Suggestioni di Vino

Suggestioni di Vino è la rubrica che racconta le persone del vino. Della loro storia, dell’amore, della passione che inoculano nel vino. Perché il vino è materia viva e le persone ne sono il nutrimento.

Le incursioni enoiche di Ivan Vellucci, ingegnere e manager per dovere, ma soprattutto Sommelier raccontano con passione e trasporto, territori e produttori d’eccezione.
Ivan ci porta a conoscere realtà prima di tutto umane, dove il sorriso e l’ospitalità dei vignaioli sono lo specchio dei vini che producono. La rubrica Suggestioni di Vino propone ogni settimana  suggestive esplorazioni e scoperte enologiche, narrate con trasporto e partecipazione. Al lettore parrà di accompagnare Ivan in queste visite speciali e sarà stimolato a fare lo stesso: vivere il mondo del vino come un bambino, con lo stupore negli occhi e la magia nel bicchiere.

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24 Maggio, 2024

Castello di Razzano. Il fascino nel Monferrato

La Gioconda di Leonardo è custodita al Louvre di Parigi. È in una grandissima sala, protetta dietro una spessa teca di vetro. Per vederla occorre fare la fila. Piccolo è il quadro, grande la ressa.  Un quadro meraviglioso, un capolavoro senza tempo. Il sorriso di Monna Lisa è enigmatico (avete mai provato a dividere in due il quadro e ad osservare solo il lato destro o sinistro?). Lo sguardo ti segue da qualunque angolazione guardi il dipinto. I colori non sono vivi ma attraggono. Un quadro nel quale Leonardo ha posto attenzione maniacale. Insomma, una opera che merita senz’altro di essere vista e studiata. Eppure, una visita al Louvre non può e non deve essere rivolta solo a questa opera. Ve ne sono di stupende, a partire da quello posto nella medesima sala: Le nozze di Cana di Paolo Caliari detto il Veronese. Quando si parla di Piemonte del vino, si parla di Langhe, meraviglioso e unico territorio con sua Maestà il Barolo a dominare la scena. Un territorio così esclusivo che rischia di mettere in ombra le altre perle della regione. Come ad esempio il Monferrato, un incredibile territorio incastonato nelle province di Asti ed Alessandria, dal nord del Pò fino quasi a ridosso dell’Appennino ligure.  Dolci colline, vigneti, borghi, castelli che, al pari delle Langhe, sono Patrimonio dell’Unesco. Alfiano Natta è un piccolo (poco meno di 700 abitanti) paese dell’Monferrato Casalese. Ancorché faccia parte della provincia di Alessandria è più vicino ad Asti. Siamo nell’Alto Monferrato dove Grignolino, Barbera, Dolcetto, Arneis, Ruchè, Freisa, Bonarda, Cortese sono solo alcuni dei vini che si producono. Un aereale molto vasto che gode di 4 DOCG (Barbera d’Asti, Ruchè di Castagnole Monferrato, Nizza, Terre d’Alfieri) e 9 DOC. La Barbera è trainante per tutti gli altri vini di queste zone. Un vitigno e un vino che caratterizza il Piemonte ancor prima del Nebbiolo. Il vino della gente, fresco e versatile.  Qui si respira il vero Piemonte che fonde l’aristocrazia con il lavoro dei contadini, l’austerità Sabauda dei militari con la voglia delle persone del luogo, mai esuberante, di godersi la vita. Il vino al centro di una cultura fondata sul connubio cibo-vino. È il vero Piemonte, non artefatto dalla necessità di mutarsi per piacere a qualcuno. Un pò chiuso tra le colline e fuori, ancora per poco, dalle rotte dei turisti e degli eno turisti. Ernesto Olearo, agli inizi del secolo scorso, investe nelle terre e nella cantina per produrre vino. Piccole dimensioni, quasi ad uso familiare. Poco vino prodotto nella Tenuta Cà di Corte ovvero Casa Vinicola Olearo. Con Ernesto e la moglie Clementina Razzano, inizia l’avventura enoica di una famiglia. La nostra è una azienda familiare alla quarta generazione di produttori di vino. Adesso siamo due fratelli. Io mi occupo più della parte amministrativa e ospitalità. Federico della vinificazione e della produzione in quanto enologo. Incontro Riccardo Olearo che con suo fratello Federico, dal 2006 costituiscono la quarta generazione degli Olearo.  Dopo Ernesto arriva Eugenio a fare crescere l’azienda.  Mio nonno era un grande commerciante che comprava partite di uva e vino da tutta italia vendendoli sfusi o in damigiane. Nonno Genio. Un diminutivo certo ma anche un appellativo. Negli anni del boom economico non sta fermo. È lungimirante. Vede lontano. Sa che quello è un momento di grande espansione. Occorre solo capire dove andare senza aver paura dei soldi. Tanto ci sono le banche. Un giorno andò in banca. Non aveva grandi disponibilità economiche. Va dal direttore e gli chiede: di quanto è il conto oggi? Siamo (sparo una cifra a caso) ad un miliardo e mezzo in passivo. Lui rispose: Allora abbiamo troppi soldi. Dobbiamo spenderli. Era un carro armato. Doveva vedere cisterne piene in cantina. Grandi persone queste. Grandi imprenditori dotati di quel fiuto che una volta trovavi in persone con il sacro fuoco che ardeva dentro. Volevano emergere. Certo, il business andava bene ma gli investimenti, quelli giusti, erano altra cosa. Riuscire a vedere l’evoluzione che verrà, è per pochi. Eletti, dotati, scaltri, intraprendenti. Ce ne fossero ancora oggi. Poche volte capita che ad un grande padre succeda un grande figlio. Forse gli Olearo sono fortunati o bravi nel trasmettere il dna giusto. Fatto sta che ad Eugenio succede Augusto che da enologo modifica completamente (e ci vuole coraggio con un padre come Eugenio!) la filosofia aziendale iniziando a produrre, in proprio, il vino. Acquisisce nuove terre piantando nuovi vigneti fino a raggiungere gli attuali 30 ettari. Da commercianti a produttori. Un passo non proprio breve e facile ma utile per costituire l’azienda attuale Castello di Razzano. Nel 2006 entriamo in azienda io e mio fratello portando avanti la filosofia di papà attualizzandola. Oltre alla parte di cantina infatti abbiamo aggiunto la parte di ospitalità. La cantina è suddivisa in tre diverse Tenute. Quella principale, il Castello di Razzano, è stata adibita a ospitalità con 13 camere e ristorazione. Oltre alla cantina dove facciamo l’invecchiamento dei vini. La nostra rimane una piccola attività familiare e non puntiamo ad ingrandirci tanto. Si cerca di curare sempre più il prodotto e la sua qualità. Non vogliamo ampliare vigneti e produzione. Il nostro mercato è, per scelta, a clienti privati. Cerchiamo di andare a dare il nostro vino direttamente a cliente finale. Produciamo vino e olio extra vergine. Questo è nato un pò per follia e passione. Alla fine degli anni 90 papà ha piantato gli olivi e oggi abbiamo circa 1200 piante in produzione, 300 che entreranno in produzione nei prossimi anni. Abbiamo installato un frantoio in azienda. Facciamo tutto internamente noi.   Mi sa che pure con Riccardo e Federico gli Olearo sono riusciti a trasmettere il dna giusto…. Al Castello di Razzano si respira un’aria aristocratica. Un Castello, una tenuta di charme del 1600 acquistata dal Genio nel 1969 dalla famiglia Caligaris.  La tenuta è una casa forte con una torre. Mio nonno aveva acquistato la tenuta dall’avvocato Valentino Caligaris, avvocato della Repubblica Italiana. Una famiglia molto importante. Era la tenuta di campagna della famiglia e veniva usata da loro in estate. Fino alla Seconda Guerra Mondiale quando la famiglia si rifugiò qui per evitare le rappresaglie del Duce che aveva chiesto a Valentino Caligaris di occuparsi della Repubblica di Salò. Altre due tenute costituiscono l’azienda. Cà di Corte, quella di nonno Ernesto, dove si vinifica; Campasso per stoccaggio e affinamento delle bollicine metodo classico. Tutte nel comune di Alfiano Natta con i vigneti intorno. Riccardo e Federico contribuiscono ad un ulteriore, saggio, passo per l’azienda: arrivare a vendere quasi il 70% delle 100.000 bottiglie prodotte, direttamente in cantina.  Papà lavorava con distributori e vendita al dettaglio. Noi abbiamo stravolto il concetto portando il consumatore in azienda. Degustazioni e visite in cantina così che di ogni bottiglia possa esserne narrata la storia.  Qui in effetti si respira la storia del nostro paese e di una famiglia. Non è un racconto però. Non c’è un disco che parla o una persona che recita la sua poesia, fa il suo compitino. Qui c’è una famiglia che si racconta. Ci mette non solo la faccia ma anche la propria anima.  La nostra è una famiglia e il rapporto con il cliente è quasi a livello familiare. C’è un rapporto umano. Una scelta ponderata.  L’ospitalità qui è sacra. Il vino, il cibo, i luoghi. Dietro ogni cosa, dietro una etichetta, ci sono delle persone. Una identità,  una storia. Quello che c’è qui, c’è per passione e amore. Ci siamo nati. Ci viviamo. Vogliamo continuare a stare qui. I miei genitori non ci hanno mai ne chiesto ne imposto di rimanere in azienda. È stato naturale. Hanno visto in noi una passione che c’era già da bambini. A quattro anni andavo insieme ai cantinieri ad imbottigliare. Per me questo mondo è quello che voglio fare. Non immagino di poter fare altro.  Non c’è solo un enologo qui. Ce ne sono due: papà Augusto e Federico. Non so dire se sia una fortuna o una sfortuna (per le eventuali liti!) ma a giudicare dai vini, è una fortuna. Il confronto serve!  Tante etichette per andare incontro alle varie esigenze del mercato. Non può mancare la Barbera nelle versioni Barbera d’Asti e Barbera d’Asti Superiore. La Barbera è quella che vogliono i nostri clienti. Un gusto che incontra quelli di tanti. È in cinque tipologie proprio per andare ad accontentare gusti diversi. Acciaio, botte di rovere da venti ettolitri, affinamento in barrique di diversa tostatura e passaggio con altre tre versioni.  Nella prima versione, La Leona, è la Barbera che più Barbera non si può. Classicamente fresca, fruttata, di pronta beva. Ovviamente vinificata in acciaio. Quattro le versioni Superiore. Campasso (riposa 3 anni in botti di rovere da 20 ettolitri). Mantiene la freschezza della Barbera con un pizzico di complessità e rotondità in più. I sentori infatti parlano di una Barbera pronta e immediata: una frutta non ancora matura, una intensa parte floreale che si esalta per il meraviglioso bouquet di fiori rossi freschi. Il passaggio in botte ha riesco evidenti ma non eccessive le spezie e le tostature: tabacco e cacao si sentono senza stressare. Così come la vaniglia, il pepe e la cannella. Infine la nota di goudron. Ne deriva un naso interessante senza esser particolarmente complesso.
Il sorso è caldo per via dei 15 gradi. La meraviglia sono i tannini non aggressivi ancorché vivi e presenti e tali da rendere il vino determinato e fresco. Un perfetto bilanciamento per una chiusura di bocca anch’essa perfetta. È davvero meraviglioso come chiude la bocca e come la persistenza, non particolarmente lunga renda questo vino decisamente bevibile. Il retrogusto piacevolmente fruttato, ma di frutta fresca nella quale la vaniglia viene fuori insieme al sapore che mi ricorda l’odore di goudron, fanno di questo vino una vera, piacevole, scoperta (ho assaggiato la versione 2020). Beneficio. L’uso di barrique a diversa tostatura e passaggio consentono l’ingresso, non aggressivo e non invasivo, di spezie e note fruttate più mature. 15 mesi vanno bene. Eugenea ha sempre 15 mesi di barrique ma, in questo caso, tostature, spezie e rotondità, sono più evidenti.  Valentino Caligaris infine è il vino con il maggior corpo e la maggior presenza di spezie. Le barrique nuove qui fanno il loro egregio lavoro per una alta espressione della Barbera. La frutta al naso è matura. Nera e matura. Ciliegia e mora spiccano insieme ad una nota erbacea che impreziosisce il naso. Sembra di essere in un rovo di more! Parecchie le note speziate e di tostature. Spezie di cardamomo, vaniglia, noce moscata, pepe, liquirizia. Le tostature del tabacco, del cacao, del pellame. Roteando il bicchiere è come se quel cespuglio fosse stato reciso per sigillarlo nella ceralacca di un sacchetto di gomma. Siamo ad una bella complessità con il plus dell’etereo.
Il sorso non si può che definirlo meraviglioso, ricco, pieno. Una Barbera perfettamente bilanciata che pur mantenendo la freschezza ammalia per morbidezza e avvolgenza così che la bocca rimane in un vero stato di grazia. C’è una sorta di marmellata di visciole che riempie e aggrazia pur essendo decisa. I tannini sono eleganti tanto da danzare silenziosi in bocca. Uno dei migliori Barbera io abbia mai bevuto che vorrei bere ancora tra qualche anno per capirne l’evoluzione (ho assaggiato il 2017) Due le interpretazioni di Nebbiolo. Serra del bosco, Monferrato Nebbiolo DOC. Solo acciaio per un vino fresco ed equilibrato ancorché quasi vegetale sul finale.  Nero di Razzano, il Monferrato Nebbiolo Superiore DOC. Tre anni di barrique per un vino decisamente interessante. Uno di quei vini che si ricordano. Devo dire che difficilmente si trovano vini da Nebbiolo che escono fuori dal canone tradizionale che sa di austerità. Austero come solo un Barolo, il Re del Piemonte (forse d’Italia) può essere. In questo (versione 2020), ho trovato un vino leggiadro ancorché corposo dotato di pienezza e delizia. Mi ha entusiasmato già dal colore granata e dai sentori a matrice floreale e di frutta secca (datteri e fichi). Il resto della frutta appare polposa, ricca, piena. La cannella e la vaniglia sono insoliti per un Nebbiolo. Qui invece ammorbidiscono, ammaliano, stuzzicano. Così come la cioccolata, intensa, morbida e la liquirizia. Affascinante il goudron che è il filrouge dei vini rossi del Castello.
Anche in bocca è evidente la nota di continuità con gli altri vini. Tannini levigati, eleganti morbidi. I 15 gradi nona i fanno sentire per il grado alcolico quanto per la morbidezza. Il bilanciamento si muove protendendo verso le morbidezze Molto lunga la persistenza e la chiusura di bocca, impreziosita dalla frutta che si unisce a vaniglia e cannella, chiude in una sorta di stato di grazia. Avvolgente, ammaliante quasi civettuolo tanto che potrei berlo anche con un dolce. Da ribere tra qualche anno per vedere quanto si è ammorbidito ancora (ho assaggiato il 2020). Poi il Ruchè DOCG Ruckè, bellissima interpretazione di un vino che amo. Pieno, ricco, unico. Mi ha intrigato. Mi ha stupito. Senza se e senza ma. Abbiamo del Merlot in purezza e un taglio bordolese. Di famiglia siamo molto appassionati di merlot e taglio bordolese. Li abbiamo fatti più per noi anche se poi sono molto richieste. Il taglio bordolese è il Pian dei Tigli (blend di Cabernet, Croatina e Merlot) con 5 anni di affinamento in barrique; Cuntrà, Merlot 100% con tre anni di barrique.    Da sette otto anni produciamo spumante metodo classico. Era molto richiesto. Continuano a chiamarlo prosecco gli stranieri. È una battaglia persa. Due metodo classico da Pinot Nero in purezza con 12 mesi sui lieviti: Lunadoro rosè, rosato; Lunadoro blanc de noir. Poi Chardonnay e Pinot Nero con 36 mesi sui lievi per Privilegio. Infine i bianchi. Sanspirit, Sauvignon blanc affinato in acciaio. Semplice e deciso.  Costa del Sole, Chardonnay. Preciso, uno Chardonnay che fa il suo mestiere. Desiderio, la versione francese del Sauvignon realizzato con affinamento in legno di acacia per 8 mesi. Sa di miele di acacia! Non poteva mancare un rosato, Bellaria, da Pinot Nero. Semplice, razionale, giusto. Colpisce il vedere così tanti vini con etichette tutte diverse. Non ce ne è una uguale! Le etichette sono diverse una dall’altra. Fa parte un pò della vecchia generazione. Mio papà ha fatto le etichette che sono dei quadri di un artista locale. Giancarlo Ferraris. Ha disegnato etichette anche per altri produttori. È un discorso che stiamo affrontando. Sotto un punto di vista commerciale sappiamo che è una strategia sbagliata.  Un artista del territorio che offre la sua arte alle etichette del vino. Per una azienda che vende gran parte delle propri bottiglie ai visitatori, ci sta. Ci starebbe meno per la distribuzione. Riccardo e Federico lo sanno. Così come sanno che sarà dura far retrocedere papà Augusto. Ma non dubito che è solo questione di tempo. Nemmeno poi così tanto.  In fondo, siamo alla quarta generazione e di cose ne sono cambiate in questi oltre cento anni di vita dell’azienda. Cambierà pure questa. Con il giusto tempo piemontese. La giusta calma piemontese. La giusta austerità piemontese.  Nonno Genio avrebbe voluto vedere i numeri, le quantità, il dinamismo. Forse andava bene per quei tempi, non per oggi. Chissà, forse vedendo questa realtà come è diventata oggi, storcerebbe il naso per poi però meravigliarsi subito dopo per il fascino che il Castello di Razzano oggi ha acquisito. Che prima non aveva.  Fascino in cambio di volume. La scelta giusta per contribuire allo sviluppo di uno straordinario territorio. La scelta che fa del Castello di Razzano un punto di riferimento per il Monferrato.   Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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17 Maggio, 2024

Terre Antiche. Il Cesanese si distingue

Eravamo quattro amici al bar
Che volevano cambiare il mondo
Destinati a qualche cosa in più
Che a una donna ed un impiego in banca
Si parlava con profondità 
Di anarchia e di libertà
Tra un bicchier di coca ed un caffè
Tiravi fuori i tuoi perché e proponevi i tuoi farò Nella canzone di Gino Paoli, gli amici erano quattro e bevevano coca e caffè. Qui di amici ne abbiamo tre. Non so se sono al bar ma di certo non bevono coca e caffè, ma vino. Un vino che ha radici nel passato, probabilmente nell’antica Roma: il Cesanese.  Poco lontano da Roma, il comune di Affile, divenne colonia romana già del 133 a. C. Qui c’erano e ci sono ancora dei boschi che vennero tagliati proprio per far posto alla colonia. Cesanese infatti deriva da Caesae, il luogo dagli alberi tagliati.  Il Cesanese nacque qui e qui, nell’areale che comprende i comuni di Piglio, Acuto, Anagni, Paliano e Serrone si produce il Cesanese del Piglio DOCG. Affile invece è a capo del Cesanese di Affile DOC. Due denominazioni per due biotipo di uve.  In ogni caso il Cesanese è vitigno difficile. Pieno, ruvido e poco domabile ha avuto vicende alterne per poi diventare finalmente protagonista nel Lazio e non solo.  Anche il Marchese Onofrio del Grillo, o meglio Gasperino il carbonaro ne facevano grande uso. Gasperino: “….aspetta ‘n pò prima de fa fagotto dimme ‘na cosa, ma quel vinello che se semo bevuti oggi a tavola, ma che o famo noi?”
Amministratore: “Si Signore, viene dalla vigna del mascherone!”
Gasperino: “Si, e quanto ce ne avemo?”
Amministratore: “Parecchie botti….di quello nuovo, più quello vecchio imbottigliato!”
Gasperino: “ Si indove statto tutte ‘ste botti e ‘ste bottije, oltre a casa tua?
Amministratore: “Giù in cantina!”
Gasperino: “E allora io vado in cantina e tu te ne vai affanculo. Brutto ladro.” Torniamo a noi altrimenti mi perdo. Tonino, Michele, Ambrogio. Il vino lo bevono. Come tutti in queste zone e ci mancherebbe altro. Mica solo il Cesanese. Anche la Passerina che è tipica del frusinate. Lo bevono certo ma non lo producono. Anche perché fanno altro. Tonino ha una azienda che si occupa di materie plastiche; Ambrogio, una azienda di movimento terra; Michele fa il commercialista (anche per le aziende degli amici). La passione per il vino li accomuna e tra un bicchiere e l’altro è Tonino a proporre di costituire una azienda. Ambrogio e Michele si accodano. Pazzi? Visionari? Incoscienti? Romantici? Ah beh questo non lo sapremo mai. È il 2017 quando decidono di acquistare quattro ettari. Non quattro qualsiasi ma quattro ettari con piante di Cesanese vecchie di sessanta anni nella DOCG. L’anzianità delle vigne ma anche la storia di questi territori conduce immediatamente al nome dell’azienda: Terre Antiche. Le vigne sono proprio sulla Strada del Cesanese, a Colle di Grano e Gricciano. La cantina ad Acuto. Tonino è quello dinamico. Una mina vagante. Proviamo. Facciamo. Se propone qualcosa io mi ci accodo. Michele è il preciso dell’azienda. Ambrogio è tutto fare. Se serve qualcosa lui la trova. La follia si sa è una cosa meravigliosa. Specialmente se sana. La sana follia è quella che ti fa fare cose apparentemente insensate ma con un contenuto estremamente intelligente.  Il terzetto sa bene che produrre Cesanese DOCG come tutti gli altri produttori non avrebbe senso. Occorre essere diversi e proporre un prodotto diverso. Anzitutto sano. Non fosse altro perché i primi clienti sono proprio loro. Ecco allora che scelgono di partire in regime biodinamico. Non sapendone molto, si affidano ad una persona che è quasi un guru per il biodinamico nel Lazio (e non solo): Michele Lorenzetti.  La gestione agronomica ed enologica è affidata a lui mentre i lavori in vigna a Gianni. Tuttofare dell’azienda.  La filosofia era un vino naturale. Michele Lorenzetti è l’enologo e agronomo. Ci siamo indirizzati bene. C’è dall’inizio. Dalla prima potatura. Una scelta intelligente. In vigna abbiamo una persona fissa tutto l’anno. La scelta della biodinamica si unisce a quella della vinificazione in anfora. Insolita per Cesanese e Passerina (i due vitigni tipici di queste zone). La necessità comunque di un passaggio in botte per domare il Cesanese comporta una ulteriore scelta di distinzione. Non botti piccole, non rovere. Botti da mille litri in legno di castagno così da non avere grande invasione del legno e quand’anche ci fosse, limitata, che sia di legno locale. La prima vendemmia nel 2019, quattro ettari diventano cinque e Giorgio (con il quale parlo) viene cooptato in azienda per occuparsi della parte marketing e commerciale.  Proprio la prima vendemmia fornisce segnali incoraggianti. Eufonia, uno dei vini rappresentativo dell’azienda conquista alla prima uscita i cinque grappoli Bibenda (2019). Come a dire che se il buongiorno si vede dal mattino, i tre hanno fatto un buon lavoro! L’idea alla base era il Cesanese DOCG. Volevamo fare un cesanese diverso. Siamo in regime biodinamico. Ad impatto zero. Abbiamo anche i pannelli solari sulla cantina. È nata proprio cosi per fare un Cesanese diverso. Un Cesanese classico sarebbe stato un Cesanese tra i tanti. Anche l’affinamento in elementi naturali era per fare un prodotto diverso. Cinque le etichette proposte. La Forma, dal nome della zona ove sono i vigneti, è il bianco da Passerina. Un bianco che grazie alla fermentazione  ’affinamento in anfore di terracotta si configura come una Passerina decisamente unica. Rimane semplice e deciso ma con una persistenza che si allunga decisamente. Insolito.
Insolito anche per un colore al limite del dorato e una limpidezza che va apprezzata cosi come è vista la mancata filtrazione. Sentori vinosi di frutta tropicale, di mandarancio e banana, di pesca bianca e di tanti fiori gialli, di melissa e camomilla. Insolito per quella vena di balsamico che fa capolino. Un insolito che riempie pastosamente il naso. Non so se si può dire pastosità olfattiva, ma è ciò che definisce meglio questo vino.
In bocca mi sa di un vino vero, di quelli di una volta che non avevano artefazioni. Niente lieviti inoculati, niente uso di diserbanti, solo anfora. Insomma ci vuole arte. Qui c’è tutta e la bocca restituisce il singolo chicco di uva. La sensazione è proprio quella di avere in bocca gli acini. Se ne estrae il succo. Se ne sente la compattezza. Se ne inala il retrogusto. Una bella freschezza, secco, non particolarmente caldo, splendidamente sapido. La bocca chiude in maniera eccellente e la voglia è di berlo ancora anche per via di una persistenza non elevata e un bilanciamento perfetto. Facile beva, piacevolmente insolita. Finirei la bottiglia. Rubino, Cesanese del Piglio DOCG. Prende il nome dal colore della prima svinatura. Fermentazione in anfora con un 20% di grappoli interi e affinamento in botte, anfora e acciaio. Ne deriva un interessante Cesanese di medio corpo. Elegante direi grazie a note essenziali di frutta e fiori. Si beve bene ma sempre accompagnato come vuole il Cesanese. Poderoso Eufonia, Cesanese del Piglio DOCG. Fermentazione in anfora con le bucce e affinamento sempre in anfora. Nessuna chiarifica senza che il colore ne risenta. Il nome pare derivi dalla esclamazione di una persona che durante la prima degustazione disse che il gusto ricordava il rumore della vigna. In effetti mi da questa sensazione. Sentori non particolarmente complessi ma decisi e precisi: frutta ancora non matura (arancia sanguinella, melograno, fragoline di bosco); erbacei, fiori rossi non sbocciati. Il sorso poderoso ed equilibrato. Bello fresco, non particolarmente caldo e una sapidità che piano piano arriva. Tannino deciso e importante. Come un Cesanese vuole. Bellissimo e riuscitissimo bilanciamento. Persistenza non particolarmente lunga con finale che si arricchisce con un tocco di vegetale tale da renderlo particolarissimo. Insomma un vino che si ricorda e che merita un giusto accompagnamento con una pasta al ragù o una bistecca alla brace. Un vino vero, bello, non artefatto. Monumento, Cesanese del Piglio DOCG, a voler essere l’opera monumentale dell’azienda. È il cru che deriva dalla vigna Colle di Grano. Fermentazione in acciaio e affinamento in botte di castagno per 10 mesi ai quali fanno seguito 12 in bottiglia. Un vino elegante che aumenta complessità rispetto ai precedenti. Tannino bello deciso. Un vino che può continuare ad affinare in bottiglia per donare sensazioni anche nel futuro. Di prospettiva. Mi è piaciuto per le note che sanno di profondità. C’è alloro e balsamico. C’è foglia di pomodoro e cioccolato. C’è tabacco Kentucky e castagno (quasi marron glacé). Mi è piaciuto per la ricca trama tannica presente e rilevante con la persistenza quasi lunga. La sua sapidità, il buon bilanciamento e il corpo, non opulento, non stressante. Il finale con la assoluta non banalità che ricorda le ciliegie sotto spirito di nonna con quel lievissimo, impercettibile ma preziosissimo amarognolo. Anche questo, un vino che si ricorda! Infine, l’ultimo arrivato, il rosato da Cesanese R(osè). Vendemmi tardiva e vinificato in anfore di terracotta. Decisamente insolito e unico nel suo genere. Uno di quei vini che accompagnano le estati esaltandole per la sua freschezza e semplicità ma anche per la capacità di accompagnare tanti piatti. Convincente.  Io mi occupo della parte commerciale e marketing. Lavoro nell’altra azienda di Tonino. A me piace questo mondo. Le vinificazioni sono fatte tutte con contenitori del territorio. Anfore di terracotta non smaltate, botti non in rovere perché non ci appartiene. Castagno da 1000 litri perché del territorio. Vino avvicinato al territorio. Ambrogio si occupa della parte agricola. Con l’azienda di movimento terra ha i trattori dunque per la manutenzione della vigna se ne occupa lui. Michele della parte amministrativa e commerciale. Tonino commerciale. Eventi, agenti, distributori. Quasi tutti i giorni sono presenti. 15 mila le bottiglie prodotte con un obiettivo di massimo 20 mila. Il distretto è piccolo e non si può ne si deve crescere troppo. Oltretutto la scelta di fare un vino il più naturale possibile fa si che ci voglia tempo e dedizione. L’aumento dei numeri vorrebbe dire dover rinunciare al loro primo lavoro cosa questa al momento, impossibile. Bello che rimanga una passione e un business che deve crescere.  È una passione. Un business fino ad una certa perché se lo dovessimo fare per le entrate no. Io essendo poco che sono qui, da luglio, sono il jolly. Mi sento parte del progetto. Mi coinvolgono in tutto e mi fanno divertire. Quello che c’è ed ho visto, funziona tutto. Il vino piace e i feedback sono positivi. In cantina tutto funziona. C’è Gianni che fa tutto. Sulla parte commerciale stiamo crescendo. Non vogliamo crescere troppo. Facciamo un vino che beviamo tutti i giorni. Visto che nella canzone di Gino Paoli, ne rimane solo uno, l’augurio che mi faccio e che faccio a tutta la banda di Terre Antiche, è di continuare a stare insieme. Per business e per diletto ma, sopratutto, per non privarci dei loro vini poiché danno del Cesanese una interpretazione che sarebbe certamente piaciuta a Gasperino il carbonaro. Oltre che a me. Ricciotto: “ Namo!”
Gasperino: “ Ma che fai Aho!? e lassame perde, porca mignotta, devo finì er Genzanese del ’91…”
Ricciotto: “ Namo!”
Gasperino: “ Ma chi sei Aho! Io so’ il Marchese, il padrone de tutte e botti! me le scolo! Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969  
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10 Maggio, 2024

Tenuta Cavalier Pepe. Milena, la grazia, la forza

Conoscete la differenza tra slavina e valanga?
In realtà non c’è perché, tecnicamente parlando, sono la stessa cosa. Si tratta sempre di una massa di neve o ghiaccio che si distacca e precipita fino a valle. Aldilà infatti se la massa sia grande o piccola, se si ingrossa o meno durante la caduta, il risultato è sempre abbastanza disastroso a causa della velocità con la quale si muove la massa e il dislivello che affronta.
Quando incontro Milena Pepe dell’azienda Tenuta Cavalier Pepe, ho l’impressione, già dopo poche parole, di essere dinanzi ad una valanga che ancora non ha terminato la sua corsa. Milena può sembrare, all’apparenza, una donna fragile. La pelle bianca, i capelli biondi, il viso sorridente, la sua parlata con tipico accento francese mista al dialetto irpino. Una fisionomia che oltre a farla sembrare fragile non la connotano propriamente come una donna irpina. Però da quasi venti anni lei vive qui, a Luogosano, un piccolo paesino con poco più di 1100 anime in quel meraviglioso angolo di Irpinia patria di grandi vitigni e grandi vini (Greco, Fiano, Aglianico). Raccontare la vita di Milena sarebbe forse banale. Lei è donna di marketing del vino formata in Belgio, Olanda e Francia. Sa come si produce il vino e soprattutto sa come si vende. Sa coccolare i clienti e farsi amare da loro. Sa l’importanza del consociativismo e di quanto sia importante valorizzare un territorio. Sa come muoversi sui mercati internazionali. Sa quanto sia importante far conoscere il proprio brand. Lei sa e soprattutto fa. Fa tanto. La trovi ovunque ci sia una fiera nazionale o internazionale del vino. Tanti articoli parlano di lei e della sua storia. Tanti blogger parlano dei suoi vini.
Ecco, in questo articolo ho scelto di non parlare di questo ma di una donna che da sola sta affrontando qualcosa di grande. Forse di anche più grande di lei. Ma lo fa con una tale grazia e una sorprendente forza vitale, difficilmente trovabile in una persona, che tutto sembra facile. Apparentemente. Milena arriva in Irpina nel 2005. Come una valanga. Dopo aver finito i suoi studi. C’è bisogno di una di famiglia che si prenda cura dell’azienda. Lei è la maggiore e tocca a lei.
23 ettari di vigna acquistati dal papà, il Cavaliere del Lavoro Angelo Pepe, per investire nella sua terra di origine. Lui che dall’Irpinia se ne era andato trenta anni prima alla volta del Belgio dove aveva aperto ristoranti crescendo piano piano come imprenditore. Sembra una storia semplice. Cosa c’è di più bello che ricevere le “chiavi” di una impresa e poter mettere a frutto ciò per il quale si è studiato? Quando sono arrivata in Irpinia ho detto: e mò chi mi viene a trovare qui? Ho dovuto mentalmente capire come dovevamo fare. Ero associata a Slow Food in Francia e sono diventata socio fondatore dello Slow Food in Irpinia. Poi associata a Donne del vino. Quindi al locale Consorzio. Infine a FIVI. Molto associazionismo per farmi conoscere sul territorio. Essere presente. Il Movimento Turismo del Vino con Cantine aperte e con gli eventi successivi ha creato tanto. Io figlia di ristoratore so come si accoglie una persona ma il decalogo che mi hanno fornito ha aiutato. Tenuta Cavaliere Pepe da sola non ce la può fare. Serve questo. Tanta consapevolezza per una azienda che oggi è arrivata a produrre oltre 500.000 bottiglie in circa 70 ettari. Le esperienze in Francia, specialmente quella da Chapoutier, grande produttore ma anche grande marketer, sono state di grande insegnamento. Forma mentis e praticità. Studio e spirito di abnegazione. Tanta volontà. Tanta ce ne vuole davvero. Lei che non si spaventa di lavorare in un mondo di maschi così come arrivare in un paese così piccolo. Le ossa se l’è già fatte in Francia, al BTS in mezzo ai vigneti, in un paesino di 200 abitanti, nella profonda umidità della Borgogna, in un ambiente molto maschile. Non me ne sono accorta sul momento. Venivo dal Belgio, Bruxelles, un collegio cattolico, nobili. Mi chiamavano Barbie. Un ambiente maschile. Così mi sono concentrata sullo studio. Non avevo la tv. Ho studiato tanto tanto tanto. La forza delle idee di una donna che si scontra con l’isolamento e la difficoltà del luogo. Essere donna già non aiuta nel mondo del vino. Esserlo in Irpina, ancor meno. Un mondo maschilista da un lato, la difficoltà ambientale dall’altro. Con un padre che ha l’ambizione di crescere. Anno dopo anno quei 23 ettari crescono. Crescono. Crescono. Fino ad arrivare a 70. Crescono gli ettari. Crescono le bottiglie. Crescono gli investimenti. Cresce il lavoro. Per Milena. Che sola è e sola rimane a gestire l’azienda.
Papà Angelo non è presente. Ha i suoi ristoranti da mandare avanti. I fratelli e sorelle di Milena vivono in Belgio e di spostarsi in Italia non ne hanno possibilità. Milena è sola e si sente sola. Ma questo è il suo sogno. La voglia, la perseveranza, la determinazione che dimostra Milena è straordinaria. Dalla scelta dei vini a quella di valorizzazione del territorio e della sua azienda. Nel 2005 sono arrivata sotto vendemmia. Senza serbatoi, senza elettricità. Il primo anno è stata una battaglia. Quasi che nono ci volessero far vinificare. Papà aveva costruito i primi 500 metri quadrati di cantina. Opera mia si chiama cosi perché sono caduta in una delle vasca. Non dentro. Fuori alla fine delle vendemmia. Era una vasca di Aglianico che stava ancora fermentando. Non sapevo neanche cosa fossero le scarpe antinfortunistiche. Forse non ero nemmeno assunta. Il primo passo per poi lavorare su altro. Su ogni piccolo particolare di una azienda che produceva e conferiva ma al tempo stesso voleva diventare grande. Il papà più orientato alle dimensioni. Le vigne. La quantità. Voleva creare un ristorante nella tenuta. Voleva crescere. Milena, in un territorio così vocato per il vino, capiva che si poteva e si può fare altro. Valorizzarlo ad esempio. Valorizzare i vitigni nelle loro espressioni più alte. Contaminazioni. Tradizioni. Valorizzare i prodotti della terra oltre il vino. Per fare questo c’era tanto da fare. Dal creare la rete vendita alle etichette nelle varie lingue, a gestire la comunicazione, ecc ecc ecc ecc. Un progetto dove aveva tanto e tutto da fare. Era bello perché potevo fare tutto. Papà era presente. Solo al telefono purtroppo. Le discussioni tra Angelo e Milena non possono che iniziare come è normale e giusto che sia quando si hanno idee diverse con alla base tanta passione e ardore. Legato alle tradizioni il primo che sceglieva anche le barbatelle; innovativa, internazionale e con idee ben precise Milena. Attento alla quantità e alle dimensioni papà Angelo; focalizzata sulla qualità e sul territorio Milena.
Due filosofie diverse. Due modi diversi di intendere il vino e la gestione aziendale. Un papà istrionico e impulsivo che vorrebbe gestire a distanza con un progetto improntato sulle dimensioni. Milena che sa cosa vuole. Sa come fare bene le cose. Sa quanto e cosa ci vuole. Ha studiato per questo. Ha l’animo e la passione giusta. Due caratteri diversi
Prendon fuoco facilmente
Ma divisi siamo persi
Ci sentiamo quasi niente Così cantavano Mina e Celentano nella bellissima canzone “L’emozione non ha voce”. Quanta verità c’è in queste parole e quanta attinenza c’è nel porle in questa storia.
Nelle parole di Milena c’è tanta volontà e forza. Passione e fatica nel portare avanti l’azienda, la necessità di padre dal quale ricevere, anche una volta ogni tanto, una pacca sulla spalla. Un cenno di approvazione. Una carezza. Non solo più ettari da gestire. A pensarci bene però, per un uomo che si è fatto da solo, che è emigrato per andare in cerca di fortuna rimboccandosi le maniche e lavorando sodo, è proprio questo il modo per dirle quanto è brava e quanto i fidi di lei. Ho avuto la difficoltà di trovare le persone che mi capivano. La grossa parte dei collaboratori è nella vigna perché abbiamo sempre vigneti da piantare. Adesso ho una ottima squadra in cantina e un ottimo enologo, Gennaro Reale, con il quale ci rispettiamo reciprocamente. Con lui può solo migliorare. Ci confrontiamo sempre. Papà interveniva più nel passato, meno oggi. All’inizio c’era un enologo di Taurasi. Poi, per avere un respiro più ampio come il mio, c’era un ragazzo francese che poi non è più potuto venire. L’incremento della produzione necessitava scelte che non sempre papà voleva seguire. Nel tempo ci hanno ascoltato. Milena è sola. Sola nel gestire tutto. Una situazione familiare che la lascia purtroppo sola in Irpinia. A lavorare incessantemente. Con l’azienda cresce e lei sempre sola. Il senso di responsabilità le fa sentire l’azienda sulle spalle. La voglia di far sempre qualcosa di nuovo e per il bene dell’azienda e del territorio. Creare, inventare, sperimentare. Sempre con il suo sorriso. Sempre con la sua inesauribile energia. Ho creato i tour per la cantina e le vigne. I tour sul tartufo, la lavanda, i formaggi. Ho sviluppato tanto. Sono da sola però. I fornitori, i clienti, i giornalisti, i dipendenti vogliono me. Avrei bisogno di riposarmi ogni tanto. È davvero così: tutti vogliono lei. Lo vedi quando la incontri alle fiere come al Vinitaly dove sono riuscito a salutarla a malapena. Accerchiata dalle persone che la abbracciano e vogliono fare un foto con lei come se fosse una diva. Ma in fondo lo è. Lo è per la sua affabilità così come per i vini che produce. Vere creazioni. Veri punti di riferimento non solo per l’Irpinia. Ciò che si ritrova tra le mani è una azienda da 500.000 bottiglie annue che, per il meridione, sono sintomo di grande azienda. Una gamma molto ampia. 4 vitigni autoctoni bianchi, Falanghina, Greco, Fiano, Coda di Volpe. Sua Maestà l’Aglianico per i rossi. Vogliono tutti il vino fresco ma io sono di altra cultura. Con vini impegnati e arrotondati. Ci sono tante denominazione e abbiamo in vigna anche vitigni per blend. Si è deciso di avere vini più morbidi e vini più strutturati come il Taurasi. Per i bianchi volevo le riserve. Le modifiche ai disciplinari per Fiano e Greco riserva li ho voluti io più di sette anni fa quando ero Presidente del Consorzio. Ci è voluto tanto. Ci sono volute parecchie presidenze. Una cultura quella di Milena che miscela sapientemente tradizione e l’innovazione con un occhio attento al mercato. Internazionale. Perché Milena sa che non ci si può ne si deve fermarsi al mercato domestico se si vuole far funzionare una azienda così grande. Ecco che nascono vini variegati pur mantenendoli nello stupendo contesto irpino. I vitigni della storia, i metodi della contaminazione, lo sviluppo della novità. Cominciamo dal Bianco di Bellona da Coda di Volpe. Un vino che nella sua semplicità esprime al meglio le potenzialità del vitigno. Fresco, sapido, armonioso. Una scoperta.. Poi Lila, la Falanghina DOC. Anch’esso semplice, lineare, pulito. Dotato della freschezza tipica della Falanghina con quel retrogusto di frutta fresca che rimane a pulire la bocca. Nestor, il Greco di Tufo DOCG, corposo e ampio già dal bouquet di frutta matura e fiori per poi ritrovarlo ad avvolgere la bocca.
Refiano è la Falanghina DOCG con la mineralità acquisita dai terreni vulcanici si sposa con la pastosità della frutta tropicale e di quella candita. Un vino che avvolge sinuoso la bocca donando frutti e spezie per arricchire il sorso e il naso.
I bianchi si arricchiscono delle due riserve, Brancato da Fiano e Grancare da Greco di Tufo. Entrambi DOCG ovviamente ed entrambi con un passaggio in barrique. Ne derivano due grandi vini che mantengono meravigliosamente inalterate le caratteristiche dei vitigni aumentando complessità, corpo e persistenza. Un bouquet che si scalda, si matura e diventa ricco di tostature e spezie. Due esperienze divine. Il Brancato meraviglia per la sua nota lievemente vanigliata che si unisce al balsamico e all’erba fresca per dare freschezza e complessità. La noce moscata e la cannella si fondono agli agrumi, ai fiori di camomilla e alla melissa. Il bouquet è complesso e ampio, intenso ed interessante. Un sorso fresco ma manco tanto; caldo ma manco tanto. Grazie alla sapidità raggiunge un perfetto equilibrio. Il retrogusto di nocciola che si unisce agli agrumi ed alla pesca, lo impreziosisce associandolo indelebilmente al territorio. Un vino che risulta versatile come abbinamento ma lo berrei tranquillamente anche senza cibo, in riva al mare o guardando una vigna al tramonto. Stupendo. Ho lasciato per ultimo tra i bianchi il Vigna Santa Vara il cui nome deriva dall’omonima vigna di Falanghina. Un vino che reca in se un metodo di produzione particolare quale la fermentazione in botte per poi affinare sulle fecce sempre in botte. Vi ricorda qualcosa? Ovviamente i sentori non possono che arricchirsi di tostature e spezie così come il sorso non può che ampliarsi allungando la persistenza. Divino. Sei poi i rossi. Tutti dedicati all’Aglianico.
Appio con il suo lungo processo che parte dalla macerazione in anfora per 20 giorni, affinandosi poi in anfora e barrique per 2 anni e ulteriori 2 in bottiglia. Un tempo nemmeno sufficiente per ammorbidire i tannini dell’Aglianico ma certamente utile per donare grande eleganza e forza. Ho avuto il piacere e l’onore di provare la bottiglia n. 1541 di 1910 dell’annata 2017. Appio è uno di quei vini, pochi davvero, che risultano immensi per la loro nobile schiettezza. La vinificazione in anfora e il successivo affinamento sempre in anfora non apporta particolari intensità olfattive ma, meno male, lascia inalterati i sentori naturali di questo meraviglioso vitigno. C’è frutta al naso: ribes e mirtilli, more e ciliegie. Frutta non particolarmente matura a riprova che per domare l’Aglianico ci vuole ancora tempo. Ci sono i fiori rossi insieme ad un non so che di pomodoro. Di quelli che si coltivano in Irpinia.  Appio appare dunque già intenso al naso. Non complesso, intenso, poderoso. Il sorso riempie la bocca e la porta ad un livello superiore. Ampio e avvolgente, fornisce una sensazione di spazialità. mai banale. Tannini presenti, precisi, puntuali quasi domati. Ma non è ancora il tempo. Secco e fresco. Anche sapido. Una bocca che chiude in maniera elegantissima, forse memorabile. La ricordi e la ricordi ancor di più durante una cena. Senti in bocca tutta l’Irpinia, il Taurasi, il sole, la montagna, le valli. Senti la genuinità di qualcosa che non ha subito evoluzioni modificanti mantenendo la sua vera essenza, quella di un vino poderoso ma che sa offrirsi con generosità. Un vino che non va compreso, va scoperto e rispettato. La Loggia del Cavaliere cambia completamente il processo di produzione e affinamento. Fermentazione e macerazione in acciaio poi 24 mesi in barrique e tonneau, 24 mesi in vasca di cemento, 18 mesi in bottiglia. Un vino complesso e ampio. Note di frutta secca come noci e datteri, poi marmellate di prugne e ciliegie. Tanti frutti rossi in potpourri, sottobosco, e ancora frutta, stranamente alpina.  Arriva la vaniglia e la noce moscata insieme al pepe e ad un tocco di ferroso. Infine cioccolato. Tutto mi ricorda la pizza dolce alle noci di mia nonna: una bomba fatta di pasta sfoglia con noci, miele e cioccolato. Un sorso fresco. Una bella struttura. Sinuoso per via dei tannini addomesticati e setosi. Un modo diverso e unico di interpretare l’Aglianico. Non banale e che non va banalizzato. Opera Mia è il Taurasi DOCG. 12 mesi di barrique, 24 mesi in cemento, 12 in bottiglia. Un vino intenso e voluminoso con i tannini presenti e vivi a reclamarne la presenza. Un colore impenetrabile, intenso come la profondità del mare. La voglia di perdersi dentro è totale in una sorta di attrazione fatale. Sentori immediati di frutta e balsamico. Cioccolato e caffè. Meravigliosa maturazione dei frutti che si fonde con il cioccolato. La roteazione del bicchiere offre sensazioni ancor più avvolgenti ancorché sempre scuri. Poi anice stellato, pepe, liquirizia, origano. Tutto trasporta verso l’ignoto. Anche il sorso, che con un avvolgente calore che si avverte solo dopo, prima ti ammalia poi ti trascina. Persistenza lunga per un vino che continua a coinvolgere anche grazie ad un retro olfatto fruttato. Opera Prima, seconda, terza. Da non fermarsi. Santo Stefano Irpinia Campi Taurasini è l’Aglianico con meno struttura. Fermentazione e macerazione in acciaio per poi affinare 12 mesi in barrique prima, 24 in acciaio e 6 in bottiglia poi. In bocca mantiene l’eleganza pur aumentando la forza. Sanserino infine è l’unico rosso che offre all’Aglianico la presenza del Sangiovese (30%) evitando il passaggio in botte. Un vino semplice e spontaneo. Di quelli che servono per accompagnare un piatto di salumi e formaggi in allegria. Non possono ovviamente mancare un rosato e le bollicine.
Il rosato è ovviamente da Aglianico. Vela Vento. Fresco, profumato, aromatico. Un vino che va bevuto a litri al tramonto.
Tre le bollicine.
Or’Osè (blanc de noir) e Oro Spumante (blanc de blancs) sono prodotti con metodo Charmat. Semplice e utili in molte occasioni potendo trovare le differenze tra i due in un interessante gioco di società.
Oro Classico, il blanc de blancs metodo Classico. Cresce la complessità per delle bollicine super interessanti. Tanti ettari, tante tipologie di vini, tanto lavoro. Sia in vigna, dove si fa tutto in biologico e a mano, sia in cantina dove le lavorazioni si moltiplicano sia fuori e dentro l’azienda per far conoscere i vini. Io non mi vedo concorrente di altre aziende qui. Magari le altre si. Mi vedo diversa, più piccola, una dimensione che consente prodotto di nicchia. Durante il covid ho creato il sito che non c’era. Le strategie di posizionamento e prezzo. Mi sono interfacciata con la grande distribuzione fino a quel tempo snobbata. Ho sempre ricevuto le persone. Abbiamo creato i gazebo su misura sotto i quali possiamo ospitare fino a 100 persone. Creato la passeggiata. Recuperato il ristorante per le degustazioni. Creato i percorsi riadattando tutto anche durante la vendemmia. Durante il covid ho dovuto creare tutto rispettando le regole. Un delirio. Ho partecipato e vinto dei bandi di gara in Svezia, Norvegia, Canada. Su Air Canada e su American Airlines. Adesso ho trovato una persona in gamba che capisce di enologia, sommelierie, che parla le lingue a vuole vivere in Irpinia. E che vuole lavorare di sabato e domenica. È un problema per molte persone trovare i collaboratori. Ritorna spesso il tema dei collaboratori. Milena la pone in una maniera molto diretta e precisa. Per una azienda con una simile produzione, l’ospitalità soprattutto di clienti stranieri e l’esportazione diventano requisiti fondamentali per sopravvivere. Conoscere le lingue, non è un plus ma una necessità. Essere disponibili a lavorare nel fine settimana, non è ogni tanto ma la regola. Ecco che trovare persone è già complicato di suo, portarle in Irpina è ancora più complesso. Un territorio tutto da valorizzare. Una donna grintosa, con tante idee. Tanta voglia di fare. Un papà poco o forse, al contrario, molto attento. Milena è ovunque. Parigi, Düsseldorf, Verona. Segue l’estero. Segue l’Italia. Segue l’azienda all’interno della quale c’è anche il ristorante che può ospitare fino 180 persone. Una sala grande. Quattro salette con camino. Una veranda con paesaggio a 360 gradi su tutta l’Irpinia. Una azienda vivibile tutto l’anno. Ha insomma certamente avuto carta bianca per creare ciò che ha voluto. È ovunque. Ogni settimana c’è qualcosa. In Irpinia abbiamo 5 tipologie di tartufo delle 7 presenti in Italia. La lavanda irpina. I formaggi irpini. Meravigliosi e poco noti. Ci vuole gente che lavora il sabato e la domenica. Una donna sorridente, piena di vita, di voglia di fare. Passione per il vino. Passione, e amore, per una terra che non è la sua ma che le ha comunque donato una famiglia. Una gran voglia di far bene, di portare le sue idee a vantaggio del territorio. Una donna amata dai clienti, dai fornitori, dalle persone delle quali si circonda. Una persona con un cuore grande. Competente e affabile. Quel suo sorriso che riesce a farti sciogliere. La sua parlata, quel meraviglioso accento francese misto ad una cadenza irpina come a dire che conosce più il dialetto che l’italiano.
Questa è Milena Pepe. Arrivata in Irpinia, a Luogosano come una valanga a curare le terre acquistate da papà Angelo perché la più grande dei cinque figli ma anche colei che, avendo fatto studi appropriati, si sarebbe potuta occupare della tenuta.
Capisco in fondo papà Angelo, Cavaliere del Lavoro, nella sua cultura di volersi espandere. Partito dall’Irpinia quando non c’era niente e arrivato in Belgio a costruire un piccolo regno nella ristorazione, la voglia di rivalsa, di emergere, di far vedere che ce l’aveva fatta, di dare qualcosa alla propria terra di origine. Crescere per investire. Crescere per dare lavoro. Crescere per dire al mondo chi era diventato. Il Cavaliere del Lavoro Angelo Pepe.
Giuste e sacrosante ambizioni certo. Ma c’è anche Milena.
Milena, Milena, Milena. Tutto ciò che la Tenuta Cavalier Pepe ha raggiunto dal 2005, anno nel quale ha messo piede in azienda, la si deve alla sua forza, alle sue idee, alla sua perseveranza. Ma anche al suo beatificante modo di fare, di porsi. Con grazia da un lato, forza dall’altro. La Tenuta è profondamente diversa così come era una volta. Oggi è qualcosa di grande, unico e importante. Anche grazie a Milena. Milena che ha dedicato all’azienda tempo e passione togliendolo alla sua famiglia, ai suoi figli. La sua vita. Papà ha messo i capitali, determinazione, lungimiranza. Ha anche scelto al persona giusta, Milena, per far crescere l’azienda di famiglia. Ha riposto in lei una fiducia grandissima. Perché solo se si ha fiducia in una persona le si può affidare una cosa così grande. Ogni tanto però, Milena avrebbe bisogno di una pacca sulla spalla, di una parola di conforto, di un abbraccio. Basterebbe poco. Basterebbe davvero molto poco. Con affetto. Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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3 Maggio, 2024

Cantina Murales. Piero, su strangiu. Anzi no, su sambenau

“Su sambenau” o “sangunau” è una termine sardo (e il sardo è una lingua) che denota il cognome di una persona: il nome di sangue. Il nome che è legato alla terra sarda per nascita. Una vera appartenenza. Si contrappone a “su strangiu o “istranziu” ovvero il forestiero, lo straniero, l’estraneo. Non sempre in accezione negativa. Ma comunque non sardo, non nato sull’isola.  Ora, immaginatevi di essere ad Olbia, in Sardegna e di incontrare una persona con tipico accento nordico, quasi milanese o giù di li. Magari non saprete bene distinguere la zona ma la differenza con il modo tipico di parlare di questo luoghi sarebbe evidente.  In fondo Olbia è limitrofa alla Costa Smeralda e di milanesi o lombardi ce ne sono a iosa. Turisti certo ma anche strangiu, stranieri colonizzatori. Proprietari di ristoranti e hotel frequentati, per via dei prezzi stratosferici, solo dai ricchi. O perlomeno benestanti.  Se poi il presunto lombardo vi accoglie nella sua meravigliosa cantina insieme alle sue figlie che parlano varie lingue, beh allora ogni dubbio è fugato. Un altro strangiu in terra sarda.  Eh le apparenze le apparenze quanto ingannano e quanto possono fornire una visione distorta del mondo. Fermarsi in superficie è sempre un errore. Vedere il cielo da un oblò come cantava Gianni Togni vuol dire perdersene un bel pezzo.  Quando conosco Piero Canopoli in qualità di titolare della Cantina Murales, non posso fare a meno di chiedergli: scusa, ma sei sardo? E lui: certo che sono sardo? Ma con questo accento? Ecco qui inizia la mia conversazione con Piero. La scoperta di quante vite ci siano al mondo, quante storie possano celarsi dietro le persone, è meraviglia. Quanto ognuna sia diversa dall’altra e rechi in se la meraviglia di un racconto. Sono le storie come questa che meritano di essere raccontate. La mia anima oltre ad esserlo è sarda. Ragiono da sardo. Amo questa terra in maniera viscerale. Accento del nord Italia ma sardo fino al midollo. L’accento non mi colloca sulla mia terra di origine. Con quell’accento li non sei sardo dice la gente qui.  Se cinquanta anni fa i giovani scappavano dalla Sardegna era perché non c’era possibilità di lavorare. Forse possiamo dire che non c’era “ancora”. Poco il turismo sviluppato. Poche le necessità ricettive. Poco il focus sulle risorse locali. Toccava emigrare. Spostarsi altrove.  Il papà di Piero faceva un lavoro antico e nobile. Un livello di artigianalità che in Sardegna non si sarebbe potuto esprimere al meglio. Restaurava arazzi. Un lavoro particolare. Unico.  Il destino gioca scherzi strani. C’è chi arriva e chi va. Sfiorandosi senza mai incontrarsi davvero. Capita questo in un paese sulle sponde del Lago Maggiore, Leggiuno, provincia di Varese.  Leggiuno. Un paese sconosciuto e sfido chiunque non sappia di calcio a dirmi se lo conosce.  Calcio? Si, proprio calcio. In questo paese di poco più di 3000 anime, nacque nel 1944 Rombo di tuono. Così un maestro del giornalismo sportivo italiano, Gianni Brera, definì Gigi Riva. La leggenda del calcio italiano da poco scomparso.  Una bandiera per i sardi. Una specie di Dio. Qui lo vedevano come qualcosa di unico. E probabilmente lo era. Da bambini all’oratorio lui ci spiegava il calcio. Anche io come Gigi Riva sono tornato in Sardegna. Però dopo 40 anni.  Gigi Riva in Sardegna approda, al Cagliari nel 1963. Gioca con la squadra sarda per 14 anni vincendo anche uno scudetto (campionato 1969/70) ma dalla Sardegna non se ne andò mai più. Legato a questa terra. Stregato da questa terra. Un sardo di adozione adorato dai sardi.  “S’istranziu“ (o S’istranzu), l’ospite d’onore che diventa uno del luogo.  Piero invece torna in Sardegna nel 2000. Molti anni dopo di Gigi Riva. Piero ad Olbia, Gigi Riva a Cagliari.  Gli anni a Leggiuno Piero li dedica al mondo del vino. Insieme alla moglie Giuliana fanno consulenze, formazione, didattica per associazioni.  Da sommelier ci siamo occupati di questo modo sia dal punto di vista produttivo sia formativo. Ma anche commerciale. Facevo molto estero come consulenza. Prendevo 120 aerei all’anno. Prenderli da Malpensa mi creava fastidio. Perché non vivere dove ci piace vivere? Farò uno scalo in più ma almeno viviamo dove ci piace. Così ci siamo trasferiti in Sardegna. Insomma, trasferirsi in Sardegna è solo un modo per tornare alle origini. Per vivere nella terra che si ama e nella quale si riesce a tornare solo nel periodo estivo come vacanzieri. Si continua a fare il lavoro di prima. Si continua a fare la vita di prima. Piero, Giuliana e le tre figlie Martina, Arianna e Greta.  La scelta di andare via è stata anche legata a loro, le nostre figlie. La grande ha finito le scuole a Leggiuno e poi si è trasferita qui. Le altre due erano in età prescolare. Abbiamo ritenuto giusto che quel momento lo vivessero qui. Nessun trauma e adesso nessuna vuole spostarsi da qui. Su strangiu. Piero è sardo. Il papà era sardo. La sua famiglia è sarda. Ragiona come un sardo. Però parla con il tipico accento del varesotto. Lui come la sua famiglia. È lo straniero. Non certo quello del quale occorre temere perché Piero, solo a vederlo negli occhi, è un buono. La sua professione, quella che continua a portarlo fuori dalla Sardegna per le consulenze, non passa certo inosservata, cosa questa che gli comporta l’iniziale ad essere coinvolto in piccole consulenze enologiche.  Hanno cominciato a chiedermi delle piccole consulenze. Poi senza quasi e rendermi conto ho acquisto dei terreni insieme a qualche altro che non era all’altezza. Ci siamo ritrovati soli e cosi partiti con il progetto definitivo di Cantina Murales. Inizialmente, nel 2007, erano 5 ettari poi sono diventati 8, poi 12, adesso 25. L’idea è ridurli per concentrarci ancora maggiormente su un concetto di nicchia. È brutto dire di nicchia perché sembra che produciamo solo per pochi. Però produciamo 100.000 bottiglie e io le voglio ridurre a 60.000 per aumentare e stressare il concetto di qualità. Che non potesse più fare il lavoro di prima, viaggiando per mezza Europa, Piero non l’aveva messo in conto anche se, inesorabilmente, i viaggi iniziano a diminuire con il crescere dei vigneti. Adesso quasi non viaggio. Non me ne sono praticamente accorto. Adesso a mia volta pur non avendone necessità, ho un consulente. Sono sempre stato un tecnico con le mani in pasta. Dunque non c’è stato un cambiamento. Mi avvalgo di collaboratori perché delego molto. E mi piace.  Spesso si dice che i consulenti siano dei teorici. Persone certo preziose per il bagaglio di esperienza derivante dagli studi e dal poterli applicare in molteplici e variegate realtà. Quanto però a mettere personalmente in pratica i loro dettami, è altra cosa. Piero invece, è riuscito in questo salto. Magari per qualcosa presente nel DNA in maniera innata. Siamo una famiglia di sei fratelli cinque dei quali sono imprenditori. In vari settori ma imprenditori. Ristorazione, gelati..siamo sparpagliati tra Sardegna, Germania, Canarie. Forse nostro padre, con intenzione o meno, ce l’ha trasmessa. Anche se papà non è riuscita a vedere questa imprenditorialità. La differenza con i produttori locali, raramente con esperienze fuori dall’isola, è evidente. Piero ha nel bagaglio, grazie alla sua precedente professione, una grande conoscenza del mondo enologico. Capire cosa si possa ottenere da un suolo, da un ambiente piuttosto che da una filosofia di vita o necessità commerciale è un valore aggiunto che porta con se. Ho fatto una sintesi e l’ho applicata al territorio. Così i nostri vini non sono tradizionali. Tipici si ma non tradizionali. Anche se il concetto di tradizionale è strano. I territori vanno sperimentati e bisogna farli evolverli attraverso la conoscenza.  25 ettari sono una discreta superficie. Le 13 etichette in gamma sono certamente compatibili con tanta vigna ancorché sembrano un pò troppe. Troppe se non si capisce nel profondo l’uomo e il professionista Piero. Pacato si ma istrionico e sempre alla ricerca, per necessità caratteriale, di sfide e di qualcosa da inventare. Sperimentare per capire. Non c’è da parte sua esigenza di una personale consacrazione. Per lui i vini sono suoi fino a quando non vengono messi in bottiglia. Poi li considera del cliente. Una filosofia che lo porta a cercare quella tipicità territoriale volta a capire cosa il terroir può fornire.  La molteplicità nasce un pò per esigenze di natura commerciale della quale si occupa mia moglie. Aveva esigenza di toccare più segmenti. Io sono stato in disaccordo con questa filosofia anche se i territori che si esprimevano in modo diverso. Mi permettevano di fare questo. Non mi è mai andato di contaminare i vigneti combinandoli tra loro. Ogni territorio esprime un vino e per questo tante etichette. Ma sono tante. Andrò ad eliminarne qualcuna. Almeno cinque etichette sono di annate eccezionali. Ogni due tre anni e non di più. Quando tappo la bottiglia ho la sensazione che non mi appartenga più. Il giudizio sul vino che c’è dentro sono gli altri che devono darmelo. Fino a che non lo chiudo in bottiglia lo sento mio. Poi dopo no. Credo che questo appartenga a molti tecnici. Mi piace sentire i feedback. Il nostro è un mondo dove parlare e giudicare è alla portata di tutti.  Prima si diceva che eravamo tutti tecnici della Nazionale di calcio e Gigi Riva ne sapeva qualcosa pur essendo stato (e ancora lo è) il miglior realizzatore di sempre. Ora siamo tutti sommelier e abili degustatori. Bello comunque assistere ad un confronto di sensazioni. Siamo soggetti sensorialmente diversi uno dall’altro e le differenze sono senz’altro preziose. Ciò che però non si capisce è come, per diventare Commissario Tecnico della Nazionale di calcio occorra studio, preparazione, esperienza. Idem per essere un divulgatore di vino. Non ci si improvvisa. La personalità di Piero è in ogni suo vino. A partire dall’etichetta. Lui è una di quelle persone che usa l’istinto e l’improvvisazione. Non in maniera geniale ma in modo viscerale. Sono gli attimi, sono le situazioni, è l’ascolto a nutrire questa capacità.  È un pò di follia anti commerciale. È l’istinto. L’etichetta nasce con il vino. Il vino mi ha dato degli stimoli. Sono accadute delle cose, belle e brutte. Così nasce il nome e l’etichetta. Tutto è legato al momento.  Vermentino Lumenera. È un Vermentino di Gallura superiore. Ha poco a che fare con i Vermentini tradizionali perché ragionato in stile Borgogna. Le uve fermentano in tonneau per poi affinare in cemento con bâtonnage quotidiani. Ne deriva un vino corposo e strutturato, complesso e armonioso. Un vino che piace e si fa piacere senza snaturare il vitigno. A fine fermentazione, nello spostamento dalla tonneau al cemento, il vino aveva un colore che sembrava brutto, crepuscolare, come quando sta per tramontare il sole e la luce ci abbandona. La prima volta questa operazione l’abbiamo fatta proprio a quell’orario. Aveva un colore crepuscolare, eravamo al crepuscolo ed è andata via la corrente. Per cui abbiamo acceso delle lampade ad olio che in Sardegna si chiamano Lumenere. Queste lampade sono state accese durante il primo travaso ed il vino ha ripreso luce tornando ad essere bello. Era la prima sfecciatura. L’etichetta ritrae proprio questa scena. È proprio Piero che abbozza le etichette. Metto giù le idee e lascia fare ad un suo amico grafico che le mette in bella. Miradas è un Vermentino di Gallura. Classico direi ma dal gusto che ricorda in pieno la Sardegna per la sua finezza ed eleganza. Iodio ed agrumi, frutta tropicale, biancospino, macchia mediterranea avvolgono il naso per poi lasciare spazio ad un insolito balsamico che punge il naso. L’agrume spinge ancora. Senza dare fastidio o ingolfare il naso. Le noti risultano dolci, non pungenti, non stucchevoli. Un naso che invita clamorosamente al sorso. Lo chiama e, quando arriva, appaga riempiendo completamente la bocca con l’agrumato che, anche qui, non sovrasta bilanciandosi perfettamente con la dolcezza. C’è quasi una botta di salmastro che affascina per la sua forza e pienezza. Un vino secco e fresco con un finale quasi mandorlato, ma mandorla dolce. Persistenza decisamente buona. Un vino  mai banale, mai civettuolo. Al contrario, preciso e che in una tavola della Costa Smeralda colmo di crostacei diventa una celebrità.  Quando nasceva quel vino in cantina avevamo due ragazzi che facevano l’alternanza scuola lavoro. Erano un giovane e una giovane. 14/15 anni. Erano li per osservare. Una signora che lavorava con noi, aggredì questa ragazzina parlandone in sardo. Chiuse la sua invettiva dicendole Miradas. “Ma perché l’hai aggredita e perché le hai detto Miradas?” Mi disse che la ragazza, nascosta da un velo, mandava dei messaggi in codice al ragazzino. Il vino voleva essere un pò ammiccante ed ammaliante. Dunque ci stava. Bastat una mirada
ch’essit dae su coro
po ti narrer chi t’amo.
Columba mia amada
ses su meu tesoro
ischis cantu ti bramo Il Sentenzia, da uve Viognier rappresenta le anime di Piero. Da un lato quella del tecnico, del professionista che vuole sperimentare perché capisce che in una terra come la Gallura un vitigno del genere ha tutte le potenzialità per esprimersi. Dall’altro quella del sardo, testardo per antonomasia, che quando si mette una cosa in testa, la vuole fare.  Ha un punto esclamativo che sta per perplessità. Ho piantato un vigneto di Viognier che in Sardegna nessuno aveva mai fatto. Io lo volevo ma ho beccato un sacco di no. Dalle istituzioni dai tradizionalisti, dalle persone. Ma volevo sperimentare. È partita una diatriba territoriale che è finita con il vino Sentenzia. Una sentenza. Oggi è diventato un IGT e tutti possono piantare Viognier poiché nell’elenco regionale.  Ha fatto bene Piero ad insistere perché la versione Sentenzia è una positiva e inappellabile sentenza per il Viognier qui. L’eleganza, la complessità, la capacità di questo vitigno di raccogliere qui ogni sentore del territorio e del mare è a dir poco magico e sorprendente. Rotondità e sapidità i punti di forza in bocca.  Nativo è il rosso da Carignano che esprime la forza e la magia di questo territorio. È come se la Sardegna, centro del Mediterraneo, sia riuscita a raccogliere tutto nel calice. Poderoso, armonico, equilibrato, possente ma al contempo morbido e speziato. Un vino che nasce tra la macchia mediterranea che generosamente restituisce. Bisogna guardare l’etichetta. È un tronco di pianta da sughero. Molto bella. Rispecchia la nostra volontà di essere una azienda molto rispettosa dell’ambiente. Per impiantare quel vigneto abbiamo tolto qualche pianta da sughero. Un ciocco di albero era rimasto nel vigneto. Dopo un anno passando di li vidi che aveva buttato un germoglio. Ho fatto una fotografia e l’ho data al grafico. Voglio questa per l’etichetta. “L’etichetta è già fatta” risponde lui. Il germoglio è diventato dorato perché prezioso. Vicino ci ho messo un’ape che idealmente aspetta un fiore per ripartire per l’impollinazione.  Il Cannonau Riserva è Arcanos. Un vino che lascia l’impronta e che può lasciarla per molto visto la sua capacità di essere longevo. Ribes, mirtilli, prugna, arancia. Poi sentori di muschio e fiori rossi che si uniscono alla cannella, al pepe, alla noce moscata. Infine un insolito incenso che rende il balsamico e la macchia mediterranea, davvero uniche. In bocca arriva subito una importante freschezza. Arriva come lo schiaffo di gelosia, intenso, passionale, vibrante di una donna che ti ama e ti vuole per se e solo per se così da baciarti intensamente subito dopo. La freschezza lascia infatti spazio ad un sorso pieno e morbido. Corposo. Così corposo da avvolgere completamente la bocca con un vero calore. Quello dei suoi 14 gradi, dei quali te ne freghi perché il bacio è ancora lungo dal finire. Come la sua persistenza. Sublime Se guardi l’etichetta ci sono dei compagnoni festosi. Sono i nonnetti della Sardegna. Mi piace molto di questo territorio. Quando mi voglio rilassare prendo la macchina, vado in uno dei paesi sulle colline, mi siedo in una piazzetta e mi metto a chiacchierare con queste meravigliose persone. È un pò una dedica a questo mondo di persone meravigliose. Certo che me lo vedo Piero che si va a sedere con i vecchietti del paese. Li ascolta, li guarda. È uno di loro. Immagino però quando è lui a parlare.  Devi capire che il sardo è quello che parla meglio di tutti l’italiano. Il sardo è una lingua e quando parlano l’italiano, è quello corretto. Hanno l’accento sardo però non lo contaminano con forme dialettali come fanno in altre regioni. Al limite ci mettono dento un aiò  Continuando a parlare di vino ci sono altre etichette che Piero definisce “di nicchia” perché prodotte raramente. Non eccezioni ma veri e propri inni.  Come Millant’Anni, inno alla longevità del territorio. Blend di Cabernet Sauvignon e Syrah. C’è un murales realizzato dal professor Francesco Del Casino, colui  che ha iniziato il muralismo in Sardegna. Mi piaceva concettualmente quel tipo di idea. Questo uomo anziano con la maro enorme che ha lavorato tanto nella vita. Il bastone ha il profilo dorato per esaltare la qualità del lavoro e dell’esistenza.  Ai Posteri rappresenta, come Sentenzia, la voglia di Piero di sperimentare in Sardegna attraverso la sua esperienza. Da uve Cannonau, Merlot e Syrah lasciate ad appassire in pianta fino a novembre. Possibile solo in particolari annate ovviamente.  C’è una mano timida che si vede poco che concede un grappolo d’uva ad una mano preziosa, dorata, che ha il compito di trasformarlo in un grande vino.  Ai posteri l’ardua sentenza insomma! PEP infine. Un vino che Piero ha nel cuore poiché legato all’amicizia. Quelle amicizie che ti porti dentro nel cuore. Che hanno quel sapore speciale dolce ed amaro. Un ricordo di un amico che non c’è più che ad ogni sorso riemerge per parlarti dei bei momenti trascorsi insieme. Cannonau, Syrah e Malvasia Nera vinificati separatamente dopo una appassimento in pianta. Lungo affinamento in cemento e in botte. Tempo di meditazione per un vero amico.  Lo chiamo il vino dell’amicizia. PEP è diminutivo di Peppino o Peppino e Piero. Era un ingegnere nucleare che aveva una fabbrica sua nel padovano. Per passione aveva realizzato un grande caveau e due o tre volte la settimana radunava alcuni amici industriali veneti. Guadagnava di più con le degustazioni che con la sua fabbrica. Mi ha coinvolto in un progetto a Dubai. Gli era stato chiesto di fare un vino assoluto. Così lo chiamava. “Piero lo faccio cont te o non lo faccio”. Siamo partiti per realizzarlo e raggiunto l’obiettivo con una etichetta diversa da quella che doveva avere ed era stata già pubblicizzata sulla rivista Living. Doveva chiamarsi Santabarbara. Nel bel mezzo dell’operazione Peppino è venuto meno e ho deciso di non seguire più quel business ma di dedicargli una bottiglia.  Nonostante Piero sia un tecnico di grande professionalità ha deciso di avere in cantina una sorta di contro altare. Confrontarsi per sentire non solo la propria testa. Confrontarsi per non farsi prendere dal facile entusiasmo. Maurizio Saltini è con lui da vari anni.  Mi piace confrontarmi perché spesso il mio gusto tende ad ingannarmi. Lui è un amico e mi rimette con i piedi per terra. Poi ci sono due cantinieri e un genero che lavora in vigna con la squadra.  Parlando con le donne di casa, definiscono, amorevolmente, Piero “fuori controllo”. Anche se non sembra è uno di quelli che non si ferma mai. Di quelli che quando hanno finito un progetto ne iniziano subito un altro. Sto lavorando su una mia personale versione del Vermouth che non ha nulla a che fare con quelli sul mercato. Non sarà la conseguenza di un vino da smaltire ma partirà dalle uve. Ho studiato molto e sono andato a vedere le origini del Vermouth. A Berlino, alla Biblioteca Culinaria, ho trovato un manoscritto del 1720 dove ci sono delle indicazioni. Sono quattro anni che ci lavoro e adesso ho trovato la formula giusta. L’ho messo sul mercato di nicchia degli amici e ora è il momento. Ma poi avrò bisogno di altro. Ho già testato per nicchia è metodo classico utilizzando i fichi d’india. Ho raggiunto una età che posso giocare. Martina, Arianna e Greta le tre figlie di Piero e Giuliana lavorano in azienda. Una azienda che si concentra certo sul vino ma, forte del richiamo turistico della Gallura e della Costa Smeralda, ha fatto dell’enoturismo un pilastro fondamentale. Martina si occupa della locanda e le sue dieci camere oltre che della parte amministrativa dell’azienda. Arianna che forte delle sue quattro lingue parlate correttamente si occupa dell’accoglienza (e qui di persone e arrivano davvero tante). Greta si è integrata nel gruppo e si sta formando in cantina. Abbiamo un bel flusso di persone. Abbiamo anche realizzato una linea di cosmetici con gli scarti della lavorazione della vinificazione: Acini nobili. Abbiamo anche la vinoterapia. Fanno massaggi con i nostri prodotti, poi una sauna e infine il bagno in un tino colmo di vino ed essenze. Magari facendo l’aperitivo. Li vedo che arrivano stressai e vanno via sollevati ad un metro da terra. La Sardegna è una terra meravigliosa ma impegnativa. Di quelle terra che ami o odi. Anche se sei nato qui, puoi scappare perché pensi di non amarla o perché pensi di non trovare la tua strada. C’è chi la lascia per trovare uno sfogo alle proprie attitudini anche se poi, il richiamo, il richiamo di questa terra è forte.  Un’isola che fa storia a se nel bacino del Mediterraneo. Qui sono approdati popoli prima di qualunque altro posto. Qui ci sono tradizioni antiche che si perdono nella notte dei tempi. Qui dove si parla una lingua vera, incomprensibile se non sei un  sangunau. I giovani scappano nonostante ci sia tanto da fare. Nella accoglienza come nell’agricoltura. Giovani che scappano e adulti che tornano. Come Piero.  E se anche un campione come Gigi Riva decise di vivere qui, diventando di fatto, sardo, vuol dire che questa terra rappresenta, anzi è, qualcosa di speciale.  Però. Però, invece di parlare di Piero e di Gigi Riva vorrei concludere lodando le donne della famiglia di Piero. Giuliana, la moglie, che ha scelto di seguire Piero. Una scelta consapevole e mai rinnegata. Le figlie Martina, Arianna e Greta perché pur non scegliendo ma subendo la scelta dei genitori adesso non se ne andrebbero più. Avere una azienda non è condizione necessaria e sufficiente per rimanere. C’è molto di più in questa scelta e se un merito si può dare a Piero, oltre a quello di produrre vini che sono sogni, è quello di aver fatto innamorare della sua terra a chi gli sta intorno. Sarà per quel suo carattere mite. Sarà per la gentilezza nei modi. Sarà per l’istrionicità e la capacità imprenditoriale. Sarà qualcosa che non ho visto. Ma l’unione di questa famiglia ne è il risultato.  Così, il risultato di questo amore, di questa necessità di essere sardi e come tali parte di un tessuto sociale non può che aver trasformato se stesso e tutta la sua famiglia da Su strangiu in Su sambenau. Non si è ospiti nella propria terra. Si è parte di essa. Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969  
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26 Aprile, 2024

Andrea di Luteraia. Il vino si fa sensoriale

Il vino è magia. Il vino è mistero. Il vino è materia viva. Lo abbiamo sentito dire spesso. Tanto spesso che sembra banale ripeterlo. Banale perché poi, alla resa dei conti, non sempre ha un vero significato. Un ragion d’essere così visibile e palpabile tale da far sobbalzare. Specialmente in un mondo moderno dominato da tanto altro.  C’è chi si inventa una storia pur di poter raccontare qualcosa dimenticando che c’è sempre da raccontare. Una famiglia, le persone, l’anima, le angosce, gli errori, i successi. Di cose da dire ce ne sarebbero. Basterebbe spogliarsi degli orpelli e presentarsi per quello che si è. Si dice che il vino sia materia viva perché evolve. Non sta mai fermo. Non riesce a rimanere immutato. Sarà perché, chimicamente parlando, instabile. I microorganismi che abitano in esso, per quanto spesso mutati da sostanze atte a mantenerlo nella bottiglia per parecchio tempo, un pò di lavoro lo fanno sempre.  Ma se il vino potesse interagire con qualcos’altro? Se fosse influenzato da qualcosa di “esterno” già durante il processo di produzione? Ora, per spiegare qualcosa di inspiegabile, occorrerebbe essere come dei bambini che, scevri da qualunque sovrastruttura mentale, assistono a ciò che accade senza aspettarsi nulla. Assistono e prendono atto. Abbiccia ‘a moto Babà…Non sacc’ come fa…ma va! Era Napo Orso Capo, capo appunto di una banda di orsi composta oltre che da Napo, il capo capellone, Bubi, il piccolo orsetto, Babà l’orso grande. Proprio quest’ultimo veniva chiamato in causa da Napo allorquando occorreva scappare dal Guardiaparco sig. Otto e il suo fido McKallock. Era a quel punto che Babà accendeva una moto immaginaria, faceva salire Bubi davanti e Napo dietro, partendo a razzo. Non sacc come fa…ma va Non poteva che dire Napo. (Non so come fa, però va, funziona).
Dove voglio andare a parare appare pericolosamente difficile. 
Ma se vi avessi parlato da subito di vini sensoriali, di vini che riescono a giocare con le persone, mi avreste creduto?
Probabilmente non mi credete neanche adesso e lo capisco. Ci sta e ci sta tutta.  Mi è capitato di incontrare Andrea Paolini, o Andrea di Luteraia come preferisce farsi chiamare, ad una manifestazione del vino. Il suo stand, molto carino, recava la scritta “Vini sensoriali” e “Vino Indaco” Sono una persona apertissima e che sperimenta molto. Non mi sono certo fatto scappare l’occasione di provare un vino sensoriale. Il termine “vino indaco” l’ho capito solo dopo. Molto dopo. Luteraia è una azienda di Acquaviva di Montepulciano (SI), patria del Nobile, alta espressione del Sangiovese (minimo 70%).  Sapevo cosa aspettarmi dalla degustazione di vini del territorio. L’ignoto è arrivato dall’abbinamento proposto da Andrea: finocchio prima, cioccolato poi. Chiunque abbia studiato da Sommelier o frequentato corsi di degustazione del vino sa perfettamente che ci sono alcuni cibi killer. Quelli per intenderci che sono inabbinabili con il vino. Il finocchio in particolare, per i suoi aromi forti, sovrasta il vino rendendo questo spesso di sapore metallico. Stesso discorso per il cioccolato la cui persistenza e pastosità necessita, spesso, un distillato. Orbene, le sensazioni gustative ottenute abbinando i vini di Andrea con finocchio prima, cioccolato poi sono state non accettabili. Ottime.  La nostra famiglia ha i vigneti da tanto tempo. Mio nonno ha fatto i vigneti dal 57. Mio padre all’età di 50 anni andò in pensione dalla banca e si mise a fare il coltivatore. Fino al 2014 quando se ne è andato. La storia di Andrea è una di quelle controverse e tormentate. Di quelle che possono dividere e far pensare. Ho scelto di raccontarla attenendomi alle esperienze relative al vino. Perché di quello parliamo. Il resto lo lascio a chi ha più competenza di me.  Quando parlo con Andrea trovo una persona umile che sente quasi il bisogno di aprirsi parlando di se. Il rapporto con il padre non è stato di quelli da incorniciare. Lo sa. Me lo dice. Lo ammette. Al tempo stesso però non può far almeno di lodarlo e confessare che ha capito tutti i suoi errori. Un passato che non può e non vuole cambiare. Perché tanto non servirebbe a nulla. Ma un passato che lo ha fatto diventare uomo adesso.  Sergio Paolini, il papà di Andrea era uno di quelle persone che solo a sentirlo parlare si capiva il vero amore per la terra e il vino. Determinato, preciso, forte. E follemente innamorato della sua terra.  Era arrabbiatissimo con la cantina sociale di Montepulciano pur essendo la nostra famiglia tra i fondatori della cantina sociale di Montepulciano, Quando portava le uve vedeva che non lo valorizzavano come meritava. Disse basta, prese il piccone, andò giù al podere vecchio e cominciò a picchettare con il cugino architetto per fare la cantina. Era il 2003. Che poi è il primo anno che si è fatto il vino con mio padre. Le uve raccolte di notte. Le vasche di cemento. Io dopo venti minuti gli dissi: pà, ho sbagliato. Ho fatto il vino bianco. S’è sbagliato. Ho fatto il vino bianco invece che rosso. Dopo sei mesi di lavorazione, facevo enologia, porto la bottiglina di plastica alla commissione, all’istituto Capezzine di Montepulciano. C’era un sacco di gente che mi prendeva in giro. Dove va questo con la bottiglina di plastica. Assaggiano il vino e dicono: porca puttana ma che è sta roba! Ecco si decise di iniziare nel 2004 Andrea si racconta. Racconta di quanto a quel tempo fosse uno scapestrato. Un ragazzo che nonostante avesse compiuto gli studi di enologia si sentiva perso. Nella classe i suoi compagni avevano una storia alle spalle, una famiglia blasonata, una azienda avviata. Lui no. Aveva un padre che era andato in pensione per seguire il suo sogno di vignaiolo e la passione dell’orologiaio. Aggiustava orologi da tasca.  Il giorno lavorava in vigna e la notte lavorava agli orologi. Gli ho visto fare cose fantastiche. Da tutto il mondo gli mandavano orologi irreparabili e lui li rimetteva a posto. Ci volevano anni.Io non riuscivo a fare nulla. Ero davvero scapestrato. Crisi esistenziale o solo errori di gioventù. Vallo a capire. Storie viste e riviste quelle di un figlio che non va d’accordo con il padre e un padre che non va d’accordo con il figlio. Quando non ci si capisce a vicenda, qualcuno, in genere il figlio, scappa.  Non capivo chi era mio padre. Non capivo chi ero io. Non volevo sapere nulla e sono andato via in giro per l’Europa. Facevo oli essenziali e profumi. Distillazione di piante officinali. Profumi personalizzati. Ero un distillatore. Avevo una associazione culturale olistica. Facevo i mercatini. Niente di grosso. Bastava e avanzava.  Storie viste e riviste appunto. Un figlio che va via. Un padre che continua la propria strada perché sa, o spera, che il figlio prima o poi torni. Il che avveniva quando c’era da fare il vino.  Ogni tanto tornavo e facevo il vino con mio padre. Avevo da sempre una passione per i cristalli. Avevo una stanza piena di cristalli quando vivevo a casa e papà mi prendeva in giro. Un giorno, era l’annata 2007, sbagliò qualche cosa nel fare il vino. Anche se era bravissimo qualcosa sbagliò. Fatto sta che era venuto un vino scarico di colore. Era tutto naturale e non gliene fregava nulla di mettere prodotti. Pà dai ci si mette l’ametista dentro. Non di cazzate va. Un cristallo può influenzare qualcosa o qualcuno? Addentrarsi in questa domanda è come attraversare, bendati, un campo minato. Un argomento divisivo non fosse altro perché non c’è alcun riscontro scientifico di eventuali influenze. Ne parlava anche Plinio nella sua Naturalis Historia o Teofrasto nel Trattato sulle rocce. Se ne parlava nel medioevo. Se ne parla adesso con la Cristalloterapia.  Scienza, stregoneria, pratica alchemica. Vallo a capire.  Ma il mondo del vino è pervaso da pratiche di questo tipo. Solo che ci sono pratiche per le quali non ci si scandalizza. O forse non ci si scandalizza più perché blasonati produttori le hanno fatte proprio. Come ad esempio l’agricoltura o viticoltura Biodinamica, messa all’Indice per anni per le sue pratiche che avevano un che di mistico, esoterico, alchemico.  Ma poi, alla fine, ognuno può credere a ciò che vuole e in ciò che vuole. Quello che conta è il prodotto finale passando attraverso il rispetto per la natura e l’utilizzo di ciò che la natura stessa ci ha data. Non serve essere per forza talebani verso se stessi e verso gli altri.  Avevo studiato della influenza dei cristalli sui liquidi. Lavorando con l’alchimia. Lavorando con le raccolte in funzione delle lune e dei giorni astronomici. Lavorando con i cristalli e la loro interazione con le persone (mischiavo i cristalli con gli oli essenziali). Misi la pietra di ametista dentro una botte per tre cicli lunari. Da dieci quintali. Tre settimane. Si travasa e il liquido ed era più scuso. Mandiamo in laboratorio e il dottore gli dice: bravo Sergio si vede che hai fatto un taglio. Hai rispettato le regole ma questo è un taglio. Guarda che colore. È cambiato rispetto a prima no?è pure più profumato. Con che l’hai tagliato? Torna a casa dicendo: io non ci credo ma funziona dunque andiamo avanti. Metteva ogni tanto l’ametista nella Mastella prema del rimontaggio. Giusto per divertimento. Per gioco o forse per scaramanzia. Io ero convinto ma lui no. Che cosa fosse realmente successo, Andrea non lo sapeva. Forse non lo sa nemmeno adesso. Si, certo, ora c’è più consapevolezza. Più studio. Più capacità. Ci sono volute prove e prove. Però tanta incertezza e tanto da scoprire rimane ancora.  Ciò che i cristalli non sono certamente riusciti a fare è evitare i contrasti tra padre e figlio. Troppa la distanza e troppo il richiamo di altre persone, una in particolare, per Andrea. A quella età, gli altri sono sempre più importanti del babbo.  È così che se ne va a Tenerife.  Ho sbagliato perché mi sono fatto trasportare da una persona allontanandomi dalla famiglia. Ha sofferto talmente tanto che si è beccato un tumore. Sono tornato tra il 2012 e il 2014 ma stava tanto male. A quel punto mi sono riavvicinato a mio padre, alla famiglia. Certo prima venivo ogni tanto per fare il vino. È sempre stato bono il vino di Luteraia. Facevamo solo un vino, il Nobile. Nobile e IGT. Era anticonformista. Gli stavano antipatici quelli consorzio. Questo fino al 2012. Nel 2013 si è fatto l’ultimo vino insieme, la base del Lemuria. Lui aveva avuto nel periodo della malattia una vera trasformazione nello spirito. Con la malattia ci siamo avvicinati. Me ne sono andato via perché mi trattava come un bambino. Non ci si capiva. Non c’è mai stato anche se c’era. Si faceva i cazzi suoi forse perché non ha mai ricevuto affetto. Mia madre gli è stata vicino ma non è bastato.  Il racconto di Andrea è un vero sfogo. Un confessare la sua intimità. Quello che nel profondo della sua anima lo ha toccato. Gli errori, il dolore, il rimpianto. Tutto gira intorno ad un passato che non può tornare indietro a modificare. Forse lo farebbe o forse no chissà. Inutile pensarlo. Inutile riflettere su ciò che sarebbe stato. Tanto non torna più. Vivere nei ricordi può essere utile solo per non smettere di crescere. Per provare a far rivivere quel sogno ora diventato anche il suo. Nel 2014, una settimana prima di morire erano le 2.45, viene da me e mi dice: mi devi fare una promessa. Mi devi fare il vino Indaco. Ma che sei rincoglionito oggi? Perché lo sai come so fatto io? Il mondo fa schifo. Per me è finito. Però puoi continuare te e rifare il vino Indaco. Pà, ma che è il vino Indaco? Io lavoro con i cristalli. Cosa è il vino Indaco? Il vino indaco è il vino della famiglia, dei nonni. Prima il vino era Indaco. Univa, risvegliava, faceva diventare le persone sorridenti, creava armonia. Ora non gliene frega più nulla. Ho fatto il concorso e ha vinto quello con le polverine. Fallo con il 2013 che è una base squisita. È una annata stupenda.  Indaco. Un colore stupendo. Un incrocio di azzurro e viola che può ricordare i colori di una aurora boreale o quello di una farfalla. Leggiadro, etereo. Quasi evanescente. Eppure concreto. Un colore da sempre associato alla spiritualità alla psiche. Tanto da essere associato alla profonda comprensione di se stessi e del mondo.  Facile pensare come Sergio, sul punto di morire, dopo magari una totale immersione nella propria spiritualità, possa aver richiesto al figlio di continuare la sua opera con qualcosa di elevato. Un vino che potesse riaccendere gli animi e fungere da collante tra le persone. Per farle vivere e sorridere insieme.  Parto per la Germania. Il 16 di agosto mi sono sentito male ma non ne capivo il perché. Fino a quando ricevo un messaggio. Mia madre mi annunciava che papà era morto. Papà è morto nel 2014 ma nel 2016 è stato presente. Quando mi sono ribaltato con il trattore. Ho fatto una cosa che non dovevo fare. Con il carico pieno di uva su una salita ho avuto la brillante idea di frenare e ripartire di colpo. Il trattore parte lateralmente. Era sulle due ruote posteriori. È andato giù per la scarpata di sei metri. Mi sono sentito tirare fuori. Il trattore si è accartocciato.  Andrea non sa fare il vino. Non è all’altezza del padre. Non conosce la sua arte. Sciocco a star lontano. Sciocco a non apprendere da lui. Ma la strada che aveva scelto era un’altra. Fino ad adesso. Fino a quella promessa: il vino Indaco.  Prove, riprove, sperimentazioni. Capire la vigna scavando nei ricordi del tempo. Negli insegnamenti di papà Sergio.  Manco se rinasco riesco a trattare la vigna come lui. Le lavorazioni. Gli sbagli. I vini crescevano e venivano sempre fuori cose diverse. L’idea di mettere i cristalli nelle vasche e non solo l’ametista. Seguire le lune. Fare i rimontaggi con le lune. Ho messo tutto dentro e oggi ne parlo tranquillamente perché se metto insieme tutte queste prove e supposizioni capisco siano diventate una realtà. I miei vini non sono migliori degli altri vini ma hanno un’anima. Conservano la loro originalità senza che pensieri e parole altrui possano influenzarli.  Non c’è alcun tipo di presunzione in Andrea e nei suoi pensieri di un ragazzo, oggi uomo, ancora insicuro. È consapevole che i suoi vini non siano migliori degli altri. Non ha questa velleità. Sa che sono ottimi vini donati da un territorio fantastico. Sono speciali perché hanno qualcosa di diverso. I cristalli, le lune, i cicli del mondo, l’attenzione maniacale. Sono così. Offrono qualcosa di diverso. L’Ametista per il Lemuria.
Il Rubino Stellato per il Luteraia Nobile di Montepulciano e la Riserva.
Il Quarzo Rosa per il Rosato Loseè. 
Il Granato Almandino per il Rosso di Montepulciano, l’Idea.
Per la bolla, realizzata in collaborazione con altra azienda e non ancora commercializzata, quattro cristalli: Quarzo rosa, Rodonite, Rodolite e Selenite.  Tutto per realizzare circa 20.000 bottiglie su tre ettari.  Non c’è bisogno della quantità. Se metti una pietra in un bicchier d’acqua non succede niente. Magari l’acqua si dinamizza perché ha assorbito la memoria frequenziale del cristallo. Se però tu lo fai per un certo periodo di tempo, in un particolare momento del mese, in un giorno del calendario biodinamico, i due mondi si uniscono. Lo fai per caso o coordinato e anche l’acqua ha tutto un’altro sapore. È stregoneria? Serve a creare una storia e basta? Di trattati sulla Cristalloterapia ne troviamo tanti. Di persone che la praticano e ci credono, ancor di più. Che ci sia qualcosa di magico viene spontaneo nel pensarlo vedendo tutte quelle meravigliose sfaccettature cromatiche. Non chiedetelo ad uno scienziato, ti prenderebbe per matto o eretico (un pò come chi pratica il regime biodinamico): non ci sono delle rilevanze fisiche o controlli sperimentali. Masaru Emoto era uno scienziato giapponese che studiava la formazione di cristalli nell’acqua. Secondo le sue esperienze si formavano nell’acqua cristalli simili a quelli del ghiaccio in presenza di energia alla quale veniva esposta: onde sonore (musica o parole), parole, onde celebrali. Venne massacrato dalla comunità scientifica.  Non è vero che non abbia rilevanze fisiche. Ricordi le prime puntate di Star Trek? Le porte si aprivano con la fotocellula. Adesso sono preistoria. La scienza è limitata a ciò che le persone hanno paura di scoprire. Io per tanti anni ho studiato queste cose ma ho deciso di lasciarle spiegare in maniera filosofica e romantica. Quasi magica. Funziona. Magari si potrebbe spiegare ma chi la capirebbe. Lasciandola come una favola, va bene così.  Una congiunzione di mondi. Quello del vino con quello sensoriale, alchemico, filosofico. Non c’è esoterismo o stregoneria. Il vino è così: magia allo stato puro. È come se papà Sergio avesse fatto ad Andrea un dono.  Eravamo arrivati ad un punto di riunione. Io sono sempre scappato da lui perché non mi ha insegnato a vivere. Mi ha iper protetto. Come mia madre. Si sono dimenticati di insegnare a me e a mia sorella di vivere nella società. Mia sorella Sandra è una nutrizionista allergica al vino “Mi sono tanto massacrata con il vino che non ne voglio più sapere”. Sandra, non è scappata. Io per più di quindi anni sono scappato. La terra adesso mi ha insegnato ad essere radicato. La cantina amplifica tutto nella fatica e nella sofferenza.  Andrea che non è certo uno sprovveduto, sa che per fare i vini e farli bene serve una grande capacità in vigna e in cantina. Che lui non ha. Solo un enologo poteva dargli una mano. Anzi, una enologa. Fino al 2019 io fatto il vino senza saperlo fare. La componente energetica ha rappresentato la vitalità. Dal 2020 in poi i vini sono migliorati al livello chimico pazzesco grazie ad un enologo. Io avevo l’enologo che mi faceva la vinificazione via whatsapp. Lei, l’enologa nuova, mi ha insegnato a fare il vino davvero. Abbiamo fatto lavorazioni naturali. Le sono grato perché ho amplificato l’altra componente. I vini nascono da un approccio naturale e biodinamico. Prima di essere sensoriali. Ce ne sono sette in gamma. E pensare che papà Sergio ne voleva fare e ne faceva solo uno. Era fatto così. Prendere o lasciare.  Literaia è un vino nato per un importatore americano. “Rimedio naturale alla sete ed affini”. Bottiglie da un litro. Una sorta di Fiaschetto. Il classico vino buono toscano.  Non ci vado d’accordissimo con questo vino.  95% Sangiovese e 5% Trebbiano. Il Trebbiano le chiamo le Principesse. Tre filari del 57 tra filari di Sangiovese. La storia narra che siano tristi perché sole tra i filari. Le ho allora messo dei fiocchetti dicendo che erano le mie principesse. Dopo di questo la produzione è aumentata e di maggior qualità. Tutta la massa viene vinificata insieme con lieviti spontanei. Solo acciaio. Idea. È un rosso di Montepulciano prodotto per la prima volta nel 2022. 70% sangiovese e 30% Merlot. Solo acciaio. Avrei voluto farlo con solo il 20% di Merlot e un anno in tonneau. L’enologa ha voluto solo acciaio. Uso il Granato come cristallo. I vini sensoriali hanno un messaggio interno. Idea ti da lo stimolo al cambiamento. Non lo sai magari poi lo fa. Vinificazione separata tra Merlot e Sangiovese. Sempre con lieviti spontanei.  Loseè rosato da salasso di Montepulciano 100%. Due giorni di Quarzo rosa, 13 di Granato e affinamento di 6 mesi con cristallo nella botte. Una volta che hai fatto le lavorazioni con i cristalli, per fare in modo che il messaggio del cristalli si sintonizzi con il vino, c’è bisogno che il cristallo stesso venga lasciato nella botte per almeno sei cicli lunari completi (10 per il Nobile, 12 Lemuria). Alchimia energetica. Luteraia Nobile di Montepulciano. 70% Sangiovese, 30% Canaiolo, Mammolo e Malvasia provenienti dai vigneti del nonno. Vinificazione separate. Cristallo Rubino. Botte grandi vecchie e rigenerate. 12 mesi per il Nobile, 15 per la Riserva. Acciaio, legno, acciaio, bottiglia.  Un vino che mantiene un bellissimo colore rubino. Con i suoi 9 anni (ho assaggiato il 2015) l’unghia granata non può non fare capolino. Il naso è pieno di frutti rossi quasi a piena maturazione con l’immancabile violetta. Poi cannella, noce moscata, pepe e un tabacco che svetta senza sovrastare. Tutta questa dolcezza trova il suo equilibrio legandosi a piacevoli note erbacee. Tutto è preludio al sorso che mi fa immediatamente pensare: davvero ha 9 anni? La spalla acida indurrebbe ad un vino più giovane; persistenza lunga e bilanciamento parlano del contrario. Tannini levigati, secco e all’apparenza non particolarmente caldo. Molto sapido direi. La meravigliosa chiusura di bocca mi entusiasma con il suo stupendo retrogusto di frutta che si miscela ad un quasi limone. Effetto wow. Aveva ragione papà Sergio. La Riserva non c’è sempre. Solo nelle annate migliori. Ho avuto la gelata. Ho avuto la siccità. Ho avuto un arresto di fermentazione. Tanti problemi. Però è un vino meraviglioso.  Lemuria è il vino più importante e rappresentativo. Mio padre nasce da li. Un vino che parla dell’Indaco di mio padre. Parla di Omero e del suo vino Indaco. Si ispira ai vini lemuriani. Non è un vino ma una esperienza. Il vino Indaco sensoriale. Il vino al quale dedico la mia vita. Se ti approcci al Lemuria come vino normale si incazza e diventa vino rosso. Non va decantato perché altrimenti diventa aceto. Si adatta a qualunque tipo di cibo. Non si fa tutti gli anni. Io non lo so se sono i cristalli a renderlo speciale. Altrimenti tutti potrebbero farlo. Forse gli piace come lo tratto e come lo faccio. C’è una sorta di dialogo. Se vedrò che i cristalli non basteranno più e magari servirà che parli con il vino, parlerò con il vino. Saranno le persone a dirmi se funziona ancora o meno. 55% di Sangiovese, poi Canaiolo, Mammolo, Malvasia e Merlot.  7 mesi di tonneau. Un centinaio in bottiglia.  Il Lemuria 2013 l’ho voluto assaggiare a casa, in tranquillità, senza alcun tipo di condizionamento. 55% di Sangiovese, 25% di Canaiolo, 14% di Mammolo, 5% di Malvasia Bianca, 1% di Merlot. I sentori sono tenui di frutta non particolarmente matura che man mano vira verso la maturazione con il calore dell’ambiente. Non può mancare il floreale della violetta alla quale si aggiunge una pungente foglia di pomodoro. Arriva il balsamico con un accenno di spezie dolci e un che di caramello e cioccolata. La sensazione che ho al naso è di pace. Davvero inspiegabile. Non c’è quella eccitazione prodotta dai sentori che spingono il desiderio di un sorso. C’è già al naso serenità e appagamento. Anche in bocca la sensazione è similare. Nonostante i suoi 11 anni è ancora fresco. Caldo, secco e sapido con un tannino ancora importante ancorché ben levigato. Ottimo equilibrio e un finale con la bocca che rimane decisamente, armoniosamente, incredibilmente, pulita. Buona struttura, non certo imponente. Fin qui un ottimo vino. Niente da dire. Le sorprese arrivano quando lo abbino con il cibo. Non avevo il finocchio ma l’ho comunque messo a dura prova: con delle patatine, con una semplice frittata al formaggio, con le verdure lesse, con il cioccolato amaro. Con ogni cosa abbia provato ad abbinarlo, non solo rispondeva bene, restituiva sensazioni diverse e piacevoli. Era come se Lemuria stesse giocando con me. Mi sfidava accarezzando e stuzzicando i sensi. Incitandomi ed invitandomi a provare abbinamenti più strani, insoliti, difficili. Lemuria è un camaleontico ammaliatore che si adatta senza prevaricare. Si concede ma solo se ci credi. Ecco, questo è un vino sensoriale.  Lemuria erano i giorni 9, 11 e 13 maggio. Si celebravano i lemuri, i fantasmi, con lo scopo di placare le anime vaganti dei defunti. Capisco il nome adesso. Capisco cosa sia un vino Indaco, Andrea non poteva che chiamarlo così. Non a placare papà Sergio ma ad onorarlo anche quando non c’era più. La differenza tra Luteraia e Lemuria? Semplice. Davvero semplice. Luteraia offre sensazioni; Lemuria una esperienza. Infine le bollicine.  È una collaborazione con altra azienda. 70% Pinot nero e 30% Chardonnay. Vino normalissimo ma lavorato con i cristalli diventa una Geisha. Ne bevi un goccio non succede niente. Ne bevi un pò e ti rende passionale.  Forse quest’anno farò l’elisir ovvero un vino alchemico al 100% preso da un libro del 1400. Vino monofonico atomizzato in oro e lapislazzuli. Qualcuno che faceva il vino alchemico l’ho trovato. Cosa è alla fine tutto questo? Magia? Superstizione? Un semplice racconto? Una suggestione? Ecco si, magari una suggestione. Una Suggestione di vino come la mia rubrica. Perché allora rompere la magia e smettere di credere nelle favole? Andrea può avere tutti i difetti del mondo e non sarò certo io a giudicarlo. Fa il vino con il cuore. Parla con papà Sergio. Usa i cristalli e la cultura biodinamica. Quello che ne deriva è qualcosa di intenso e buono. Soprattutto sorprendente per l’esperienza che ho personalmente avuto.  Allora è bene che il romanticismo di tutto ciò continui a vivere, lasciando che le persone sognino. Perché i vino è un sogno.    Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969  
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19 Aprile, 2024

Andrea e Nicolò. Due amici

Due ragazzi del borgo cresciuti troppo in fretta
Un’unica passione per la bicicletta
Un incrocio di destini in una strana storia
Di cui nei giorni nostri si è persa la memoria
Una storia d’altri tempi, di prima del motore
Quando si correva per rabbia o per amore
Ma fra rabbia ed amore il distacco già cresce
E chi sarà il campione già si capisce. Francesco De Gregori cantava così la storia dell’amicizia tra il bandito Sante Pollastri e il campione di ciclismo Costante Girardengo. Cresciuti insieme fino a quando le loro scelte, ma anche la vita, li divise. Fino al punto di incontrarsi di nuovo in un’aula di tribunale quando Costante dovette testimoniare contro l’amico Sante.  Due amici cresciuti insieme anche se non proprio da piccoli. Due amici che si incontrano per caso studiando enologia ad Ancona. Due amici che si trovano senza poi lasciarsi più andare. Nel bene e nel male. Nel lavoro e nel gioco. Nella passione e nella vita.  Andrea Giorgetti e Nicolò Marchetti. Nicolò ed Andrea. Invertendo l’ordine degli addendi, il risultato non cambia. Anche se l’azienda, che insieme hanno voluto, prende il nome da Andrea, poco importa. Il loro patto segreto e silente vale più di mille atti notarili. Andrea Giorgetti è l’azienda. Andrea e Nicolò ne sono l’anima (ma guai a dimenticarsi di Giulia, la sorella di Andrea, senza la quale la accoglienza e la vendita in azienda non ci sarebbe proprio!). Io ho studiato Viticoltura ed Enologia all’università di Ancona e mentre studiavo ho conosciuto Nicolò. Lui è più piccolo di un paio di anni. Ci siamo conosciuti a qualche corso che ho lasciato un pò indietro.  Il papà di Andrea, Sante, gestiva un distributore di carburanti in autostrada. I fine settimana Andrea lavorava li. Nicolò che aveva bisogno di un lavoro chiese all’amico appena conosciuto di poter lavorare anche lui al distributore.  Papà ha assunto anche lui. Da li è iniziata la nostra amicizia. Lavoravamo e studiavamo insieme. Facevamo tutto insieme. Ci siamo conosciuti che avevo venti anni. Le amicizie nascono per caso e continuano per volontà. Stare bene insieme. Supportarsi a vicenda. Esser pronti ad esserci quando serve. Una parola, uno sguardo, una risata, un abbraccio. Ogni gesto cementa sempre più il rapporto che resiste al tempo, agli amori, alla vita dei singoli. A volte può sembrare che uno dei due dia più dell’altro. Ma non è così. L’amicizia va oltre qualsiasi materialità. Va nel profondo del nostro animo. È come se fosse un amore che non può e non deve esternarsi in altro modo. Così Andrea e Nicolò. Sempre insieme. Andrea ha tre figlie. Nicolò due. Ammettere quanto fossero matti a vent’anni non è possibile. Matti e caciaroni. Pur se con l’animo di chi ha i piedi ben piantati nella terra dove è nato. Nato cresciuto in campagna Andrea. Con i nonni (ah i nonni!) che badavano ad Andrea e Giulia sopperendo ai genitori che lavoravano al distributore. Una vera famiglia di un tempo quelle dei nonni. Si direbbe a “ciclo chiuso” quando si faceva tutto in casa.  Era tutto magnifico. In campagna sapevo fare un pò tutto. Arrivato a venti anni, con la terra il grano non poteva andare. Qualcuno metteva erba medica o oliveto. La scelta era o olivi o vigna. Ho scelto la vigna e di studiare enologia anche se di vino non se ne era mai parlato a casa mia.  Due amici. Due studenti di enologia. Un pezzo di terra. La voglia di divertirsi e sperimentare. Et voilà! Sembrano le condizioni ideali per la creazione di una vera associazione a delinquere. Nel senso buono ovviamente! Le condizioni c’erano tutte e non si può non immaginare di non impiantare qualche filare! Ci piaceva un vino della Cantina Le Terrazze che sta qui vicino. Chaos, a base di Montepulciano, Merlot e Syrah. Volevamo ricrearlo in questi quattro filari che avevamo messi. Siamo andati da Le terrazze a chiedere informazioni.  Quando Andrea, sorridendo, mi racconta di questa cosa, nella mia mente, non chiedetemi per quale motivo, la scena che visualizzo è quella di Totò e Peppino che chiedono al vigile in Piazza del Duomo a Milano, informazioni su la Scala. Due studenti di enologia che vanno presso una delle cantine più blasonate della zona e chiedono come si fa un vino. Meraviglia da lacrime agli occhi. Abbiamo messo dunque gli stessi uvaggi nelle stesse percentuali nei quattro filari. Così da fare le prime prove. Non avevamo la cantina ma una stalla. Raccoglievamo sei o sette quintali di uva. Era bello perché venivano gli amici ad aiutarci. Le barbatelle, i pali di cemento..tutto a mano avevamo messo. Un lavoro enorme. Ma venivano gli amici e facevamo festa. Ridendo e scherzando il vino gli veniva bene. Magari un pò di fortuna o gli studi applicati bene. Di certo la vicinanza al mare con i venti, sempre presenti a mantenere l’uva perfettamente in salute, li ha aiutati un bel pò.  Siamo in Contrada Monte Priori a Potenza Picena (MC), proprio sulle colline che si affacciano sul mare Adriatico (in cinque minuti da qui si è in spiaggia!). Vigne esposte a nord il che vuol dire prenderseli tutti i venti del mare. L’uva non poteva (e può) che essere di grande qualità.  I vini venivano bene. Abbiamo detto: andiamo avanti. Avevo quattro ettari ma su uno ci sono olivi secolari. Essendoci i PSR, i fondi europei, abbiamo detto: facciamo la domanda, se ce la accettano andiamo avanti altrimenti lasciamo perdere tutto e continuiamo a fare i quattro filari. L’hanno accettata e siamo partiti con questa avventura.  I segni del destino sono spesso inequivocabili. Da quando fai una cosa per scherzo a quando ti tocca farla sul serio, il passo può essere lunghissimo o brevissimo. L’accettazione della domanda PSR può sembrare una svolta o rivelarsi una condanna. Una volta vinto il bando infatti occorre preoccuparsi della restante parte dei soldi necessari per iniziare l’avventura. Il 60% della cifra, qualunque essa sia, per due studenti, è sempre troppo Mio papà che non c’è più era quello che credeva in questa avventura. Il 40% l’ha messo la Regione e il 60% papà. Siamo andati avanti grazie a lui. Abbiamo poi fatto l’investimento della cantina. La casa dove vivo adesso aveva una taverna nata per fare le cene con gli amici che si è trasformata in cantina. Mantenendo una parte per le cene con gli amici! Andrea ha questa meravigliosa parlata marchigiana che lo rende schietto e vero. Pronto alla risposta ma pronto anche a vergognarsi quando vorrebbe mordermi la lingua per quello che ha detto. Anche se non dice mai nulla di fuori posto. Il sorriso sornione e spontaneo. Il cuore che gli si apre quando parla di Nicolò e della sua famiglia. Anche le difficoltà sono motivo di allegria.  La passione che condivide con Nicolò, riempiva i momenti di allegria con gli amici. Però poi, quando la famiglia cresce, di tempo ce ne è sempre meno. Tre figlie, un lavoro che deve comunque esserci perché la vigna non basta (Andrea insieme alla sorella Giulia hanno continuato l’attività del padre alla stazione di servizio), lasciano poco, davvero poco spazio al vino. Eppure continua. Anzi, continuano. Perché non si fa un rimontaggio se non lo si fa insieme.  All’inizio abbiamo messo la Ribona. Un vitigno dannato. Tutti ci scoraggiavano perché considerato un vino di serie B. Nessuno riusciva a fare un vino buono. Io ho la testa dura ma l’ho voluta mettere per una questione di principio. I primi anni ci ha scoraggiato. Ci mettevamo tutto il nostro impegno ma il vino non veniva bene. Lo sconforto era arrivato. Nel frattempo ci siamo laureati e abbiamo fatto esperienze all’estero e nelle cantine della zona. Da li la qualità è aumentato. La Ribona dal quarto quinto anno in poi ha fatto anche un cambiamento pazzesco. Sangiovese e Montepulciano già dal terzo anno sono andate bene.  Dimenticavo la testa dura di Andrea. Tipico anche questa dei marchigiani. Ricordo una mia amica, di Macerata, che diceva sempre “dalle e dalle, se piega pure le metalle”. Ecco, Andrea non è da meno. Si erano innamorati di un blend e scelgono di partire con la Ribona. Sapete perché? Perché è complicata e non ci riusciva nessuno. Volevano essere i primi. Ci siamo attrezzati con una cella frigorifera perché abbiamo capito che la Ribona ha necessità di essere conservata. C’è poco da fa. L’abbiamo adattata perché era il tunnel di ingresso alla cantina e due settimane all’anno diventa cella frigorifera. Non c’abbiamo più una lira dunque adattiamo. Con il freddo e un pò di studio in più i due buontemponi iniziano a fare la Ribona con criterio arrivando a prendere nel 2020 un premio con Berebene Gambero Rosso. Poi anche con il Rosato Aganita.  Da li abbiamo iniziato a vedere qualche soldino. Importante per pagare i mutui. Fino li avevamo solo messo soldi.  Insomma, nel 2005 impiantati i primi quattro filari. Dieci anni dopo nel 2015 le prime vendemmie serie. Nel 2020 finalmente qualcosa di buono.  Nelle zone nostre sono tutti vecchio stile. Conti qualcosa se vinci qualche premio. I rossi già dal 2018 li facevamo interessanti. La Ribona si è fatta attendere al 2020. Il rosato lo abbiamo fatto per scherzo.  Quando il cuore di un papà è grande e soprattutto tenero, lo si vede da tante piccole cose.  Il primo rosso si chiama Adele come la mia bimba. Nascevano insieme nel 2017. Il mosto era quasi vino, gli ultimi travasi. Stava per nascere mia figlia e ho dovuto per forza chiamare il vino come lei. Poi sono arrivate altre due bimbe, gemelle, e dovevo per forza dedicare qualcosa anche a loro. Abbiamo pensato a questo rosato e non pensavamo che il rosato venisse bene in queste zone. Qui non c’è la cultura del rosato. Non se ne parlava. Lo abbiamo fatto con criterio in blend tra Montepulciano e Sangiovese. Lavorazione a freddo, riduzione estrema. Facilità di beva, freschezza. Il Gambero Rosso ce lo ha premiato subito. Inaspettato. Ci ha fatto pensare che stavamo andando nella direzione giusta. Adesso sono conosciuto in questa zona soprattutto per il rosato. Si chiama Aganita come le mie bimbe Agata e Anita. Il panorama che si gode da qui è bellissimo. C’è una atmosfera magica e nell’aria quella spensieratezza di due ragazzi che hanno messo in un progetto i loro anni più belli. Una quercia grandissima domina i vigneti e non può che essere questo il luogo ideale per le degustazioni guidate da Giulia.  Il Rosato lo vendiamo tutte qui. Delle 7000 bottiglie prodotte, 4000 ne vendiamo qui. Una manna dal cielo che non pensavo mai. Siamo poveracci ma ci si diverte.  Andrea ha investito tutto in questa avventura. In questo suo sfogo naturale. L’area di servizio, presa in gestione nel 2015 quando il papà è venuto a mancare, è un grande impegno. Anche per la responsabilità dei 12 dipendenti e delle rispettive famiglie. È un lavoro grosso. Non centra nulla con questo. Magari destinato a morire perché la figura del gestore è destinata a morire. Questo che è il piano B diventerà magari il piano A. Nicolò sembra defilato in questa storia. Lui che dopo gli studi inizia a fare consulenze in zona come enologo per poi approdare ad una azienda che produce prodotti enologici. Lui che lavora in cantina e non ha grande voglia di emergere. Non gli interessa se l’azienda porta il nome dell’amico. È un amico. È suo il papà grazie al quale ha guadagnato qualcosa durante gli studi. Colui che ha creduto in questa avventura mettendo anche gran parte dei soldi. C’è tanta riconoscenza che però da sola non può minimamente spiegare la profonda amicizia che lega Nicolò ad Andrea ed Andrea a Nicolò.  Nicolò mi ha sempre dato una grossissima mano. In etichetta gli ho dato la nomina di enologo. Il patto è che si fa tutto a metà. Una regola non scritta ma che vale più di mille notai. Se devo fare un travaso aspetto Nicolò. È nata cosi e sarà cosi. Anche le lavorazioni in vigna. È un legame forte che non finisce. Le cose si fanno insieme e se può solo uno non si fa. È un modo per stare insieme. All’università eravamo festaioli. Eravamo un pò cosi. Siamo completamente cambiati perché quando si tratta di vendemmiare siamo seri estremi. Pignoli. Chi vendemmia con noi ci dice “siete sempre voi”?. Ci teniamo. Non dobbiamo sbagliare nulla. Eravamo conosciuti per quelli “tanto è uguale” mentre siamo diventati due estremi.  Dai 3.5 ettari vitati i due ragazzacci producono quattro vini. Tre di questi portano il nome di qualcuno della famiglia Giorgetti. Adele è il blend di Montepulciano e Sangiovese al 50%. Solo acciaio per un vino da tutto pasto. Fresco e generoso. Per nulla impegnativo e adatto ad essere bevuto sotto la quercia nelle serate di primavera. Quando ancora non fa troppo caldo. Aganita è il rosato da Sangiovese (90%) e Montepulciano. Un rosato che non ti aspetti perché dotato di una vena balsamica forse fornita dal tanto iodio che arriva dal mare. Ma è fresco di frutta fresca, delicato ed elegante. Poi c’è Sante. Papà Sante.  Per ringraziare il mio papà. Il rosso di maggior pregio che fa un passaggio in legno di rovere.  Tonneau e barrique di due tostature diverse. Ci siamo concentrati parecchio: selezioniamo le uve, lo facciamo solo in annate particolari e non ci deve essere un solo chicco rovinato. È un rosso che come dico a tutti lo facciamo perché ha una storia e un valore affettivo. È un rosso che però in queste zone si beve poco. Siamo conosciuti per la freschezza e la bevibilità mentre Sante è da meditazione. Anche io bevo raramente. È interessante assaggiarlo durante il percorso che fa in bottiglia.  Infine il Ribona Flosis che prende il nome dal fiume che scorre qui vicino e che in epoca romana si chiamava cosi. Da qualche carta geografica trovata in comune, il fiume scorreva quasi qui sotto la cantina nostra. Con i millenni magari ha contributo a creare i terreni. Facciamo le fermentazioni lunghissime. Le temperature controllate allo spasimo. Il grosso lo facciamo in campo e in fermentazione. Poi non facciamo più niente. Abbiamo capito che in bottiglie evolve tantissimo. Pensiamo di darlo alle guide l’anno successivo.  Un vino il Ribona, recensito sul mio blog Instagram, che stupisce davvero. I sentori sono di frutta fresca a pasta bianca accompagnato da note erbacee. Ananas, acacia e un leggero iodio. Fieno tagliato e frutti tropicali si rincorrono. Quando pensi di averlo capito ti stupisce con le note sgrumate e una nota idrocarburo. Sorso secco e con una bella avvolgenza che non stucca ma arricchisce il sorso. Sembra che sia morbido ma poi scende giù con una verticalità meravigliosa!Un bel retrogusto di limone delicato che pulisce in maniera egregia la bocca.Persistenza non lunga e bellissimo bilanciamento che invita a berlo e berlo. Semplice e genuino. Schietto e vivo. Convincente ma tanto. Un bellissimo lavoro dei due ragazzacci! Due amici che fanno vivere la loro amicizia nel modo più alto e puro. Non serve neanche parlarsi alle volte. Non serve una società con quote e notai. Forse il vino buono viene anche da questo.  Io copro gli errori suoi e lui fa cosi con me. Magari litighiamo ma in maniera dolce. Alla fine ammettiamo chi ha ragione. È bellissimo e importantissimo. Tutto davvero molto bello. Pensare al futuro sembra un obbligo ma nemmeno ci pensano. Forse per non rovinare tutto. Guardare al presente con la speranza di arrivare a guadagnare di più. Monetizzare diventa importante anche se non prioritario. Espandersi diventa complicato. L’essere vicini al mare è un vantaggio certo ma anche un problema. Chi ha terra non la venderà mai.Il vino ce lo finiamo subito. A natale l’ho finito. Non vogliamo acquistare l’uva. Il futuro, a meno che non cambia qualcosa che ci piacerebbe continuare così magari guadagnando qualcosa in più. Non ci possiamo allargare. Ci piace il discorso che ognuno ha lavoro suo e questo lo facciamo insieme.  I due ragazzi del borgo, cresciuti troppo in fretta come dice De Gregori non hanno bisogno di altro se non continuare la loro amicizia. E la loro avventura.  In mente la voglia di guadagnarsi un riconoscimento come i Tre bicchieri del Gambero Rosso. Un pò perché, come dice Andrea, in queste zone se non hai un premio non ti si fila nessuno; un pò perché, secondo il mio parere, avrebbero bisogno di sentirsi dire che sono bravi. Che ce l’hanno fatta. Una pacca sulla spalla. Mi viene in mente papà Sante che ha tanto creduto in loro e nel loro progetto. Magari sarebbe bastata la sua approvazione. Il migliore dei premi possibili.    Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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12 Aprile, 2024

Daniele Rota: io sto bene al mondo

C’è chi l’amore lo fa per noia
Chi se lo sceglie per professione
Bocca di rosa né l’uno né l’altro
Lei lo faceva per passione Fabrizio De Andrè così cantava Bocca di Rosa. Non era una prostituta ma una donna alla quale piaceva far l’amore. Per passione. Perché era felice in questo modo. Perché quello era il suo equilibrio. Perché, semplicemente, stava bene al mondo.
La leggerezza nella vita. Il sorriso. Il sapere di essere su questa terra per poco tempo le dava la voglia e la gioia di vivere. Non ambiva a possedere un uomo ma solo a volerlo per il tempo necessario a provare gioia e piacere. Una visione di vita che ai più può sembrare scriteriata. Ai più come alle donne del paese di Sant’Ilario che alla fine E quelle andarono dal commissario
e dissero senza parafrasare
“
Quella schifosa ha già troppi clienti
Più di un consorzio alimentare” Cosa diavolo ora c’entra Bocca di Rosa con il vino?
Quando incontro Daniele Rota, incontro una persona che non solo sembra in pace con se stessa, ma che lo è realmente e riesce a divertirsi con ció che fa. Non che sia una persona poco competente. Al contrario è una delle persone con maggiore esperienza che io abbia mai incontrato nel mondo del vino. Solo che affronta le cose con leggerezza.
Finta leggerezza che cela grande rigorosità. Con se stesso prima, con gli altri poi.
Anche perché l’azienda che gestisce non è che sia propriamente piccolina.
Poco importa. Lui, nella sua casa immersa in undici ettari di vigneto, ci vive da scapolone. Entrando nel suo salone potrebbe risultare finanche un tipo eccentrico. Magari perché non si può fare a meno di notare le moto e il sidecar parcheggiate accanto ai divani. Si avete letto bene: parcheggiate li tra i divani. Vi assicuro che non è per nulla eccentrico. È solo fatto così e fa quello che gli passa per la testa. In questo caso, probabilmente, voleva solo circondarsi delle cose che ama e lo fanno stare bene.
Magnifica leggerezza di una persona che sta bene al mondo. Io ho sempre avuto la passione del vino e di far il vino. A 14 anni volevo fare l’enologo. Ho sempre avuto la possibilità di farlo mentre studiavo così come di scegliermi la strada senza che nessuno mi rompesse le scatole. Il che non ha funzionato benissimo. Perché è poi diventata anche la mia dannazione e malattia. Mio nonno aveva una cantina e si faceva lo sfuso.
Siamo grandi produttori ma mai stati grandi imbottigliatori. Da ragazzino mentre facevo l’università ci ho pure lavorato nella cantina di nonno. Sono stato un grandissimo paraculo. Facile fare l’università e lavorare per quello che studi. Era pesante certo però non studi. Impari. Daniele si esprime in un simpaticissimo e goliardico romagnolo. Non per altro, siamo a Reggio Emilia, più precisamente a Sabbione. Terra di Lambrusco. Terra anzi, terre di grandi produzioni. Perché qui se non hai almeno cento ettari non sei nessuno.
Il nonno di Daniele di ettari ne aveva comprati 300. Direttamente dal Commendator Davoli, un ricco commerciante di ferro degli anni 30. Sua la tenuta insieme alle stalle, alla cantina, al mulino, al caseificio, alle stalle per tori, i maiali si era fatto costruire anche la casa padronale dall’architetto Bottoni, uno dei maggiori interpreti del Razionalismo italiano. Villa Davoli. Che diventa poi il nome della azienda di Daniele. Questa era la sua tenuta. La casa di campagna. Un mezzo latifondo. C’erano 300 persone che lavoravano per lui che non c’era mai. Il nonno di Daniele prima compra 40 ettari della tenuta poi la rileva totalmente pur non essendo ricco di famiglia. Aveva però il fiuto per gli affari.
Siamo nella terra dei motori e lui acquistava in Italia le auto sportive che uscivano di produzione per rivenderle in Sud America con un sicuro guadagno. Ci sapeva fare il nonno! Nonno l’ha comprata tutta nel 74. Poi venne divisa tra i cinque fratelli. Si era sposato con mia nonna che era nobile. I genitori non volevano che si sposasse perché non aveva una lira. Erano dunque scappati…Mio papà era del 48, nonno del 17. Si sono sposati a 21/22 anni. Erano tempi diversi. Non so perché ma ho idea che in famiglia si ridesse un sacco. Gente determinata e ben decisa ma con il sorriso che non poteva mancare. Mai. In Emilia si può essere scanzonati e goliardici, con la voglia di divertirsi e far baldoria e ogni occasione è buona, ma certo mai poco attenti o senza capacità. Perché senza capacità non vai da nessuna parte. Qui maggiormente. Qui dove i volumi sono alti e con questi le responsabilità. Daniele è uno che si diverte e si sa divertire ma non è certo uno sprovveduto. Già da giovane si rende conto e sa che se vuole gestire l’azienda, di strada da fare e cose da imparare ne ha. È per questo, ma anche per divertirsi altrove secondo me, che se ne va in giro per il mondo. Nel 2002 sono andato a lavorare in una cantina in Sicilia che non esiste più. Calatrasi. Facevano prodottini bianchi e rossi molto interessanti. I Catarratti erano molto buoni. Erano venduti in Inghilterra dunque erano molto influenzati dal legno. La cantina aveva una filiale in Puglia dove sono finito due anni dopo. Manduria. Nel frattempo era cambiato proprietà. Poi in Cile dove sono stato sei mesi. Non mi lasciavano mai andare. Mi sono trovato bene io e si sono trovati bene loro. Mi avevano offerto di restare e mannaggia a me che non ci sono restato. Eccolo Daniele. Buontempone, guascone, spaccone. Ma c’è poco da fare. Mi sta simpatico a pelle. Ti guarda, ti sorride e ti dice le cose. Quando pensi che ti stia prendendo in giro, eccolo che ti frega perché ti sta dicendo proprio la verità. Dal Cile mi avevano offerto una cosa in Francia ma non ho avuto cuore di andare ad imparare il francese. Italiani e francesi più di tanto non possono lavorare insieme sullo stesso vino. Allora sono andato a lavorare in Toscana. Anche li non esiste più. Vicino Certaldo. Posto spettacolare.
Nel frattempo spippolavo nella azienda agricola ma non in cantina. L’azienda era gestita da mio papà perché nel frattempo nonno era venuto a mancare. La sua cantina è andata in mano a mio zio che sta trasformando buona parte della cantina in un agriturismo con successo. Vitivinicola Rota è di mio zio. Dalla Toscana Daniele ritorna in Puglia mettendo le mani in pasta nel Primitivo che cominciava a decollare proprio in quel periodo. Poi in Veneto dove lavora per Cielo e Terra. Un salto importante che da solo fa capire quanto Daniele avesse già acquisito, o implementato, il suo bagaglio culturale e di capacità nel mondo vitivinicolo. Cielo e Terra è una azienda grande e con Daniele cresce ancora di più. Quando sono arrivato io erano a 7/8 milioni di bottiglie. 5 erano di vino Freschello che è un prodotto da supermercato e poi 20 milioni di brick. Con questi era davvero dura. Mi sono rotto i coglioni li e sono andato a lavorare per la Contri Spumanti dove ho fatto un bel progetto. Mi hanno dato dieci milioni di euro e gli ho costruito la cantina a Campogalliano: dal pavimento alle prime dieci milioni di bottiglie. Ero il direttore di stabilimento. Per far funzionare un impianto da 18 mila bottiglie ora devi sapere anche dove passano i cavi. Dicevo alla gente cosa fare per farlo funzionare. Sono soddisfazioni. Non sono tante le aziende che fanno cantine ex novo. Loro avevano scelto le macchine per imbottigliare e le ho installate tutte. Sono portato a far funzionare le macchine. Rimpiango gli stipendi. Darsi le arie non è tra le caratteristiche di Daniele. Non è di quelli spacconi che dicono le cose tanto per vantarsi. Lui è uno di quelli che dice la metà di quello che è o ha fatto. Timidezza? Ma no. Ci mancherebbe altro. Riservatezza? Giammai. Parla anzitutto con i fatti e poi, cosa più importante, fa le cose perché gli piace farle. Certo, il tornaconto è importante, ma lui se non si diverte nemmeno si alza la mattina. Finisce le esperienze nell’Oltrepò Pavese prima di decidersi ad occuparsi della sua azienda che, a causa delle varie divisioni ereditarie, era arrivata a contare 36 ettari di terreno con 26 di vigneto. Le uve? Conferite ovviamente. Mica aveva il tempo di stare dietro a qualcosa di diverso lui.
Finire le esperienze e smettere di andare in giro non è propriamente uno smettere di bighellonare come lo è per molti. Per Daniele è quasi un segnale a se stesso per cercare di far qualcosa di diverso, di personale. Nessuna voglia di emergere. Nessuna voglia di fare qualcosa per qualche altro. Per se stesso. Per mettere a frutto ciò che ha imparato. Magari per smettere di conferire le sue uve e fare finalmente una sua bottiglia. La mia azienda intanto andava avanti. Il prodotto lo conferivo in cantina sociale. Era già un miracolo riuscire a fare questo. Bazzicando parecchio il veronese per lavoro, per amicizia e anche per donne, vedevo che c’era la necessità di alcuni prodotti che nessuno si prendeva mai la briga di fare. Non ho mai capito se non volevano farli perché c’era da sbattersi, perché non erano capaci o perché non valesse la pena farli. Il mondo del vino è davvero particolare e variopinto. Trasmissioni come Report hanno avuto il grande merito di portare alla luce dei riflettori (quella che si spegne appena qualcos’altro viene illuminato) ciò che qualcuno fa (o non fa). Il racconto di Daniele è sferzante, vero. Nessuno più di lui sa cosa accade. Lui che conferisce l’uva e non una uva qualsiasi ma l’Ancelotta, generalmente utilizzata come taglio. L’Ancellotta è come un diamante grezzo: è chi taglia il diamante che crea una opera d’arte. Quando tu la tagli con la forma giusta diventa un diamante o un brillante. Ma qui sono abituati a lavorare con il badile. Così ho cominciato a far appassire un pò l’uva. Esperimenti sulle mie spalle. Con il biologico è complicato. Daniele, grazie anche alla sua esperienza, capisce che l’uva che lui e il padre hanno sempre coltivato, potrebbe essere trasformata e gestita in maniera diversa. Vinificarla “normalmente” non avrebbe portato a nulla, ma messa, ad esempio, in appassimento, così come tradizione del veronese, forse forse qualcosa di speciale avrebbe potuto dare. Ho cominciato a far appassire le uve.. Il primo anno nel mio ufficio con il ventilatore. Il secondo anno ne ho fatto 40 quintali. L’anno dopo 100. Questa roba che sembrava una follia, follia non era. Mi ha creato delle uve di qualità. Allora mi sono detto: perché non provo a buttarci sopra un Lambrusco e vediamo cosa viene fuori? Al massimo se va male lo vendo come sfuso.
L’anno prima l’avevo fatto 100 litri con un rosato. Poi l’ho fatto con il Lambrusco. Dopo l’esperienza ho indiziato a venderli in giro. Una volta spiegato ai clienti, questi tornano. Ho fatto dei mercatini e la gente tornava a comprare. Tutti contenti. Un mito Daniele! Capisce cosa ha in mano e capisce che nessuno prima di lui ci aveva ne pensato ne tantomeno provato. La sua è zona di grandi vigneti i cui proprietari preferiscono conferire piuttosto che vinificare. Soldi facili e soprattutto sicuri. Che senso ha vinificare? Già. Ma se sei uno come Daniele, eclettico, dinamica, persino stravagante, di quelli che non se ne stanno stare ferme e che ambisce a far si che la sua azienda rappresenti pur qualcosa di diverso, ecco che la vinificazione assume significato profondamente diverso. Intuizione, conoscenza, spirito di iniziativa. Senza elementi come questo sarebbe stato solo una autocelebrazione. Invece Daniele fa le cose per bene. Con rigorosità. Anche se l’aver messo le uve ad appassire con un ventilatore nel suo ufficio fanno venir fuori il suo carattere. Ho piantato un pò di bianco. La Spergola con un pò di Malvasia. Tipicamente reggiano. Non sono amante del Lambrusco anche se mi piace il Sorbara. Vorrei farne una bollicina ma ci sto studiando. Con l’Ancellotta faccio anche l’aceto. Sia il balsamico sia l’aceto. Per il balsamico di Modena ci vogliono sessanta giorni. Il disciplinare è una fregatura. Perché basta miscelare i prodotto e metterli sessanta giorni in contenitori di legno. Non botti. Contenitori. Anche sui disciplinari Daniele non he ha per nessuno. Parlare con lui vuol dire scoperchiare di tutto e di più magari fornendo altro materiale per le chiacchiere. Forse è meglio tenermelo come bagaglio culturale senza essere troppo espliciti. Anche se sono sicuro che lui lo direbbe pure con il megafono. Travolgente! Tre le etichette che Daniele produce e i cui nomi sembrano usciti da un cartone animato. A pensarci bene, osservando Daniele, anche lui sembra uscito da un cartone animato: grande stazza, viso tondo e sorriso che coinvolge.  Me lo immagino con la sua moto disegnato!
Ti fa simpatia a pelle per poi continuare a volergli bene ogni volta che parla. I tre vini dicevamo: Indelebile, Impossibile, Infinito.
Indelebile (che ho recensito sul mio blog) è prodotto con appassimento dell’Ancellotta. Un vino che ti segna in tutti i sensi. Lo bevi e sai già che la lingua ti si sarà colorata. Sa di scuro. Di profondità, di potenza e vigore. Il passaggio in botte lo rende morbido ma è un inganno. Se non lo bevi non sai cosa ti perdi. Se lo bevi ti coinvolge e ti convince. Ma occhio alla gradazione (15°) perché traditore! Impossibile è il ripasso in salsa reggiana. Stesso procedimento del Ripasso veronese ma sulle vinacce esauste dell’Ancellotta. La follia della follia che però restituisce grande forza. Molto più forte del Ripasso originale e non poteva essere altrimenti. Il passaggio in botte tenta di domarlo e di ingentilirlo. Ma la sua anima resiste. Determinato, pieno, deciso. Folle. Infine Infinito, un vino ancora deciso, stavolta preciso e che si lascia bere come pochi. Sarà per quella sua sapidità in bocca o per il bouquet di frutta fresca a pasta gialla. Da bere e da bere all’infinito. Vini fatti per stare in compagnia. Per accompagnarli con i prodotti tipici del territorio. Quelli grassi e corposi. Quelli che servono per mangiare e mangiare bene. Senza fronzoli. Indelebile si chiama cosi perché il vino è fatto con Ancellotta che colora in maniera indelebile. Lo puoi usare per scrivere con la carta. Impossibile anche se il labirinto è possibile perché non si può fare un ripasso con il Lambrusco. Infinito perché mi piaceva. Piaceva a mia mamma che era malata e in ospedale. “Dammi un nome che suoni bene anche in inglese” le dissi.. Ne ho degli altri in mente. La bollicina si chiamerà Incredibile oppure Sciampo. Perché in gergo è lo Champagne. Non serve aggiungere altro alle parole di Daniele. La scelta dei nomi la dice lunga sul suo modo di pensare. Sul suo credo. Sulla sua vita.
L’allusione al labirinto però va spiegata però. Per comprenderla occorre vedere l’etichetta dell’Impossibile: c’è un labirinto che conduce ad una casa, quella progettata nel ’32 dal grande architetto Bottoni. La scelta voleva essere un simbolo senza essere un simbolo. La capacità di produrre un vino insolito, anomalo, folle. Impossibile uscirne a meno che non si osi, non si sperimenti. La casa, simbolo del Razionalismo con intorno 11 ettari di vigneto, non poteva che essere il giusto sigillo. Eppoi è anche la casa di Daniele. Insieme ad un pazzo grafico che si chiama Rinaldo Maria Chiesa e che abita in una chiesa in toscana (è più fuori di me) abbiamo preso i disegna della casa ed adattarli per le etichette. Da li i nomi dei vini sono venuti in mente a me. La mia azienda si chiama AgriRota però non volevo portare il mio cognome sulle bottiglie perché ci sono i miei parenti che fanno qualcosa ma anche perché doveva essere qualcosa di non personale. Nella mia testa devono rimanere di nicchia. In ogni parola di Daniele emerge sempre la nota goliardica mista a leggerezza tale da ingannare i più ingenui. Daniele ci gioca, si diverte. Lui che è competente e attento capisce chi può prendere in giro, chi no; con chi può confrontarsi, con chi no. La spensieratezza insieme alla goliardia è quella che vuole trasmettere tramite i suoi prodotti. Senza fronzoli, pienamente studiati. Frutto di sperimentazioni e capacità.
Uno dei casi nei quali i vini rappresentano a pieno il produttore.
Spensieratezza? Provate a chiedergli cosa vorrebbe fare tra vent’anni e vi sentirete rispondere Mi vedo in Thailandia a non fare un cazzo. Per poi aggiungere (qui il Daniele vero e concreto) Mi piacerebbe far funzionare la vendita delle bottiglie e non vendere più l’uva sfusa. Sempre che sia la bottiglia la confezione del futuro. Sto lavorando come consulente sul vino senza alcol. Mi piacerebbe trovare una alternativa più ecologica delle bottiglie. Ho fatto uno studio sulle lattine.
Iniziamo una discussione sui tappi e dimostra tutta la sua conoscenza. Daniele miscela le sue personalità con l’amore e la passione per questo mondo; la sua vita e il suo essere. Prendere o lasciare. Non ci sono mezze misure. Non si fanno prigionieri. La sua vita è fatta di concretezze e frivolezze. Devono convivere e se non convivessero ci penserebbe lui a far si che accada. Scegliere? Perché mai. Se voi voleste scegliere, diventerebbe solo affar vostro. Non suo. Sarà sempre e solo nelle vostre mani. Lui, Daniele è e rimane una di quelle, poche persone, che può permettersi di dire, senza fronzoli e senza tentennamenti: io sto bene al mondo!       Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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5 Aprile, 2024

Michele Petri. Tra i grandi Supertuscan, ci sarà il mio

Cosa facevo io a 25 anni? Ero a Torino a lavorare da mamma Fiat. Come ingegnere, ancorché aeronautico, lavorare per Fiat era un onore. Bellissimo periodo della mia vita. La prima esperienza lontano, l’addio a casa di mamma e papà, la grande città dove tutto è nuovo e bello, un lavoro fantastico, dei colleghi accomunati dagli stessi obiettivi. Insomma una vera figata. Anche perché andavo in giro a scoprire il mondo. Non solo Torino.
Il ragazzo che ero voleva conquistare il mondo. Aveva il carattere e la preparazione per farlo. Aveva l’energia e la voglia. Aveva soprattutto il tempo per farlo. Michele Petri ha anche lui 25 anni e il suo obiettivo è quello di portare i suoi vini allo stesso livello di quelli più blasonati. Vorrei arrivare che tra i grandi Supertuscan ci sia anche il mio. Per ora è un segreto. Non credo sia impossibile ma credo che la strada sia tanta. Guadagnare, vivere bene, avere una vita felice. Certo. Ma la soddisfazione lavorativa è pensare che c’è il Sassicaia, il Solaia, il Tignanello, l’Ornellaia e poi il mio. Questo mi scalda il cuore. Sognare non costa nulla. Sognare è qualcosa che se manca rende la vita piatta e stanca. Il sogno invece arde dentro di noi e ci porta a lavorare per questo. In maniera forte e determinata. Senza patemi magari ma lottando per raggiungere un risultato. Senza questo cosa saremmo se non persone che affrontano l’oggi solo perché passi? Michele ha solo 25 anni. Terzo di tre figli (Sofia e Pietro) è quello che si potrebbe definire figlio d’arte. Papà Alessandro è agronomo e prima di mettersi a fare il docente all’istituto agrario di Portoferraio è stato per oltre trent’anni il responsabile agronomo di Tenuta San Guido. Non “uno qualsiasi” insomma. Mamma Anna, agronoma pure lei, tiene in piedi la tenuta di famiglia, Azienda Agricola Lombardi Anna in quel di Suvereto (LI): 4 ettari e mezzo di vigna, 8 di uliveto, 4 di seminativo. Tanto per non farci mancare niente anche Sofia è agronoma e adesso cura l’uliveto.
Cosa può studiare uno che proviene da una famiglia del genere? Enologia ovvio! La terra che lavoro io è di mia madre. Arrivata a lei dal nonno che l’aveva comprata ad un’asta giudiziaria. Nicolò Incisa della Rocchetta, il terzo genito di Mario chiese di impiantare dell’uva a casa nostra. “Abbiamo bisogno di uva per fare le difese. Te la pianteresti a casa tua?”
Mio padre era interessato. Più che del vino della vigna e della sua coltivazione. Si decise di piantarla. La vera colonna portante era mia madre che da sola coltivava tutto per tutto l’anno dedicato. Per me era una cosa eroica. Con una famiglia così (solo Pietro ha scelto di fare altro, il musicista) non puoi che respirarla la vite ed il vino. Magari può non piacerti a tal punto che vuoi scappare. O puoi innamorartene perpetuamente così da far diventare l’amore, la tua stessa vita. E se fossero entrambe le cose? Facevamo poca roba a livello di casa. 300/400 bottiglie. Mia zia ha 12 figli. A natale siamo in 50 e serviva il vino. Così mi sono appassionato alla vera enologia. Vedere l’uva nel tino, la fermentazione roboante che però da vita a qualcosa di elegante. Mi affascinò. In casa mia si è sempre parlato di vino e papà portava a casa anche vino dalla Francia. Anche se i princìpi a casa ci facevano stare sempre con i piedi per terra. I valori erano alti. A 14 anni Michele non può che stare in cantina con il papà. Ve li immaginate padre e figlio a sperimentare, provare? Un modo per legare. Per creare un rapporto meraviglioso, quel legame padre-figlio che può diventare indissolubile. Michele, come tanti ragazzi nella sua stessa situazione, impara, si pervade di una cultura che diventa sua. E cresce. Io spendo tanto in vino. Se trovo un Sassicaia me lo compro. Per fare un vino super devi assaggiare vini super altrimenti non hai in bocca il gusto di ciò che deve i creare. L’intelligenza di Michele arriva a fargli capire che se vuole essere annoverato tra i grandi del vino deve prima conoscerli. Non si può e non si deve essere autoreferenziali. C’è bisogno di confrontarsi. Lavorando e lavorando tanto. Il lavoro è un modo di unire le persone. Come toscani non andiamo sempre d’accordo ma la visione è la stessa. Fare un prodotto eccellente che rispetti le cose dette. Facciamo 6000 bottiglie e non vogliamo prendere in giro nessuno. Io mio occupo della parte di cantina e di commercializzazione. Faccio tutti i processi di cantina. Faccio le pubbliche relazioni. Poi manovalanza quando ce ne è bisogno. Siamo una cantina familiare. Bisogna fare le cose manuali. Forse non tutti capiscono cosa voglia dire lavorare in vigna ma quando entri in un vigneto e in fondo alla fila ti giri e vedi tutto sistemato pensi: questo l’ho fatto io. Ti stai prendendo cura di qualcosa. Questo è legato alle persone che usufruiranno del tuto prodotto. Questo è il bello. Un ragazzo molto maturo per la sua età. Si racconta con un tono che sa di gioia nell’avere qualcuno cui poter raccontare di ciò che prova. Sa che quello che lo aspetta è un percorso lungo e faticoso. Ma ce la può fare. Ha il tempo e la voglia dalla sua. Mamma ha 61 anni. È una vita che spero continui per poco. Se stai in ginocchio in vigna il fisico ti dice basta. Papà insegna all’agrario a Portoferraio. È un divulgatore per eccellenza. Non sa stare zitto. Deve cercare qualcosa dove la gente lo ascolta. Poi aiuta in cantina. La cosa che mi spaventa è che ha sempre dato molto spazio. Quando vado a chiedere un consiglio mi dice “fai te”. Questo fai te un pò me la fa fare sotto. Vuol dire sia “mi fido di te” sia “sei grande e la responsabilità” è tua. Ho fatto i miei errori, ho avuto le mie delusioni, ho detto basta questa cosa non la faccio più, rinuncio e punto a capo sono qui a combattere. Michele fa il capo scout. Ha a che fare con ragazzi dagli undici ai sedici anni. Li, nella filosofia di di Robert Baden-Powel gli scout sono un posto dove non solo si può sbagliare, ma si deve. Perché nella vita in ogni luogo dove si sbaglia, c’è una conseguenza, cosa questa che non ti fa vivere serenamente. Come puoi imparare se c’è sempre qualcuno o qualcosa che ti penalizza? Negli scout ti si insegna a sbagliare. Anche se quando sbaglio mi lecco le ferite e riparto. Michele ha imparato in poco tempo che in cantina il suo non deve essere una invasione ma una osservazione. Lasciar parlare il vino mettendosi da parte. Quando c’è bisogno del mio intervento, intervengo. Se le barrique sono buone, i batonnage sono giusti, le proteine sono giuste, non c’è molto da fare. Aggiungere qualcosa vuol dire che non si è fatto un buon lavoro prima e non è il terroir che parla ma l’enologo. Ammazza che maturità questo ragazzo di 25 anni. Non vuole scorciatoie ne le cerca. Perché non è con le scorciatoie che si arriva prima. Voler fare un vino di eccellenza non è una gara a tempo. È una competizione sulla lunga distanza. Più con se stessi che con il mondo intero. Anche se è questo che deve poi giudicarti. Io ho filosofia di farmi da parte. Mi sento un dottore per il vino. Se il paziente sta bene non lo devo curare e lui va alla grande. Se sta male tocca intervenire perché stai facendo bene al vino e a le tue tasche. L’importante è che ci sia il terroir. Sono importanti le persone senza però che mettano la propria l’impronta. Dei custodi di ciò che ci è stato dato. Alzo le mani dianzi ad un simile pensiero. Non è quello di un ragazzo di 25 anni. Non può essere. È davvero intenso. Intenso e incredibilmente vero. Ha in se quella consapevolezza che non è superbia. Il suo modo di parlare è di quelli entusiastici di un ragazzo di 25 anni. Modestia e tanta voglia di cimentarsi. Lavorando e sudando.
Michele capisce anche che lavorare solo nella sua azienda non gli fa bene. Ha bisogno di altro per crescere. Confrontarsi non basta. Deve e vuole imparare. Non fosse altro perché la teoria dell’Università necessita di un pò di sana pratica. Mi sentivo un bambino sperso. L’unico modo che potevo fare era mettere le mani in pasta e capire come funziona. Mi sono così fatto sei mesi di esperienza alle Ripalte all’Elba. Uno dei soci è Piercarlo Meletti Cavallari che ha inventato il Grattamacco ed è uno dei fautori della doc Bolgheri. Poi sono andato da Casadei a Suvereto. Ho fatto il cantiniere. Stare accanto ad enologi importanti è stato importante perché mi sono reso conto che fare l’enologo professionista non è una cosa che mi interessa. Te pensa che nel mio anno eravamo in 70 e se ne sono laureati 30. Un enologo può tenere anche 60 cantine. Una jungla. È una vita che non mi appartiene. Non mi interessa risolvere i problemi alle cantine o mettere una mano per farli diventare buoni al pubblico. Io voglio fare buoni vini. Non oso dire grandi perché la strada è lunga. Un padre importante nel mondo del vino. Una madre con tanta esperienza. Una sorella maggiore che potrebbe supportarlo. Invece Michele sceglie di andare a fare una esperienza fuori dall’azienda. Un misto di paura e voglia di crescere. Paura di non essere all’altezza della sua famiglia. Paura di fallire. Paura di non riuscire.
Andare all’Elba vuol dire lontano. L’isola mette il mare tra lui e casa. L’isola non consente di tornare quando si vuole.
Nonostante ciò, Michele deve tornare perché la responsabilità della cantina comunque è sua e solo sua. Rientravo una volta a settimana dall’Elba e facevo i travasi. Ho cercato di stargli dietro il più possibile. Cosa è mancato? Il batonnage giornaliero. Piccole accortezze che forse danno una marcia in più. Non è stato particolarmente destabilizzante per il prodotto perché i miei genitori mi hanno dato una mano. Tenere mano ai travasi è complesso ma bello. Serve che sai le cose con cognizione di causa altrimenti devi seguire la scheda. Oppure puoi giocare sapendo le cose. Un ragazzo come Michele è veramente da lodare. Ha fatto le sue scelte con uno scopo ben preciso in testa. La paura gli è rimasta e probabilmente gli rimarrà sempre. Ma ha dalla sua sani principi e dei genitori che hanno saputo instradarlo correttamente. Consentendogli di sbagliare e di decidere, da se, del proprio futuro.
Adesso è consapevole. Sa cosa succede. Ha capito che senza esperienza, ma anche senza studio, manca comunque qualcosa. Adesso sono estremamente più pronto. Anche più sicuro di cosa devo fare. È stato un anno complesso perché lavorare dipendente vuol dire prendere pochi soldi. Sono ambizioso e voglio molto di più dalla mia vita. “Ma a me cosa piace?” mi sono iniziato a dire. Mettermi in gioco anche se sono un vero “cagasotto”. Ma ho voglia di sfidarmi. La risposta era a casa. Son fuggito da casa per sapere di più. Poi mi sono reso conto che il fallimento è solo una ripartenza. Me ne sono andato per paura. Ma anche per imparare. Se me ne fossi andato per imparare sarei andato vicino casa. All’Elba era più per scappare. In questo la grande maturità di un ragazzo che di vendemmie dinanzi a se ne ha davvero tante da fare. Vendemmie così come tanto altro. Perché Michele sa che oltre a produrlo il vino, occorre anche venderlo. E li ha molto ma davvero molto da costruire.
Le idee comunque sul futuro sono chiare. Piccoli passi da compiere ma sicuramente chiari. Il vigneto ha un anno meno di me, 24 anni. Andrebbe con calma espiantato e rifatto. La qualità che facciamo è ottima. Si potrebbe far di più ma abbiamo paura che non porti bene a maturazione l’uva. Ci sono poi altri 4 o cinque ettari da piantare. Che pianteremo alla grande. Piano piano. Siamo tutti molto bravi a livello tecnico ma a livello commerciale siamo disastrosi. Abbiamo ripiantato 2.5 ettari di Cabernet Sauvignon che entra in produzione quest’anno. Poi abbiamo un Syrah che ha bisogno di essere ripiantato. Facciamo il rosato al quale tengo particolarmente perché è stata la mia tesi di laurea. Il rosato è il vino nostro più bello poiché particolare. Tre i vini in lista. Ancora magari pochi ma di assoluto spessore e identità.
Il rosato, La dama del lago da Syrah è assolutamente particolare forse anche grazie al suo periodo di immersione nel lago (dopo la fermentazione viene messo in damigiane sigillate e via, giù nel lago!).
Le gatte bigie è un blend Cabernet Sauvignon e Merlot con 18 mesi di affinamento. Potrebbe essere tranquillamente un DOCG Suvereto ma la caoticità di Michele si è un pò persa nelle questioni burocratiche (come non comprenderlo”).
Infine Le rotte del vento, un blend di Cabernet Sauvignon e Merlot che, insolito in Toscana, affina in anfora. Sul mio blog la recensione completa di questa chicca. Una scelta quella dell’anfora per puntare a rendere qualcosa dall’anima bordolese, più tagliente. L’altra parte del nostro piano prevede che il terreno che abbiamo a Segalari, sopra Bolgheri. È in una delle zone più belle di Bolgheri con l’altitudine che Mario incisa aveva pensato. Uno dei miei sogni è di poter creare lavoro. Mi preme molto. Vediamo se arriverà. Nella mia idea futura vorrei aprire una enoteca di vini di pregio. È tosta ma voglio farlo. Michele Petri. 25 anni. Vignaiolo. Segnatevi su un taccuino questo nome perché nel giro di dieci anni ne sentiremo parlare. I vini che ho avuto il piacere di assaggiare lasciano presagire uno sviluppo degno di nota.
Segnatevi questo nome, sentite a me. Michele, capisco che hai tante cose che magari ogni tanto ti provocano affanno ma cerca sempre di pensare che occorre mettere proprio le cose da fare, una dietro l’altro. Come una fila di formichine che si aiutano reciprocamente. Una cosa dopo l’altra. In fila, fanno meno paura.   Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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29 Marzo, 2024

Francesco De Angelis. L’ingegnere dell’Asprinio

Ci sono territori che rimangono dentro di noi per svariati motivi. Possono anche non essere eccelsi, ma, per qualche recondito motivo, sono in noi con un misto di nostalgia e felicità.  La zona del casertano è nella mia mente e nel mio cuore perché li c’erano i miei nonni materni. Un piccolo paese, Camigliano: grande per un bambino piccolo, piccolo per un bambino grande.  Li ho trascorso le estati, le feste, i fine settimana. Li nonno Antonio mi portava in campagna a sentire gli odori.  Il dialetto, l’intercalare della parlata. I sorrisi e i discorsi delle meravigliose persone di quelle zone. Ogni cosa è dentro di me.  Sarà per questo, anche per questo che quando incontro Francesco De Angelis, ingegnere e vignaiolo, mi sembra di ripiombare indietro nel tempo. La sua parlata, dove vive, come si pone. Tutto sa del mio passato. Ne rimango affascinato ed è bello che sia così. Siamo a Casal di Principe, un luogo che deve purtroppo la sua notorietà a questioni legate alla Camorra. Mio zio Pasquale, avvocato del Foro di Santa Maria Capua Vetere, mi portava qui narrandomi da un lato storie di Camorra, dall’altro di quanto le persone fossero in realtà persone per bene. Luoghi che sembrano non offrire nulla ma che in realtà hanno rappresentato negli anni la culla dell’agricoltura campana.  Le persone che ho incontrato da piccolo e adesso, sono uniche e splendide. Tutte legate dalla grande capacità di amare questo territorio fin nel midollo. Zio Pasquale studiava la storia. Andava a fondo animato da profonda curiosità. Cercava, proprio nella storia, le origini del territorio che viveva. La grande fertilità, i meravigliosi prodotti, avevano sicuramente fatto gola ai nobili di un tempo. I terreni di Casal di Principe, fanno parte dell’Agro Aversano la cui enorme fertilità è il risultato delle attività vulcaniche di Rocca Monfina e dei Campi Flegrei. Il primo con la sua ultima attività oltre 50.000 anni fa, il secondo ancora attivo. Minerali e, appunto, tanta fertilità dovute anche all’essere state zone paludose bonificate durante durante il fascismo. Fertili terre abbandonate per concentrarsi maggiormente sulla cantieristica e l’allevamento delle bufale (producendo tra l’altro una meravigliosa mozzarella!). Il vitigno di questo luogo è un vitigno vigoroso. Così vigoroso che si sviluppa in altezza con le alberate che raggiungono i venti metri di altezza. L’Asprinio è così. Si sviluppa in altezza per la sua capacità di crescere e produrre. Gli anziani lo legavano ai pioppi o lo appoggiavano alle mure di cinta creando la “maritata”, lo sposalizio.  Un tempo l’abbondanza era grande cosa. Una pianta che produce anche 100 kg di uva non poteva che risultare affascinante. Anche se poi arrampicarsi sulle scale di legno per portare giù quei grandi grappoli non era cosa per tutti.  Il vino che se ne ricava, l’Asprinio è un vino secco. Così secco che Mario Soldati scriveva “Non c’è bianco al mondo così assolutamente secco come l’Asprinio: nessuno”. Secco e di grande impatto di abbinamento. Troppo difficile però coltivare un vitigno come l’Asprinio nella sua accezione antica. Solo il doversi arrampicare come ragni su quelle pericolanti scale avrebbe scoraggiato chiunque. Anche il papà di Francesco che sulle terre di famiglia si accontentò di coltivare le mele Annurche, la pesca Puteolana, i pomodori. Ma non il vigneto. Troppo difficile.  Francesco si trova anni fa a capire cosa farne dei tre ettari del terreno di famiglia. Ne parla con un amico, anzi, come dice lui, un parente, agronomo.  Parlando con un parente agronomo mi disse “ma perché non metti un vigneto?” Mi ricordai di quando ero piccolo che avevo questo scalone per raccogliere le uve. L’Asprinio. Le scale le appoggiavamo al muro. Nonno poi mi facevo pigiare l’uva. Francesco è per prima cosa un ingegnere e io, da ingegnere, so come ragiona un ingegnere. Per lui, fare una vigna come si faceva un tempo e produrre un vino come fanno tutti, non gli passa manco per la capa (come direbbero qui). Un ingegnere ha la testa che gli frulla come un mulino a vento e ha in mente solo due cose: innovazione e qualità. Non si scappa. Non si possono fare cose che non siano di qualità come non si possono fare cose vecchie o meglio, allo stesso modo di come si sono sempre fatte. Fino ad un certo punto o meglio coniugando le cose di un tempo con la tecnologia moderna.  Lo faccio ma con il mio modo di vedere le cose. Tecnico tra virgolette. Faccio un impianto ex novo a spalliera e biologico. Anche prima era biologico perché i nonni utilizzavano solo zolfo e rame. In più come mio nonno non usava i concimi io non li uso. O sovescio o Bioma. Asprinio con impianto a spalliera? Sembra, almeno per queste zone, una bestemmia. Ma vallo a contestare ad un ingegnere che prima di cominciare la sua attività di vignaiolo ha usato il metodo ingegneristico: studio, sperimentazione, documentazione, confronto.  Studia tutto ciò che trova da studiare documentandosi senza limite. Si confronta con agronomi ed enologi. Sperimenta quanto sperimentabile! Ho studiato. C’erano dei corsi della regione Campania. Chiedevo consigli ad un amico enologo ed agronomo appassionato di biologico. Le terre c’erano ma prima dovevo capire come partire. Da noi la spalliera non è un tipico impianto. C’è l’alberata ma è difficile. Mi sono studiato i sistemi a spalliera e ho individuato quale potesse andar bene. Ho impiantato la barbatelle scegliendo le gemme con una ricerca tra le varie tipologia di asprinio. Mi servivano i paletti in acciaio per la spalliera ma qui non ci sono nemmeno sistemi per impiantare i paletti. Ho dovuto prendere una impresa che impianta i paletti sull’autostrada. Insomma ho coniugato le capacità del territorio con quello che mi serviva. Insomma, ho fatto la scelta di tutto da ingegnere. Sono partito da solo con un agronomo che suggeriva. I primi anni con grande difficoltà perché senza esperienze. L’esperienza ce l’aveva il nonno.  Un ingegnere si annoia a fare le cose allo stesso modo o le solite cose. Fare una cosa ex novo non era nelle sue corde. Impossibile solo a pensarlo. Ma anche insolito.  Ora, immaginatevi la scena. Francesco che è nella sua vigna in costruzione con tanto di paletti in acciaio e le persone del luogo che passando non potevano che pensare quanto fosse insolita e insensata la sua idea.  Ingegnè ma chi to fa fa. ..mi prendevano in giro. Però i consigli sono serviti e le piante sono cresciute con l’uva bellissima. Quelli che mi prendevano in giro si fermavano “ingegnè hai fatto una bella uva”. Una bella soddisfazione.  Se anche gli anziani del luogo davano il proprio consenso, allora non si poteva che essere sulla strada giusta.  La campagna, la vigna. Si per Francesco sono importanti. Salire sul trattore come saliva da bambino è per lui una felicità immensa. Uno svago, un modo per evadere.  L’attività professionale è da libero professionista. Oggi cuba abbastanza ma le tempistiche mi permettono di muovermi. Le lavorazioni in campagna si fanno molto presto. La sera dopo le 20 nel periodo estivo o sabato e domenica. Ricordo da bambino quando giocavo sul trattore. Quando ci salgo sopra ritorno bambino. La manualità non è solo quella dei tasti del computer. È quella della vigna della etichetta. Ma non è la campagna la vera passione di Francesco. Sentendolo parlare ci si accorge di quanto sia attento allo studio e alla sperimentazione vera e propria. Il suo mondo è la cantina. Qui può sperimentare e capire. Non con l’ambizione di “creare” qualcosa ma di modernizzare quello che si faceva un tempo.  Volevo solo l’Asprinio. Non faccio solo il vino. O meglio faccio il vino fermo e frizzante, tre tipi di spumante, la grappa, sto cercando di fare un brandy. Ho ancora altre idee. Cerco di trasformarlo in tutti i modi che mi vengono in mente. A me piace molto la storia che c’è dietro.  La storia appunto. Come quella che ha ispirato Terzo Farnese prendendo il nome da Papa Paolo III Farnese che nel 1585 si recò a Napoli per una delle sue visita. Ora, Paolo III era un cultore del buon cibo tanto da avere e portarsi dietro un cuoco, tale Bartolomeo Scappi. Allo stesso modo era un cultore del buon bere. Il suo bottigliere personale, Sante Lancerio aveva il compito di scegliere una bottiglia di vino per ogni ora del giorno, per ogni mese, per ogni anno. Portando delle motivazioni al Santo Padre. Non è dato sapere se fosse sempre lucido. Di certo, apprezzava e comprendeva il buon vino. Sante Lancerio, proprio nel viaggio a Napoli, gli propose una bottiglia di Asprinio proveniente da una fresca di grotta dell’Agro Aversano.  Ora, se pensiamo che a quel tempo i vini potessero essere come quelli odierni, sbagliamo di grosso. Per forza doveva ad esempio essere non filtrato e per forza doveva essere frizzante: non potevano certo governare il processo di fermentazione.  Così è quindi Terzo Farnese. Ha il sapore del vino con della storia dentro. Sempre ricordando la storia ho fatto Nobir che è una piccola bottiglia con un prodotto frizzante non filtrato. Nobir è un omaggio alla “foglietta” ovvero alla misura di mezzo litro introdotta da Papa Sisto V nel 1588: al fine di porre fine alle frodi degli osti romani, ordinò di sostituire le brocche in coccio (che finiranno tutte a generare il Monte dei Cocci a Testaccio) con quelle di vetro in misure determinate. Tra queste proprio la foglietta (in romanesco “fojetta”.  A Napoli si beveva l’Asprinio e le signore bevevano la foglietta.  Nobir è un mezzo litro di vino Asprinio. Sono curioso perché leggo tanto. Mi chiedo se questa cosa si può fare, mi interfaccio con il cantiniere e l’enologo e chiedo se si può fare. Così faccio. L’enologo si diverte perché sperimentiamo. A me piace uscire dai canoni attuali. Volevo ad esempio avere uno spumante ancestrale come quello dei nostri nonni ovvero ottenuto da una unica fermentazione. Così ho bloccato la fermentazione mentre diventava vino. Ho travasato tutto in una bottiglia lasciando completare la fermentazione. Poi sboccato come se fosse un metodo classico al fine di togliere quasi tutte le fecce. Il risultato è un prodotto senza zuccheri aggiunti e senza solfiti aggiunti: ha una specificità e la storia. Senza cattivi odori. I volumi sono pochi e non può che essere cosi. Tre ettari garantirebbero anche rese molto interessanti in un territorio del genere. Ma Francesco ha in mente solo la qualità.  I tre ettari sono tutti vitati ma con Guyot c’è si qualità ma meno produzione. Questa pianta è forte perché da uva fino a 15 metri di altezza e ne può produrre anche un quintale per pianta. Io ne faccio fare circa 4 kg. Questo influenza molto la qualità del prodotto. I territori sono ricchi di sali minerali perché siamo in una ex pianura alluvionale con i vulcani di Rocca Monfina e del Vesuvio. L’alta concentrazione di sali minerali si concentrano nei pochi chicchi. È possibile che nelle bottiglie si trovino ad esempio cristalli di calcio e potassio. La concentrazione è talmente alta che per toglierli dovrei fare tante filtrazioni. La mia idea è di ottenere un prodotto che rispecchi l’Asprinio di una volta con la tecnologia che abbiamo adesso.  7 sono i prodotti realizzati anche se Francesco ne ha in mente molti di più.  Cisavolpe, metodo ancestrale (3000 bottiglie); Terzo Farnese (3000 bottiglie) Nobir (3000 bottiglie) Primo, Asprinio fermo (1300 bottiglie) DEA, Spumante Charmat (2300 bottiglie di uno spuntante non canonico già da colore);  Metodo classico Mattia (dal nome del papà per 1000/1500 bottiglie). Con questi volumi, fare l’investimento della cantina non sarebbe stato possibile. Ecco che Francesco si serve di una cantina limitrofa per vinificare. Cantina alla quale va tutta la mia comprensione per riuscire a star dietro un vulcanico pensatore come Francesco! A 300 metri da casa mia c’è una cantina sociale che ha i mezzi e lavoro solo le mie uve. Faccio li tutti gli esperimenti. Faccio dei prodotti che sono in controtendenza.  Per tutti i vini la pressatura è soffice a una atmosfera grazie ai macchinari. Questa è la tecnologia. Nel passato il torchio andava ben oltre le 100 atmosfere (anche 400!). Una bella differenza. Il pressato diventa di un colore arancione. Sembra un orange, un macerato. Già li perdiamo prodotto. Prendiamo solo il fiore. Otteniamo pochissime bottiglie cosi che con la qualità posso competere. Il massimo della qualità. Così è il mio prodotto. In alcune bottiglie non c’è solfito. Nel Terzo Farnese siamo sotto i 10mg litro cosa che potremmo scrivere “senza solfiti”. Prodotto dal sapore riconoscibile. Quello è asprinio De Angelis.  In effetti, avendo assaggiato anche altri Asprinio, la differenza è evidente proprio a partire dalla colorazione. Gli odori vengono fuori ancorché l’Asprinio non abbia particolari sentori. Quello di Francesco ha una sapidità spaziale. In bocca l’alcol sembra non esserci grazie alla sapidità. La tipologia di prodotti è cosi particolare ed identitaria che il primo sorso non è sufficiente per apprezzarli. Il secondo però comporta il non potersi più fermarsi per via di una pazzesca fruibilità . Sono vini da pasto poiché la grande freschezza necessita di un abbinamento che, qualora corretto (pesce in frittura, frittura in generale, formaggi freschi, mozzarella di bufala, pizza base bianca), fornisce una pulizia del palato unica nel suo genere.  Mattia è una esperienza. Un Asprinio che non ti aspetti. Eppure la generosa spalla si presta benissimo alla spumantizzazione. Un metodo classico che mi ha stregato già da quel colore intenso e vivo come se fosse un macerato (ma il contatto con le bucce nemmeno lo ha visto). I sentori di albicocca, pesca e mandarino spiccano anche se ingannano per la loro freschezza e semplicità. In bocca infatti Mattia da il meglio di se e degli altri con una pazzesca mineralità dunque sapidità. Il gusto che ricorda la albicocca disidratata e mandarino si uniscono alla proverbiale freschezza dell’Asprinio ma con un perfetto bilanciamento. Perlage finissimo grazie ai 30 mesi di affinamento: in bottiglia!! Finale fantastico e persistenza lunga ne fanno un prodotto che ho sposato con vari tipi di pizza. Un vero matrimonio ben riuscito. Dal punto di vista commerciale ho un amico, parlo sempre di amici, che mi cura l’etichetta e un pò di sponsorizzazioni su vari canali. Poi c’è il passaparola. Sono arrivato anche sulle Alpi. Un signore mi ha inviato una foto del mio primo spumante che non si chiamava DEA ma Francesco De Angelis del 2019 bevuta adesso. Mi ha chiamato perché gli era piaciuto tantissimo. Ne ha volute quattro casse. Ne era rimasto colpito. Vorrei piazzare i miei prodotti subito ma senza incrementare le bottiglie. Non voglio diventare industriale ma rimanere artigianale.  Questo è Francesco De Angelis e la sua Asprinio De Angelis. Una persona schietta, divertente, viva. Una di quelle persone con le quali zio Pasquale si sarebbe messo a parlare di storia bevendo un bicchiere di Asprinio. È un pò quello che ho fatto io, con tutto il cuore, con Francesco. Perché qui le persone sono come lui. Sembra che ci si conosca da sempre. L’Asprinio di Francesco è come lui: vero e unico, ma non per tutti.   Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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