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30 Aprile, 2024

Francesca Pagnoncelli Folcieri. Il mio Vinitaly 2024

Dalla parte del piccolo produttore Sono diversi anni che, come piccolissima azienda vitivinicola e come piccolissimo Consorzio di tutela, partecipiamo a Vinitaly. C’è una storia pre-covid, fatta di partecipazione da parte del Consorzio di un piccolo stand espositivo, il cui costo veniva poi diviso in proporzione tra i Soci interessati a partecipare- e una storia post-covid, fatta di partecipazione del Consorzio in collaborazione con Ascovilo – Associazione dei Consorzi vinicoli lombardi- e Grana Padano. La prima formula per una realtà come la nostra è sempre risultata molto onerosa e poco redditizia, causa la difficoltà a chiudere ordini durante la fiera stessa per la particolarità e il valore, anche economico, del Moscato di Scanzo, e a creare reali opportunità per i soci. La seconda formula, messa in atto negli ultimi tre anni, sta dando soddisfazioni e risultati. La nostra presenza nella Lounge Ascovilo infatti ci consente di curare maggiormente, sia come aziende che come Consorzio, il rapporto con gli ospiti davvero interessati. Ci consente inoltre di organizzare ogni anno una masterclass dedicata al nostro passito unico al mondo che ha come obiettivo quello di diffonderne la conoscenza e di valorizzarlo come si merita. E’ un vino difficile da raccontare perché scardina ogni convinzione su questa tipologia di vini. Stupisce sempre e comunque. Farlo degustare è fondamentale per farne cogliere le potenzialità, la versatilità, la longevità. E’ un vino da invecchiamento e da investimento, e chi ha orecchie per intendere intenda e chi ha tempo non aspetti tempo. Guardando a quello che è stato e a quello che è oggi Vinitaly devo ammettere che un salto di qualità è stato fatto, sia da un punto di vista organizzativo che di selezione di pubblico presente. Questi ultimi anni vedono una grande partecipazione, quest’anno decisamente evidente, di persone preparate e molto curiose di ampliare le proprie conoscenze nell’universo del vino. E’ importante ed è molto importante per realtà come la nostra che vanno in qualche modo capitee sostenute per la loro unicità, aiutate da chi è davvero in grado di capire quale esperienza possa offrire un calice di Moscato di Scanzo. In questi ultimi tre anni siamo stati in grado, nel nostro piccolo, di diffondere la conoscenza e l’amore per il Moscato di Scanzo, apprezzato non solo per la complessità e l’assurdità delle sue caratteristiche organolettiche, ma anche per la storia che è in grado di raccontare. Una storia, quella del Moscato di Scanzo, che affonda le sue radici in un passato lontanissimo ma che vede il suo presente e il suo futuro legato alla cocciutaggine dei piccoli e pochi produttori che si fanno carico di salvaguardare e difendere questo gioiello enoico. In questi ultimi tre anni il numero di ospiti di Vinitaly che chiedono di poter degustare Moscato di Scanzo è aumentato in modo esponenziale e quest’anno in particolare è stato il più richiesto al Padiglione Lombardia. Un traguardo incredibile reso possibile solo dalla nostra voglia di farlo conoscere e dalla collaborazione con Consorzi Lombardi più grandi di noi, che hanno coraggiosamente scelto di fare da traino anche per i più piccoli, e al sostegno di Regione Lombardia. Quindi, anche se sono sempre stata allergica alle grandi kermesse, Vinitaly sta riuscendo a darsi nuova forma per poter affrontare le nuove sfide che attendono l’intero comparto vitivinicolo italiano.   Francesca Pagnoncelli Folcieri Cantina Pagnoncelli | Moscato di Scanzo Vendita e Degustazione Vini (moscatopagnoncelli.com) Mi trovi su Instagram    
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30 Aprile, 2024

Gli ingredienti relazionali per progettare una cantina vinicola: Dioniso, Bacco, Mina, enologo e architetto

L’aneddoto da cui partiamo oggi racconta del mio primo, ed UNICO, incidente “diplomatico” che ebbi con il più importante collaboratore dell’azienda vinicola e cioè l’enologo. Corre l’anno 2004 e una piccola azienda vinicola di un piccolo paese di campagna dell’Italia centrale, che tuttora produce olio e vino di alta qualità, mi contatta tramite una conoscenza in comune perché vuole assegnarmi l’incarico per la progettazione della loro piccola cantina vinicola. Messomi immediatamente al lavoro: cerco più volte l’enologo, lo contatto, fisso l’incontro, parto senza indugio, solco e supero quattro confini di regione, percorro circa 650 km senza mai fermarmi “evitando le buche più dure”, arrivo nella località, la sede dell’incontro cambia tre volte, riprendo per tre volte l’auto e assecondo le volontà dell’astro nascente. Giunti a definitiva destinazione, finalmente illustro le intenzioni del progetto e porto a supporto i miei riferimenti culturali enotecnici. <<MINA chiiiiiiiiii?????>> Questiona sommessamente il giovane enologo con fare “decoroso”. Percepisco che l’avventura sarà una passeggiata tutta in discesa.  Ma nel frattempo, stranamente nulla trapela del progetto appena illustrato da parte di colui che dovrebbe essere il mio più stretto collaboratore. Ohibò!  A conferma dell’entusiasmante avventura cui mi sono infilato, vengo messo a conoscenza da quest’ultimo che sono gradito ospite dello studio dell’ingegnere XY, a sua volta suo stretto collaboratore. Come dire: non posso rifiutare.  Evidentemente, devono aver scoperto che io amo le sorprese.  Inevitabili, dunque, le mille domande che mi pongo sull’incontro inatteso e le altrettante mille risposte che cerco di elaborare onestamente, tra cui: “vuoi vedere che vogliono farmi i complimenti!?” Oppure, “stai a vedere che vogliono supportarmi in questo interessante progetto!?”  Arrivati in studio, tralasciando i convenevoli, i due campioni sollecitano affinché  avvii il pc per esporre il progetto: che re-illustro e ri-spiego mentre li osservo in più occasioni confabulare a bassa voce. Medito che sia per non disturbarmi e non interrompermi. In realtà, tutto era teso a “sollevarmi” dal mio compito e dal mio lavoro prospettandomi la consegna dei disegni e arrogandosi l’esigenza di procedere motu proprio giustificata dal fatto che: <<sa architetto, l’ing. X Y oramai mi conosce e sa cosa voglio e come voglio gestire gli spazi nelle mie cantine …(.)..>> “. The end del triste aneddoto! Cosa significa progettare una cantina vinicola
La progettazione di una cantina vinicola richiede molto più di una semplice pianificazione strutturale o di una combinazione di spazi funzionali ed estetici.
Una cantina vinicola è un’impresa complessa che richiede la sinergia tra diverse competenze e prospettive.
È un’opera d’arte che richiede la collaborazione armoniosa di figure chiave interne ed esterne l’azienda vinicola.
Tra le figure chiave coinvolte in questo processo, l’enologo e l’architetto emergono come pilastri fondamentali il cui rapporto collaborativo può determinare il successo o il fallimento del progetto.
E, in questo esercizio di creazione di una cantina vinicola, il rapporto tra l’enologo e l’architetto va, o dovrebbe andare, ben oltre una semplice collaborazione professionale.
È un’interazione che riflette la convergenza tra due mondi: quello della cultura greca rappresentata da Dioniso, il dio greco del vino, della gioia e dell’estasi e quello del vino incarnato da Bacco, il dio romano della vendemmia e del vino.
Questi due simboli mitologici incarnano l’anima della cantina vinicola, quasi aleggiano volteggiando a protezione di essa, e la sua progettazione richiede una sinergia perfetta tra l’enologo e l’architetto, raffigurando il partenariato tra Dioniso e Bacco. La convergenza di competenze: l’enologo e l’architetto
L’enologo e l’architetto fanno convergere competenze e prospettive uniche al tavolo di progettazione di una cantina vinicola.
L’enologo, il custode del vino, possiede una profonda conoscenza dei processi di vinificazione, delle varietà di uva e delle tecniche di produzione.
È responsabile della qualità del vino e comprende le complessità sensoriali e chimiche coinvolte nel processo di produzione.
Dall’altra parte, l’architetto di cantine (non quello generalista), con la sua creatività e competenza nel design degli spazi enotecnici, trasforma i bisogni e le necessità dell’enologo in realtà tangibili.
È responsabile della creazione di una cantina vinicola funzionale, esteticamente accattivante e culturalmente significativa. Comunicazione e comprensione: la chiave del successo
La chiave del successo, come in tutti i settori, è la comunicazione e la comprensione.
La comunicazione aperta e la comprensione reciproca sono fondamentali per una collaborazione efficace tra Bacco e Dioniso, ovvero tra l’enologo e l’architetto.
Devono essere in grado di ascoltarsi e comprendere le esigenze e le visioni dell’altro, integrando le rispettive competenze per ottenere il miglior risultato possibile.
Questo significa che l’enologo deve spiegare all’architetto le esigenze specifiche della produzione vinicola, come per esempio il controllo della temperatura e dell’umidità, mentre l’architetto deve tradurre queste esigenze in soluzioni creative e funzionali di design. Rispetto per la tradizione e l’innovazione: un bilanciamento armonioso
Bacco e Dioniso rappresentano la tradizione e l’innovazione nel mondo del vino.
Nella progettazione della cantina vinicola, l’enologo e l’architetto devono trovare un equilibrio armonioso tra il rispetto per le pratiche tradizionali e la voglia di innovare e sperimentare.
Questo può significare, per esempio, l’uso di materiali tradizionali come la pietra e il legno, combinati con tecnologie moderne per garantire una produzione vinicola efficiente e sostenibile.
Inoltre, possono essere integrate soluzioni innovative di design che celebrano la cultura e la storia del vino in modo nuovo e originale. Celebrare l’anima della cantina vinicola: un obiettivo condiviso
Riconoscere l’anima di ogni cantina vinicola, celebrarla e contemplarla, attraverso l’ideazione compositiva e progettuale prima e la meccanica funzionale dopo, deve essere un obiettivo condiviso dei nostri due collaboratori tecnici.
Bacco e Dioniso condividono loro stessi un obiettivo comune: celebrare l’anima della cantina vinicola e la sua connessione con la terra, la cultura e la tradizione.
L’enologo e l’architetto devono lavorare insieme per creare uno spazio divino, per progettare “un’architettura divina per il vino“, che non solo produca grandi vini, ma che ispiri e coinvolga emotivamente tutti coloro che vivono e esercitano questo spazio e anche coloro che lo visitano.
Attraverso l’armoniosa fusione delle loro competenze e prospettive, danno vita a un tempio vinicolo che riflette l’eccellenza e la bellezza della loro collaborazione.
Si potrebbe quasi affermare, per concludere, che il rapporto collaborativo tra l’enologo e l’architetto nella fase di ideazione, progettazione e realizzazione di una cantina vinicola è una danza sinfonica tra Bacco e Dioniso.
Se la comunicazione è aperta, la comprensione è reciproca, il rispetto per la tradizione e l’innovazione è l’obiettivo condiviso al fine di celebrare l’anima del vino, i due possono creare insieme una cantina vinicola di successo che incarna la bellezza e l’essenza del vino. Ehi, psss, psss…. Ma avete notato il silenzio assordante dei due narcisi Dioniso e Bacco? Sono in visibilio per quello che ho scritto su di loro… E comunque, da quel primo incidente, la provocazione agli enologi è diventata una regola e non l’ho mai più abbonata… Parola di architetto! Arch. Edoardo Venturini Cantine di cui anche Bacco andrebbe fiero   Della rubrica ti può interessare anche l’articolo:
– Costruzioni enotecniche o cantine vinicole?   Per approfondimenti, mi trovi qui:
– Cantine fatte ad Arte (link Sito Web)
– Cantine fatte ad Arte (link Linkedin)
– Cantine fatte ad Arte (link Instagram)
– Cantine fatte ad Arte (link Facebook)     PS: La rubrica raccoglie spunti, consigli, suggerimenti e altro ancora attinente al tema e soprattutto segnalazioni di titoli di testi antichi sulle costruzioni enotecniche e cantine vinicole. Grazie!
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29 Aprile, 2024

Adele Gorni Silvestrini. Il mio Vinitaly 2024

Un Vinitaly… oleocentrico Vite e olivo, due piante emblematiche per i popoli del Mediterraneo. Da una visita a Vinitaly, e dalla rubrica per cui scrivo in WineTales Magazine, ci si aspetterebbe forse un focus sulla vite. Invece il mio Vinitaly, al netto dei saluti a clienti e colleghi sommelier, si è imperniato sull’olivo e ancor di più sull’olio, patrimonio culturale e gastronomico della dieta mediterranea, oltre che simbolo della tradizione e della maestria artigianale italiana. Il 15 aprile Gambero Rosso e Banca Monte dei Paschi di Siena hanno presentato la 14esima edizione della Guida Oli d’Italia dedicata agli extravergine italiani, giunta alla sua 14esima edizione e alla quinta in doppia lingua italiano-inglese. La Guida celebra la ricchezza e la diversità delle varietà di olive e di oli presenti nel nostro Paese, evidenziando le peculiarità delle diverse Regioni e valorizzando le storie dei produttori che portano avanti con passione e dedizione la tradizione millenaria della produzione olearia: dalla delicata Casaliva gardesana, alla robusta Leccino, passando per la Frantoio e la vigorosa Carboncella fino alla Ogliarola, tipica della zona barese, garganica e salentina. Il mondo dell’olio extravergine di oliva è complesso e affascinante allo stesso tempo: ciascun prodotto presenta caratteristiche uniche e la nostra Guida vuole orientare professionisti e consumatori nella scelta del miglior prodotto capace di soddisfare gusti e abbinamenti diversi Ha commentato Stefano Polacchi, curatore della Guida. Sono 389 le aziende produttrici, per 679 etichette di extravergine valutate e inserite nella Guida, di cui 191 le Tre Foglie e 34 le Stelle, che hanno ottenuto il massimo punteggio per dieci anni. La Stella è sempre il risultato di un lungo percorso di ricerca, selezione e valutazione per arrivare alle qualità organolettiche più sublimi ma anche di un impegno concreto verso la sostenibilità, in un’economia globale dove la concorrenza si gioca sui prezzi più bassi. Cinque le fasce di prezzo considerate, dagli oli con prezzo inferiore ai 10 euro fino a prodotti di nicchia che superano i 30 euro al litro. I singoli extraverginebsono stati valutati inoltre per il loro profilo aromatico, sulla base dell’intensità di fruttato, amaro e piccante, utile a determinare eventuali abbinamenti con cibi e ingredienti. La Guida riporta infine produttori di olive da mensa ed aziende che offrono ospitalità e ristorazione in campagna, per un’informazione non solo più esaustiva, ma anche utile a promuovere il turismo enogastronomico del nostro Paese. Ecco alcuni premi che ricordo: Azienda dell’anno: Miceli & Sensat di Monreale (PA), realtà all’avanguardia di 115 ettari, 100 dei quali ospitano anche coltivazioni di grani antichi. Olivicoltore dell’anno: Alfredo Cetrone di Sonnino (LT), che coltiva 100 ettari di terreno roccioso a 500 metri di altitudine, con 20mila piante di varietà itrana. Olio & Vino: Dop Chianti Classico di Fonterutoli a Castellina in Chianti (SI), splendida struttura dei marchesi Mazzei dove, oltre al noto vino, si produce uno strepitoso extravergine Dop, con sentori di carciofo, mandorla, cipresso, rucola e note balsamiche. Come cita l’ultimo premio elencato, vite e olivo sono dunque davvero connessi! Esattamente alla maniera del vino, anche l’”oro verde” italiano, nelle sue molteplici sfumature, ci dispone a viaggi sensoriali memorabili e ci stimola a conoscere meglio i territori del nostro Paese. Adele Gorni Silvestrini, aprile 2024    
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27 Aprile, 2024

Benedetta Costanzo. Il mio Vinitaly 2024

Oltre le Polemiche, i fatti delle Donne del Vino Tra chiacchiere, critiche e polemiche, la 56esima edizione di Vinitaly si conferma come un evento imprescindibile per il settore, ma anche come palcoscenico per discorsi importanti. Quest’anno, in particolare, si è parlato molto del ruolo delle donne nel mondo del vino e delle sfide che ancora devono affrontare. Le affermazioni sulla genetica femminile e il senso di inferiorità atavico e sul bere da sole,  hanno sollevato interrogativi importanti, ma hanno anche offerto l’opportunità di riflettere e discutere su temi cruciali. Quindi mentre Vinitaly chiude i battenti con numeri positivi e un’atmosfera di successo, le polemiche innescate dalle recenti dichiarazioni di Boralevi durante il TG2 Post continuano a far discutere.
Scelgo di guardare oltre le polemiche e di concentrarmi sulle donne che, oltre a bere il vino, sono protagoniste attive nella sua creazione. Il mio Vinitaly Korale In un settore tradizionalmente dominato dagli uomini, è importante riconoscere e celebrare il contributo fondamentale delle donne nel mondo del vino. Esse non solo lavorano nei vigneti e nelle cantine, ma sono anche enologi, sommelier, giornaliste e imprenditrici vinicole di successo. La loro presenza e il loro impegno sono essenziali per l’evoluzione e la crescita del settore.
In questo contesto, la storia di Korale prende vita: un progetto che ho conosciuto al Vinitaly e che voglio far conoscere a tutti per farne un esempio da divulgare.
Nella lotta contro la violenza di genere, ogni iniziativa conta. È con questo spirito che l’Associazione Donne del Vino si impegna attivamente in varie iniziative a livello nazionale e regionale. Oggi voglio raccontarvi di un progetto straordinario portato avanti dalla delegazione calabrese dell’associazione DDV: Korale, il primo vino contro la violenza di genere. Korale: perché tacere non è mai la soluzione
Il nome “Korale”, scelto con cura dall’Associazione, racchiude in sé una storia affascinante da raccontare. Prima di tutto, è un vino “corale”, perché nasce dalla collaborazione di 10 produttrici calabresi, ognuna contribuendo con il proprio migliore rosso, creando così un blend che celebra l’unione e la diversità. Questo connubio di sapori è il risultato della lavorazione di sei vitigni autoctoni: Gaglioppo, Magliocco, Greco Nero, Nerello Cappuccio, Nerello Mascalese e Nocera. L’arte di creare questo mix perfetto è stata curata in cantina dalla produttrice Danila Lento e dalla sommelier Maria Rosaria Romano. Si tratta di un’edizione limitata, solo poche centinaia di bottiglie. Ma ciò che rende questo vino così speciale è il suo scopo: sostenere il Centro Antiviolenza “Roberta Lanzino” di Cosenza.
Il Centro è una struttura fondamentale in Calabria, nata per offrire sostegno e assistenza alle donne vittime di violenza, un luogo che si impegna a non lasciare mai sole le donne in momenti di bisogno. È dedicato a Roberta, una giovane donna che è stata tragicamente vittima di violenza sessuale e omicidio a soli 19 anni. A distanza di 35 anni da questo tragico evento, non è ancora stata fatta giustizia, un fatto che sottolinea ancora una volta le sfide e gli ostacoli che le donne devono affrontare. È davvero triste e sconcertante vedere come ancora oggi le vittime di violenza di genere debbano lottare non solo contro l’abuso stesso, ma anche contro i pregiudizi della società. È inaccettabile che ancora esistano mentalità che suggeriscono che la colpa di ciò che accade alle donne sia in qualche modo della vittima stessa, una mentalità che non solo perpetua l’ingiustizia, ma rende anche più difficile per le vittime ottenere sostegno e giustizia. Obiettivo del progetto Il progetto Korale si pone l’obiettivo di dimostrare che con la solidarietà e la coesione è possibile trovare una soluzione a questa grave problematica. Intanto le bottiglie sono state regalate a chi ha offerto donazioni al Centro Antiviolenza e la campagna è andata benissimo, oltre le aspettative.
La prima presentazione del vino è avvenuta il 3 marzo presso la sede AIS a Cosenza nell’ambito delle “Giornate delle Donne del Vino” che ha visto la partecipazione del Presidente Nazionale delle Donne del Vino, Daniela Mastroberardino. Il tema scelto per le iniziative nazionali e regionali del 2024 è stato “Donne, Vino, Cultura”, un tema che abbraccia i valori fondamentali promossi dall’Associazione Donne del Vino. Questa tematica riflette l’amore per la terra, la valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici, con un’attenzione particolare al patrimonio vitivinicolo, che rappresenta un tesoro culturale di inestimabile valore. Le “Giornate delle Donne del Vino” Le “Giornate delle Donne del Vino” rappresentano un appuntamento imperdibile per tutte le associate, un momento di unione e celebrazione dell’apporto femminile alla società e al mondo del vino. Dal 1 al 14 marzo, in tutta Italia e in dieci Paesi nel mondo, si sono susseguiti eventi diffusi che hanno dato visibilità al ruolo delle donne nel settore vinicolo. Gli eventi hanno compreso degustazioni, incontri, tavole rotonde incentrate sul tema dell’anno e una campagna social che ha coinvolto le socie in scatti fotografici, valorizzando i contesti paesaggistici di grande valore culturale legati al mondo del vino. Queste giornate risultano importanti per la valorizzazione della cultura enologica e la lotta contro la violenza di genere, come dimostra il lancio del progetto Korale. Korale approda al Vinitaly Ho avuto l’opportunità di degustare Korale e capire il progetto durante il Vinitaly. Infatti il 15 aprile, presso lo stand istituzionale della Regione Calabria, si è svolta la presentazione del progetto e ho partecipato a quest’incontro con molto piacere. La degustazione è stata guidata da Chiara Giannotti, una giornalista stimata e donna del vino, fondatrice di Vino.tv, un blog, un profilo social e una WebTv dedicati al mondo vinicolo. Chiara  Giannotti ha sapientemente condotto l’evento coinvolgendo non solo la delegata regione Calabria Vincenza Alessio Librandi, ma anche altre donne produttrici che hanno condiviso la loro visione e il loro impegno nel progetto. Presenti l’Onorevole Gallo e il Maestro gioielliere Gerardo Sacchi. Etichetta ricca di simbolismo antico Centrale l’intervento di Caterina Malaspina, che ha brillantemente spiegato l’etichetta di “Korale”, ricca di simbolismo mitologico. Molti degli elementi presenti sull’etichetta rimandano alla storia di Persefone, la figlia di Demetra rapita da Ade e costretta a vivere negli inferi contro la sua volontà. La madre, nel suo disperato tentativo di ritrovare la figlia, trascura la natura, portando il mondo alla carestia. Per risolvere la situazione, Zeus interviene imponendo ad Ade di restituire Persefone alla madre. Tuttavia, poiché Persefone ha mangiato sei chicchi di melograno negli inferi, è obbligata a ritornare per sei mesi ogni anno. In quei mesi la terra diventava spoglia e non produceva mentre quando riusciva a liberarsi rendeva fertile la terra: nasceva il mito dell’alternanza delle stagioni. ,
Il nome “Kora-le” trae origine dal greco antico (kora” = donna o fanciulla) ma è anche uno dei nomi con cui veniva invocata la dea Persefone. Questa storia di rinascita e fertilità è incarnata dall’etichetta di “Korale”, che raffigura il profilo del volto di una delle numerose statue ex-voto dedicate a Persefone, che punteggiavano la Magna Grecia. Sostenibilità Korale, oltre a rappresentare l’incontro tra i millenari vitigni della regione Calabria, porta avanti un importante impegno per la sostenibilità ambientale. La sua storia affonda le radici nell’antica tradizione vitivinicola della regione, dove furono i Greci a introdurre la coltivazione della vite. Tuttavia, Korale non è solo un omaggio all’antica tradizione vitivinicola della regione, dove furono i Greci a introdurre la coltivazione della vite. È anche un esempio di come sia possibile coniugare la tradizione vinicola con pratiche sostenibili che includono l’utilizzo di bottiglie più leggere e sottili, riducendo così il loro impatto ambientale e il consumo di risorse durante la produzione e il trasporto. Inoltre, i tappi utilizzati sono completamente riciclabili, contribuendo a minimizzare l’impronta di carbonio del prodotto. Anche l’etichetta di Korale è stata realizzata con materiali eco-sostenibili, utilizzando fibre riciclate. Questa scelta non solo riduce l’utilizzo di risorse naturali vergini, ma promuove anche l’idea di economia circolare, contribuendo a ridurre gli sprechi e a chiudere il ciclo dei materiali. Conclusioni In conclusione, il progetto Korale rappresenta non solo un vino di alta qualità e dal profondo legame con le radici storiche della Calabria e della Magna Grecia, ma anche un simbolo di solidarietà, sostenibilità e empowerment femminile nel mondo del vino. Korale dimostra che è possibile coniugare la tradizione vinicola con pratiche moderne e responsabili in un contesto in cui le donne del settore vinicolo sono sempre più protagoniste. Questo progetto è un esempio di come la determinazione e il talento femminile possano dare vita a iniziative significative per combattere la violenza sulle donne. Questa iniziativa rappresenta l’impegno nella società civile per il miglioramento della condizione femminile e per un futuro migliore. Benedetta Costanzo
benedetta.costanzo@winetalesmagazine.com
Mi trovi su Instagram come @benedetta.costanzo  
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26 Aprile, 2024

Ambra Sargentoni. Il mio Vinitaly 2024

Tutti pazzi per il Vinitaly! Finalmente quest’anno ce l’ho fatta: ogni aprile c’era sempre un impedimento, un imprevisto, un ostacolo insormontabile, ma, finalmente, quest’anno sono andata al Vinitaly.
Grandi aspettative, montate da anni dei più disparati racconti e feedback.. Delusione? Direi di no. Indimenticabile? Nemmeno… direi piuttosto “interessante”. Innanzi tutto il Dove e il Come Siamo nella zona fiera di Verona, una posizione comoda da raggiungere per chiunque; io ho scelto il treno e dalla stazione c’erano navette di collegamento di continuo.
Lo spazio è immenso ed è diviso in “blocchi” di regione, il che aiuta moltissimo a orientarsi e a prediligere le zone che più interessano. Bello anche il poter camminare liberamente senza percorsi obbligati o mani occupate, dal momento che i bicchieri vengono dati ad ogni stand, sempre perfettamente puliti ed intonsi.   La mia esperienza. Tra tutti i giorni a disposizione ho scelto mercoledì per la mia visita.
L’ultimo giorno ha un grande pro e un grande contro: non c’era un’eccessiva affluenza visto la giornata infrasettimanale, ma alle 14.00 iniziavano già a sbaraccare in molti. C’è da dire che ora delle 14.00 io ero già ‘cotta’ dai tanti assaggi: anche da bevitrice più che allenata quale sono -modestamente-, è veramente impossibile riuscire a godere a pieno degli assaggi dopo aver viaggiato fra tutte quelle etichette… già dopo tre o quattro vini, la bocca ‘perde di lucidità’, e per quanto tu ti possa sforzare, non si riesce più capirci granché. Sicuramente un giorno non è affatto sufficiente.
Sicuramente, se si è veramente interessati a conoscere nuove realtà e nuovi orizzonti, è fondamentale dedicare ogni giornata ad una zona delineata. I miei assaggi Ero particolarmente interessata ai vini internazionali – lo so, è il Vinitaly, ma quando capita l’occasione di provare prodotti esteri di qualità?! -, e quindi ho passato una buona parte del mio tempo tra l’Africa, il Brasile, la Georgia e la Slovenia. Interessanti le bollicine brasiliane, inaspettato il Syrah africano, inconsueto il vino in terracotta georgiano e modesti i cabernet sloveni. Dopo sta carrellata di esotico, prima di passare all’Italia, ho cercato di distrarre le papille gustative con un inadeguato panino… esperimento mal riuscito. Torno all’attacco, stavolta è tempo di bolle fatte come dio comanda, e via nell’Oltrepò pavese, la magica terra del Pinot Nero. Credo, senza voler fare la sborona, di essermeli assaggiati tutti. Mi rendo conto della follia del mio gesto, ma uno chiamava l’altro!
Tutte quelle etichette, tutta quella sapienza, tutte quelle infinite possibilità di bouquet…meraviglia.     Credo sia ormai chiaro ai più che la mia capacità di discernimento fosse totalmente storia antica, ma nonostante questo, non mi sono arresa. Che non lo fai un giro in Toscana? Che non vado a trovare i produttori della mia terra?
Oh via, una volta nel padiglione con un grande Gallo nero a troneggiare sull’ingresso, mi trovo in uno spazio a dir poco stupendo.
Tutto organizzatissimo, tutto decorato, tutto curato nei minimi dettagli.. che dire, è la Toscana, siamo dei fighetti in fatto di vino! Dopo aver salutato qualche amico produttore, ho dato un occhio alle varie proposte, e sono rimasta molto felice nel vedere gli stand dei vari consorzi di tutela con etichette miste delle varie cantine del territorio… un ottimo modo per dare la possibilità di comparare etichette, annate e produttori! Bravi! A onor del vero ho anche provato ad assaggiare qualcosa, ma potete immaginare quanto ci possa aver capito. Perplessità?! Vagando per le mie adorate bollicine metodo classico, sono incappata in un azienda molto grande con un packaging fenomenale.
Si capiva che il prodotto aveva qualcosa di ‘sbagliato’, sembrava più un decoro che un vino, ma lo sberluccichio mi ha attratto.
Non faccio in tempo ad arrivare al banco che il ragazzo prende questa bottiglia di spumante in mano, la agita, la capovolge sottosopra e la riappoggia sul tavolo.
«Vedi!», mi dice, «si fa così per far entrare in circolo i cristalli di oro che si trovano sul fondo». Ora, io sono solo un umile sommelier, ma posso assicurare che nonostante il mio basso rango, il mio battito cardiaco è stato prossimo allo zero nel vedere questa povera bottiglia di spumante volteggiare violentata come fosse una sfera di natale con la neve o una di quelle lampade anni ‘90 con coi liquidi colorati che si spostavano da una parte all’altra.
(Tale Lampada Lava, ho cercato su internet) Dopo aver ripreso l’uso della parola ho espresso il mio disappunto, e lui mi ha sorriso e consolato dicendomi che quello era un vino per i giovani.
In che senso? Nel senso che i giovani – quelli entro i 28 anni- non bevono vino. Passano da un’infanzia di bibite iper dolci ad un’età adulta dei cocktail imbevibili e pasticciati.
C’è una chiara lacuna nel mercato, serve un prodotto che possa andare incontro anche alle esigenze dei più giovani che vogliono una bevanda meno alcolica, più dolciastra, con un bouquet meno evoluto – tanto, dice, non lo sanno apprezzare- e che abbia un’anima chic ed inimitabile.
Ecco spiegato il misfatto, non è un vino, è un ibrido con una missione ben specifica: abbracciare una generazione che, sebbene non sia così lontana dalla mia, sembra distante anni luce. Devo essere sincera, ho apprezzato molto l’idea, il packaging, l’attenzione e lo studio, ma sono anche piuttosto spaventata da questo tipo di produzioni.
E’ labile il confine fra creare prodotti per un pubblico più ampio, e cambiare la produzione per andare incontro ad un pubblico più ampio. Finché rimane una nicchia di mercato ben venga, ma se questi giovani vengono abituati a quell’idea di vino, riusciranno mai ad apprezzare ‘quello vero’, oppure bisognerà creare i prodotti per i ‘consumatori di domani’ dimenticando la tradizione fino ad oggi? Conclusioni Giornata entusiasmante nel complesso!
Il prossimo anno acquisto almeno due biglietti, mi divido le degustazioni con più consapevolezza, e mi porto una scorta di panini! In generale è un’ esperienza che raccomando a chiunque abbia un minimo di interesse per il vino. E’ sempre un orgoglio vedere di cosa è capace la nostra bella Italia.   A cura di Ambra Sargentoni. Se vuoi sapere di più su di me scopri il mio sito      
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26 Aprile, 2024

Andrea di Luteraia. Il vino si fa sensoriale

Il vino è magia. Il vino è mistero. Il vino è materia viva. Lo abbiamo sentito dire spesso. Tanto spesso che sembra banale ripeterlo. Banale perché poi, alla resa dei conti, non sempre ha un vero significato. Un ragion d’essere così visibile e palpabile tale da far sobbalzare. Specialmente in un mondo moderno dominato da tanto altro.  C’è chi si inventa una storia pur di poter raccontare qualcosa dimenticando che c’è sempre da raccontare. Una famiglia, le persone, l’anima, le angosce, gli errori, i successi. Di cose da dire ce ne sarebbero. Basterebbe spogliarsi degli orpelli e presentarsi per quello che si è. Si dice che il vino sia materia viva perché evolve. Non sta mai fermo. Non riesce a rimanere immutato. Sarà perché, chimicamente parlando, instabile. I microorganismi che abitano in esso, per quanto spesso mutati da sostanze atte a mantenerlo nella bottiglia per parecchio tempo, un pò di lavoro lo fanno sempre.  Ma se il vino potesse interagire con qualcos’altro? Se fosse influenzato da qualcosa di “esterno” già durante il processo di produzione? Ora, per spiegare qualcosa di inspiegabile, occorrerebbe essere come dei bambini che, scevri da qualunque sovrastruttura mentale, assistono a ciò che accade senza aspettarsi nulla. Assistono e prendono atto. Abbiccia ‘a moto Babà…Non sacc’ come fa…ma va! Era Napo Orso Capo, capo appunto di una banda di orsi composta oltre che da Napo, il capo capellone, Bubi, il piccolo orsetto, Babà l’orso grande. Proprio quest’ultimo veniva chiamato in causa da Napo allorquando occorreva scappare dal Guardiaparco sig. Otto e il suo fido McKallock. Era a quel punto che Babà accendeva una moto immaginaria, faceva salire Bubi davanti e Napo dietro, partendo a razzo. Non sacc come fa…ma va Non poteva che dire Napo. (Non so come fa, però va, funziona).
Dove voglio andare a parare appare pericolosamente difficile. 
Ma se vi avessi parlato da subito di vini sensoriali, di vini che riescono a giocare con le persone, mi avreste creduto?
Probabilmente non mi credete neanche adesso e lo capisco. Ci sta e ci sta tutta.  Mi è capitato di incontrare Andrea Paolini, o Andrea di Luteraia come preferisce farsi chiamare, ad una manifestazione del vino. Il suo stand, molto carino, recava la scritta “Vini sensoriali” e “Vino Indaco” Sono una persona apertissima e che sperimenta molto. Non mi sono certo fatto scappare l’occasione di provare un vino sensoriale. Il termine “vino indaco” l’ho capito solo dopo. Molto dopo. Luteraia è una azienda di Acquaviva di Montepulciano (SI), patria del Nobile, alta espressione del Sangiovese (minimo 70%).  Sapevo cosa aspettarmi dalla degustazione di vini del territorio. L’ignoto è arrivato dall’abbinamento proposto da Andrea: finocchio prima, cioccolato poi. Chiunque abbia studiato da Sommelier o frequentato corsi di degustazione del vino sa perfettamente che ci sono alcuni cibi killer. Quelli per intenderci che sono inabbinabili con il vino. Il finocchio in particolare, per i suoi aromi forti, sovrasta il vino rendendo questo spesso di sapore metallico. Stesso discorso per il cioccolato la cui persistenza e pastosità necessita, spesso, un distillato. Orbene, le sensazioni gustative ottenute abbinando i vini di Andrea con finocchio prima, cioccolato poi sono state non accettabili. Ottime.  La nostra famiglia ha i vigneti da tanto tempo. Mio nonno ha fatto i vigneti dal 57. Mio padre all’età di 50 anni andò in pensione dalla banca e si mise a fare il coltivatore. Fino al 2014 quando se ne è andato. La storia di Andrea è una di quelle controverse e tormentate. Di quelle che possono dividere e far pensare. Ho scelto di raccontarla attenendomi alle esperienze relative al vino. Perché di quello parliamo. Il resto lo lascio a chi ha più competenza di me.  Quando parlo con Andrea trovo una persona umile che sente quasi il bisogno di aprirsi parlando di se. Il rapporto con il padre non è stato di quelli da incorniciare. Lo sa. Me lo dice. Lo ammette. Al tempo stesso però non può far almeno di lodarlo e confessare che ha capito tutti i suoi errori. Un passato che non può e non vuole cambiare. Perché tanto non servirebbe a nulla. Ma un passato che lo ha fatto diventare uomo adesso.  Sergio Paolini, il papà di Andrea era uno di quelle persone che solo a sentirlo parlare si capiva il vero amore per la terra e il vino. Determinato, preciso, forte. E follemente innamorato della sua terra.  Era arrabbiatissimo con la cantina sociale di Montepulciano pur essendo la nostra famiglia tra i fondatori della cantina sociale di Montepulciano, Quando portava le uve vedeva che non lo valorizzavano come meritava. Disse basta, prese il piccone, andò giù al podere vecchio e cominciò a picchettare con il cugino architetto per fare la cantina. Era il 2003. Che poi è il primo anno che si è fatto il vino con mio padre. Le uve raccolte di notte. Le vasche di cemento. Io dopo venti minuti gli dissi: pà, ho sbagliato. Ho fatto il vino bianco. S’è sbagliato. Ho fatto il vino bianco invece che rosso. Dopo sei mesi di lavorazione, facevo enologia, porto la bottiglina di plastica alla commissione, all’istituto Capezzine di Montepulciano. C’era un sacco di gente che mi prendeva in giro. Dove va questo con la bottiglina di plastica. Assaggiano il vino e dicono: porca puttana ma che è sta roba! Ecco si decise di iniziare nel 2004 Andrea si racconta. Racconta di quanto a quel tempo fosse uno scapestrato. Un ragazzo che nonostante avesse compiuto gli studi di enologia si sentiva perso. Nella classe i suoi compagni avevano una storia alle spalle, una famiglia blasonata, una azienda avviata. Lui no. Aveva un padre che era andato in pensione per seguire il suo sogno di vignaiolo e la passione dell’orologiaio. Aggiustava orologi da tasca.  Il giorno lavorava in vigna e la notte lavorava agli orologi. Gli ho visto fare cose fantastiche. Da tutto il mondo gli mandavano orologi irreparabili e lui li rimetteva a posto. Ci volevano anni.Io non riuscivo a fare nulla. Ero davvero scapestrato. Crisi esistenziale o solo errori di gioventù. Vallo a capire. Storie viste e riviste quelle di un figlio che non va d’accordo con il padre e un padre che non va d’accordo con il figlio. Quando non ci si capisce a vicenda, qualcuno, in genere il figlio, scappa.  Non capivo chi era mio padre. Non capivo chi ero io. Non volevo sapere nulla e sono andato via in giro per l’Europa. Facevo oli essenziali e profumi. Distillazione di piante officinali. Profumi personalizzati. Ero un distillatore. Avevo una associazione culturale olistica. Facevo i mercatini. Niente di grosso. Bastava e avanzava.  Storie viste e riviste appunto. Un figlio che va via. Un padre che continua la propria strada perché sa, o spera, che il figlio prima o poi torni. Il che avveniva quando c’era da fare il vino.  Ogni tanto tornavo e facevo il vino con mio padre. Avevo da sempre una passione per i cristalli. Avevo una stanza piena di cristalli quando vivevo a casa e papà mi prendeva in giro. Un giorno, era l’annata 2007, sbagliò qualche cosa nel fare il vino. Anche se era bravissimo qualcosa sbagliò. Fatto sta che era venuto un vino scarico di colore. Era tutto naturale e non gliene fregava nulla di mettere prodotti. Pà dai ci si mette l’ametista dentro. Non di cazzate va. Un cristallo può influenzare qualcosa o qualcuno? Addentrarsi in questa domanda è come attraversare, bendati, un campo minato. Un argomento divisivo non fosse altro perché non c’è alcun riscontro scientifico di eventuali influenze. Ne parlava anche Plinio nella sua Naturalis Historia o Teofrasto nel Trattato sulle rocce. Se ne parlava nel medioevo. Se ne parla adesso con la Cristalloterapia.  Scienza, stregoneria, pratica alchemica. Vallo a capire.  Ma il mondo del vino è pervaso da pratiche di questo tipo. Solo che ci sono pratiche per le quali non ci si scandalizza. O forse non ci si scandalizza più perché blasonati produttori le hanno fatte proprio. Come ad esempio l’agricoltura o viticoltura Biodinamica, messa all’Indice per anni per le sue pratiche che avevano un che di mistico, esoterico, alchemico.  Ma poi, alla fine, ognuno può credere a ciò che vuole e in ciò che vuole. Quello che conta è il prodotto finale passando attraverso il rispetto per la natura e l’utilizzo di ciò che la natura stessa ci ha data. Non serve essere per forza talebani verso se stessi e verso gli altri.  Avevo studiato della influenza dei cristalli sui liquidi. Lavorando con l’alchimia. Lavorando con le raccolte in funzione delle lune e dei giorni astronomici. Lavorando con i cristalli e la loro interazione con le persone (mischiavo i cristalli con gli oli essenziali). Misi la pietra di ametista dentro una botte per tre cicli lunari. Da dieci quintali. Tre settimane. Si travasa e il liquido ed era più scuso. Mandiamo in laboratorio e il dottore gli dice: bravo Sergio si vede che hai fatto un taglio. Hai rispettato le regole ma questo è un taglio. Guarda che colore. È cambiato rispetto a prima no?è pure più profumato. Con che l’hai tagliato? Torna a casa dicendo: io non ci credo ma funziona dunque andiamo avanti. Metteva ogni tanto l’ametista nella Mastella prema del rimontaggio. Giusto per divertimento. Per gioco o forse per scaramanzia. Io ero convinto ma lui no. Che cosa fosse realmente successo, Andrea non lo sapeva. Forse non lo sa nemmeno adesso. Si, certo, ora c’è più consapevolezza. Più studio. Più capacità. Ci sono volute prove e prove. Però tanta incertezza e tanto da scoprire rimane ancora.  Ciò che i cristalli non sono certamente riusciti a fare è evitare i contrasti tra padre e figlio. Troppa la distanza e troppo il richiamo di altre persone, una in particolare, per Andrea. A quella età, gli altri sono sempre più importanti del babbo.  È così che se ne va a Tenerife.  Ho sbagliato perché mi sono fatto trasportare da una persona allontanandomi dalla famiglia. Ha sofferto talmente tanto che si è beccato un tumore. Sono tornato tra il 2012 e il 2014 ma stava tanto male. A quel punto mi sono riavvicinato a mio padre, alla famiglia. Certo prima venivo ogni tanto per fare il vino. È sempre stato bono il vino di Luteraia. Facevamo solo un vino, il Nobile. Nobile e IGT. Era anticonformista. Gli stavano antipatici quelli consorzio. Questo fino al 2012. Nel 2013 si è fatto l’ultimo vino insieme, la base del Lemuria. Lui aveva avuto nel periodo della malattia una vera trasformazione nello spirito. Con la malattia ci siamo avvicinati. Me ne sono andato via perché mi trattava come un bambino. Non ci si capiva. Non c’è mai stato anche se c’era. Si faceva i cazzi suoi forse perché non ha mai ricevuto affetto. Mia madre gli è stata vicino ma non è bastato.  Il racconto di Andrea è un vero sfogo. Un confessare la sua intimità. Quello che nel profondo della sua anima lo ha toccato. Gli errori, il dolore, il rimpianto. Tutto gira intorno ad un passato che non può tornare indietro a modificare. Forse lo farebbe o forse no chissà. Inutile pensarlo. Inutile riflettere su ciò che sarebbe stato. Tanto non torna più. Vivere nei ricordi può essere utile solo per non smettere di crescere. Per provare a far rivivere quel sogno ora diventato anche il suo. Nel 2014, una settimana prima di morire erano le 2.45, viene da me e mi dice: mi devi fare una promessa. Mi devi fare il vino Indaco. Ma che sei rincoglionito oggi? Perché lo sai come so fatto io? Il mondo fa schifo. Per me è finito. Però puoi continuare te e rifare il vino Indaco. Pà, ma che è il vino Indaco? Io lavoro con i cristalli. Cosa è il vino Indaco? Il vino indaco è il vino della famiglia, dei nonni. Prima il vino era Indaco. Univa, risvegliava, faceva diventare le persone sorridenti, creava armonia. Ora non gliene frega più nulla. Ho fatto il concorso e ha vinto quello con le polverine. Fallo con il 2013 che è una base squisita. È una annata stupenda.  Indaco. Un colore stupendo. Un incrocio di azzurro e viola che può ricordare i colori di una aurora boreale o quello di una farfalla. Leggiadro, etereo. Quasi evanescente. Eppure concreto. Un colore da sempre associato alla spiritualità alla psiche. Tanto da essere associato alla profonda comprensione di se stessi e del mondo.  Facile pensare come Sergio, sul punto di morire, dopo magari una totale immersione nella propria spiritualità, possa aver richiesto al figlio di continuare la sua opera con qualcosa di elevato. Un vino che potesse riaccendere gli animi e fungere da collante tra le persone. Per farle vivere e sorridere insieme.  Parto per la Germania. Il 16 di agosto mi sono sentito male ma non ne capivo il perché. Fino a quando ricevo un messaggio. Mia madre mi annunciava che papà era morto. Papà è morto nel 2014 ma nel 2016 è stato presente. Quando mi sono ribaltato con il trattore. Ho fatto una cosa che non dovevo fare. Con il carico pieno di uva su una salita ho avuto la brillante idea di frenare e ripartire di colpo. Il trattore parte lateralmente. Era sulle due ruote posteriori. È andato giù per la scarpata di sei metri. Mi sono sentito tirare fuori. Il trattore si è accartocciato.  Andrea non sa fare il vino. Non è all’altezza del padre. Non conosce la sua arte. Sciocco a star lontano. Sciocco a non apprendere da lui. Ma la strada che aveva scelto era un’altra. Fino ad adesso. Fino a quella promessa: il vino Indaco.  Prove, riprove, sperimentazioni. Capire la vigna scavando nei ricordi del tempo. Negli insegnamenti di papà Sergio.  Manco se rinasco riesco a trattare la vigna come lui. Le lavorazioni. Gli sbagli. I vini crescevano e venivano sempre fuori cose diverse. L’idea di mettere i cristalli nelle vasche e non solo l’ametista. Seguire le lune. Fare i rimontaggi con le lune. Ho messo tutto dentro e oggi ne parlo tranquillamente perché se metto insieme tutte queste prove e supposizioni capisco siano diventate una realtà. I miei vini non sono migliori degli altri vini ma hanno un’anima. Conservano la loro originalità senza che pensieri e parole altrui possano influenzarli.  Non c’è alcun tipo di presunzione in Andrea e nei suoi pensieri di un ragazzo, oggi uomo, ancora insicuro. È consapevole che i suoi vini non siano migliori degli altri. Non ha questa velleità. Sa che sono ottimi vini donati da un territorio fantastico. Sono speciali perché hanno qualcosa di diverso. I cristalli, le lune, i cicli del mondo, l’attenzione maniacale. Sono così. Offrono qualcosa di diverso. L’Ametista per il Lemuria.
Il Rubino Stellato per il Luteraia Nobile di Montepulciano e la Riserva.
Il Quarzo Rosa per il Rosato Loseè. 
Il Granato Almandino per il Rosso di Montepulciano, l’Idea.
Per la bolla, realizzata in collaborazione con altra azienda e non ancora commercializzata, quattro cristalli: Quarzo rosa, Rodonite, Rodolite e Selenite.  Tutto per realizzare circa 20.000 bottiglie su tre ettari.  Non c’è bisogno della quantità. Se metti una pietra in un bicchier d’acqua non succede niente. Magari l’acqua si dinamizza perché ha assorbito la memoria frequenziale del cristallo. Se però tu lo fai per un certo periodo di tempo, in un particolare momento del mese, in un giorno del calendario biodinamico, i due mondi si uniscono. Lo fai per caso o coordinato e anche l’acqua ha tutto un’altro sapore. È stregoneria? Serve a creare una storia e basta? Di trattati sulla Cristalloterapia ne troviamo tanti. Di persone che la praticano e ci credono, ancor di più. Che ci sia qualcosa di magico viene spontaneo nel pensarlo vedendo tutte quelle meravigliose sfaccettature cromatiche. Non chiedetelo ad uno scienziato, ti prenderebbe per matto o eretico (un pò come chi pratica il regime biodinamico): non ci sono delle rilevanze fisiche o controlli sperimentali. Masaru Emoto era uno scienziato giapponese che studiava la formazione di cristalli nell’acqua. Secondo le sue esperienze si formavano nell’acqua cristalli simili a quelli del ghiaccio in presenza di energia alla quale veniva esposta: onde sonore (musica o parole), parole, onde celebrali. Venne massacrato dalla comunità scientifica.  Non è vero che non abbia rilevanze fisiche. Ricordi le prime puntate di Star Trek? Le porte si aprivano con la fotocellula. Adesso sono preistoria. La scienza è limitata a ciò che le persone hanno paura di scoprire. Io per tanti anni ho studiato queste cose ma ho deciso di lasciarle spiegare in maniera filosofica e romantica. Quasi magica. Funziona. Magari si potrebbe spiegare ma chi la capirebbe. Lasciandola come una favola, va bene così.  Una congiunzione di mondi. Quello del vino con quello sensoriale, alchemico, filosofico. Non c’è esoterismo o stregoneria. Il vino è così: magia allo stato puro. È come se papà Sergio avesse fatto ad Andrea un dono.  Eravamo arrivati ad un punto di riunione. Io sono sempre scappato da lui perché non mi ha insegnato a vivere. Mi ha iper protetto. Come mia madre. Si sono dimenticati di insegnare a me e a mia sorella di vivere nella società. Mia sorella Sandra è una nutrizionista allergica al vino “Mi sono tanto massacrata con il vino che non ne voglio più sapere”. Sandra, non è scappata. Io per più di quindi anni sono scappato. La terra adesso mi ha insegnato ad essere radicato. La cantina amplifica tutto nella fatica e nella sofferenza.  Andrea che non è certo uno sprovveduto, sa che per fare i vini e farli bene serve una grande capacità in vigna e in cantina. Che lui non ha. Solo un enologo poteva dargli una mano. Anzi, una enologa. Fino al 2019 io fatto il vino senza saperlo fare. La componente energetica ha rappresentato la vitalità. Dal 2020 in poi i vini sono migliorati al livello chimico pazzesco grazie ad un enologo. Io avevo l’enologo che mi faceva la vinificazione via whatsapp. Lei, l’enologa nuova, mi ha insegnato a fare il vino davvero. Abbiamo fatto lavorazioni naturali. Le sono grato perché ho amplificato l’altra componente. I vini nascono da un approccio naturale e biodinamico. Prima di essere sensoriali. Ce ne sono sette in gamma. E pensare che papà Sergio ne voleva fare e ne faceva solo uno. Era fatto così. Prendere o lasciare.  Literaia è un vino nato per un importatore americano. “Rimedio naturale alla sete ed affini”. Bottiglie da un litro. Una sorta di Fiaschetto. Il classico vino buono toscano.  Non ci vado d’accordissimo con questo vino.  95% Sangiovese e 5% Trebbiano. Il Trebbiano le chiamo le Principesse. Tre filari del 57 tra filari di Sangiovese. La storia narra che siano tristi perché sole tra i filari. Le ho allora messo dei fiocchetti dicendo che erano le mie principesse. Dopo di questo la produzione è aumentata e di maggior qualità. Tutta la massa viene vinificata insieme con lieviti spontanei. Solo acciaio. Idea. È un rosso di Montepulciano prodotto per la prima volta nel 2022. 70% sangiovese e 30% Merlot. Solo acciaio. Avrei voluto farlo con solo il 20% di Merlot e un anno in tonneau. L’enologa ha voluto solo acciaio. Uso il Granato come cristallo. I vini sensoriali hanno un messaggio interno. Idea ti da lo stimolo al cambiamento. Non lo sai magari poi lo fa. Vinificazione separata tra Merlot e Sangiovese. Sempre con lieviti spontanei.  Loseè rosato da salasso di Montepulciano 100%. Due giorni di Quarzo rosa, 13 di Granato e affinamento di 6 mesi con cristallo nella botte. Una volta che hai fatto le lavorazioni con i cristalli, per fare in modo che il messaggio del cristalli si sintonizzi con il vino, c’è bisogno che il cristallo stesso venga lasciato nella botte per almeno sei cicli lunari completi (10 per il Nobile, 12 Lemuria). Alchimia energetica. Luteraia Nobile di Montepulciano. 70% Sangiovese, 30% Canaiolo, Mammolo e Malvasia provenienti dai vigneti del nonno. Vinificazione separate. Cristallo Rubino. Botte grandi vecchie e rigenerate. 12 mesi per il Nobile, 15 per la Riserva. Acciaio, legno, acciaio, bottiglia.  Un vino che mantiene un bellissimo colore rubino. Con i suoi 9 anni (ho assaggiato il 2015) l’unghia granata non può non fare capolino. Il naso è pieno di frutti rossi quasi a piena maturazione con l’immancabile violetta. Poi cannella, noce moscata, pepe e un tabacco che svetta senza sovrastare. Tutta questa dolcezza trova il suo equilibrio legandosi a piacevoli note erbacee. Tutto è preludio al sorso che mi fa immediatamente pensare: davvero ha 9 anni? La spalla acida indurrebbe ad un vino più giovane; persistenza lunga e bilanciamento parlano del contrario. Tannini levigati, secco e all’apparenza non particolarmente caldo. Molto sapido direi. La meravigliosa chiusura di bocca mi entusiasma con il suo stupendo retrogusto di frutta che si miscela ad un quasi limone. Effetto wow. Aveva ragione papà Sergio. La Riserva non c’è sempre. Solo nelle annate migliori. Ho avuto la gelata. Ho avuto la siccità. Ho avuto un arresto di fermentazione. Tanti problemi. Però è un vino meraviglioso.  Lemuria è il vino più importante e rappresentativo. Mio padre nasce da li. Un vino che parla dell’Indaco di mio padre. Parla di Omero e del suo vino Indaco. Si ispira ai vini lemuriani. Non è un vino ma una esperienza. Il vino Indaco sensoriale. Il vino al quale dedico la mia vita. Se ti approcci al Lemuria come vino normale si incazza e diventa vino rosso. Non va decantato perché altrimenti diventa aceto. Si adatta a qualunque tipo di cibo. Non si fa tutti gli anni. Io non lo so se sono i cristalli a renderlo speciale. Altrimenti tutti potrebbero farlo. Forse gli piace come lo tratto e come lo faccio. C’è una sorta di dialogo. Se vedrò che i cristalli non basteranno più e magari servirà che parli con il vino, parlerò con il vino. Saranno le persone a dirmi se funziona ancora o meno. 55% di Sangiovese, poi Canaiolo, Mammolo, Malvasia e Merlot.  7 mesi di tonneau. Un centinaio in bottiglia.  Il Lemuria 2013 l’ho voluto assaggiare a casa, in tranquillità, senza alcun tipo di condizionamento. 55% di Sangiovese, 25% di Canaiolo, 14% di Mammolo, 5% di Malvasia Bianca, 1% di Merlot. I sentori sono tenui di frutta non particolarmente matura che man mano vira verso la maturazione con il calore dell’ambiente. Non può mancare il floreale della violetta alla quale si aggiunge una pungente foglia di pomodoro. Arriva il balsamico con un accenno di spezie dolci e un che di caramello e cioccolata. La sensazione che ho al naso è di pace. Davvero inspiegabile. Non c’è quella eccitazione prodotta dai sentori che spingono il desiderio di un sorso. C’è già al naso serenità e appagamento. Anche in bocca la sensazione è similare. Nonostante i suoi 11 anni è ancora fresco. Caldo, secco e sapido con un tannino ancora importante ancorché ben levigato. Ottimo equilibrio e un finale con la bocca che rimane decisamente, armoniosamente, incredibilmente, pulita. Buona struttura, non certo imponente. Fin qui un ottimo vino. Niente da dire. Le sorprese arrivano quando lo abbino con il cibo. Non avevo il finocchio ma l’ho comunque messo a dura prova: con delle patatine, con una semplice frittata al formaggio, con le verdure lesse, con il cioccolato amaro. Con ogni cosa abbia provato ad abbinarlo, non solo rispondeva bene, restituiva sensazioni diverse e piacevoli. Era come se Lemuria stesse giocando con me. Mi sfidava accarezzando e stuzzicando i sensi. Incitandomi ed invitandomi a provare abbinamenti più strani, insoliti, difficili. Lemuria è un camaleontico ammaliatore che si adatta senza prevaricare. Si concede ma solo se ci credi. Ecco, questo è un vino sensoriale.  Lemuria erano i giorni 9, 11 e 13 maggio. Si celebravano i lemuri, i fantasmi, con lo scopo di placare le anime vaganti dei defunti. Capisco il nome adesso. Capisco cosa sia un vino Indaco, Andrea non poteva che chiamarlo così. Non a placare papà Sergio ma ad onorarlo anche quando non c’era più. La differenza tra Luteraia e Lemuria? Semplice. Davvero semplice. Luteraia offre sensazioni; Lemuria una esperienza. Infine le bollicine.  È una collaborazione con altra azienda. 70% Pinot nero e 30% Chardonnay. Vino normalissimo ma lavorato con i cristalli diventa una Geisha. Ne bevi un goccio non succede niente. Ne bevi un pò e ti rende passionale.  Forse quest’anno farò l’elisir ovvero un vino alchemico al 100% preso da un libro del 1400. Vino monofonico atomizzato in oro e lapislazzuli. Qualcuno che faceva il vino alchemico l’ho trovato. Cosa è alla fine tutto questo? Magia? Superstizione? Un semplice racconto? Una suggestione? Ecco si, magari una suggestione. Una Suggestione di vino come la mia rubrica. Perché allora rompere la magia e smettere di credere nelle favole? Andrea può avere tutti i difetti del mondo e non sarò certo io a giudicarlo. Fa il vino con il cuore. Parla con papà Sergio. Usa i cristalli e la cultura biodinamica. Quello che ne deriva è qualcosa di intenso e buono. Soprattutto sorprendente per l’esperienza che ho personalmente avuto.  Allora è bene che il romanticismo di tutto ciò continui a vivere, lasciando che le persone sognino. Perché i vino è un sogno.    Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969  
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25 Aprile, 2024

Claudia Riva di Sanseverino. Il mio Vinitaly 2024

Ho scelto tra le tante esperienze ed incontri tre temi che mi hanno maggiormente coinvolto a livello personale e sentimentale (ebbene si per chi non lo sapesse lo sono molto). LA SORPRESA Scoprire una realtà che non si conosce e nello stesso tempo rendersi conto della grande potenzialità che esprime attraverso i suoi vini cristallini, coraggiosi e complessi non succede tutti i giorni. Una fortuna non casuale che devo a Francesca Tortoreto brillante PR dell’Agenzia MultiMedia Milano che mi ha fatto entrare nell’orbita dell’universo Romagnoli. Con l’enologo Alessandro Perini abbiamo assaggiato con un escalation elettrizzante molte referenze di MC, stili e vitigni differenti, sostanza e qualità. L’Azienda si trova nel Piacentino dove il fiume Nure e i boschi accarezzano i vigneti che coprono le colline. Amo i vini della mia regione e questa scoperta mi rende orgogliosa. C’è un’Italia meno conosciuta che lavora tanto e bene… Sono certa che di Romagnoli ne sentiremo presto parlare. State come sempre tunnati andrò a visitare presto questa realtà! IL ROMANTICISMO Rappresenta una storia d’amore d’altri tempi l’etichetta Contessa Rosa dedicata alla Bela Rosin. E anche se questa storia la conosco già, è bello farsela raccontare ancora una volta da un amico, Flavio Procino che tra un appuntamento e l’altro ha trovato modo di farmi assaggiare molte chicche. Contessa Rosa è dedicata all’amante, poi diventata moglie, del I° Re d’Italia, Vittorio Emanuele II° di Savoia. Rosina infatti era di umili origini ma questo non impedì al monarca di sposarla e di darle il titolo di Contessa di Mirafiori e Fontanafredda. La particolarità di questa cuvée è che viene utilizzato un liqueur d’expédition contenente alcune gocce di Barolo DOC 1967. Da conoscere.   IL PROGETTO INCLUSIVO Ci siamo conosciute di recente con Paola Restelli  , durante un viaggio in Alsazia con la bellissima Associazione delle Donne del Vino. Quando ho visto in programma al Vinitaly una Masterclass condotta da Paola, la voglia di vederla in azione era tanta. Avevo intuito la determinazione, la preparazione e lo stile empatico. La Masterclass Bolle di Puglia con 11 assaggi – non pochi – è stata dinamica, il racconto fluido e coinvolgente. Una narrazione arricchita nella scoperta dei sorsi da Carmine Galasso (best Sommelier Ais Puglia 2023) e dai racconti dei produttori presenti, alcuni giovanissimi – e molte donne! Mi porto a casa che oltre ai vitigni noti, la Puglia sia molto altro e meriti approfondimenti trasversali. Valore aggiunto a tutto questo è stato il servizio coordinato da Ais Puglia che ha coinvolto ragazzi che fanno parte del progetto “Sommelier Astemio”. Questo progetto unico e inclusivo è nato grazie all’idea della Delegazione AIS di Bari che ha creato un percorso didattico per ragazzi con condizioni psicofisiche tali da non poter assumere sostanze alcoliche. Gli aspiranti Sommelier Astemi imparano a servire il vino, ad abbinarlo al cibo, a descriverlo con il solo uso della vista e dell’olfatto, potendo così avvicinarsi con professionalità al mondo del lavoro. I loro volti sorridenti e il loro entusiasmo hanno aggiunto allegria alle già briose bolle. Indimenticabile.   Sono Claudia Riva di Sanseverino. Assaggio, degusto, scopro, curioso, provo e condivido. Seguimi su Instagram @crivads The Voice of blogger  
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25 Aprile, 2024

Kras PTP "TERAN" 2016, RENČEL

TERRANO RENCEL Sin dai tempi della Repubblica di Venezia il Terrano sta al Territorio come la Malvasia sta all’Oriente. Se è vero che c’è chi lo vuole “triestino” vistane citata la presenza in quel di Duino sin dal 1444, il Terrano è un vino che non vuol sentir parlare di confini. Era il vino “non navigato”, quello che non aveva attraversato i mari. E mentre all’epoca era un termine che raggruppava vini diversi oggi è stato identificato come appartenente alla famiglia dei Refoschi. Un Refosco dal Peduncolo Verde che fuori dall’areale PTP viene chiamato Refošk e che mi spinge a lanciare un anatema contro chi volesse scomodarsi ad accostarlo al Prošek per alimentare sterili polemiche prive di basi culturali e fondamenti storici. Vino “di nicchia” nel ‘700, venduto anche come “medicina” nelle farmacie, ha uno “ieri” recente che racconta di quelle Osmize dove si è sempre consumato GGiovane. Scontroso, di “brividosa” acidità, poco incline alle facili amicizie, è solo da una ventina d’anni che alcuni Produttori hanno deciso di seguire quanto in realtà consigliato dai bordolesi a fine ‘800, ammorbidirne il carattere con malolattica e legno (anche se Joško racconta di un certo Lozar che, in anni dimenticati e segnati da temperature più basse, faceva appassire parte delle uve per dare corpo a vini altrimenti troppo esili). Il Terrano è un vino che va preso per mano e che ti prende per mano, non è immediato ma ti porta lontano con la sua freschezza che sa di mitteleuropa e di confini che l’uomo traccia e la natura cancella. E allora ecco che il Carso diventa Kras, non è Italia o Slovenia o Trieste o Gorizia, è terra che gli uomini calpestano e coltivano, fatica di roncare, rocce inclini all’inciampo, doline e vento che sega la faccia. Ed è il vino delle doline più che quello delle vette spazzate dalla bora, a volte rotondo come un 33 giri, a volte spigoloso come un pezzo suonato dal CD. Ma due parole su Joško (Renčel) le vogliamo dire?! Ma proprio solo due, perché altrimenti dovremmo scrivere un libro (e perché dovreste averne già letto qui)! Inventore? Filosofo? Forse pazzo (ché 3ha, 8 vitigni, 10000 bottiglie e…tipo 22 etichette sono numeri da camicia di forza). Bianchi, rossi, rosati, passiti (ahhh, quel Micarone!)…vini studiati e altri nati per “sbaglio”. L’hanno definito l’Archimede del vino ma a me piace pensare all’uomo Joško nella sua forma più pura: vignaiolo. La strada di mattoni gialli che porta da lui passa da Trieste e inanella una serie infinita di curve che raccontano di sbarre che furono e uomini contro. Kremen, vigne e poi Dutovlje è là in fondo. Al N° 24 c’è la sua cantina, dimessa e nascosta casa tra le case. Disordine ordinato di botti storiche, vasche d’acciaio, un’anfora (sola e solitaria, quasi dimenticata là, nel suo cortile), botti piene d’aceto ed altre in cui stanno vicinivicini vini di una “cambogia” di annate Tutte pronte al giudizio insindacabile dell’assaggio di un lui che ne deciderà il destino Joško parla poco di suo (e l’italiano neppure bene) ma il vino accomuna, azzera distanze, traduce sguardi ed emozioni. Se poi volete altre notizie cercatevele da soli ché qui devo dirVi di un vino e poi…mica posso sempre fare tutto io! Dunque, “TERRANO“… Inizialmente diffidente sembra voler essere specchio della gente del posto. Ruvido, ventoso, sa di steppa bagnata e camino che asciugai le ossa. Poi si lascia andare alle spezie e si dischiude al frutto, rosso e nero, carnoso, maturo. In bocca entra senza fare sconti, diretto, spontaneo, morbido quanto deve, quel tanto che serve per risultare educato e cercare di pareggiare la rampante acidità. La mora è netta, la ciliegia non vuole essere da meno e le spezie passate al mortaio fanno da legante rilanciando il sorso dopo aver preso per mano la timidezza di un animo erbaceo. Un duro dal cuore tenero, un orso con l’incedere elegante di un Pinot Nero. Da bere ascoltando “PLAY THAT FUNKY MUSIC” di WILD CHERRY ma nell’interpretazione live di PRINCE (magari con ben più di qualche fetta di Kraški Pršut). Il costo? Non lo ricordo, ma se l’ho comprato io potete farlo anche Voi Roberto Alloi VINODENTRO  
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24 Aprile, 2024

Ivan Vellucci. Il mio Vinitaly 2024

Cosa mi rimane di questo Vinitaly 2024? Tante cose sinceramente.
Anzitutto le dimensioni della manifestazione che da un lato spaventa l’umile appassionato o il grande esperto, dall’altro rende bene l’idea di quanto il movimento del vino in Italia sia grande. Numeri importanti anche se le oltre 5000 aziende presenti rappresentano comunque solo il 12% del totale a riprova di come il Vinitaly sia ancora alla portata di pochi. Grande il lavoro fatto dai Consorzi e dalle Regioni la cui partecipazione ha permesso anche a piccole realtà di essere presenti.
Serve il Vinitaly? Certo che si. Forse più a far comprendere a tutti, italiani e stranieri, quanto l’Italia meriti di essere nell’Olimpo dei paesi a vocazione enologica. Singolare come non ci si concentri nel parlare delle cose positive di una simile manifestazione lasciando invece spazio a chiacchiere utili a generare viralità magari sperando di trovare facili like e followers. Antonella Boralevi, nel corso del TG2 Post esprime un concetto molto chiaro e poco interpretabile (almeno per chi comprende la lingua italiana, che è una lingua precisa, in modo corretto).
Riporto testualmente Noi donne abbiamo fatto tante cose. Abbiamo conquistato tanto. Ci mancano ancora cose da raggiungere. Però c’è dentro di noi una specie di sentimento, temo sia genetico: noi non ci sentiamo mai all’altezza. Quando si dice una donna soffre di solitudine, si, ma anche gli uomini ma la donna deve sempre combattere con quella parte di se che non si sente all’altezza. Quale è il tema? Che le donne spesso bevono come prima si fumava una sigaretta. Cioè bevono per darsi un tono. Va benissimo però torno a dire, noi non abbiamo bisogno del bicchiere di vino per sapere che siamo persone di valore come voi uomini. E soprattutto un bicchiere, una piccola dose, ma bere da soli. Mai bere da sole in casa. Mai. Ora, la polemica nasce per coloro che si fermano alla lettura strumentale dei giornali o dei siti che fermano i loro titoli e articoli al “bevono per darsi un tono”. Oppure di coloro che neanche hanno visto il video della dichiarazione ma pontificano per un like in più.
Quella di Antonella, dal mio umile modo di vedere, è una esortazione alle donne. A quelle donne che pensano di esser inferiori o  che qualcuno fa sentire tali. Un modo per dire che non serve una sigaretta, non serve un bicchiere di vino, non serve altro per dimostrare di essere persone meravigliose. Persone meravigliose.
Esortazione ad emergere aldilà degli stereotipi. Aldilà dei luoghi comuni.
Altro che sessismo.
Antonella ha voluto fortemente stimolare le donne a non nascondersi dietro un bicchiere di vino. Ho letto e visto tanti interventi di donne che dicono di non sentirsi sola e di non aver bisogno di un bicchiere di vino per dimostrare qualcosa. Ma non si parlava fino a pochi mesi fa di una società patriarcale? WineTales Magazine ha una redazione perlopiù al femminile ed è bello che sia così. Non è un modo per dimostrare qualcosa all’interno di un mondo, quello del vino, che per molti versi ancora non è cresciuto in questo senso.
Molte sono le donne che scrivono di vino. Molte le blogger. Moltissime le sommelier.
Poche le donne enologhe. Pochissime le produttrici.
Eppure, quando ne ho incontrata qualcuna, ho visto la grinta, la passione, la competenza. Tutto a livelli nettamente superiore a quello degli uomini.
Ha suscitato polemiche la foto di apertura del Vinitaly con una sola donna, a margine, insieme a tanti uomini. Tra l’altro nemmeno rappresentava il vino in quanto vicesindaco di Verona. Girovagando per gli stand, non si poteva non notare la bassa presenza di produttrici donne. C’è chi stima che le donne rappresentino circa il 30% dei produttori. Francamente dubito di questa percentuale. Magari l’azienda sarà pure intestata ad una donna, ma è poi lei che gestisce? È lei che si occupa del vigneto? È lei che gestisce la cantina? Dubbi. Tanti dubbi. Tante e per fortuna le donne che si stanno impegnando in prima persona per la “conquista” (come se di dovesse conquistare qualcosa e non “meritare” qualcosa) di associazioni e consigli di amministrazione. Conquista appunto perché oggi nei CDA la presenza femminile è praticamente nulla. Nei Consorzi stessa storia. Tutto ciò è lo specchio della realtà contadina e imprenditoriale che ancora domina il mondo del vino. Poche le aziende nelle quali il capostipite ha ceduto o dovuto cedere alle donne della famiglia lo scettro del comando. Il punto però è proprio sul lessico “ceduto o dovuto cedere” al quale occorre aggiungere, spostandoci dalla prospettiva di una figlia “ho voluto o ho dovuto impegnarmi”.
Il mondo contadino legato al vino è difficile e con una difficoltà ovviamente direttamente proporzionale al numero di ettari. Impegnarsi in una attività del genere, uomo o donna che sia, non è mai scontato. Non dobbiamo però mai, e sottolineo mai, pensare che una donna non ce la possa fare in quanto donna.
Questa è la vera discriminazione. Da estirpare. Il mondo del vino si valorizza con le persone che amano questo mondo e che vogliono impegnarsi per farlo crescere. Indipendentemente dal sesso, dall’età, dalla religione. Non solo con le bottiglie. Perché il vino è fatto da donne e uomini che hanno una storia alle spalle e, soprattutto, hanno un’anima. Forse, e dico solo forse, vorrei vedere un Vinitaly maggiormente incentrato sulle storie da raccontare che sui prodotti da vendere. Non fosse altro perché queste, fanno parte di una cultura che nessun’altro ci potrà copiare. Il vino è di tutti! PS io spesso bevo un bicchiere di vino da solo ma non per questo mi sento solo. Ivan Vellucci ivan.vellucci@winetalesmagazine.com Mi trovi su Instagram come @ivan_1969
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