31 Mag 2024
Suggestioni di Vino

Emiliano Fini. Semplicità ed umiltà

Non c’è vino senza ingegno

La terra. Tutto nasce dalla terra. Tutto torna alla terra. Un ciclo chiuso. Un anello che si chiude da dove aveva iniziato.
Ognuno ha una sua origine. Ed è li che torna. Sempre e comunque. Non c’è nulla da fare. L’elemento dal quale si è nati, nel quale si è vissuta la fanciullezza, i primi passi, le prime esperienze. Li si torna. Prima o poi si torna.
Il mio probabilmente è il mare. Senza il mare, l’odore acre dello iodio, lo sciabordio delle onde, la sabbia sotto i piedi. Non saprei neanche il mio nome senza di questi elementi.
Per Emiliano, Emiliano Fini, è la terra. La terra acquistata da papà Anacleto che, figlio di contadini, aveva lasciato la sua origine per fare l’ingegnere. La terra. La terra. Come fai a rimanerne lontano. Non la deve solo coltivare. Non la deve usare come unico strumento di sopravvivenza. Ma perlomeno la deve avere. Per coltivarla. Per viverci.
Su quella terra Emiliano scorrazzava felice con la moto da trial. Guidava il trattore dello zio. Si divertiva.

Era il mio giocattolone.

Un giocattolone per un bambino. Un impegno per un adulto. Un rimanere attaccato a qualcosa per papà Anacleto. Dieci ettari, 7 dei quali vitati. Una casa. Quella per viverci anche continuando a fare la professione di ingegnere. Così papà Anacleto. Così Emiliano. Tale padre, tale figlio.
Papà Anacleto non poteva che conferirla l’uva. Difficile fare il contadino a tempo perso. Vanno bene i sogni ma poi la realtà è ben diversa.

Mio nonno faceva vino. All’epoca si faceva in modo diverso. Era un alimento principalmente. Mio nonno era agricoltore. Mio padre Anacleto ingegnere anche lui con il pallino dell’azienda agricola. Nel 1988 abbiamo questo terreno nei pressi di Campoleone, nel comune di Aprilia, alla base dei castelli romani. Siamo per 200 metri nel comune di Aprilia. Terreni piroclastitici e pozzolana.

Emiliano è ingegnere. Papà Anacleto è ingegnere. Lavorano insieme. Progettazione edilizia. Strutture.
Emiliano solo a vederlo ti fa una gran simpatia. Un sorriso innato, spontaneo e sornione che si espande su un viso dove non ci sono capelli a modificarne l’ovale. Lui sorride di felicità quando parla della sua avventura che è grande passione. Continua a sorridere quando versa il vino. Continua a sorridere quando parla di sua moglie Michela e dei suoi figli.
Capisci quanto un uomo possa essere completo con una famiglia, un lavoro e una passione. Che magari un giorno sarà anch’essa lavoro.

Mi sono appassionato e avvicinato al mondo del vino perché partecipammo ad un corso, di quelli veloci da 8 lezioni con Marco Cum. Abbiamo iniziato ad andare in giro con lui nelle Langhe. Bellissimo. Siamo sempre andati da cantine di un certo livello. La mia prima cantina è stata Contermo, la seconda Mascarello Giuseppe. Mi sentivo raccontare….”Noi abbiamo il terreno vulcanico”. “Noi abbiamo l’influsso del mare”. “Qui c’era il mare”. Ma queste cose le abbiamo anche noi. Avevo sempre pensato che sì abbiamo una cantina, ma che non non avesse chissà quali potenzialità.

Così è nel Lazio e così è sui colli Albani. In queste zone il vino si è sempre fatto. Per casa. Per venderlo sfuso o un tanto al kg, pardon, litro, agli osti di Roma, ai fraschette, alle taverne. Chi aveva ettari di viti, quelle che danno vino quant’abbondanza c’è, le vendeva alle cantine sociali o a quelle grandi. Tanto, di mettersi a produrre vini che nessuno avrebbe mai comprato in bottiglia, non era il caso. Terra di bianchi questa. Suoli di matrice vulcanica che si incontrano con quelle che erano le paludi. Fertili e minerali. Un giusto mix per avere vini sapidi e fini ma con poca la struttura. Anche perché di vitigni autoctoni, interessanti e identitari sì, ce ne sono pure, ma la loro fragilità o comunque la necessità di grandi produzioni, li hanno snaturati.
La Malvasia Puntinata ad esempio. Quella riconoscibile per la macchia sull’acino. Uva tanto meravigliosa quanto delicata. Così delicata che si preferiva sostituirla con quella di Candia. Tanto, sempre a litri doveva essere venduta.
O il Bellone, detto pure Cacchione. Vino in quantità ma solo se trattato come una uva di serie B.
Anche il Trebbiano qui trova le sue interpretazioni più popolari e di massa. Certo, nel Cannellino di Frascati ci stava pure bene ma vuoi mettere la differenza a chiamarlo Ugni Blanc o per fare l’Armagnac?

Avevamo trovato qui, vecchie piante di Trebbiano toscano e Malvasia di Candia. Piante con circa 50 anni. C’erano 1.2 ettari di Merlot che serviva per la DOC Colli Albani. Nel 1992 piantammo 1.7 ettari di Chardonnay perché mamma insegnava francese e voleva qualcosa del genere. Dava pure ottima uva ma la mia intenzione è di non fare vini internazionali e infatti saranno i primi che salteranno.

È nel 2017 che Emiliano si decide a vinificare. Timidamente, come è lui. Quasi in punta di piedi. Con timore reverenziale ma senza paura. Un timore dettato dall’essere completamente all’oscuro di tutte le pratiche vitivinicole. Nei campi ci aveva solo scorrazzato e il vino lo aveva visto fare. Certo, da ingegnere, e se sei ingegnere devi avere una certa predisposizione fin da piccolo, il perché delle cose te lo chiedi sempre. Ma farle….Beh farle è tutta un’altra storia.

Iniziammo a frequentare Marco nel 2014 e nel 2017, proprio a casa di Marco mia moglie Michela mi dice “ma perché non imbottigliamo?” Ero un pò scettico perché avevamo già provato ad imbottigliare ma avevo dato delle uve bellissime ad una cantina sociale della zona e mi avevano ridato un vino di quelli con il punto interrogativo. Una usanza purtroppo abbastanza comune nella zona.

Ci si mette poco a capire poi perché nessuno imbottigliava in queste zone.

Marco mi presentò Damiano Ciolli con la moglie Letizia che è enologa. Sono venuti in azienda. Ho spiegato loro quello che volevo fare. Era giugno 2017. “Compra due serbatoi e li appoggiamo in cantina da me” così mi disse Damiano. Cotto e mangiato. compro due serbatoi e li porto ad Oleavano Romano in cantina. Il 2017 era stata una andata facile. Calda, con zero malattie. Mi dissero di raccogliere bene l’uva e di portare grappoli sani perché loro lavoravano solo uva sana. “O il vino viene male o devi ricorrere alla chimica ma noi non lo facciamo. Porta solo uve buone”. Porto allora solo uve perfette e loro mi dicono “Allora il vino è fatto”. Come è fatto? “Tre quarti della difficoltà sta nel portare le uve in cantina sane. Poi non devi sbagliare”. Loro il vino lo sano fa E quindi è cominciata così.

Damiano Ciolli e la moglie Letizia sono quasi una istituzione in zona. Damiano è alla terza se non quarta generazione di viticoltori. Biodinamico manco a dirlo. Emiliano in ogni modo, ragionando da ingegnere e non da viticoltore, non riesce a capire come si possa fare il vino in maniera così facile. L’annata è stata buona e come inizio, gli è andata più che bene. Non credo si aspettasse qualcosa di così rapido e ben riuscito.

Ha stupito in primis a me. Soprattutto la Malvasia che era un pò scorbutica. Aveva bisogno di tempo per esprimersi. Era pimpante, molto sapida. Mi piaceva. Per ignoranza mia mia, non ero molto ferrato sui vini del Lazio come Grechetto e Malvasia Puntinata. Una volta assaggiata ho detto “però però”. Piacevano a me per prima. Adesso sono un fan dei miei vini. Abbiamo continuato.

Emiliano è un ingegnere che fa strutture ma soprattutto è un ingegnere ovvero uno di quelli che deve fare le cose da se, dall’inizio alla fine. Da Damiano e Letizia rimane giusto il tempo di farsi la cantina investendo oculatamente e riuscendo a prendere qualche finanziamento.

Ci ho messo un pò di tempo per richiesta di finanziamento, bandi come ocm….prima che te li approvano. Nel 2022 ho prodotto 10.500 bottiglie. Nel 2023 mi sono abbastanza salvato anche se siamo in regime biologico. Siamo stati tempestivi anche se la perdita è stata del 30% di perdita.

L’attenzione al biologico della famiglia Fini c’è sempre stata. Prima con i kiwi che in queste terre hanno rappresentato l’Eldorado, poi, senza soluzione di continuità, con la vigna.

La terra è il giardino di casa dei miei dunque la trattiamo bene. Non abbiamo mai usato prodotti impattanti. Dagli anni 90 quando c’era la 2078 siamo stati in regime biologico. Per me è la stessa cosa. Nelle prime due annate non abbiamo usato lieviti selezionati. Poi abbiamo cominciato ad utilizzare accortezze in vigna e solo sovescio così sono partite con le fermentazioni spontanee. Dal 2022 l’azienda è certificata biologico. Ho scoperto, per ignoranza mia, che per mettere il marchio biologico deve essere certificata la cantina. Ho perso un anno così che dal 2023 anche le bottiglie recheranno il marchio.

Lieviti naturali nell’ottica di fare un vino il più naturale possibile. Non per moda ma per giusta conclusione di un ciclo di grande attenzione in vigna. La maniera corretta di fare le cose per una piccola azienda che vuole rispettare la tradizione e i vitigni locali.

La terza cantina che visitammo nelle Langhe fu Cavallotto. Faceva la lotta integrata in vigna da tanto tempo. Mi ha sempre affascinato la cosa ma avevo paura delle fermentazioni spontanee. Prima erano in pochi e ti davano del pazzo. Anche oggi mi danno del pazzo. Avevo un pò di timore ma Letizia mi confortava. Faccio vino naturale come conseguenza non come fine. Un lavoro che deve essere fatto bene dall’inizio alla fine. Il vino naturale deve essere buono ma senza difetti. Anche perché se ci sono i difetti, può far male più della chimica.

Il pragmatismo di un ingegnere insieme all’amore e alla passione di una persona che ha ritrovato nella terra non una valvola di sfogo, ma quasi un elemento indispensabile della propria esistenza. Anche perché Emiliano è consapevole di avere altro che gli da da vivere. Non biasima chi agisce in maniera diversa. Lui sa che si può permettere di non vivere senza compromessi.

Avevo pure comprato due libri di enologia ma ho rinunciato subito perché tutta chimica. Troppo complicato. Applico il rigore ingegneristico e ottengo uve sane. Cerco di capire il perché delle cose.

Ecco l’Emiliano ingegnere. C’è poco da fare. Non ho mai trovato un ingegnere in grado di snaturare la sua essenza. Lui ascolta, impara. Poi agisce. Anche se per sua stessa ammissione c’è poco da fare in vigna e in cantina. Un pò dissacrando e smentendo coloro che usano la chimica per difendersi. È anche vero che qui i terreni sono particolarmente facili e le condizioni atmosferiche non sono mai proibitive.

Come ingegnere sono progettista strutturale. Cemento armato, pratiche edilizie, consulenze, computi metrici. Mi porto da questo lavoro l’attenzione, la prevenzione e il saper di non poter sbagliare. In cantina faccio tutto perché Letizia e Damiano non vengono più. Seguo le loro indicazioni che popi sono quattro cose: rimontaggio per muovere le fecce e finche non puzzano le tieni li. Poi affinamento. La parte enologica è cosi semplice che non stiamo a fare cose strane. Solo nel 2018, annata fredda, abbiamo fatto con il Grechetto quello che facciamo con la Malvasia ovvero un contatto tra buccia e mosto dopo la diraspatura e prima della pressatura e fermentazione per prendere estratto dalle bucce. Nelle annate normali non lo puoi fare altrimenti sarebbe troppo amaro. Non facciamo niente di più.

Insomma una vinificazione semplice. Poche cose con la voglia di capire il più possibile. Nel caso c’è sempre Letizia alla quale fare domande. Senza vergognarsi. Perché Emiliano si sente sempre un neofita. Ed è questa la sua vera forza. Semplicità ed umiltà.

In vigna ho fatto il corso di potatura e mi piace molto. Sono un paio di anni che non riesco per mancanza di tempo. Ci tornerò quando i bambini cresceranno. C’è una lotta culturale con le persone che lavorano. Ti prendono per pazzo. Avevamo una fresa e gliela ho fatta buttare. C’è sempre stata la mentalità che il terreno non lavorato ovvero incolto non va bene ma è il contrario.
Non facciamo cultura intensiva ma inerbimento e sovescio e non abbiamo bisogno di concimare.

Mamma Giorgia a dare una mano con il tempo inizia a farsi sentire. Papà Anacleto che a 79 anni continua a fare l’ingegnere anche se stufo di correre dietro la burocrazia. Sta più in azienda e gli piace più la parte amministrativa.

In vigna non c’è mai stato anche perché mi dice che lui ha le sue idee date dal padre e non vuole andare in contrasto.

Per i vini, Emiliano è un bianchista convinto. Convinzione che deriva anche dal pragmatismo di una persona che sa cosa si può ricavare dal suo territorio. Vocato ai bianchi autoctoni e impossibilitato a generare rossi importanti.

Negli anni 90 avevamo piantato i kiwi. Nel 2006 abbiamo deciso di piantare vigna ma non c’era idea di vinificare. L’agronomo ci suggerì Malvasia Puntinata e Grechetto. Mi sono convinto che noi abbiamo cose importanti che nessun altro al mondo ha. Tra i miei vitigni ho scelto di fare quelli autoctoni. Ci piaceva il Grechetto anche logisticamente vicino alla Malvasia così che si poteva controllare meglio. Nella mia prima parte di approccio al vino erano solo vini rossi. I bianchi che mi facevano impazzire erano pochi. l rossi qui verrebbero poco strutturati e poi lo fanno bene poco lontano da qui. Le espressioni di rossi locali mi hanno fatto strappare i capelli che non ho.

Due le etichette, di bianchi ovviamente, prodotte. Cleto, dedicato a papà Anacleto per il Grechetto, Lavente perla Malvasia. Due vini identitari, pieni e caldi. Minerali e goduriosi. Non tante bottiglie perché Emiliano non vuole crescere tanto. Arrivare alle 25.000 bottiglie prima, 40.000 poi. Da ingegnere capisce che questi sono i potenziali della terra e della cantina. Perché rinunciarci? Perché non puntarci?

Mi è capitato di bere dei vini importanti come il Don Chisciotte di Zampaglione e mi è piaciuto. Mi piacerebbe fare con il Trebbiano un vino macerato. Non perché vanno di moda ma ne ho visto le potenzialità.

Lavente è la Malvasia, Puntinata. Non quella di Candia. L’ho aperto e ne ho apprezzato il colore semplice come quello del sole la mattina, la trasparenza di un mare cristallino (ma quello del Lazio dove la sabbia restituisce colori chiaro/scuri). Sentori anch’essi semplici ma rotondi ed avvolgenti. La pesca, i frutti tropicali, i fiori di camomilla, il biancospino. Pochi ma buoni si direbbe. Sentori che diventano caldi abbracci roteando il calice. Avviluppanti, morbidi, suadenti. Sentori che si completano con elementi di freschezza: agrumi, salvia, mentuccia, maggiorana e iodio a bilanciare perfettamente quella morbidezza.
Quando il vino arriva in bocca, la sensazione di piacere continua. Un liquido fresco e morbido, caldo e sapido che ammalia e stupisce. Una insolita nota di sottofondo attrae l’attenzione. Non è immediatamente comprensibile così da obbligarti ad un nuovo sorso. Poi la si mette a fuoco e appare una mela cotogna che diventa cotta così che il sorso diventa ampio e avvolgente per poi diventare verticale. Non puoi fare a meno di berlo ancora perché la sensazione di grazie della bocca è un richiamo irrinunciabile. Alla fine rimane il gusto impresso per molto tempo. Ma ne necessiti comunque ancora

Cleto, papà Anacleto. Un Grechetto che sa di Grechetto ma con una inesorabile marcia in più. Sarà perché quando lo porto al naso, pur riconoscendo il Grechetto (quello buono e ben fatto) vengo stregato da sentori che non mi fanno bere subito. Anche se vorrei. Tanti fiori miscelati alla frutta. Sensazioni che inebriano per via degli agrumi mischiati alla pesca e alla banana ma rinfrescati dalla menta. Sembra un cocktail inusuale. La cera d’api che sa di ambrato spiazza. La salinità quasi salmastra adesso si unisce a mela e pera, al frutto tropicale e alle erbette di campo generando un non so che di piacevole. Ho la sensazione di essere un’ape che svolazza nei campi.
Il sorso è da vero Grechetto. Non banale. Non scontato. Deciso, fresco, armonico, bilanciato. Un calore percepito bene e una sapidità che lascia armoniosamente inalterati tutti i sapori. Morbidezze e durezze si uniscono donando alla bocca una incredibile piacevolezza. Non fruttato, non civettuolo. Persistenza anche lunga. Potrei berlo anche da solo ma in un aperitivo sono certo che conquisterà.

La progettualità è tutta nella mente di Emiliano. Aumentare le quantità con il Grechetto e la Malvasia. Espiantare lo Chardonnay. Sfruttare a pieno la cantina. Anche se lui dice che per ora non è un piano, nella mente di un ingegnere c’è sempre un piano.

La mia progettualità non è ampia e io sono soddisfatto di quello che faccio. Mio suocero i primi tempi diceva: “c’hai la azienda agricola ad Aprila…li fanno i vinacci schifosi. C’hanno le uve schifose”. Adesso si sta ricredendo. Queste sono le piccole soddisfazione che mi piacciono. Sono soddisfatto già cosi.

Ride Emiliano. Ride di gusto. Di quella felicità che immagino avesse quando a 11 anni scorrazzava per le terre di papà Anacleto. Il giardino di casa. La felicità di un ritorno alla terra che forse ancora non ha percepito in pieno. Ma sta montando. Piano piano. Ha solo bisogno di un pò di convinzione in più. Di qualche riconoscimento o di qualcuno che gli dica che sta facendo veramente bene.

Emiliano, un puro e un entusiasta. Una persona che crede nel suo lavoro. Pragmatico. Solare. Vuol dar lustro alla sua terra. Con semplicità. Senza artefazioni. Come i suoi vini, meravigliose espressioni del territorio. Vai Emiliano, vai!