questa azienda e di questo progetto.  Abbiamo avuto la fortuna, perché poi è sempre un mix di fortuna e capacità, di imbatterci in persone che hanno perfettamente capito cosa volevamo fare mettendosi in gioco anche loro. Magari alzare l’asticella e osare. Provare a fare qualcosa di diverso. Partendo dalla conoscenze del territorio e da un bagaglio di conoscenze acquisito nel mondo del vino anche all’estero come Francia e in varie regioni italiane. Scegliere le persone vuol dire poi anche fidarsi di chi si è portato a bordo. Persone con le capacità che per far funzionare le cose hanno bisogno di mettere a terra le proprie idee anche attraverso tecnica e tecnologie. Ovvero investimento.  Ci siamo fatti assistere da un consulente con il supporto dell’azienda che ci ha fornito le attrezzature. Ci ha consigliato non la cosa più economica ma la cosa migliore. Mettendo giù i numeri capivamo che l’impatto economico sulla nostra famiglia era notevole. Nel mondo del vino ci sono vari approcci fermo restando l’idea di fare del vino buono dunque costoso. C’è chi parte da una vigna che possa essere di qualità e tenuta/gestita bene. Il frutto poi viene trasformato da altri. Sono un produttore di uve. Non sono in grado di creare la realtà delle cantina non volendo gestire la fase della produzione. C’è chi addirittura è una commerciale pure. Acquisto l’uva da uno e la trasformo da altri. C’è poi l’approccio più invasivo e verticale dove si fa tutto. Questo è stato l’approccio iniziale e attuale della nostra azienda. Alla fine, ciò che conta, sono i numeri. Che nel caso di Scuotto hanno iniziato a dimostrare che qualcosa di grande stava venendo su. Nemmeno poi tanto lentamente. Numeri che andavano oltre un semplice giochino di famiglia, di quelli per i quali se va va, altrimenti chi se ne frega tanto il vino ce lo beviamo con gli amici.  Se le cifre sono importanti inizia a pensare a quante bottiglie devo fare, come le devo fare, dove le devo vendere, come le devo promuovere. Insomma si fa un business e marketing plan. Dall’idea di un vino del quale non si fosse mai sentito parlare e del tutto atipico per idea e concezione, processo di produzione è nata tutta l’azienda. Quando si crea qualcosa si fa sempre step dopo step. L’approccio imprenditoriale, quello che tutte le aziende dovrebbero avere. Eccolo qui. Una imprescindibile inesorabile necessità. Senza un piano dettagliato, senza una visione del futuro, senza gli investimenti, non si va da nessuna parte. O forse si: nel novero delle aziende che finiscono prima o poi. Che non è l’intenzione della famiglia Scuotto e ben che mendò di Adolfo che tutto è meno che uno che non vuole arrivare. Adolfo infatti non si accontenta. Di indole è abituato a lottare, a impegnarsi anima e corpo nelle cose, a dedicare ogni istante del proprio tempo per promuovere, con fierezza il territorio, la sua azienda, i suoi vini. L’indole non la studi sui libri. Non la impari a scuola o in un master. Ce l’hai dentro. Poco conta se vieni da una “buona famiglia”. O ce l’hai o non ce l’hai. Adolfo ce l’ha. Direi di più, come napoletano direi che tiene ‘a cazzimma. Ora qualcuno potrà pensare che venendo da una famiglia bene, fallire in una impresa del genere non sarebbe stato un problema. Si, il giocattolino affidato nelle mani del figlio per farlo divertire se va male, vabbè chi se ne frega. Gli faremo fare altro. No! Non è per niente così. La grande determinazione, la competenza, la capacità imprenditoriale e la visione programmatica di Adolfo è vincente. La capacità di circondarsi di persone competenti che suggeriscono fondamentale. Tutto viene studiato nei minimi particolari. Programmato e gestito con capacità.  La disponibilità di risorse porta il coraggio e la voglia di osare. Non dico che è un lancio con paracadute perché nelle attività imprenditoriale il paracadute non esiste ma l’atterraggio sarebbe stato più morbido. L’imprenditore nel senso più letterale di questo termine non investe nel mondo del vino se il suo fine è quello del profitto. La componente risorse è una componente nel progetto imprenditoriale fondamentale ma non quella di partenza. Il progetto sarebbe partito comunque. Magari ridimensionato nel tempo e nello spazio. Forse ci sarebbe voluto qualche anno in più ma il tempo e le capacità, quel valore aggiunto delle persone ci sarebbe comunque stato. Molti sono gli esempi di aziende stra dotate di risorse che però non vanno bene. Nel mondo del vino ci sono poche attività finalizzate al profitto. Anche la scelta del territorio non è stata casuale. Anche qui si potrebbe dire che dovendo dare un giocattolino al figlio, bastava dargli un territorio qualunque. Certo vicino casa ma anche lontano. Uno valeva l’altro. Invece no. Ancora no. Ma ancora visione e determinazione. Lapio. Irpinia. Un territorio fantastico che non si dovrebbe mai chiamare le Langhe del sud. Qui è terra di Fiano, di Falanghina, di Taurasi (Aglianico). Territorio non vocato ma nato appositamente per il vino. Un mix unico di clima, terreno, uomo, vitigni. Un terroir insomma che il mondo dovrebbe invidiarci. La nostra famiglia è napoletana di origine. La scelta poteva essere qualsiasi. Non siamo cresciuti in un territorio fantastico come Lapio. Abbiamo scelto invece il territorio anche se non siamo figli del territorio. Siamo stati adottati e ci siamo scelti la nostra madre. In natura non si può fare ma noi l’abbiamo fatto. Ci ha convinto di più perché noi siamo campanilisti. Ci sentiamo e siamo napoletani e il territorio, le radici, le tradizioni sono una nostra ricchezza che difendiamo a spada tratta. Siamo amanti del vino del nostro territorio e in particolare del Fiano. Chi non riconosce nella provincia di Avellino il cuore del vino della Campania non conosce la Campania. Una scelta di cuore e di testa ti dice di Investire nel territorio più vocato che ha le prospettive di crescita migliori. Commercialmente in termini di brand territoriale è quello che ha più appeal oltre i confini regionali.  Cuore e testa. Insieme. Mai separati. Le scelte si fanno con il cuore e si realizzano con il permesso e la visione della testa. Inseparabili se non si vuol fallire. Ho sempre visto la mia stessa attività come un modo per far parlare del territorio e della mia azienda. Già dai primi passi della mia attività ho guardato al mio mercato In una maniera globale. Non ho mai visto il mio mercato di sbocco come quello di prossimità. Se ti dicessi che forse in ordine cronologico le fatture emesse in provincia di Avellino sono state le ultime dopo quelle del Giappone, ti fa capire che l’internazionalizzazione ovvero con il vino come ambasciatore del territorio ha rappresentato per me la vera gratificazione. Oggi esportiamo in venti paesi. Attirare l’attenzione sul territorio. Lo facciamo come singoli ma siamo presenti nei consorzi con attività varie perché l’unione è la forza del territorio. Ci siamo messi sugli aerei abbiamo riempito la valigia di sogni e speranze. Ecco la vera imprenditorialità. “Think global, act local” è un principio del marketing. Pensa globalmente per agire localmente. Adolfo lo applica valorizzando il territorio e portando questo in giro per il mondo. Se c’è qualcosa che nel mondo è riconosciuto della Campania felix del mondo enologico, è il Fiano, il Taurasi, la Falanghina. Il mercato locale si va pure bene ma è il mondo che ti fa decollare. Però prima devi decollare tu e portare il tuo prodotto a farsi conoscere. Girando il mondo con la valigia carica di sogni. E vino. Bellissimo come Adolfo parli sempre con un “noi”, un “abbiamo”. Tipico di chi ha a cuore la squadra. Peccato però che chi lo conosce almeno un pò e lo segue suo social, dove è parecchio attivo. È un abbiamo finto perché sono sempre io che vado in giro. È un vantaggio ma anche una fatica.  Un vero one man band che non ha la struttura che certo gli piacerebbe e magari la avrà nel futuro. Quando sarà economicamente possibile. Le scelte vengono fatte anche in funzione delle caratteristiche del business. Rinunciare ad una fiera per una sovrapposizione è qualcosa che rappresenta un limite ma è cosi.  Oggi inizio a sentire il peso di anni e anni vissuti a manetta. Spostamenti, eventi b2b, clienti ristoratori, eventi privati, fiere. Nessuna forma di comunicazione è stata messa da parte senza la mia presenza. Adolfo è dovunque e se ne avesse la capacità, sarebbe uno e trino. Onnipresente. Ma non per essere prezzemolino. Perché è il volto di Tenuta Scuotto. Ne è l’anima. Quella partenopea propria di una persona solare e con la battuta sempre pronta. Capace, colto, preparato ed attento. Difensore del proprio prodotto e del territorio che rappresenta. Con la pacatezza e i modi gentili che lo rappresentano. Senza mai lasciare l’irruenza tutta napoletana. La frenata l’ho avuta nel 2020. Frenata ma per uno che è un laboratorio di idee come me è un eufemismo. “A qualcosa devo lavorare” mi sono detto. Ho creato da zero il sito internet. Ho messo su lo shop on line. Per me il pensiero di non vendere è un pensiero che mi atterrisce. Cosa posso fare? Ho inventato la formula “io sto con i ristoratori e l’hashtag #iostoconiristoratori . Cambiavo ogni giorno sui social la foto di un ristoratore facendo capire che l’azienda, pur condividendo le stesse tristi avversità, era dalle loro parti e non appena la situazione si fosse stabilizzata saremmo ritornati con loro. Ho creato una formula on line con dirette dove io non comparivo. Era una operazione di product placement dove una giornalista intervistava i clienti, o gli chef che abbinavano il piatto pubblicizzando il servizio offerto. Così, quando sono partiti, l’ordine lo hanno fatto a Scuotto. Siamo con la mente sempre a pensare cosa fare. Non ci siamo arresi all’inizio figurati se ci fossimo arresi quando il covid stava spezzando le ali al nostro sogno. Il vino di Tenuta Scuotto. Nella nostra chiacchierata il vino arriva per ultimo. Forse è anche giusto così. Il sogno, la realizzazione di qualcosa che non c’era prima è un pezzo del progetto. È inserito in un contesto più ampio. Parlare solo di quello, imporrate certamente, non sarebbe utile.  Oi’ni. Questo il nome del vino che non c’era. Oi’ni. Un richiamo alla napoletanità. “O ragazzo”. Chiamare un ragazzo per attirare la sua attenzione e portarlo da qualche parte. Verso quel mondo che deve necessariamente conoscerne l’unicità. Si, un vino decisamente unico. Qualcosa che consiglio di assaggiare perché regala una esperienza sensoriale. Un Fiano prodotto alla maniera dei grandi bianchi francesi con affinamento di 12 mesi in botte a temperatura controllata. Un vino che resiste al tempo e con il temo evolve. Le note suadenti, il bouquet complesso, la mineralità, la pastosità in bocca, la lunga persistenza, il perfetto bilanciamento. Oi’ni era il sogno iniziale e il prodotto attorno al quale è nata l’azienda. Dal principio l’idea era che dovesse avere un fratello ed è nato il Fiano classico. È lui che ha preso il tre bicchieri nel corso degli anni. Un prodotto notevole che è anche il biglietto da visita. Magari per il prezzo. La Falanghina è sempre stato il prodotto con il quale andare ad aggredire mercati meno attenti alla qualità e più al prezzo. Il brand Falanghina ha una cassa di risonanza superiore rispetto agli altri. Era dunque necessario avere un entry level. La Falanghina Scuotto è una delle migliori Falanghina sul commercio. È stato best wine in America, per due volte, tra i migliori cento vini per rapporto qualità prezzo (Wine&Spirits) Un prodotto di livello. Ora, se uno pensa che un prodotto bello e buono si venda da solo, ha sbagliato di grosso. Avete mai pensato a quanti vini ci sono in Italia e nel mondo? Come diavolo si può pensare che dopo aver prodotto qualcosa di unico questo si affermi senza fare nulla? Utopia pura. Ecco perché serve una strategia, investimenti, capacità. Tutta quella che Adolfo ha messo in campo. Come azienda e come persona. Non per un vino. Non per una etichetta. Ma con un mix di territorio, vitigni, azienda, vino, vini. Oi’ni non è solo. 9 etichette in totale frutto di una vera strategia di posizionamento del territorio e della azienda stessa. Niente, nemmeno in questo caso, è casuale.  Più aumenti le etichette e più aumenta la complessità produttiva e logistica. Così come commerciale nel gestire le etichette diverse. Però il cross selling, che è una delle strategie di marketing, ne verrebbe meno. Mi ritrovo a vendere Greco perché ho Fiano; vendo Falanghina perchè ho Taurasi. Il cross selling ha accelerato lo sviluppo dell’azienda. Ovvio che va gestito. Tenuta Scuotto parte con tre referenze in produzione e due in vendita. Mancava ovviamente Oi’ni perché in affinamento. Sui rossi è nato il progetto Taurasi che per una azienda che sta in Irpina è il rosso per eccellenza ed inimmaginabile non farlo. Come cita Parker e gli da 92 punti, “corpo struttura” ma lo trova il “vino più contemporaneo che ho bevuto”. Ancora una volta abbiamo dato il nostro imprinting. Eleganza e contemporaneità. Armonia ed equilibrio. Cerco sempre queste cose nei miei vini e mi fa piacere che vengano apprezzate. Sono anche sinonimo di commerciabilità.  Un 2020 chiuso ad un -17%. Fortunati ma la fortuna si cerca e si costruisce. Il nulla rispetto alle medie. Nel 2021, crescita vendendo di più del 2019. Nel 2022 vendite in forte crescita rispetto al 2021. Poi il rimbalzo negativo nel 2023 per mercato, guerre, inflazione. Insomma contrazione dei consumi.  Non tocca mai tutti allo stesso modo. Abbiamo lanciato la collezione Mythic con un importante progetto e budget di comunicazione. Design dedicato, studio del naming che ha impiegato sei mesi (9 in totale con l’etichetta). Quando ci siamo presentati al Vinitaly è stato un grande successo per la curiosità dei vecchi e dei nuovi clienti. Chi era reticente perché aveva la cantina piena con i ristoranti in calo, la curiosità e la comunicazione lo hanno spinto a prendere quella referenza che altrimenti non avrebbero preso. Magari non guadagnerò tantissimo ma facendo zero a zero sicuramente avrà contribuito alla crescita del progetto. Aidos è diventato uno dei prodotti più richiesto perché il prodotto è proprio buono oltre ad essere biologico. Kuris è un Greco fatto in un certo modo, una genialata.  Senza dimenticare, sempre nella serie Mythos, Malgrè, il rosato, primo in casa Scuotto, da Aglianico. A proposito, la recensione di Aidos la trovate sul mio blog Instagram. Il progetto nuovo tra i rossi poi è Redo.  Volevamo sfatare qualche mito facendo un Aglianico contemporaneo che abbracciasse l’Aglianico giovane (fresco, fruttato) con il Taurasi (corpo e note evolute). Questo ci ha permesso di uscire con un Aglianico del 2021 strizzando l’occhio al Taurasi e giocandosela con i grandi rossi internazionali. Una gamma dunque frutto di una vera e propria strategia studiata a tavolino e non sottoposta al caso. Ogni prodotto va ad occupare una specifica posizione del mercato per giocarsela. Ad armi pari. Creare ed investire anche nei momenti di crisi per essere pronti alla ripartenza.  Ancora, per fare questo serve programmazione, servono investimenti e tanta tanta testa. Oltre che quel cuore che alla totalità dei vignaioli non manca. Per molti, un premio vuol dire poco. Niente di che. Per altri, è un punto di arrivo.  Per Adolfo è solo un passaggio. Certo, un riconoscimento che ha la sua importanza e da valore tangibile al percorso intrapreso. Ma non ci si ferma. Perché, come lo stesso Adolfo ha scritto sui suoi profili social “ogni giorno il mio vero traguardo è quello che vedo dopo averlo raggiunto”. È da sempre la mia filosofia. Se mi fossi dato delle scadenze e degli obiettivi mi sarei seduto. Scherzando dissi a mio padre “io tempo 4/5 anni prenderò i “Tre bicchieri Gambero Rosso”. Lui mi rise in faccia. Quando poi l’ho preso per tre anni consecutivi la cosa è diventata atipica e piacevole. “Papà io entrerò nei ristornati stellati e nella distribuzione”. Anche li ci fu una risata perché disse “sai quante aziende fanno la corte?” Ci sono entrato a fine 2016 e sono in una delle distribuzioni più prestigiose. Sono in “Vini & Design” grazie ai quelli sono arrivati qui i grandi Riesling ad esempio.  Non obiettivi ma punti di approdo. Milestones come direbbero quelli bravi del marketing. Perché se ti dai un premio come obiettivo, una volta raggiunto che fai? Come obiettivo aziendale, oggi siamo intorno alle 100000 bottiglie (le sfioriamo) mi piacerebbe arrivare a 150mila bottiglie. Continuando a distribuirle nelle stesse percentuali di oggi e continuando ad essere presente nelle carte dei ristoranti stellati. Mi piacerebbe essere premiato come vino dell’anno Gambero Rosso. Mi piacerebbe prendere il voto più alto nelle guide Parker e Wine S pectator. Vorrei poi trasformare la tenuta in un wine resort per lasciare questa realtà alle mie figlie cosi che un domani possano avere una azienda di eccellenza della produzione dei nella enogastronomia e nella accoglienza.  Ambizioso? Arrivista? Spaccone? Niente di tutto questo. Se avrete il piacere di incontrare Adolfo (e non è difficile poiché lo trovate ovunque è presente Tenuta Scuotto) basterà parlare con lui per qualche minuto per capire che non è niente di tutto questo. È una persona dotata di cuore ma anche di testa. Ovvero le due caratteristiche principali per governare una azienda aldilà di tutte le capacità manageriali e imprenditoriali che non possono mancare. Cuore e testa. Mai l’uno senza l’altro. Tenuta Scuotto. Adolfo cuore e testa   Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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5 Gennaio, 2024

Aurete. Una storia di amicizia

I sogni dei ragazzi sono quelli che maturano seduti sul muretto, sotto l’ombrellone, al tavolino del bar. Qualunque posto è buono per creare e immaginarsi il futuro. Fare voli pindarici, guardare avanti con l’entusiasmo di chi ha tutta la vita davanti.
C’è una canzone di Antonello Venditti che parla degli amori, quelli che non finiscono, che “fanno dei giri immensi, e poi ritornano. Amori indivisibili. Indissolubili inseparabili. Ma amici mai” (Amici mai). Alcune amicizie sono più dell’amore. O semplicemente sono amore in forma diversa. Proprio tra amici si condividono i sogno di vita, la speranza di qualcosa insieme. Anche se poi la stessa vita ti porta in altre direzioni a fare altre cose. Per poi ritrovarsi un giorno e tornare ad essere indissolubili inseparabili.
Paolo, Giovanni, Eugenio. Tre amici che costruiscono la loro amicizia sui banchi di scuola. Anzi, Paolo e Giovanni la costruiscono già in culla Siamo nati insieme. Eravamo vicini di culletta. 29 gennaio 1983. Lo abbiamo scoperto al liceo. Al quarto ginnasio. Mia madre si ricordò che alla nascita Giovanni ebbe un pò di problemi, ma niente di grave. Il padre fuori cominciò a fare casino per vedere la moglie e mio padre lo calmava. Mamma era disperata perché nessuno si filava me. Tutti andavano da Giovanni.
14 anni dopo, in quarto ginnasio scoprimmo questa cosa perché mamma mi disse “quel ragazzo…”. Da li Siamo diventati amici. Una persona sola. Giovanni già da piccolo cucina. Gli piace. Una di quelle cose che ti ritrovi a fare senza neanche sapere di farlo. È un fenomeno. Così ha aperto due ristoranti con Eugenio. Che abbiamo conosciuto al liceo. Siamo stati sempre insieme. Io però volevo fare l’università perché non mi andava di buttarmi subito nella ristorazione. Loro pure hanno studiato lettere ed economia. Nel frattempo hanno aperto un pub. Di quelli con la carne buona, la birra artigianale. Nel 2021 hanno pure una smoke house, Rub, con le cotture slow, affumicatoi con legni particolari. Paolo se ne va a studiare a Roma. Il classico studente fuori sede che, mosso da grandi ideali, ha grandi idee per il futuro. Si laurea in Scienze Politiche con tanto di tesi sulla cooperazione internazionale e i diritti dei rifugiati e la speranza di proprio in questo campo. Ma quanta è amara la vita vera! Ho lavorato alla Caritas per i rifugiati e i senza tetto. Ho lavorato nel sociale per cinque anni occupandomi di diritti umani. Volevo fare qualcosa di più alto a livello di cooperazione internazionale. Avevo una laurea in fondo e una tesi sviluppata con personaggi influenti a livello internazionale. Però in Italia è cosi. Sono finito a fare l’operatore che pulisce i cessi e fa mangiare questi poveri disgraziati. Vittima delle cooperative senza scrupolo a cui è affidato il servizio. Non a Roma perché ci sono cooperative serie e la Caritas che è del Vaticano. Quanto è amara la vita che ti mette dinanzi alle cose più nere. Al crudo realismo di chi fa le cose per soldi. Soldi che mancano ad un ragazzo che vuole salvare il mondo. Dopo 12 anni sono tornato a Cassino più per un motivo di case. A Roma stavo ovviamente in affitto e in 12 anni ho cambiato 6 case. Andavo sempre più fuori. Dalla Prenestina alla Casilina a Centocelle. Andavo sempre più fuori. L’ultima casa era dopo il Raccordo perché i prezzi erano esagerati. Dovevamo sempre smezzarci la casa e una cosa a 18 anni un’altra a 28/30. A sto punto torno a Cassino mi sono detto. Mi sono fidanzato con la mia attuale moglie e sono tornato a Cassino. Non si possono spegnere però gli ideali quando sono forti. Così Paolo continua a lavorare nel sociale facendo anche un secondo lavoro come spallone delle pompe funebri per arrivare a fine mese. Sono finito in balia di certe cooperative che trattavano minori e minori stranieri non accompagnati sui quali c’è un vero business. Dopo cinque anni di sociale sono uscito distrutto. Ho capito che se vuoi fare sociale non devi percepire soldi altrimenti finisci in mano alle cooperative che lavorano per soldi. Paolo, Giovanni e Eugenio non si sono mai lasciati. Da liceali, da studenti, da laureati. Non è andata proprio bene a Paolo. Un pò meglio a Giovanni e Eugenio con i loro ristoranti.
Si ritrovano la sera per continuare a parlare dei propri sogni. Da appassionati di birre artigianali volevano anche aprire un micro birrificio. L’idea c’era tutta: produrre e vendere birra nei locali. È passata un po’ la moda della birra. Un pò mancava la magia. Anche quando ero a Roma avevo sempre in mente la vigna. Così ho detto a loro: investiamo. E siamo passati da bere birra a veri vini naturali. Già. Perché i ragazzi saranno anche degli idealisti ma mica sono scemi. Leggono, si informano, provano. Capiscono cosa per loro è meglio e cosa posa davvero garantirgli un futuro. Quantomeno una passione da condividere insieme. Per continuare a stare insieme.
Eugenio e Giovanni da imprenditori e amanti del vino naturale conducono Paolo a scoprire questa tipologia di prodotti. Ero arrivato ad un punto dove non bevevo più vini convenzionali. Non bevevo più. Giovanni mi fece scoprire i vini naturali di aziende come Emidio Pepe, La Torretta, La Distesa, Sete. “Questo non è il vino che compro io”! Così iniziammo tutti a bere solo vino naturale. Una sorta di illuminazione. Si certo, del prodotto, della scelta del bere, della filosofia. Soprattutto però di un progetto che, finalmente, prendeva forma nella mente dei tre.
Bisognava partire da zero poiché non c’erano i terreni, non c’era la cantina, non c’erano le viti. Niente di niente. Avevo già la terra vicino Cassino. La campagna era un mio pallino. Volevo pure avviare un allevamento di lumache, le ciammaruche. Mi piaceva l’idea. Era 15 anni fa. Adesso ho 40 anni. Eravamo dei precursori. Con un ettaro ci fai miliardi di lumache. Insomma occorreva trovarli i terreni. Giovanni e Paolo iniziano a girare le valli intorno Cassino, città in cui vivono. La valle di Comino ad esempio che nella zona va per la maggiore per il Cabernet e il Maturana. Le terre costavano troppo, il Cabernet non mi convinceva. Capitò poi che con uno nostro amico ricordavamo di quando andavamo ad Esperia ed era pieno di vigne. Ci siamo andati e abbiamo visto un cartello vendesi su una terra: quel giorno stesso ce la siamo comprata. Esperia è un piccolo paese con poco meno di 4000 anime posto a metà strada tra Cassino e il mare di Formia. Una andirivieni di vallate sopraelevate formatesi dall’emersione dal mare delle terre in epoche antiche. Mare che con la sua brezza, ogni tanto si fa sentire.
Non proprio una zona rinomata per il vino: pochi contadini e molti pastori da queste parti. Anche se al tempo dei romani era un pò di verso. Il monte Cècubo, proprio quello che separa Esperia dal mare diede il nome all’omonimo prezioso vino Cècubo. Così prezioso da essere tenuto sotto chiave e utilizzato dagli antichi romani per i grandi avvenimenti
Prima d’ora per noi non era lecito dalle cantine avite tirare fuori il Cècubo pregiato, finché quella regina dissennata preparava rovine al Campidoglio e lutti e distruzioni al nostro impero.
Cosi cantava Orazio nelle sue Odi riferendosi probabilmente al dover festeggiare la morte di Cleopatra. Cècubo era il vino che si produceva con il vitigno Serpe nella zona tra Terracina e Sperlonga.
Leggenda vuole che Cicerone, transitando per Esperia nei suoi spostamenti tra Arpino e Formia, si fermasse qui per acquistare il suo vino favorito.
Pare, si mormora, ed è bene che rimanga leggenda, che qualche contadino abbia pure trovato delle anfore e alcuni resti di una strada romana ma le abbia prontamente occultate per non ricadere sotto le grinfie di qualche burocrate. Solo un sentito dire….
In ogni modo Esperia oggi è uno di quei paesini dove il tempo sembra essersi fermato. Persone meravigliose, aperte e soprattutto accoglienti. Ci siamo fatti un giro e qui non ci vuole niente a sapere le cose: in venti minuti sapevamo tutto di tutti. Qui i contadini pensavano che fossimo imprenditori con i soldi. I ragazzi hanno le idee chiare in fatto di vino. O meglio, sanno cosa vogliono ottenere ma sanno anche che non è così semplice ottenerlo. Occorre partire dalla terra e dalle piante. Siamo andati a cercare vitigni così che i contadini ci facevano assaggiare il vino. Abbiamo trovato il vitigno Reale che però facevano dolce. Abbiamo chiesto aiuto a Michele Lorenzetti e Anselmo Cioffi. I vitigni erano buoni e si potevano fare i vini naturali. Qui basta guardarsi intorno e si vede che si fa olio e vino da duemila anni. Una specie di conca accarezzata dalla brezza marina. Ci si innamora di un sogno. Ci si innamora di una donna o di un uomo. Ma ci si innamora di una terra, la natia o quella che si scopre per la magia del caso. Proprio come è successo a Paolo, Giovanni ed Eugenio che trovano in quel di Esperia il luogo perfetto per la loro avventura. Gente meravigliosa, terreni millenari ricchi di storia e mineralità, due vitigni autoctoni interessantissimi come Reale e Raspato. Un mix incredibile che non può non destare meraviglia e far nascere l’azienda che si deve necessariamente chiamare Aurete che, oltre a venire da aureo è proprio il nome di questa zona.. Nel 2016 abbiamo aperto l’azienda. Due anni per rimettere a posto i terreni con i prodotti di Carlo Noro. Da subito approccio biologico e biodinamico. Nel 2018 abbiamo piantato le barbatelle aspettando la burocrazia. Nel 2020 la prima vendemmia con 2500 bottiglie. Un ettaro e mezzo vitato più altre tre ettari con due ettari vitati. Quattro ettari in totale con una vigna pre fillossera a piede franco di circa 150 anni di età. Come si fa a non innamorarsene? Ci siamo insomma innamorati ma non siamo folli e abbiamo visto che qui poteva venire un Syrah buonissimo stanchi dei Syrah laziali. Le terre qui sono rosse, ricche di minerali come ferro e magnesio. Ricordano un pò quelle del Rodano e della Jura. Il vigneto sotto le montagne sorge sul letto di un fiume: pietra e roccia che si scontrano e si fondono. Le impronte dei dinosauri ritrovate sulle montagne indicano l’età di questi luoghi sopravvissuti al mare del golfo di Gaeta. Siamo partiti per fare il vino naturale. Avendolo bevuto con le aziende che prendeva Giovanni (già dieci anni fa aveva una carta dei vini con solo vini naturali) siamo diventati prima bevitori, poi appassionati, poi produttori. Abbiamo la certificazione biologica. Quella biodinamico è un pò controversa, ma ci arriveremo. L’idea precisa di fare vino con zero chimica in vigna e minimo intervento in cantina. Per quanto si può non facendo andar a male i vini e tenendo presente la tecnica.
Che meraviglia questi ragazzi. Non c’è la voglia di arrivare e spaccare il mondo fregandosene dei valori. Ciò che conta è il rispetto della natura, della tradizione, della cultura. Il resto può andare in secondo piano. Abbiamo fatto selezione massale del Raspato e del Reale e investito in terreni di proprietà. Abbiamo investito un sacco di soldi in questo e non ci siamo concentrati sulla cantina. Conosciamo bene Marco Basco di Cacciagalli e ci siamo innamorati dei suoi vini in anfora: andiamo il a vinificare. Abbiamo il nostro agronomo che è anche insegnante di enologia. Non abbiamo mai avuto un enologo perché ci piace fare il vino di testa nostra, vedendo l’annata dell’uva e come si evolve in cantina. Si, c’è una idea ma devi pure vedere come segue: la fermentazione, la malolattica. Raspato Nero e Reale sono da poco entrati nel Registro Nazionale (Marzo 2021). Un percorso lungo cinque anni ma fondamentale per evitare l’oblio a due vitigni abbandonati nelle vigne di qualche contadino che nemmeno sapeva di averli. Complicati in vigna e non semplici in cantina. Nel 2020 abbiamo prodotto 2500 bottiglie. Nel 2021 tra gelate e siccità, 2000. Nel 2022 siamo arrivati a 8000 bottiglie e abbiamo fatto una linea di vini, Gonzo, fatti in cemento. Vini di beva facilissima, da glu glu. Uno base Reale con Trebbiano e Moscato; l’altro base Raspato con Ciliegiolo, Montepulciano e Sangiovese, uve che provengono da una vigna che abbiamo preso in gestione. Cambiano le stagioni, si modifica il clima. Le temperature non sono mai le stesse. Piogge, gelate e chi più ne ha più ne metta comporta un sempre più stretto contatto con la natura. Il Syrah lo raccogliamo tutti gli anni a fine agosto a 19 gradi Babo. Il Raspato e il Reale a fine settembre anche se storicamente qui lo raccoglievano ad ottobre, a San Francesco. Però il clima è cambiato. Arrivano le piogge. Ad ottobre non ci arriva. Cinque i vini di Aurete. Thero da Reale, macerato e affinato in anfora; Raptor da Raspato Nero prodotto nella vigna a piede franco, macerato e affinato in anfora; Sauro lo Syrah fermentato sulle bucce in anfora e affinato in Clayver di grès; i due Gonzo (bianco da Reale e rosso da Raspato) vinificati in cemento. Gonzo è anche recensito sul mio blog Instagram. Syrah e Raspato devono ancora affinare e abbiamo pensato a come usare l’uva del 2022 creando così Gonzo ovvero vini più immediati che i locali ci chiedevano. Tre ragazzi e i loro sogni. Arrivati dove volevano? Macchè, sono appena partiti. Tanta strada da fare e tante difficoltà ancora da superare. Eppure Con Giovanni ci diciamo che siamo un pò sfortunati di nostro. Qui si dice che “se ti metti a fare i cappelli nascono i bambini senza testa” nel senso che abbiamo vissuto il covid, la siccità, la guerra con la crisi dei materiali. Siamo riusciti comunque a pagare tutti e tutto. Abbiamo speso tantissimo. Entro dicembre finisco di piantare tutto. Finisco di pagare i debiti e stiamo fermi. Anche se ci serve la cantina. Nell’altro terreno ex letto di un fiume verrà un vino della madonna.
Voglio portare il secondo vigneto a produzione e poi ci concentriamo sulla cantina.
Abbiamo appena iniziato. Siamo alla quarta vendemmia in questo mondo dove ce ne vogliono almeno dieci per aver fatto qualcosa. Si dice che il breakeven si raggiunge al dodicesimo anno. Ma noi non ci stiamo nemmeno a pensare a queste cose. La vigna magari sarà anche il buon ritiro dei tre amici, ma non ora. Per ora non è possibile. Giovanni ed Eugenio devono necessariamente continuare la loro attività di ristoratori. Paolo come impiegato in un ufficio a supporto delle amministrazioni comunali per la gestione degli autovelox e le infrazioni del codice della strada. Doveva rimanerci un anno. Poi è arrivato il covid….
Che storia quella di Paolo. Dalla laurea in scienze politiche, alla cooperazione internazionale, al volontariato alla Caritas, alle cooperative per i minori; lo spallone per le pompe funebri; infine impiegato e vignaiolo. Vaglielo a dire a quelli che se ne stanno a casa, sul divano, aspettando la chiamata di qualcuno! Siamo al settimo anno. Non abbiamo debiti e lo facciamo per passione. Sarà il nostro buon ritiro. Magari potevamo stare al bar a bere vino ma non ci andava di fare questa fine. Avevo la campagna e comunque sarei andato li. Ogni tanto ci diciamo che ci potevamo fare i cazzi nostri e comprarci gli appartamenti. In realtà sono soldi che escono mano mano. Abbiamo investito in terreni di proprietà che è quello che volevamo. Abbiamo vinto un bando come prima idea progetto giovani. Ci hanno prestato cinquanta mila euro e abbiamo comprato i terreni. Prestato mica regalato. Col senno di poi potevamo fare tante cose ma l’agricoltura è cosi. Una passione con l’obiettivo del buon ritiro non vuol dire essere non folli. Quello che hanno creato dal nulla è frutto di studio, di cantine visitate, di vini assaggiati. Abbiamo un gruppo, Ciociaria Naturale, siamo dieci aziende. Io stacco dall’ufficio e vengo qui perché è  l’ufficio più bello del mondo. Nonostante le difficolta. Vengo anche con mia figlia che ha cinque anni e ha già fatto tre vendemmie. Batterà il record delle vendemmie fatte. Ho piantato la prima vigna ad aprile 2018 e lei è nata a maggio. Nel 2020 c’era lei con il secchiello del mare. Le ho fatto misurare il grado Babo. Giovanni si occupa della cantina e insieme ad Eugenio del commerciale: nomi, siti internet, clienti. Poi però veniamo tutti insieme in campagna. Insieme a zio Luigi che è un operaio che ci aiuta. Facciamo tutti tutto. Siamo così noi. Ecco, non so perché ma arrivati a questo punto, in questa storia di amicizia vera che dura da oltre vent’anni e ne durerà ancor di più; questa storia fatta di passione, sofferenza, sogni spezzati, sogni realizzati, amore, studio, e chi più ne ha più ne metta, mi suonano in testa le parole di una canzone che parla d’amore. Perché l’amicizia in fondo non è amore? E senza perdere
Il senso dell’orientamento
Quando fuori tira vento
Per due che come noi non si son persi mai
E che se guardi indietro non ci crederai
Perché ci vuole passione
Dopo vent’anni a dirsi ancora di sì Per due che come noi. Brunori Sas Non so se Aurete sarà il buon ritiro di Giovanni, Eugenio e Paolo. So però che sentiremo parlare dei loro vini nei prossimi anni. In fondo, se ad Esperia hanno trovato le orme di dinosauri, vuol dire che qualche cosa di buono c’è in queste zone. Qualcosa di antico e prezioso. Come può esserlo una vigna vecchia a piede franco, dei vitigni autoctoni, un metodo naturale, una amicizia indissolubile. Aurete, una storia di amicizia.   Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969      
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3 Gennaio, 2024

Andrealetizia e Nicky: amici, amanti, chef

Erano i primi giorni del lockdown dovuto al COVID. Tutti rinchiusi in casa ci siamo scoperti runner, amanti dei cani, chef. Anche i più improbabili si armavano di tute fantozziane e logore scarpe sportive pur di uscire di casa magari a rischio di infarto. Chi aveva un cane, lo faceva uscire molto di più delle canoniche due volte tanto che poi i poveri animali erano sfiniti e crollavano sul divano. Infine, voglio proprio vedere chi non si è sentito chef o pizzaiolo in quei fantastici mesi. Ricordo di essere andato in un supermercato chiedendo, ingenuamente, un panetto di lievito di birra per sentirmi rispondere “aò senti questo che vole…il lievito….qui appena lo metti…scompare”. Andrealetizia e Nicky vivono a Londra. Ebbene sì, anche a Londra c’era il lockdown. Vivono insieme da coinquilini con altre persone. Quattro amici per un appartamento. Ognuno con la sua stanza. Ognuno con la propria identità. Accomunati da un senso di famiglia che diventa necessario quando si è a Londra per lavorare (o studiare). Così come diventa necessario vivere insieme per limare i costi. Difficile insomma vivere a Londra (come in ogni altra città) per due ragazzi alla prima esperienza. Difficile ma non impossibile. Occorre fare sacrifici senza pensare di avere tutto e subito. Si investe nel proprio futuro anche così. Andrealetizia lavora come project manager in uno studio di postproduzione fotografica senza essere propriamente soddisfatta. Nicky anche. Nel senso di essere insoddisfatto del lavoro (designer). Quella insoddisfazione latente che non sai mai cosa sia. Che non dipende da quanto stai facendo che magari ti piace anche. Andrea è di origini emiliane. Dopo le superiori mi sono trasferita. Un pò all’avventura. Non sapevo cosa fare. Non volevo studiare. Ho lavorato per il primo anno e stavo cercando un corso di fotografia finendo per iscrivermi all’università di fotografia. Alla triennale. Mentre studiavo, lavoravo perché mantenersi a Londra è impegnativo. In uno studio di postproduzione dove facevo il project manager. Mi trovavo bene, a mio agio ma non sentivo che la vena creativa potesse andare da nessuna parte. Durante il lockdown il lavoro era pochissimo e mi hanno offerto una posizione più bassa nonostante stessi aspettando la promozione. Cosi mi sono licenziata. Ho iniziato un periodo dove non sapevo cosa fare. Nicky è di Roma da famiglia cingalese. A 20 anni dopo il liceo mi sono spostato prima a Manchester dove ho studiato ingegneria informatica per poi fare un master in design (interazione uomo computer). Quindi ho trovato lavoro a Londra. Eccoli due giovani con la testa sulle spalle. Si certo, qualche pensiero. Qualche insoddisfazione. Ma chi non ce l’ha? Ragazzi che non hanno il mito del posto fisso. Che non hanno paura di rischiare. Che vogliono, desiderano, ardono trovare la propria strada. Il lockdown arriva al momento giusto in qualche modo. Tempo per pensare, capire, programmare il futuro ce ne è. Anche troppo. Chissà quanti in quel periodo hanno riflettuto sul futuro, fatto progetti. Quanti sogni costruiti e mai realizzati. Energia creativa per alcuni. Energia sprecata per altri. Andrea e Nicky danno sfogo alla loro passione: la cucina. Lo fanno insieme. Prima come amici poi come coppia. Si completano in fin dei conti. Precisa, puntuale, attenta Andrea; estroverso, creativo, caotico Nicky. Un bel connubio insomma. Tanto bello che capiscono che la loro forza è lo stare insieme. Tra gli spazi angusti della cucina il sincronismo e l’alchimia che creano li porta, sempre insieme, a credere in ciò che stanno facendo. Il lockdown ha cambiato le priorità con il tempo dedicato alla cucina e ci ha fatto capire quanto ci piacesse. Ma soprattutto quanto ci unisse. Lei era molto più appassionata di cucina di me. Era più sopravvivenza nel senso che vivevamo da soli e non c’era mamma e papà che ti facevano da mangiare. A casa mia si è sempre mangiato bene e a noi piace mangiare. Una necessità che si è trasformata in passione. Per me lei è sempre stata quella che ne sapeva di più. Suo padre cucina tantissimo mentre a casa mia è più cucina cingalese e un po’ italiana. Quando ho incontrato lei ho scoperto un sacco di piatti nuovi dei quali avevo solo sentito parlare. Con il lockdown, con tutti i locali chiusi ci siamo messi a fare la pizza e a grande sorpresa, dopo la terza pizza vediamo che era uscita bene. Il provare è diventata una ossessione. Da allora è quasi una ossessione verso la cucina. Non ho mai smesso di pensare a qualcosa di nuovo. Anche quando sogno, sogno di preparare qualcosa di diverso. Provare, cimentarsi, anche sbagliare. Solo così si capisce se qualcosa ti piace davvero. La fortuna di poter sbagliare senza paure. Andrea lascia il suo lavoro già prima del COVID. Deve capire cosa fare da grande. Ha la voglia di fare qualcosa per gli altri prima che per sé stessa. Solo che non è facile inventarsi. Reinventarsi. Così un giorno decide che vuole iscriversi a Masterchef. Una scelta non per noia ma come unica opzione. Una sorta “o la va o la spacca”. Tentare qualcosa non tanto per farlo quanto per cimentarsi con se stessa. Capire se ce la si può fare in qualcosa che anche gli altri vedono in te. È stato mio padre che continuava a dire: non fate altro che cucinare. Andate a Masterchef. Poi ero così in crisi che non avevo nulla da perdere. Così ho cominciato a crederci. Era un periodo dove davvero non sapevo cosa fare. La sua chiave di lettura nella vita è rendere felici e far star bene altre persone. C’era la medicina e poi c’era il mondo del food. Io non avevo le mie soddisfazioni. Così dopo che mi hanno preso a Masterchef mi sono preso l’aspettativa al lavoro. Quei mesi mi hanno cambiato la vita. Insieme in cucina. Insieme nella vita. Insieme compilano la richiesta per Masterchef. Insieme entrano nella cucina del reality. Insieme è una costante della vita di Andre a Nicky. Per due semplici appassionati, due che cucinano per se stessi e gli amici, entrare nella cucina del più importante reality show food non è un passo di poco conto. C’è da studiare. C’è da impegnarsi. C’è da faticare e tanto. Magari non lo sai prima. Magari te lo dicono durante le selezioni. Li dentro però, è tutto diverso. Il nostro background, ha aiutato il senso estetico. Oltre che buono deve anche essere bello. Noi siamo arrivati a Masterchef molto acerbi e il percorso ci ha aiutato a capire che lo volevamo fare veramente. Dopo il programma, siamo andati dopo a lavorare, insieme, in un ristorante in Corsica, per capire bene circa il futuro. Li ho avuto la conferma che volevamo fare questo per la vita ma non lavorando per altri chef. Noi venivamo visti come i privilegiati. Io da donna mi vivo questo ambiente super maschilista a livelli estremi. Mettendosi a confronto con le cucine degli altri ti rendi conto di un ambiente dove non mi piacerebbe stare. Facendo gli chef a domicilio, magari è limitante, ma a livello di benessere mentale è molto meglio. Io ho scelto di seguire la cucina perché avevo delle mancanze a livello creativo. Per il resto il lavoro da designer mi portava più che una pagnotta a casa. È stata una decisione di cuore ma non voglio essere triste perché obbligato a fare certe cose. Cucinavo e dicevo ad Andrea: impiatta. A Masterchef era obbligo impiattare e li ho capito il bilanciamento all’interno del piatto. Generalmente sono bravo in molte cose che faccio però non superavo mai il mediocre perché facevo tante cose. Non eccellevo in niente. A Masterchef ho dovuto smettere di fare le mille cose che faccio concentrandomi solo sulla cucina. E mi sono innamorato senza stufarmi. A me ha dato il coraggio. Avevo bisogno di trovare certezze dentro di me, trovare autostima. Fermiamoci un momento. Masterchef. Un reality. Tre, quattro mesi, relegati a cucinare, a provare e riprovare i piatti per poi sfidarsi a duello. Ritmi massacranti. Tanta competizione. Tante luci che poi, alla fine, inesorabilmente, si spengono. Dopo la fine del programma gli sponsor ti cercano perché sei diventato, nel bene e nel male, un personaggio da sfruttare a fini commerciali. Poi anche quello svanisce. A meno che. A meno che quella esperienza non sia stata davvero formativa. Non abbia scosso la coscienza aiutando a trovare quella strada che cercavi da tempo. Ascoltando Andrea e Nicky capisci quanto ai ragazzi, spesso, manchi non la luce dei riflettori quanto quella che illumina loro la strada. Anche se poi c’è bisogno di volerla percorrere la strada. Il che consta sacrificio e tanta forza di volontà. Non bastano i follower. Non bastano i like. C’è bisogno di molto di più. Così come c’è bisogno di vivere il dopo. Dopo che hai imparato. Dopo che devi fare tutto da solo (o soli nel loro caso). Andrea e Nicky capiscono che non vogliono lavorare in un ristorante. Hanno bisogno di qualcosa di loro. Qualcosa che oltre a farli stare insieme non sia propriamente “stabile”. Stare nello stesso posto, fare le stesse cose, non è nelle loro corde. Quando avevo 18/19 anni mia sorella mi chiese cosa volessi fare da grande. Io risposi “voglio fà i soldi”. Lei si schifò della risposta dicendomi di ritornare dopo una settimana con la risposta. Stavo alla ricerca del futuro. Anche facendo il designer, qualcosa mancava. Dopo questa esperienza ho scoperto cosa volessi fare da grande e io voglio fare questo fino alla morte. Questa è la cosa più grande. Creare le cose senza alcun limite. Per fare questo non devi aver paura di osare. Di volare senza paracadute. Anche se poi uno dei loro desideri primari è acquistare una casa. Va bene l’instabilità ma fino ad un certo punto! Molto spesso ci veniva chiesto come vi trovate a trovarvi uno contro l’altro. Noi ci siamo trovati bene perché stiamo bene insieme. Se una competizione del genere mette in crisi una relazione allora la relazione non è seria. Competere con il sostegno dell’altro è stato bellissimo. Li dentro noi avevamo l’un l’altro e stavamo bene. Quando sei in un tritacarne come quello di un reality, non hai tempo per pensare a nulla. Sei immerso n questa cosa, prosciugato dall’esperienza. Sei confuso e non hai la lucidità per pensare a ciò che succederà dopo. Però, appena usciti la prima cosa che hanno fatto, identifica chiaramente quello che volevano essere:  Andrea ha comprato un libro di cucina, Nicky ha cucinato. Non vedevo l’ora di cucinare come voglio io. A casa ho tutta l’attrezzatura. Era quasi liberatorio. Masterchef ci ha ripagati almeno all’inizio perché ci sono persone che ti chiamano e vogliono provare a fare qualcosa. Così ti senti spronato a fare qualcosa. Poi no. Abbiamo lavorato non per il nostro nome ma tramite delle app e dei portali. Una volta fuori cambia tutto. Se vuoi che cambi. Altrimenti la vita diventa come un elastico che ti riporta esattamente al punto di partenza. È cambiata la quotidianità perché penso al privilegio di avere la possibilità, faticando, di gestirsi la vita. Fare il libero professionista non è semplice. Pensare alla cucina da quando mi sveglio fino a quando vado a dormire. Sono cresciuta tanto scoprendo le potenzialità che avevo. L’esperienza è stata traumatica ma ci ha fatto capire tanto. Lo rifarei mille volte. Ci ha solo aperto gli occhi su quanto volevamo fare. Il termine giapponese ikigai racchiude il senso della cucina. Quella cosa che combacia a livello lavorativo e di passione che può portare qualcosa al mondo e che nutre te stesso. Chi trova l’ikigai non aspetta la pensione. Andrea Letizia e Nicky sono due ragazzi, due chef con la testa sulle spalle. Una coppia nella vita e una coppia in cucina. Cucinano e si divertono. Oggi fanno gli chef a domicilio con Nicky che si diverte a cucinare e a gestire i suoi canali social facendo lui stesso le riprese (si è attrezzato pure uno studiolo). Cucinano portandosi dietro le loro origini. Fondendole nei piatti. Mantova, Roma; Italia, Sri Lanka. La vera integrazione è qui. Non avrei mai pensato di portare tutte le mie origini nella cucina. Parmigiano, pasta fresca, aceto balsamica. sapori Dolci, rotondi. Nicky invece cerca sempre sapori decisi, piccanti, decisi, pungenti. Nonostante io abbia origini dello Sri Lanka sono vissuto a Roma con piatti romani che ti spaccano il palato in maniera positiva. Nello Sri Lanka con le spezie hai tantissimo sapore in bocca. Anche se delicato, il piatto deve avere una esplosione di gusti. Se non c’è non sono felice. Il successo non li tocca o comunque sembra non toccarli. Hanno tempo per evolversi e imparare. Non hanno bruciato le tappe. Se lo sono guadagnato e meritato. Certo, Masterchef ha aiutato ma poi quel di più ce lo hanno messo loro. Facciamo gli chef a domicilio da quasi anno. Siamo tranquilli ora nel portare cene anche a trenta persone. Sono felice e il motivo è perché non ho mai smesso di cucinare. Due ragazzi sereni. Due persone che, nelle mille difficoltà (perché non sempre è oro ciò che luccica) si completano vicendevolmente. Stare sempre insieme, anche negli spazi angusti di una cucina, dosare, preparare, cuocere, impiattare, non è semplice. Proprio nella diversità funzionano. Insomma, Andrea ha trovato la sua strada. Nicky può finalmente dare una risposta alla sorella. Li vedi felici e realizzati anche se il loro percorso è solo all’inizio. Non pensano ad un lontano futuro. Si concentrano sul migliorarsi giorno dopo giorno, sperimentando senza sognare (anche se Nicky confessa di cucinare anche nei suoi sogni). Senza pensare a cosa sarà il futuro. Hanno fiducia in loro stessi, nelle loro capacità, nella loro tenacia. Magari con un pizzico di stabilità in più che non fa mai male. Trovi sempre un meraviglioso sorriso sui loro volti. Quel sorriso che è trasposto direttamente nei loro piatti perché realizzati con tutta la loro anima. In bocca al lupo ragazzi. Ps Per una esperienza culinaria con loro potete far riferimento al sito internet: Andrealetizia & Nicky Brian Chef A domicilio (andreaenicky.com)     Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969  
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29 Dicembre, 2023

Baron Longo. Anton, le montagne, casa

Cosa non si fa per un figlio? Nulla. Nel senso che si farebbe tutto e di tutto. “E figli so piezz’ ‘e core” in fondo. Ci si prodiga, si fanno sacrifici, si fornisce supporto. Tutto davvero tutto.
Ora, immaginatevi di avere un figlio che sta studiando all’estero per portare nella azienda di famiglia qualcosa. Ma fosse anche per inseguire un sogno come è giusto che un ragazzo faccia. Non fosse altro perché la vita è sua e deve poter fare ciò che più gli piace.
Vi verrebbe mai in mente di richiamarlo a casa? Forse in un’altra epoca. Forse in presenza di difficoltà familiari. Forse anche in funzione della vostra provenienza geografica.
In che senso?
Se si potesse fare un sondaggio sono certo che che un genitore del sud volerebbe sulle nuvole avendo un figlio che studia all’estero. Figuriamoci a richiamarlo a casa.
In questa storia noi siamo al nord. All’estremo nord dell’Italia. Più precisamente in Alto Adige o Sud Tirolo che dir si voglia. Egna, comune poco sotto Bolzano. Non è che adesso, al nord, i figli non siano figli e che il comportamento sia diverso da quello del sud, ma qui spesso conta la praticità. Il lavoro, ce ne è tanto ed è forse la prima cosa. Specialmente se hai da gestire una azienda con decine e decine di ettari.
Chi incontro è Anton Baron Longo. Un sorridente e pacato ragazzo dall’accento tipico di chi, in queste zone, è bilingue. Una di quelle persone delle quali percepisci la serenità anche in presenza di problemi. Non a scacciarli o a non occuparsene (o preoccuparsene) ma a gestire l’ineluttabilità delle cose. Sbagliando si impara diceva Cimabue nella nota pubblicità Sono partito nel 2011. Mio padre mi ha chiamato e mi ha detto. Senti figliolo, hai studiato abbastanza, torna a casa. Anton era a Montpellier a studiare enologia. Certo, 27 anni sono un pò tanti per studiare ancora ma i figli so piezz’ ‘e core anche a Egna. Fino ad un certo punto però. Fino a quando arriva quel momento nel quale capisci che devi renderti utile per l’azienda di famiglia. O che qualcuno te lo fa notare…. Sono ritornato e mi ha dato in mano l’azienda. Come è tipico in Alto Adige, abbiamo frutteti, vigneti, bosco. Pian pianino ho detto che a me piaceva far il vino. Alle volte penso che la legge di gravitazione universale che Newton iniziò a formulare vedendo cadere una mela dall’albero (e qui di mele ce ne sono quante ne volete) si possa applicare anche ad alcune persone. La terra, la propria terra; la casa, la propria casa hanno un potere attrattivo che va ben oltre l’enunciato “Due corpi dotati di massa si attraggono con una forza che è direttamente proporzionale al prodotto delle masse e inversamente proporzionale al quadrato della distanza che li separa”. Anton. Due sorelle. Una famiglia che è da sempre impegnata nel conservare le tradizioni dell’Alto Adige. Il territorio. Il rispetto per questo. La biodiversità. Un grande bosco di circa 70 ettari. I cavalli. Il meleto di dieci ettari (le mele più buone si fanno qui!). La vigna di circa 20 ettari. Davvero molto grande per i numeri dell’Alto Adige dove la media è di poco più di un ettaro di proprietà. Solo che da sempre a casa Baron Longo l’uva si conferisce. Produrre il vino è complicato ed il conferimento fornisce il, quasi, certo contante utile per far girare tutta l’azienda. Nel 2014 ho detto a mio padre che volevo fare un vino a modo mio. Abbiamo quasi 20 ettari E lui ha detto “no, non lo fai”. In passato mio nonno era sindaco di Egna e aveva già fatto vino in passato. Se ne andò durante il fascismo e suo figlio è tornato fondando la cooperativa di Egna e poi di Termeno. Da li abbiamo sempre conferito. Ora qualcuno penserà che Anton abbia voluto far qualcosa “tanto per”. Far qualcosa di più divertente che coltivare e raccogliere l’uva per poi conferirla. Una cantina è sempre di maggior prestigio rispetto al solo semplice (manco tanto) lavoro nei campi. Non è cosi. Infatti Anton racconta questa cosa senza astio o voglia di riscatto. La pacatezza del suo discorso non è di facciata. Forse sa che al posto del papà, con la responsabilità di portare avanti una azienda grande per tutta la famiglia, avrebbe detto che imbarcarsi in un progetto che avrebbe drenato per anni risorse, non sarebbe stata la scelta più saggia.
I ragazzi hanno bisogno di sognare, sperimentare e anche sbagliare. Solo così crescono e diventano persone. Anche a 27 anni. Perché no? Io volevo partire con il progetto di una cantina che portasse il nome di Baron Longo. Così sono comunque partito facendo uno Chardonnay, un Lagrein e anche un Pinot Bianco. Dopo la fermentazione mi sono accorto che avevamo un aceto di quelli belli grandi. Qui e solo qui si vede la grandezza delle persone. Sbagliare si può e per certi versi si deve. Quando accade ci si può scoraggiare e si può scoraggiare nel proseguire. Oppure essere pragmatici, capendo e metabolizzando l’errore come parte del processo di apprendimento. Ho detto a mio padre che il progetto stava andando male. Lui ha detto: facciamo così: Ti do tre ettari cosi puoi andare in banca e li possono darti un mutuo cosi che puoi farti il tuo progetto. La grandezza del papà di Anton è qui. In questa frase. Responsabilizzazione del proprio figlio ma anche supporto. Non importano gli errori che tutti hanno fatto e fanno. Conta ciò che impari e le responsabilità che ti prendi. Per crescere. Così come anche Anton ha fatto la sua parte capendo che quello era il momento, il vero momento della scelta. Da li in poi non si sarebbe più scherzato. Nel 2015 ho ristrutturato la cantina al centro di Egna nel palazzo Longo, la cantina storica. Così ero pronto per la vendemmia. Non andò bene perché abbiamo comunque dovuto fare tutto in un garage: Chardonnay, Pinot Bianco e Cabernet. Utilizzo di legno. Il primo vino era il Libenstein.
Erano poche bottiglie cosi che l’imbottigliatore mi disse che non veniva per mille bottiglie. Così ho fatto dei blend (il Liebnstein è un blend di Chardonnay e Pinot Bianco). E da li sono nate Anton inizia a produrre vino sul serio prendendo la decisione, piano piano di voler fare solo quello nella sua vita. Non gli interessava altro. Produrre vino da queste splendide montagne ricche di calcare e con un clima adatto alla produzione di grandi bianchi. Un ragazzo che sradicato da Montpellier scopre di essere innamorato dell’Alto Adige e della sua vigna. Ho iniziato a capire bene il terroir. Così ho incaricato un geologo per scavare le vigne e capire cosa c’era sotto dunque il potenziale. Ciò che trovano nelle terre, anzi sotto, è tanto calcare che non si può che pensare ad un vitigno come lo Chardonnay che predilige proprio questo tipo di terreni. Oltretutto con le montagne che forniscono un clima ideale. A Egna siamo a 290 metri e abbiamo un maso a 1050 metri. Li abbiamo quasi 4 di ettari dove non è mai stato fatto vino perché troppo alto. Così nel 2011 abbiamo impiantato delle vigne mentre tre anni fa Chardonnay, Pinot Nero e Sauvignon. Solo che avere le vigne (anche) oltre i 1000 metri sarà pure bello e suggestivo ma poi devi fare i conti con la natura. Già l’anno scorso abbiamo perso un ettaro per le gelate. Se decidi di andare su in alta quota devi capire che c’è il rischio di perdere qualcosa. Però se il progetto andrà bene avremo qualcosa che ci differenzia in Alto Adige. Perdere un ettaro di uva può essere un dramma. Ciò che mi colpisce è come Anton ne parla. Il rispetto per la natura è così alto che è come dire “è successo e va bene cosi”.
Anton ci crede e ci crede tanto. Non fa che ripetere la parola “progetto”. È il suo! Tutto ciò che vuole è realizzare qualcosa di unico. Qualcosa che sia unico al mondo. Ambizioso? No. Assolutamente no. È un ragazzo in gamba che sa cosa vuole e si impegna al massimo per realizzarlo. Ogni cosa è per lui motivo di studio e di attenzioni. Per conferire papà voleva tante varietà diverse cosi da coprire tutte le esigenze del mercato. Un anno il Gewurztraminer, un anno il Lagrein. La mia idea era di ridurre le varietà per averne al massimo 4. Così da fare un pò di focus.   Ecco una cosa meravigliosa. Un ragionamento che Anton ripete più volte. Oggi la sua azienda produce 80.000 bottiglie con otto etichette e vari vitigni. Troppi nella sua idea perché capisce che se vuole competere deve avere più bottiglie per etichetta.. Vuole che la sua azienda si identifichi per i bianchi e su questi vuole concentrarsi. Sa di essere parte della storia. Della sua famiglia certamente. Del territorio anche. Ma conferendo l’uva per tanti anni, nessuno li conosce. Ecco perché diventa cruciale concentrarsi su qualcosa che possa portare notorietà. Devo puntare su poche varietà. Siamo una piccola realtà che punta sulla qualità. Perché non faccio vini tipici della zona come Lagrein e Schiava? Ci ho pensato tanto ma ho detto che voglio essere in competizione con il mondo. Voglio che bevendo la mia bottiglia ci sia la leggibilità come chardonnay. Non ho idea di fare gli autoctoni. Io sono più nei bianchi perché credo nel potenziale e perché i miei terreni sono adatti per i bianchi. Se fossi sulla Mosella farei un Riesling. Non sono amante dei Gewurztraminer. Forse non vado bene per l’Italia perché sarei più richiesto come Pinot Nero. Pochi vini e grande rispetto della natura. La cosa che per me era anche importante era il biologico. Papà era già su quella direzione. Quando io sono nato la mamma ha ricevuto come regalo una pecora. Io ora ho 11 maiali dalla Nuova Zelanda (kunekune). Mangiano solo erba e dunque li lasciamo liberi nel vigneto perché sono cosi piccoli che non riescono a mangiare l’uva. Così non dobbiamo più andare cosi spesso con il trattore. Per Anton è tutto spontaneo e meraviglioso. Non ci sono filtri ne tantomeno retro pensieri. Lui è così. Se lo facciamo vorrei anche essere certificato. Nel passato non era richiesto. Ma tutti i vini dal 2020 sono certificati bio e dal prossimo anno saranno biodinamici. Accanto al Liebenstein c’è Urgestein uno vino stupendo da Sauvignon Blanc con affinamento in legno e acciaio che ho recensito sul mio blog Instagram.
Certo, i nomi tedeschi, così complessi non aiutano. Almeno in Italia. Ma Anton ha le idee chiare anche su questo. La scelta di nomi tedeschi è stata fatta da me perché in Alto Adige è partita la discussione per dare ad ogni particella un nome come Mazzon. Li ho pensato se volevo entrare in quel mondo o andare per la mia strada. Come quella della famiglia. Ho scelto questa strada. Liebenstein è il il mio secondo cognome. Urgestein è stato scelto perché nel terreno dove cresce il Sauvignon abbiamo roccia madre. Se qualcuno adesso sta pensando che Anton abbia dalla sua un padre che gli ha dato le possibilità, sbaglia di grosso. Ciò che gli ha donato sono solo i tre ettari e mezzo che ha utilizzato per partire. Tutti gli altri, per un totale di venti, sedici dei quali in produzione, li ha in affitto.
Che grande papà. Per Anton è tutto normale. Sa che probabilmente avrebbe fatto anche lui così. È stupendo come risponde quando gli chiedo “ma come, te li affitta? Li affitta a suo figlio?” Si certo Anton si sta guadagnando ogni cosa. Passo dopo passo. Vendemmia dopo vendemmia. Gli errori? Non sono stati vani anzi, hanno portato i loro frutti. Nel 2014 ho capito che mi serviva un aiuto. Ho chiesto ai miei amici enologi dell’Alto Adige una mano. Ho trovato un enologo che mi ha seguito fino al 2020 quando ho avuto la fortuna di un contatto di un enologo di Angelo Gaja. È un francese e mi aiuta tanto. Mi segue sul quando vendemmiare, quale legno scegliere. Il vino si fa una volta all’anno. Non è come la birra. Iniziò con la potatura poi vendemmi poi in cantina. Basta. Se non va bene hai perso un anno. Grande umiltà nel capire gli errori cosi come circa la necessita di un supporto. Fosse solo per avere qualcuno che ti dice se stai facendo bene o male e con un papà al quale, alla fine, il progetto piace. Il progetto gli piace e dice che un domani dovrebbe essere che funziona anche in maniera economica nel senso che facciamo soldi invece che metterli dentro. Ma con il vino ci vuole tempo. Un progetto che dovrà ancora evolversi. Il biologico che si trasforma (da subito praticamente) in biodinamico. Alcuni vini come il Gewurztraminer non più in gamma. Due bianchi da Chardonnay, Pinot Bianco e Sauvingon e un solo rosso con Cabernet e Merlot. Chardonnay come entrata poi i premier cru e i grand cru. Così avremo una certa quantità di bottiglie. Forte il ragazzo! Forte la sua propensione al biodinamico. Abbiamo basse rese per ettaro. 60 quintali per ettaro. Lavoriamo con la luna. Abbiamo la nostra acqua. Abbiamo i maiali. Tutte cose importati per avere i terreni vitali. Dobbiamo cercare di attivare i terreni perché ci sia equilibrio e vita. Le vigne più vecchie sono di un Cabernet che hanno circa 80 anni. Sono a pergola. Nel passato coltivavano sotto patate, ortaggi. È duro fare vino in Alto Adige. Questa la vita di Anton. Queste le sue ambizioni. La vigna e niente altro. Affitto da pagare al papà, mutuo alle banche. Deve pure finire gli studi di enologia e, tra l’altro, gli manca ancora un pò. Cosa questa che mi lascia pensare di quanto si sia divertito prima. Prima. Non ora. Ora è in equilibrio con se stesso e ciò che lo circonda. Equilibrio perfetto. Anche se è sempre lui a dirigere la vigna e se stesso. Mia sorella mi porta i cavalli in vigna ma quello che sto facendo è un pò un one man band. Faccio tutto da solo tranne la vendemmia. Non sento la solitudine. A me piace stare con le persone e anche da solo. Per fortuna. Ho la mia ragazza, la mia famiglia e pian pianino si cresce in azienda. Ho trovato un ragazzo che mi aiuta in vigna. Il prossimo anno ne verrà un altro. Poi cerco qualcuno che prenda in mano il tema biodinamico. Insomma, alla fine gli rimane solo da convincere definitivamente il papà a cui continua a piacere come vino quello prodotto dal Solaris (precoce nel germogliamento, precoce nella fioritura…adatto per la montagna perché poco rischioso) tanto che Anton un vino ancora glielo produce, lo Sichlburg. Siamo un pò diversi per il vino. Lui ha un altro approccio sul vino. Io ogni giorno assaggio. Assaggio altri vini per migliorare. Se vai a mangiare inizi al McDonald’s ma poi cambi così da capire. Anton Baron Longo. Da Egna a Montpellier e ritorno. Alla propria terra. Alle proprie origini. Con le idee chiare da chi sa cosa vuole. Da chi ci crede. Da chi non accetta compromessi. Da chi sa aspettare che il tempo maturi le cose. Da chi non si arrende. Da chi guarda a ciò che lo circonda rimanendone affascinato ogni giorno.
I suoi vini? Sono una vera scoperta così che quando li assaggi ti viene da pensare: ma dove è stato Anton fino ad adesso? Ivan Vellucci Mi trovi su Instagram come @ivan_1969 BaronLongo | Egna | Facebook BaronLongo (@baronlongo) • Foto e video di Instagram        
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22 Dicembre, 2023

Bacco del Monte. Il Pinot Nero della sana follia

Pinot Nero e Mugello. A chi viene in mente un connubio del genere, alzi la mano!!
Il Pinot Nero è la nobiltà del vino. Dalla Borgogna allo Champagne passando per l’Alto Adige con l’altopiano Mazzon per dar vita a vini spettacolarmente complessi. Espressioni paradisiache di un vitigno che, nella sua difficoltà di gestione, può generare tanta soddisfazione. Maison, Chateau, Tenute. Tutte impegnate da anni, lustri e in alcuni casi, secoli, a produrre esaltanti vini da questo vitigno. Con tante imitazioni o perlomeno interpretazioni. Solo in Italia si contano 93 denominazioni con il Pinot citato, 3 delle qualità DOCG. Espressioni diverse, filosofie interpretative diverse.
Il Mugello invece, che c’entra in tutto questo? Alzi ancora la mano chi riesce ad identificare, anche solo geograficamente il Mugello.
Certo, chi è solito percorrere l’Autostrada del Sole avrà certamente notato l’uscita di Barberino del Mugello. Non è una uscita come le altre. È una delle uscite più agognate dell’intero percorso autostradale. Di quelle che si spera arrivino il prima possibile.
Colpa dei sempre presenti lavori di ammodernamento dell’autostrada e delle interminabili code dei Tir che iniziano a Firenze e terminano proprio li. Il tutto preannunciato (mettendo anche ansia a dire il vero) dalla radio e dalle segnalazioni luminose che recitano sempre “coda fino a Barberino del Mugello”!
Gli appassionati di moto ricordano poi sicuramente il Mugello per il circuito delle gare di moto mentre i malati di shopping per l’outlet. Eppure il Mugello è molto ma molto di più a cominciare dai paesaggi che sono di quelli veri e quasi incontaminati (quasi poiché non so se ne esistano ancora di veramente incontaminati).
Essere a nord di Firenze ovvero zona di mezzo tra la grande ed attrattiva Toscana e la godereccia Emilia Romagna, oltretutto attraversata dalla più trafficata autostrada italiana, fa si che il Mugello sia una zona poco frequentata se non fosse per le occasioni dei raduni e gare motociclistiche.
Poco male se si cerca tranquillità, bella gente e tanta salubrità. Se parliamo di vino, beh la Toscana è la Toscana. Chianti, Supertuscan, Vernaccia. Insomma ce ne è per mettere in ombra tutto il resto. Già il Mugello è in ombra di suo…. Il vino non può che essere una normale conseguenza.
Normale e sensato come ragionamento. Valido solo se non si ha la pazienza di guardare meglio. Ok, ma come ti viene in mente di mettere il Pinot Nero in Toscana? Nel Mugello poi! Occorre essere pazzi è vero. Ma non sono proprio i pazzi che fanno nascere le cose più meravigliose? Pensiamoci bene però. Per chi è così pazzo da voler far vino nelle terre del Mugello, non avrebbe avuto senso impiantare barbatelle di Sangiovese. Chianti del Mugello? Con tutti i Chianti che ci sono, non se ne sente il bisogno di un altro. Il Mugello risulta caratterizzato da terreni argillosi, estati brevi, elevate escursioni termiche tra giorno e notte, alta umidità. Insomma, posta così la questione, sembrerebbero le condizioni ideali proprio per il Pinot Nero. Mio nonno che ha 96 anni ed è ancora vivo, alla fine degli anni 70 piantò un pò di vigna. Gli piaceva e gli piace fare dell’orto. A casa nostra c’è sempre stato. Cabernet Sauvignon, Merlot, Syrah e un pò di Chardonnay. E altre cose. Sai come funziona in Toscana no?
In casa nostra tutti gli anni, a settembre, una volta si faceva a settembre, c’era la vendemmia. Io ci sono nata praticamente.
Io sono nata nell’89 e i miei si sono trasferiti nell’85 dopo che mio nonno costruì questa casa acanto alle vigne. Tutti insieme si abita qui. Noi siamo in 4. Con mio fratello e i nonni.
Senza sapere che ci sarebbe stato tutto questo ho studiato all’università, enologia. Quando ho visto il piano di studi ho detto “ma questa è una roba fantastica”. C’era tantissima chimica e mi sono innamorata di questa cosa. In famiglia mia, mi babbo, mia mamma, il mi fratello sono tutti medici. Hanno fatto tutti medicina Io non ne potevo più di sentir parlare di malati e ho detto voglio fare sta cosa. Facciamo cose serene.
Mi sono laureata nel 2014, papà e mamma sono andati in pensione e io ho detto loro che volevo provare a far vino sul serio. All’inizio quando abbiamo deciso cosa fare abbiamo cavalcato l’onda del Pinot Nero nel Mugello che nasce da vent’anni con il Rio di Paolo Cerrini a cui vogliamo tanto bene. Qui c’è una clima molto particolare al quale il Pinot Nero si abbina bene. Forti escursioni termiche. Mio babbo è un appassionato di meteorologia. Abbiamo una stazione meteo super professionale. Papà ha preso tutti i dati dal 2011 al 2022 e ha detto che non siamo mai andati sopra i 20 gradi durante la notte. Il Mugello si pensava non fosse adatto alla produzione del vino. Ma non è vero che perché non si era ancora trovata la giusta varietà. Ci son delle zone, un pochino più alte dove si fa anche un ottimo sangiovese. Abbiamo piantato dunque i due ettari a Pinot Pero. Silvia Bacci è una donna toscana di gran carattere. Un peperino si direbbe qui. Va a mille. Non si ferma un attimo ne di fare, tantomeno di parlare. La nostra chiacchierata è iniziata così: pronti, via. Lei è partita con la velocità tipica di chi parte per la maratona con il ritmo dei 100 metri piani.
Con coinvolgimento e tanto buon umore. Tipico toscano. Ma Silvia è di più.
Sarà per il suo entusiasmo, la voglia, la passione e soprattutto l’amore che ha per questa avventura. Sarà anche perché Silvia, dopo la laurea, si è messa non solo a fare consulenze ma anche ad insegnare Wine Business, Marketing soprattutto, ai giovani americani che vengono in Europa a studiare il vino.. Sarà quel che sarà, ma non la si ferma. E meno male aggiungo io! L’azienda Bacco del Monte nasce nel 2016/2017 con la prima annata di produzione nel 2019 con un solo vino, il Monte Primo. La terra del babbo e del nonno è piccina: solo due ettari. Non ci si vive. Ma certamente ci si diverte. Non volevamo fare la produzione. Non era previsto. Si era detto: va beh abbiamo piantato da poco non ci sarà niente. Invece si va in vigna con il mi babbo “qui c’è l’uva che si fa, si butta via?” Assolutamente no. Abbiamo fatto la vendemmia praticamente in ginocchioni. Sono stata male una settimana. Se uno vole fa palestra venga in vigna. Prima vendemmia e 2500 bottiglie: da li abbiamo continuato.
Nel 2021 abbiamo differenziato facendo le due etichette Monte Primo e Torre di Ponente. Nel 2022 abbiamo fatto anche un bianco, lo Chardonnay del nonno. 300 bottiglie fumate in un mese. Così con il babbo abbiamo fatto una scommessa.
“Papà se riesco a vendere tutte le bottiglie prima dell’estate si pianta lo Chardonnay.
Questo è avvenuto Dunque abbiamo piantato le barbatelle di Chardonnay. Fermare Silvia quando parte è complicato. Ma ascoltarla è un piacere. Noi abbiamo un problema, ci piace bere. La vigna vecchia la teniamo per noi. Va risistemata perché ha 40 anni. Nonno aveva fatto il cordone speronato. Ci facciamo pure un passito da Aleatico e Malvasia Nera. Ci piace sperimentale. Abbiamo provato pure la sperimentazione. Insomma i due ettari impiantati vengono usati per produrre vino adatto alla commercializzazione mentre la vigna del nonno per utilizzata come consumo interno, sperimentazioni e degustazioni. Papà Enrico, mamma Elena, Duccio il fratello e Silvia. La squadra di Bacco del Monte è completa. Squadra che si rimpolpa durante la vendemmia ovviamente. Una vendemmia fatta con calma e tanta allegria. Nessuna fretta (se non quella di rispettare i tempi enologici). Tanto si vuole stare insieme. Silvia è l’unica in famiglia che non abbia studiato medicina e intrapreso la professione medica. Con la passione che ha per la terra ed il vino, francamente non so se sarebbe stata un buon medico. Eppure papà Enrico dopo la pensione si è riconvertito in fretta. Il mi babbo è bravissimo. Ha studiato tanto. È un appassionato cosmico di chimica e fisica. A differenza mia che ho la parte creativa, lui è precisissimo. Questo è fondamentale. Abbiamo anche un consulente esterno al quale voglio molto bene che ci supporta.
Abbiamo iniziato a vendere vino a novembre 2021. Me lo ricordo bene perché è nato mio figlio. Tutti mi prendevano in giro e dicevano che erano nati due figlioli.
Alla prima degustazione nel nostro paese io non c’ero. Ho partorito due giorni dopo e ricordo che ero al telefono a chiedere come stesse andando. Abbiamo iniziato a vendere nel Mugello con ristoratori nostri amici. Poi degli agenti in Toscana. Ho trovato un importatore molto carino in Repubblica Ceca, poi anche in Francia. Abbiamo una mezza cosa con l’America. Li ce tanta burocrazia.
Quest’anno avremmo fatto 8000 bottiglie in piena produzione. Ma con la peronospora non ce la faremo. Non siamo ancora alla fine dunque non sappiamo cosa possa succedere. Una delle cose che mi ha lasciato con il punto interrogativo stampato sul viso è stato il sito internet dell’azienda. Per chi avrà voglia di andarlo a vedere troverà sulla destra la linguetta “Meteo”. Non è una cosa insolita specialmente per le strutture che offrono degustazioni e alloggi. Diverso e insolito è quando ciò a cui si accede è una vera e propria stazione meteorologica con dati e grafici insoliti e poco orientati all’utente della strada.
È il bello di aziende e persone che sì, fanno questo mestiere come business ma la passione prevale su tutto. C’è la voglia di fare le cose con l’amore e l’animo di chi le vuole fare con il sorriso sulle labbra. Solo però soddisfacendo a pieno le proprie passioni si possono fare le cose con amore. Magari il meteo non c’entra nulla su un sito internet di una azienda vinicola, ma per la gestione di una vigna, certo che è utile.
La passione di Silvia è così intensa che riesce a trasmetterla anche fuori dall’azienda. Io faccio consulenze e insegno wine business e marketing ai ragazzi americani che vengono a studiare qui in Europa. Esperienza stupenda. La adoro perché imparo un sacco di cose. Io sono qui e vi insegno ma voi mi date tantissimo. Poi mi tiene sempre sul pezzo. Quali sono le cose che in genere sottolinei ai ragazzi? Se vogliono lavorare in questo mondo devono sapere come si fa il vino. Occorre poi sempre usare la creatività e il mondo del vino, certo, aiuta perché è edonistico e romantico. Poi c’è il cambiamento climatico e tutto ciò che comporta. Infine, le relazioni. Vere e non per finta. Avere buone relazioni ed essere delle belle persone è fondamentale. Parlare di edonismo e creatività nel vino è facile per un peperino come Silvia. Più complicato deve essere il rapporto con il papà che da medico dunque scienziato nonché meteorologo è molto più legato ai processi, alla tecnica, ai dati. Ma nelle scelte non si può che andare a braccetto. Tecnica e testa unita a cuore e passione. Il Pinot lo abbiamo deciso insieme. Dopo una consultazione lunga nel senso di cosa si fa. L’alternativa era continuare come il nonno, Cabernet, Merlot e Syrah. Ci sembrava però un pò complicato e difficile emergere con un prodotto del genere. Si faceva e si fa per casa. Va tutto bene. Se un anno non è perfetto va bene. Il Pinot ci sembrava più centrato. Il Pinot Nero nel Mugello. E già qualcuno deve sapere dove sia il Mugello. Mi è capitata una degustazione a Gorizia con italiani che dicevano: si viene spesso dalle vostre parti a Montalcino. Impossibili comparare il Pinot Nero del Mugello con quello dell’Alto Adige. La toscanità qui viene fuori rendendolo più corposo, meno raffinato e al tempo stesso più vero. Il terreno, ricco di argilla, contribuisce alla colorazione e compattezza realizzando una sorta di Pinot Nero sangiovesizzato.
Il Pinot è l’amore e odio di tutti gli enologi. L’ispirazione di produrre qualcosa con rese bassissime, complicato come vitigno, delicato. Cosa porti della tua esperienza in azienda? E cosa tu porti agli studenti? Le lezioni spaziano tanto. Cerco sempre di raccontare la mia storia parlando da come abbiamo fatto le nostre scelte. Le etichette, il vino, il logo, ecc.
Con mio papà ci siamo confrontati su tutto. Davvero tutto.
Spiego come si parte da zero arrivando a costruire qualcosa. Gli riporto le relazioni con gli agenti, gli importatori. “Dite la verità” gli dico sempre. Così le relazioni si rafforzano. Avere serietà che è la prima carta da spendere.
Porto sempre con me le loro opinioni. Come vedono le novità, la intelligenza artificiale, ecc. mi tornano indietro tante cose. Quanto la tua attività di insegnante ti blocca e quanto ti stimola? Mi stimola. Non mi limita perché mi lascia del tempo per potermi dedicare a questo. Con il concetto delle degustazioni mi appago perché gli ospiti apprezzano il vino, l’ambiente, l’ospitalità. Facevo anche consulenze per altre aziende ma ho stoppato tutto per dedicarmi a questo e a mio figlio che ha un anno e mezzo. Lui è appassionato di trattori e io glielo ho bello e detto: appena hai l’età per andare sul trattore….uno due tre via! Silvia sorride e ride sempre. È solare. Prende la vita con leggerezza. Anche negli sbagli. Ehhh tantissimi sono gli sbagli che ho fatto. Si sbaglia in continuazione. I primi tempi la vendemmia, le soluzioni, gli affinamenti, le tempistiche. Siamo una azienda familiare e quando si deve far qualcosa occorre far la conta di chi c’è. Meno male che si sbaglia. Nessuno nasce imparato. Cosa cambieresti con la bacchetta magica? Più spazio in cantina perché non è mai abbastanza. Vinifichiamo tutto qui. Imbottigliamo qui In tutto questo, c’è una figura che aleggia rimanendo dietro le quinte. Come un ghost writer. Un consigliere che non appare. Eppure presente. È mamma Elena. Una donna che media creando il collante senza mai tirarsi indietro. È una donna che non ha paura di nulla. Qualsiasi cosa, la fa senza problemi. Ci porta il sorriso. Ci da una mano. Due i vini prodotti da Bacco del Monte: Terra di Ponente, affinato in acciaio; Monte Primo in botte. Abbiamo cominciato con il Monte Primo e affinamento in legno. Poche bottiglie. Poi ci siamo visti e si è detto: che si fa quest’anno? La scelta era nel fare un superiore o un acciaio. Dato che le vigne sono ancora giovani abbiamo detto “facciamo uno vino sotto non sopra”. Nel 2022 faremo qualcosa su. Mi piacerebbe fare un pò più di bianco perché lo Chardonnay è piaciuto molto. Aldilà delle varie prove che ci piace fare, così mia sembra sia più che sufficiente per le forze e le dimensioni che abbiamo. Non vogliamo correre troppo. Ho già recensito il Terra di Ponente sul mio canale Instagram @ivan_1969. Un vino che davvero può essere identificato con un Pinot Nero sangiovesizzato. Interessantissimo. Non ti sei data una progettualità per il futuro? Se devo sognare si ma se devo rimanere con i piedi per terra, dobbiamo vedere. Silvia Bacci. Mamma. Vignaiola. Professoressa.
Pur provenendo da una famiglia di medici, l’analisi e la precisione, non è in lei. Pazzia, visione, passione e tanto buon umore si. Questo si.
Questo fa di Silvia una persona speciale che quando incontri, non puoi che arricchirti. Trasmette tutto il suo buon umore, la sua voglia di fare, la sua dinamicità, l’amore per la famiglia e i suoi luoghi.
Ogni luogo che è casa diventa speciale. Succede spesso anzi, quasi sempre. Non c’è nulla più speciale della propria casa. Ma qui è diverso. Qui c’è una famiglia che vive insieme. Una famiglia che ha costruito una casa nelle terre del Mugello. L’orto, la vigna. Il vino come un semplice prodotto della terra.
Per rompere questo idillio di tranquillità serviva un pò di sana follia alla quale ha pensato Silvia.
Non ha rotto nulla in realtà. Perché quando una famiglia è tale, si stringe attorno ad una idea, ad una prospettiva diversa.
Bacco del Monte e il suo Pinot Nero (oltre allo Chardonnay che era di nonno Sergio e che piace tanto a Silvia) è tutto questo ma anche di più.
Come dico sempre, solo conoscendole le persone possiamo ricevere il dono di un pezzo della loro storia.
Grazie Silvia per questo dono.     Ivan Vellucci Mi trovi su Instagram come @ivan_1969      
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15 Dicembre, 2023

Vin Viandante, il sogno e l'amicizia

La vita è un viaggio….non importa quale sia la destinazione. Come non ricordare Saetta McQueen e Cricchetto. Cars. Era il 2006 (e solo a fare i conti di quanti anni fa erano, mi sento male). Senza lasciarsi vincere dalla malinconia e ancor di più dalla senilità incombente, quella frase mi è ”rimbombata” in testa parlando con Gino e Cesare. Rim bomb ba ta. Avete mai fatto caso a quanto sia onomatopeica questa parola? Rim bom ba ta. Spettacolo. Divago sempre. Parlare di viaggio in ambito enoico non è poi così campato in aria. Si va anche in vacanza per visitare zone meravigliose vocate al vino con la speranza di conoscere aziende, cantine e soprattutto vini. C’è un mondo dietro il turismo del vino. Allora Gino e Cesare sono due organizzatori di viaggi? Non proprio.
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12 Dicembre, 2023

Sparkle 2024: un mondo di bolle

Ricordo di aver letto un articolo scientifico tempo fa che indicava in 1 milione il numero di bolle contenuto in un bicchiere e 49, sempre milioni, in una bottiglia. Dubbi a parte circa la tipologia di bolle derivante dal metodo di spumantizzazione e del rapporto 49:1, sono comunque un numero considerevole. Se dunque ci si trovasse in una sala con oltre 200 etichette di meravigliose bollicine italiane, il numero di bolle presenti sarebbe spaventoso! Fantasia? No, realtà. È quanto accaduto il 2 dicembre scorso nelle sale dell’hotel Parco dei Principi di Roma dove la rivista Cucina&Vini ha presentato la guida Sparkle 2024: l’eccellenza delle bollicine italiane. Ho trovato espressioni indubbiamente interessanti a conferma di quanto le bollicine si stiano affermando ma anche crescendo in quantità e qualità. Accanto ai nomi di produttori blasonati e vitigni affermati si fanno strada realtà tutte da valorizzare e scoprire. La guida Sparkle 2024 ne è l’essenza fornendo un utile orientamento per scoprire il meglio della nostra produzione su tutto il territorio nazionale. Nel mio blog Instagram e storie delle cantine e delle etichette degustate. L’invito che faccio è quello di bere responsabilmente, con gusto, scegliendo anche fuori dagli schemi e non fermarsi a contare le bollicine!   Ivan Vellucci Mi trovi su Instagram : @ivan_1969
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