Suggestioni di Vino

Suggestioni di Vino è la rubrica che racconta le persone del vino. Della loro storia, dell’amore, della passione che inoculano nel vino. Perché il vino è materia viva e le persone ne sono il nutrimento.

Le incursioni enoiche di Ivan Vellucci, ingegnere e manager per dovere, ma soprattutto Sommelier raccontano con passione e trasporto, territori e produttori d’eccezione.
Ivan ci porta a conoscere realtà prima di tutto umane, dove il sorriso e l’ospitalità dei vignaioli sono lo specchio dei vini che producono. La rubrica Suggestioni di Vino propone ogni settimana  suggestive esplorazioni e scoperte enologiche, narrate con trasporto e partecipazione. Al lettore parrà di accompagnare Ivan in queste visite speciali e sarà stimolato a fare lo stesso: vivere il mondo del vino come un bambino, con lo stupore negli occhi e la magia nel bicchiere.

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15 Novembre, 2023

Tenuta Ponziani. Cieca è la passione, folle la vita

“L’essenziale è invisibile agli occhi”. Ma è anche vero che se gli occhi non vedono, è difficile cogliere qualunque sfumatura di colore.
È un difetto?
Quando vediamo qualcosa, i nostri occhi ne traggono giovamento. Il bello ad esempio. Vedendo qualcosa di bello come un panorama, il nostro cuore inizia a battere. L’entusiasmo ci pervade travolti dall’emozione di aver visto una cosa così bella.
Vedendo un tramonto al mare con al fianco la persona che si ama, veniamo rapiti da quel meraviglioso momento. I colori, le venature del cielo che si incastonano nell’azzurro che diventa di un blu sempre più scuro e intenso. Ciò che vediamo è così intenso che può capitare di dimenticarsi di quanto ci è intorno. Persona amata compresa (così che non è insolito beccarsi il rimbrotto “a cosa stai pensando?” “mi sembri distante”).
Gli occhi rapiscono il nostro cuore poiché hanno una potenza immensa e al tempo stesso rapiscono tutto noi stessi. Divorano ogni cosa che tenta di emergere. Come gli altri sensi.
L’udito, l’olfatto, il tatto, il gusto. Tutti vengono sopraffatti da ciò che i nostri occhi vedono. Siamo in trans, rapiti da ciò che vediamo. Troppo impegnati per curarci del resto.
Le persone che non posseggono la vista devono invece curare gli altri sensi così da svilupparli maggiormente tanto che, completando la frase di De Saint-Exupery: “..non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”. Sono stato invitato a vivere una Passione Cieca presso la Tenuta Ponziani, ad Orvieto, degustazione di quattro vini completamente bendato. Una esperienza che è stata utile per guardare qualcosa non solo con gli occhi. Siamo a circa 500 metri sul livello del mare. La Tenuta Ponziani è stata completamente ristrutturata dalla follia di una donna, Rossana Ponziani, che ha fortemente voluto questo luogo non già come vezzo quanto invece per tornare indietro nel tempo e riabbracciare la sua memoria. La terra. Gli odori dei nonni. Il sapore dei piatti cucinati e della frutta raccolta dagli alberi.
Le nostre origini sono nella terra e la nostra memoria, per chi ha la fortuna di aver vissuto una infanzia non contaminata, non può che avere, anche se in angoli nascosti, ricordo di quelle sensazioni. Spesso si dimentica tutto. Per tanti motivi, nessuno dei quali valido. Ogni giorno ci lasciamo andare sempre più lontani per poi, ogni tanto, ricordarci da dove veniamo. Basta magari un odore, una parola udita, una inflessione, un gesto, un colore. Basta davvero poco perché qualcosa riaffiori.
Non per ritrovare ma per far riemergere e tenere vive le emozioni di un tempo e proprie di un territorio pazzesco e meraviglioso. Restituire genuinità e dignità ai prodotti della terra e farli vivere a chi è in grado di aprire il proprio scrigno dei ricordi. Così Rossana ha iniziato questa avventura. I nostri vini sono fatti in vigna. Insistono su un territorio fortunato che ha delle peculiarità che li rendono gradevoli. Per noi che facciamo questi sforzi è una strada verso il miglioramento. Ho impiantato un frutteto perché i succhi di frutta non mi piacciono. Meglio i frullati. Animali di piccola taglia. Coltivazioni. Insomma, tutto vuole raccontare il territorio pazzesco e meraviglioso. È un cammino da far percorrere insieme a chi vuole tornare a vivere emozioni come la bellezza, memoria, amore. Temi che sembrano oggi banali perché il bello si ricerca attraverso il finto; la memoria la dimentichiamo; l’amore è qualcosa di lontano dal concetto vero di amore. Una avventura che Rossana gestisce avvalendosi di fidati collaboratori come Andrea, l’agronomo e Roberto, l’enologo. Oltre che una ulteriore schiera di persone che tengono la tenuta come fosse un giardino. Ecco, un giardino. L’impressione che si ha entrando nella tenuta dal piccolo cancello, è proprio quella di entrare in una casa attraverso il giardino. Non c’è sfarzosità o ricerca di un bello estetico. Si cerca e si trova una bellezza fatta di ordine, pulizia, minimalismo. Qualcosa della quale ce ne si innamora subito senza saperne il perché. O meglio, solo concentrandosi a capirne le motivazioni, ovvero dopo, si ha la consapevolezza.
La nostra mente dunque la memoria difficilmente trova dentro di se situazioni analoghe. Il giardino non sfarzoso, i saloni di ingresso eleganti e sobri, una piscina a sfioro non invadente, le piante medicinali che non impediscono la vista della meravigliosa valle, le vigne pulite che dolcemente accarezzano la cresta della collina. Ecco, l’atmosfera che tutto ciò crea non trova paragoni nella nostra memoria così che l’amore sboccia in maniera istintiva. Passeggiando per questi luoghi si ha la sensazione di casa. Una casa della quale tutti hanno rispetto.
Andrea parla della terra e delle coltivazioni con un sorriso di serenità che lascia trasparire l’amore per ogni zolla, per ogni pianta, per ogni animale che c’è nella tenuta. Rispettare il ciclo della vita riesce anche facile in un territorio come questo che un tempo fu mare. Come gran parte dell’Umbria (tanto che a scavare ancora si trovano fossili marini). Un terreno accarezzato dai venti che sa di minerale, venanzite, dovuta ai vulcani che si sono opposti al mare.
Non serve la chimica qui perché la natura è gentile. E pure se fosse necessaria, ci pensa Rossana a vietarla (con Andrea e Roberto più che d’accordo). La certificazione biologica è una convenzione che, al pari di quelle relative ai vini, non fa parte della filosofia aziendale. Qui quello che conta è la sostanza e la genuinità di qualunque cosa. Niente chimica ma non per convenzione insomma.
Il vigneto, vecchio di 17 anni, si estende per circa tre ettari con Grechetto, Chardonnay, Merlot, Cabernet Sauvignon utili per dar vita ai 4 vini della Tenuta: Velia (blend di Grechetto e Chardonnay con affinamento in acciaio), Veitha (Chardonnay in purezza con passaggio in legno di parte della massa), Fasti (blend di Merlot e Cabernet Sauvignon con affinamento in acciaio), Northia (Merlot in purezza con affinamento in tonneau). Ecco, proprio questi quattro vini sono stati oggetto della Passione Cieca. Quattro vini, stessa filosofia di coltivazione delle viti stessa passione e amore nel trattamento. Un vino deve essere prima apprezzato per le sue colorazioni e sfumature. Poi annusato, odorato, inalato perché tutti i sentori che custodisce possano sprigionarsi e suscitare emozioni. Infine portato in bocca per assaporarne l’essenza, gustato il sapore, valutato il bilanciamento e la persistenza, apprezzata la continuità olfattiva ma, soprattuto, continuare il viaggio emozionale. Nel trovarsi dinanzi ad un calice di bianco, la nostra mente si predispone a certi odori e sapori. Il nostro sistema di catalogazione riesce, in tempi estremamente brevi, a fornire le indicazioni di quanto ci attenderà. Anticipa qualcosa. E se questo “anticipo” ci facesse perdere qualcosa? Una semplice benda mette tutto in discussione. Non sappiamo cosa abbiamo dinanzi. Non siamo in grado di capire cosa stiamo per assaggiare. Dobbiamo fare a meno di un senso per concentrarci sugli altri. Sarà compito del naso indirizzarci verso un colore, una classificazione. Senza pregiudizi. Senza avvertimenti. Come un bambino che vede per la prima volta qualcosa.
I calici sono sul tavolo e vengono riempiti quando siamo già bendati. Percepisco gli effluvi che già mi svelano il colore. Il naso fa la sua parte. Il suono prodotto dal versamento del vino nel calice mi fornisce una ulteriore indicazione. L’orecchio fa la sua parte. Non ho altro a cui appigliarmi. Rimango in attesa delle indicazioni. Il primo vino che assaggiamo è il Velia, blend di Grechetto e Chardonnay. 
Le note sono fresche e pungenti. La salvia appare forte ma ciò che mi da più gioia è la mineralità che arriva impetuosa per poi lasciare spazio alla bianca frutta fresca.
Verticalità e mineralità in bocca con grande freschezza. Diretto Poi il Veitha, Chardonnay in purezza con parte della massa in tonneau per pochi giorni.
Il naso percepisce un colore ambrato. Si riempie di miele e fiori di camomilla oltre all’immancabile mineralità. .
Il sorso è pieno, ampio e rotondo. Ma non come il naso si sarebbe aspettato. Ottimo bilanciamento e persistenza che si affievolisce. Raffinato. Quindi Fasti, blend di Merlot e Cabernet forte di solo acciaio.
Le note di frutta rossa croccante, sono evidenti. Mineralità spinta e petali di rosa. Avvertibile anche la nota vegetale.
In bocca la freschezza c’è tutta. Il tannino presente ma non invadente. La mineralità costante. Vivo e interessante. Infine Northia, Merlot in purezza con leggera surmaturazione e passaggio in tonneau per 12 mesi.
Un grande vino con un ampio bouquet che parte con lampone e frutta quasi sotto spirito. Fiori in potpurri, nota vegetale, mineralità, ematico, ferro, spezie dolci, erbe aromatiche.
In bocca è potente e impetuoso nonostante i suoi anni (ci svelano essere un 2018). Secco e fresco con tannini maturi e non ancora addomesticati. Rotondo ma poi spigoloso. Impetuoso. Le note di una musica soave accompagnano la degustazione guidata da un sommelier che invoglia gli ospiti nel cercare dentro di se le sensazioni. 
Ho fatto decine di degustazioni con colleghi sommelier anche più esperti di me e la condivisione delle proprie emozioni e sensazioni è quanto di più bello possa esserci. Far vivere agli altri ciò che si vive e si è vissuto è un modo di aprirsi, di condividere, di suscitare emozioni similari.
Non mi vedevo, non vedevo gli altri ospiti, non sapevo delle loro espressioni. Sentivo la loro voce anche se il mio mondo era il calice, gli effluvi, il sapore, le emozioni.
Devo essere sincero, bendati, ogni differente sensazione ha acquisito un valore ed un peso diverso. Maggiore. Si, maggiore. Cosa dire dei vini della Tenuta Ponziani. Anzitutto il filo conduttore. Spesso i vini di una azienda sono sconnessi l’un l’altro. Come se non ci fosse una impronta. Quel qualcosa che rappresenta il territorio o il “creatore”. La presenza costante. In questo caso invece, c’è qualcosa che esalta ed identifica la provenienza dallo stesso vigneto. Anzi, lo sesso giardino. La matrice vulcanica e la venanzite è ciò che cammina da un vino all’altro apparendo al naso come mineralità quasi di torba e in bocca con spiccata sapidità.
Arriva marcata nel Velia, si affievolisce nel Veitha, ritorna nel Fasti, si affievolisce nel Northia. Un saliscendi che al naso segue un percorso leggermente diverso ma comunque sempre altalenante. La sequenza di degustazione ha esaltato odori e sapori dei vini in un sapiente crescendo di struttura e complessità.
Ho apprezzato il Velia per la sua verticalità e la forte presenza olfattiva della salvia. Ho scoperto il Veitha per gli aromi di torba sprigionati. Ho stimato il Fasti per la schiettezza. Ho amato infine il Northia per la sua grande complessità ed eleganza. Tenuta Ponziani, un giardino in un territorio fuori dal comune.
Rossana Ponziani, una donna di classe lucidamente folle. La passione è tutta qui. Che sia cieca o meno, poco importa. Ciò che importa è solo la follia. Che è vita Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969  
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10 Novembre, 2023

Tenuta Planisium. Innovazione, imprenditorialità, investimento

  Quante volte ci lasciamo sopraffare dai luoghi comuni. Pregiudizi, consuetudini, stereotipi. Spesso sono così forti che ci troviamo, come in un romanzo giallo, ad essere convinti già dalle prime battute, di chi sia l’assassino. Per poi essere puntualmente smentiti. Nonostante ciò, i pregiudizi sono difficili a morire. C’è addirittura la teoria del pregiudizio di conferma che identifica proprio la tendenza a cercare ciò che convalida quanto sappiamo (o presumiamo di sapere) rispetto al cercare prove che confutino le nostre verità. Ricordo di essere stato affascinato da una scena del film Wolrld War Z nel quale il capo del Mossad, Jurgen Warmbrunn (Ludi Boeken) spiega a Gerry Lane (Brad Pitt) il metodo del decimo uomo.  Se nove di noi sono convinti che un pericolo non si manifesterà, il decimo deve trovare tutti i motivi per i quali invece quel pericolo è reale e imminente Si ma che diavolo c’entra questo con una cantina e il vino? Eh c’entra c’entra. Perché se chiedessi a qualcuno come se la immagina una cantina nel sud, hai voglia a parlare di pregiudizi. Magari si potesse sempre applicare la regola del decimo uomo! Volturino, provincia di Foggia. Poco più di 1500 abitanti a ridosso del tavoliere delle Puglie.  Fermatevi qui e pensate alla prima parola che vi viene in mente in tema di vino. Non so cosa abbiate pensato ma so certamente cosa non avete pensato: innovazione, imprenditorialità, investimento. Quello che ho trovato io qui, alla Tenuta Planisium è invece proprio innovazione, imprenditorialità, investimento.  Ogni cosa, ha sempre, radici nel passato più o meno remoto. Ciò che conta è l’idea. Insieme alla voglia e alla capacità non solo di creare ma, soprattutto, di strutturare. E una volta realizzato, ripartire. Con mia moglie volevamo mettere un pezzettino di vigna vicino casa per farci una cosa artigianale. Poi abbiamo pensato, rinnoviamo i vigneti vecchi con quelli nuovi, mettiamoci con un enologo bravo e facciamo qualcosa di diverso. Antonio Valentino è imprenditore. Costruisce strade, infrastrutture. Ha una azienda florida. Di quelle che devono operare in un territorio difficile. Costernato di problemi. Eppure viene contagiato dalla magia del vino. Io vengo dal settore delle infrastrutture. Faccio strade, autostrade. Era anche per diversificare in quanto ho due figlie femmine e il lavoro che faccio, a me piace, ma non lo vedo adatto per loro. Se posso indirizzarle altrove, ad esempio nel mondo più nobile del vino, mi piacerebbe. Cuore di papà. Sa che il suo è un mestiere di quelli per il quale serve non solo capacità ma anche, soprattutto direi, tanta fegato. Che non sia adatto per le donne, per le sue bimbe, forse è un pregiudizio. Ma anche un modo per proteggerle. Per dare loro un futuro più “nobile”. La terra è quella dei genitori. Tutto nasce dalla terra e qui, in Puglia, la terra vuol dire qualcosa. Non solo radicamento nel territorio ma anche esistenza. Essenza. Il papà di Antonio produceva il vino, Nero di Troia e Susumaniello e forse, come tutti i papà di un tempo, di quelli che avevano la terra, non voleva per il suo di figlio, una vita nei campi. La cultura del vino arriva da mio papà. Sono sempre in giro e a tavola si parla sempre di vino. Mi sono innamorato dell’Amarone. L’Amarone! Un sogno per il sud. Proprio questo evidenza la visione di Antonio. Rappresenta non il punto di partenza ne una ambizione spropositata. Rappresenta la capacità di guardare avanti e progettare un futuro senza subirlo. Un futuro per realizzare il quale occorre partire con il piede giusto, investire, innovare. Essere imprenditori insomma.  Così è partita l’idea con mia sorella. Siamo in tre. L’azienda è intestata alle moglie di mio fratello e mia e mio nipote (figlio di mia sorella). Tutto a gestione familiare  Partire bene progettando ogni cosa. È così che Antonio inizia cercando qualcuno che di vini ne capisca veramente. Chiama Alessandro Leoni, un enologo che di esperienza ne ha parecchia e il professor Marco Esti, docente dell’Università della Tuscia.  Prima di impiantare i nuovi vigneti ho chiamato loro dicendo che avevo in mente di fare questo progetto. Il professore mi disse che gli piaceva il progetto e che ero solo in zona (la prima cantina è a 40 km). Gli dissi che volevo mettere il Primitivo qui in un territorio molto diverso da Manduria. Poi Negroamaro, Nero di Troia e Fiano. Il Fiano perché è sempre stato una vitigno che c’era qui. Siamo a ridosso della Campania e del Molise. A 10 km c’è San Bartolomeo in Cagno, primo paese della Campania e a 30 Tufaro che è il primo paese del Molise. Tutto inizia nel 2015 con la prima vendemmia nel 2020 dopo le pratiche burocratiche e il tempo necessario per permettere alle barbatelle di crescere. Le vecchie vigne di famiglia vengono infatti  espiantate.  Quelle di mio papà sono state estirpate perché vecchie e non andavano bene per quello che volevo fare io. Abbiamo iniziato nel 2015. La prima vendemmia è stata nel 2020 con le pratiche burocratiche e il regime delle piante. Oltre che del percorso bio. Le uve le vendevamo in attesa di partire. Antonio cerca distinzione. Sa che se sei in Puglia, in un luogo dove per pregiudizio il vino è quello da taglio e la qualità non sempre eccelsa, distinguersi è una necessità. Il biologico è un modo. Ma non il solo. La certificazione bio è importante perché volevo vedere come erano le uve. Capire il prodotto. Il vantaggio del biologico è prima il mio che ci tengo alla cura e alla qualità. Per bere e mangiare in maniera sana. La carta non mi serve. Mi serve la qualità. Un modo di pensare. Un modo di essere. La qualità non si apprende sui libri di scuola. Certo, te la insegnano, ma poi la devi realizzare. Con forza e sacrificio. Io vengo dal mondo delle infrastrutture. Enologi e agronomi della zona si sono imparati a fare le cose in un solo modo. Quello è. Da fuori cercano di inserirti in altri contesti. A me è sempre piaciuto partire in un certo modo così che i risultati si vedono subito. Il professore insegna enologia e l’enologo è importante. È vero che c’è stato un costo elevato all’inizio ma i feedback che stiamo ricevendo sono tutti positivi. Come primo anno di uscita avere queste soddisfazioni non è male. Se parti male sei finito. Se parti che è buono… Mio nonno diceva “è meglio una festa grande che cento festicciole”. Come a dire che occorre fare le cose bene, magari una volta sola, ma bene. Ritrovo questo nelle parole di Antonio. Non è necessità di non sbagliare. Semmai è voglia di non deludere prima se stesso, poi gli altri. Perché se vuoi che vada bene un progetto, occorre investire. Con grano salis. Antonio trasla l’esperienza maturata in un settore diverso e lontano anni luce della vigna. Per fare bene le cose occorre non buttare nulla di quello che si è imparato.  Siamo partiti anche con i macchinari di un certo tipo. Se vuoi partire in un certo modo devi seguire gli enologi. Non è fanatismo ma per proiettarci verso livelli alti. Ero partito con un budget minore che abbiamo sforato. Ma per come reagisce il mercato posso dire che abbiamo fatto un ottimo investimento. 12 ettari attuali con i vigneti a 735metri sul livello del mare per i bianchi e a 450 i rossi. Vigne nuove, enologo ed agronomo di esperienza, macchinari di ultima generazione. Mancava solo la cantina e pure quella si costruisce da zero. In maniera ecologica e biosostenibile. Mica si scherza! Facciamolo come si deve! Ecco, questo il motto di Antonio. Che sì, ama questa terra. Ama la cantina. Ama i suoi vini. Ma ancor di più ama la sua famiglia. Così che in azienda lavora la moglie, la cognata e la sorella. In attesa che le figlie diventino più grande. Gestendo il tutto con intelligenza e rimanendo alla giusta distanza dalle scelte. Io sono sempre della opinione che nella casa comanda la moglie ma nella cantina comanda l’enologo. Mi sono affidato perché è giusto cosi.  Antonio è una persona mite. Di quelle che quando parlano, per la pacatezza con la quale si pone, capisci che hai dinanzi una persona che non ha bisogno di niente altro che la sua intelligenza e capacità. Non ha bisogno di dimostrare nulla. Sono i fatti che devono parlare. Rese sotto i 60 quintali per ettaro per realizzare 6 etichette (al momento). Due Fiano, Serritella, con affinamento in acciaio; Notamento in acciaio e barrique. Abbiamo impiantato dei filari di Sauvignon e di Pinot bianco per il Fiano barricato. Tre rossi: Primitivo, Montorso, con 4 mesi di barrique; Nero di Troia, Humara (6 mesi di barrique); Negramaro, Capotorre, per 8 mesi in barrique. Un rosato, Briele, da Nero di Troia (la recensione di questo sul mio blog Instagram). Ci ho tenuto molto anche sulle grafiche. Ho affidato a Simonetta Doni di Firenze quelle per i due vini in prossima uscita e Spazio DiPaolo di Pescara le altre. Per me è un mondo nuovo dove c’è molto marketing. La grafica è importante. Altro tassello proprio di una persona intelligente e imprenditore serio. La capacità di comprendere come il vino, la qualità, il territorio, non sia tutto. Serve la comunicazione, il marketing e gli investimenti a questo legati. Antonio si è affidato ai mostri sacri italiani in questo settore. Le etichette, quello che può sembrare banale ai più, diventa elemento di trasmissione del suo sogno. Vorremmo arrivare a 80 mila bottiglie perché voglio un prodotto di nicchia. Il mio obiettivo è arrivare all’Amarone. Quando vado in giro assaggio e capisco quanto siamo lontani. La visione. Questo deve avere un imprenditore. Non fermarsi a ciò che si ha ma inseguire, perseguire, un sogno. Con costanza, impegno e tanta progettualità. All’enologo ho detto che voglio arrivare ad un livello alto. Anche se so che l’Amarone è inimitabile. Mi accontenterei però del livello. Consapevolezza. Antonio non è un visionario. È una persona la cui esperienza lo porta ad essere con i piedi ben piantati nella terra nella quale è nato e vive. Non serve sognare. La Puglia non è il Veneto e il foggiano non è la Valpolicella. La qualità però, l’attenzione ai particolari, le scelte, il progetto. Tutto questo non possono che portare Tenuta Planisium dove Antonio sa che può arrivare.  L’enologo ci ha fatto fare un vino che avremo a dicembre con surmaturazione delle uve….vediamo come esce. Ma dobbiamo affinare le vendite e non lo vogliamo fare con i distributori. 80 mila bottiglie e un vino come l’Amarone sono i miei obiettivi. Da li ripartire. Ripartire. Non fermarsi. Non pensare mai di essere arrivati. Ma ripartire per continuare. Per rimanere sul mercato. Per affermarsi. Senza spocchia. Senza crearsi false aspirazioni. Innovazione, imprenditorialità, investimento. Non è un sogno. Piano piano, sarà realtà. Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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8 Novembre, 2023

Marco Quintili: oltre la pizza c'è di più

  Quanto nella vita conti la fortuna e quanto il proprio talento non è dato sapere. Certo è che se anche si ha talento, occorre avere la fortuna di scoprirlo. Di capire che lo si ha. Altrimenti, sarà un vero spreco e la vita trascorsa non avrà avuto il compimento che si doveva. Quando mio figlio era piccolo, vedevamo insieme i cartoni animati. Ve ne era uno che si chiamava “In giro per la giungla”. Senza stare a tediarvi troppo, ricordo un episodio nel quale si parlava di talento e il messaggio che passava era che ognuno di noi ha qualcosa di speciale dentro di se. Non importa se piccolo o grande, ma qualcosa di speciale, forse di unico, lo abbiamo. Diverso da quello di un altro. Tutto sta nel comprenderlo, conoscerlo, gestirlo. Il problema è che se nasci in un piccolo paese dove di opportunità per scoprire la tua abilità ce ne sono poche, devi essere ancora più bravo. Altrimenti finisci per fare qualcosa di insignificante o, se va male, qualcosa che ti porta a vivere male e non a lungo. Il paese si chiama Pignataro Maggiore, in provincia di Caserta. La persona che incontro è Marco Quintili che di professione ancora non ho capito se fa il pizzaiolo o l’imprenditore. O magari tutte e due. Conosco bene Pignataro Maggiore perché è a soli 5 km dal paese dei miei nonni materni dunque di mia mamma, Camigliano. Siamo vicino Caserta. Non è la Terra dei fuochi. Non ci sono discariche. Ci sono brave persone che lavorano la terra o nelle poche fabbriche li intorno. Paesi piccoli la cui monotonia viene rotta solo in occasione delle feste patronali. La domenica si va alla messa e ci si incontra al bar per le partite di calcio. I ragazzi, beh i ragazzi non è che abbiano molto da fare. C’è chi si unisce al gruppo parrocchiale, chi fa quel poco di sport che si può fare (oggi sempre di più devo dire), chi invece bighelloneggia in giro facendo le impennate sul motorino. Modificato ovviamente. Marco apparteneva a questa ultima realtà. La scuola non è che gli andasse proprio a genio. Al contrario dei luoghi comuni, la voglia di lavorare c’era tutta. Per essere sveglio era sveglio e ‘a cazzimma la teneva tutta. Così, all’improvviso, come capita alle volte (poche) nella vita, gli si para dinanzi una opportunità. Una di quelle che è più facile lasciare che prendere ma che se dovesse tornare indietro, riprenderebbe ogni volta.
Un suo conoscente, Pinuccio, ha un forno. Di quelli che (siamo nei primi anni 80) produce e vende pizza, pane, fritti. Tanta roba. Pizze americane come le chiama Marco. Si era ammalata una persona e Marco si fa avanti. Qui la vera “cazzimma”. Marco non sa fare nulla. Non ha mai fatto nulla in pizzeria. Ma si butta dicendo a Pinuccio che lui è in grado di fare quanto serviva. Andavo a lavorare alle 8 di mattina. Finivo alle 12 le preparazioni. Pinuccio mi ha insegnato i fritti, come si esponevano nel banco. I prodotti da forno. Mi ha messo dietro il bancone. Dopo le preparazioni, servivi la gente. Ho imparato a cuocere la pizza. Ho iniziato a lavorare nelle aziende del mondo pizza e a 21 anni ho aperto la prima pizzeria a Pignataro in società con altri: “La locanda di Pulcinella”. È rimasta famosa per qualche anno. Lavoravamo tantissimo. Il mio pensiero di pizza era già diverso dall’altro. La gente diceva che la mia pizza era diversa da quelle degli altri. Ma non capivo il perchè. Mi veniva automaticamente in quel modo e piaceva a tutti. Negli anni ho scoperto che era tutto a caso fino a che non ho studiato. Marco è una persona solare che ama parlare dei suoi prodotti invece che di se. La sua è una storia di riscatto ma anche di sacrificio. Dimostrare che anche un ragazzo semplice, lavorando, sudando, studiando ed impegnandosi a fondo, può farcela. Anche se sei disagiato e votato alla criminalità come chi è incappato in questo in quel di Tor Bella Monaca. Ce la puoi fare. Non serve tanto. Serve che la voglia sostenga ogni cosa. Il sacrificio e la fatica da sole non bastano. Serve studiare perché solo con lo studio capisci cosa stai facendo. Dai un senso alle cose.
Marco lo ha capito passando dal fare le cose per caso a comprendere non solo il perché ma sfruttando quel perché per migliorarsi fino ad arrivare a standardizzare.
Se apri più ristornati hai la necessità di offrire, in ogni punto della tua organizzazione, lo stesso standard di prodotto. Lo studio consente di capire per creare ricette, non solo in termini di ingredienti e procedimenti, ma di processi per replicarle. Protocolli che per funzionare devono essere comprensibili ovvero semplici.
La semplicità è uno dei mantra di Marco. Così come il ritorno alle origini. Non come slogan ma come elemento di attaccamento al suo passato.
Come lo capisco Marco. Le nostre radici sono a 5 km di distanza. Li, nel sud, dove le mie estati sapevano di frutta e di pomodori appena raccolti. Dove la pasta si condiva con il pomodoro pelato tritato dei barattoli delle conserve messe a bollire nel barile di latta. Dove la mozzarella era quella di bufala perché solo con quella si faceva la mozzarella seria e che andavamo a prendere con nonno Antonio al Caseificio Russo “‘ncuopp o spartmmient”. Dove ‘a vasinicola (il basilico) si trovava nell’orto di Mimma (così chiamavo mia nonna che in realtà si chiamava Antonina ma le figlie la chiamavano “mammina” e io, storpiando il nome con la lallazione, la chiamavo Mimma). Dove era la spesa non dovevi andarla a fare perchè arrivava da te durante la settimana. Ti svegliavi quando arrivava il venditore che urlava “pesce pesce pesce pesce. ‘O pesce fresco. Le alici, o baccalà”; quello della frutta “‘o melone chien’e fuoc, ‘o melone pasta gialla, ‘o melon’e pane”; quello della verdura “‘e patane d’avezzano, ‘e mulignane, ‘e puparuoli”…
Un universo di colori e sapori che solo chi ha avuto la fortuna di una infanzia così può avere nel proprio bagaglio. Marco lo ha e rimane attaccato al suo passato con tutta la voglia di trasmetterlo, di custodirlo per donarlo. Tramandarlo per non farlo perdere nel passato come se capisse che quel patrimonio non è solo il suo. Innovando certo ma rimandando fortemente attaccato al suo territorio.
La sua pizza ha la particolarità di essere leggera, più leggera delle altre. La tecnica non è nella stesura o nell’acqua come vogliono in molti far credere (c’è chi sostiene che a Napoli il caffè è buono per via dell’acqua ma non ci sono motivi scientifici in questo!). La tecnica è nella scelta della farina che lui ha compreso parlando di chimica. Sembra poco poetico. Sembra dissacrante. Ma è scienza. Quella scienza che in molti applicano bovinamente senza sapere cosa sia. Basta poco però. Basta studiare. Basta affidarsi ad esperti. Basta sperimentare. Ma ci vuole umiltà per questo. Non si può dire “io so fare perché ho esperienza”. Se studi, capisci e ti migliori.
Studiando la farina. Studiando i perché, Marco riesce a realizzare la sua pizza con un panetto di circa 230/240 grammi contro i 300 usuali. Questo rende il risultato ovviamente più leggero.
Semplice ma reale.
Con un risvolto anche meramente commerciale. Quando mangi la mia pizza hai ancora spazio. Te ne mangeresti un’altra o mangi altro. Così lo scontrino medio si alza. Sembra una cosa di poco conto ma è invece qualcosa di profondamente intelligente. Offrire una pizza leggera e che non gonfia, non solo non appesantisce il cliente ma offre la possibilità di sperimentare altro del menu di Marco. Benefici per il cliente e benefici per il business.
Ci sarebbe da chiedersi perché anche gli altri non lo imitino. La pizza di Marco è in stile napoletano. Puro e semplice. Cornicione alto. Impasto morbido.
La scuola è quella e non può che essere quella. Quando parli con Marco ti accorgi della sua serenità interiore ma anche di un senso, quasi, di frenesia. Vuole fare e fare e fare e fare. Non perché non si accontenti di ciò che ha. Marco ha voglia di divulgare ciò che sa. Quello che ha imparato è come se fosse qualcosa di così importante che non può tenerlo solo per se. Ciò che ha non è solo suo. È per questo che ha a cuore le persone che lavorano con lui. È per questo che il suo “metodo” vuole sia facile ma al contempo applicato alla lettera. La fortuna. Il caso. Mah, chi lo sa. Devi coglierle le occasioni. Così quando capita che Laura, la donna della sua vita, quella che diventerà poi sua moglie e madre dei suo figli, da Camigliano (toh, il paese di mamma), vuole spostarsi a Roma dove ha trovato un lavoro migliore. Dire se Marco sia stato animato da amore, da voglia della grande città, da spirito di intraprendenza o non so cosa, non è dato sapere. Fatto sta che molla tutto e va a Roma, ma non per starmene con le mani in mano. Qui lavora e lavora sodo. Ho frequentato panifici e pasticcerie affinando le tecniche. Da li a capirlo ci voleva lo studio. Libri, grandi aziende di farine, tecnologi, mi hanno fatto capire che la farina sembra una cosa semplice ma è chimica. Se metti acqua, lievito, sale, ognuno fa il suo processo. Era tutto un mondo da scoprire. Acqua, farina, lievito, sale. Ecco, così si fa la pizza. Alzi la mano chi durante il lockdown del 2020 non ha provato a fare la pizza. Ci siamo tutti scoperti pizzaioli per poi capire che fare una pizza non era poi così facile. Tanto che quando siamo ritornati ad uscire abbiamo, tutti, immediatamente abbandonato la farina nella dispensa. Eppure le abbiamo sperimentate tutte e tutti siamo diventati esperiti di lievito e farine. Marco invece studia. Capisce, e questo il suo vero salto di qualità, che quello che unisce acqua, lievito, farina e sale è nelle leggi della chimica. Quantità, temperatura, processo. Non basta. Serve una farina particolare per realizzare quanto ha in mente. O quanto realizzava senza saperne il perché. Così, quasi per caso, inizia a collaborare con Molino Magri di Marmirolo (MN) fino a realizzare la sua farina. Quella che oggi usa per le sue pizze alveolate e leggere. Quello che ho fatto tutto oggi è da dimenticare. Gli posso dare un senso a quello che facevo. Non lo capivo all’epoca. Marco dovrebbe essere un esempio per quei giovani che iniziano un mestiere pensando che non serva studiare. Leggere, apprendere, capire e poi fare. Puoi essere fortunato ma non sarai mai nessuno senza una solida base. La prima pizzeria a Roma nasce a Tor Bella Monaca, uno dei quartieri più difficili della capitale. Difficili per chi vive a Roma, non di certo per uno che viene dal sud. Tor Bella Monaca per Marco è casa e bottega. Aprire una pizzeria a pochi metri da una piazza di spaccio è un segno di riscatto. Un modo per far capire a chi vuole, che oltre la siepe c’è dell’altro. Fatto di fatica e sudore certo ma che ti da l’opportunità di creare qualcosa di positivo. Marco è così. Positivo. Di quella positività che non vuole mantenere per te. Vuole far capire a tutti che farcela è possibile. Anche per un ragazzo che arriva da Pignataro Maggiore e che si è diplomato solo quando ha scoperto l’importanza dello studio. Un ragazzo, oggi uomo, che non smette di sognare come non smette di sudare. Lo trovi dietro al bancone ad infornare le pizze come intento ad aprire un nuovo locale.
Anche questa è umiltà. Non si finisce mai di imparare come non si finisce mai di sudare. Questo è Marco. Questo un pezzo della sua vita. Ci siamo dati appuntamento in pizzeria. Ci andrò presto così da parlare, insieme a lui delle pizze.
A presto Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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3 Novembre, 2023

Francesco, due filari e un metodo. Empirico.

Francesco, due filari e un metodo. Empirico, Stanchi della solita routine? Basta, non ce la faccio più del traffico, del capo, dei colleghi. Me ne vado a fare il contadino piuttosto. Secondo un rapporto della Coldiretti, con la crisi provocata dall’emergenza COVID, nel 2020 si è registrato un balzo del 14% di imprese giovanili rispetto a cinque anni prima. Oltre 55 mila sono ora le aziende guidate da under 35. Insomma, sembra che il flusso dalle campagne alle città, quello che portò Artemio (Renato Pozzetto) del film “Il ragazzo di campagna” dai campi della bassa a Milano, si sia invertito. Certo, la madre di Artemio lo aveva avvisato: “la città è piena di tentazioni, l’è tentacolare!”. Ma l’Artemio voleva, comunque, sperimentarla. Troppo forte era l’attrazione. Sarà, però per chi è nato in città, a Milano appunto, viverci e lavorarci allo stesso tempo, non sempre è il massimo. Il lavoro, i ritmi, gli arrivisti, il caro affitti, il caro bollette, i trasporti, le cene fuori. Uffa! Quando sei una persona mite, una di quelle che non amano proprio i ritmi frenetici ne tantomeno arrivista perché la tua passione è per per la campagna e la vigna in particolare, tutto ciò che ti circonda può essere una vera gabbia. Allora che si fa? Si scappa? Magari! Se capita pure di essere un ingegnere, ovvero una di quelle persone che si nutre di calcoli e certezze, non è che puoi scappare prima di aver sperimentato ed accertato ovvero calcolato come si possa vivere con la vita della campagna.   Francesco Siena è un ingegnere e ha anche un bel lavoro. A Milano. Carattere mite. Razionale. Pensatore. Attento ai particolari. Un ingegnere vero. E posso dirlo con ragion di causa essendo anche io un ingegnere. Probabilmente mal riuscito se sono tutto all’opposto di Francesco. Ma forse meglio di altri, so riconoscere le differenze! Francesco ha una passione, la vigna ed il vino. Ma ha anche un sogno, quello di realizzare lui un vino. Non uno qualunque, qualcosa di speciale. Ora, se qualcuno conosce o ha avuto a che fare con gli ingegneri, quelli che lo sono nel midollo (e io non sono tra quelli!) sa che un ingegnere quando si mette in testa qualcosa da realizzare, ha un metodo infallibile (spesso purtroppo gli ingegneri dicono che il metodo sia estendibile a qualunque cosa, finanche alle relazioni con il risultato che talvolta, magari spesso, prendono tranvate pazzesche). Si studia, si sperimenta, si studia….” Semplice no? Si chiama metodo empirico. Va beh, lasciamo stare che poi ci incasiniamo. Basta sapere che occorre non solo studiare ma fare esperienze ed imparare da queste. La passione di Francesco per la vigna nasce non tanto lontano da Milano, nell’Oltrepò Pavese grazie allo zio che si era regalato per la pensione una vigna con tanto di casale. Grande terra quella dell’Oltrepò e grandi spumanti da Pinot Nero. Anche se qualcuno spinge a fare altro con un vitigno così particolare come il Pinot Nero. Come l’enologo di mio zio, Mario Maffi, che incitava a vinificare il Pinot Nero alla maniera della Borgogna. Li ho iniziato a fare esperimenti e mi sono appassionato. Prima dei 30 anni quando vivevo a Milano e vivevo a casa dei miei. Ecco che il quadro di riferimento è abbastanza completo. Francesco, ingegnere, milanese, vive dai genitori (poi per due anni anche da solo), impiegato in una azienda nel campo dei sistemi di automazione (!!), appassionato di vigna. Uno così, o diventa un serial killer a Milano, o scappa.  Francesco scappa prendendosi un anno sabbatico contro il volere di tutti. Piccola digressione. Quando Francesco mi parla di questo, leggo nel suo sguardo e nella sua voce tutta la pressione subita soprattutto dai genitori. Come ti capisco Francesco e come capisco, da padre, i suoi genitori. Al solo pensiero di una cosa del genere fatta da me e comunicata a mia madre, penso che me la sarei dovuta sentire un giorno si e l’altro pure.  E se me la comunicasse mio figlio non credo reagirei diversamente.  Tanti sacrifici per farti diventare ingegnere, un buon lavoro e poi che fai? Ti licenzi? Ma sei matto? Come ti salta in mente? Chi ti ha messo queste idee in testa? Questa sarebbe stata mia madre. Tutta la mia solidarietà Francesco  Cosa fare di questo anno sabbatico se non rincorrere i propri sogni? Ricordare però bene il metodo empirico: studiare come prima cosa ma poi anche sperimentare. Dunque regola numero uno è studiare; numero due, sperimentare. Francesco le applica alla lettera: studiare per imparare come si fanno le cose in agricoltura e sperimentare sul campo lavorando assiduamente. Un pò di ingegno (mica si è ingegneri per caso in fondo) et voilà.  Francesco scova un programma di agricoltura alla pari e ci si tuffa. Una cosa dove, in cambio di vitto ed alloggio si da una mano in azienda. Siamo ben prima del COVID e la cosa non è proprio comune. Ma di pazzi come Francesco, comunque ce ne sono nel programma.  Un programma che aiuta ad imparare oltre che a capire. Ho capito però che era un bagno di sangue. Nessuno campava con questo lavoro e facevano altro per campare. La consapevolezza è arrivata dunque con l’esperienza. Non è una cosa così idilliaca. Ci sono state aziende dove non ho imparato nulla e altre dalle quali ho imparato tanto. In particolare nel Roero e a Poppiano. In quest’ultima azienda ho trovato Guido Galandi che fa biologico con vitigni autoctoni come Fogliatonda e Pugnitello. Lui è il mio mentore e mi ha invogliato a sperimentare il Pinot Nero. Insomma, Francesco metabolizza che a meno che non si sia fortunati e riuscire a partire con ettari ed ettari, è difficile non fare altro. Quasi tutti gli imprenditori che ha conosciuto, hanno un altro lavoro. Quello principale per giunta.  La vita però riserva sempre delle sorprese. Così che se da Milano se ne voleva andare per inseguire il suo sogno, da Milano se ne va per inseguire l’amore. Anche gli ingegneri si innamorano! Da Milano la famiglia si mette su in Toscana, nei pressi di Firenze. La passione della vigna? La porta con se ovviamente. Anzi, in Toscana non può che trovare nuova linfa.  Quando mi sono trasferito per sposarmi a Firenze, ho cercato un terreno in zona e l’ho trovato a Calenzano sotto il Monte Morello, massiccio di calcare che domina Firenze.  Il trasferimento porta l’amore, il matrimonio, i figli, la vigna (circa 1000 metri quadri) e pure il vecchio lavoro.  Mi sono ripreso anche il vecchio lavoro perché mi hanno chiamato. Gli dissi che lo potevo fare solo da casa e a loro andava bene. Sono tutt’ora assunto in questa azienda così da conciliare la passione per il vino con il lavoro. Adesso viene il bello però. Perché il terreno c’è ma la vigna ancora no. Francesco (siamo nel 2013), seguendo la via del Pinot Nero vinificato in rosso, si fa accompagnare dallo zio in Alto Adige a comprare le barbatelle. Prende i giusti cloni, tipo quelli della Borgogna per intenderci, e inizia la sua opera di impianto. Che si fa, si pianta in modo tradizionale? Manco per niente. Ho piantato le barbatelle ad alberello a settonce. Ovvero con tutte le viti equidistanti. Come se fossero tanti triangoli isosceli affiancati con ai vertici una pianta. Una cosa un pò esoterica. Sempre Guido a Poppiano aveva messo una vite ad alberello con un sistema che usavano i romani, meno perfetto del settoncie, mi pare si chiamasse il quinconce con tanti quadrati e rettangoli. Così ho voluto qualcosa di più perfetto. E bello e comodo perché io immaginavo di passare in più direzione. Settonce. Ha studiato il ragazzo non c’è che dire. Una cosa particolare voleva fare. Io già immagino i contadini che passavano di li e lo vedevano fare l’impianto a settonce e pensavano tra se e se (qualcuno magari nemmeno poi così intimamente): ovvia, un settonce…l’è proprio un bischero.  Fa tutto parte della sperimentazione del metodo empirico comunque. Forse a Francesco manca un pò di praticità della quale si accorge subito. In primis perché la coltivazione ad alberello in una zona dominata da animali selvatici offre cibo facile da mangiucchiare. Ho avuto ogni tipo di problema dagli animali. Caprioli, cinghiali. Un pò di tutto. Il concetto dell’alberello non era però male. In teoria. Poi perché, anche se non sta scritto da nessuna parte, il Pinot Nero non predilige il settonce.  Un enologo mi disse che il settonce non era proprio adatto al Pinot e ho dovuto mettere i normali filari.  Osservazione del fenomeno e ritaratura. Il metodo empirico riciccia sempre fuori. Tanto, Francesco di fretta, non ne ha. È un progetto a lungo periodo. Tutto il progetto è improntato alla calma. Io penso che inizierò a fare il vino che voglio tra cinque o dieci anni. È tutto uno sbagliare e un riprovare. Qualcuno potrebbe pensare che non è una cosa seria: è piccola sì, ma lo è seria. Non ho fretta di fare qualche cosa. Ci voglio comunque arrivare. Prima vendemmia nel 2016 che da il là alle sperimentazioni in cantina. Tra le mille difficoltà nel reperire materiali giusti, tecniche giuste, attrezzature giuste.  Sto facendo esperienza via via e ogni tanto capita di fare errori grossi. Quando ti rifornirci nei canali professionali, quelli che richiedono migliaia di pezzi è un conto, se vai nei consorzi ti danno robaccia. Nel 2021 avevo usato una botte che mi aveva dato problemi. Nel 2022 ho usato il vetro e adottato accorgimenti per migliorare la durata.  Francesco prende una pigiatrice e diraspa a mano tenendo i raspi per fare il vino alla maniera della Borgogna. Certo, con le viti giovani è un pò complesso. Ma è un ingegnere con il metodo empirico…. Tengo i raspi per il 53% circa. Sto trovando un equilibrio essendo partito al 70.  La sperimentazione si è avvalsa ovviamente anche della barrique. Abbandonata nel giro di un batter di ciglia avendo capito la difficoltà nel gestirla essendo da solo.  Ho avuto delle barrique ma sono difficile da gestire. Se vado via una settimana per lavoro chi me le colma? Preferisco acciaio e vetro nelle damigiane con olio enologico e a volte uso la co2. La calma con la quale Francesco affronta il suo progetto, è serafica. Sa con certezza che riuscirà. È questione di tempo, ma ci riuscirà. Ne è certo. Sembra di vedere un bambino che gioca al suo Piccolo Chimico attendendo che l’esperimento riesca.  Anche se per Francesco questa è una cosa seria. Non un gioco. Magari un passatempo per la pensione. Di certo non un gioco. “Ogni anno cerco di sistemare qualcosa con l’obiettivo di fare qualcosa di buono da offrire agli amici. Oltre che imparare e avere qualcosa di bello cui dedicarmi. Non adesso che di cose da fare ne ho tante, ma per quando avrò tempo. Una vigna dura decine di anni. Questo mi ha dato molto benessere mentale. Quanto l’ambiente aggressivo dell’azienda, di una città come Milano ti ha spinto e quanto sia stata la terra ad attirarti? Quello che soffrivo tanto era la mia routine a Milano. In ufficio tutte le mattine, il traffico. Ho vissuto a Milano due anni da solo. Tutti questi fattori insieme mi hanno fatto dire basta. Un pò di soldi da parte li ho, proviamo a seguire questa spinta. Ci sono tante idee ma poi non ti fidi e l’esperienza di un anno serviva per imparare e capire come lo facevano.  Lavorare da casa mi ha fatto trovare un equilibrio. Ora mi tengo stretto lavoro e stipendio. Ho fatto non carriera ma aumentato la responsabilità andando a fare consulenze e seminari. Ora amo il mio lavoro da ingegnere. Adesso, è dal 2012 che va avanti questa vita qui.  Lo scorso anno ho fatto un centinaio di bottiglie più un tot di sfuso che vendo soprattuto a mio padre che è il mio cliente numero uno. All’inizio me lo comprava per sostenermi adesso perché gli piace. Ho anche una società per fare birra con mio fratello. La cosa sta andando bene. Ci lavora più lui. Io faccio le ricette e un pò di branding. Il resto lo fa lui. Non siamo un birrificio ma un marchio, commissioniamo la produzione.  È un pò come qui. Una volta che hai a che fare con il lieviti. Io applico il mio approccio da ingegnere che consiste nello studiare, fare prove, studiare, ecc.  Progetti per il futuro per il vino è trovare una stabilità di prodotto. Da un punto di vista agronomico e produttivo penso di aver trovare le chiavi. Mi manca la parte di cantina e confezionamento. Oltre al farlo conoscere.  Francesco, dimenticavo: ma perché il nome “Due filari”? Il nome Due filari deriva dai tempi dell’Oltrepò perché mio zio mi aveva dato proprio due filari da gestire. Quelli più esterni. Non capivo perché me li avesse dati ma poi ho scoperto che li ci andavano i cinghiali che si fermavano ai due filari! Ecco, questa è la storia di Francesco e del suo sogno. Una storia di fuga e di ritrovamenti. Di attese. Di sperimentazioni. Ma soprattutto è la storia di una persona normale, ancorché ingegnere, che coniuga il cambiamento con il sogno. Lasciare la città per la campagna, si può fare. Si può fare davvero. Volete alla fine sapere se il suo Pinot Nero è buono? Si è buono davvero. Uno di quei vini che non troverete mai (almeno per ora) al ristorante o sullo scaffale di una enoteca. Forse chiamando Francesco o contattandolo tramite la sua pagina Facebook o Instagram. Vedete voi. Però, bevendolo vi farà venire voglia di realizzarlo scappando dalla frenetica vita della città con la consapevolezza che si può fare un ottimo vino con passione e metodo. Empirico!  Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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27 Ottobre, 2023

Sgaly: testardaggine, onestà, rispetto

Sgaly: testardaggine, onestà, rispetto  Bello onesto emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata.  Non prendetemi per matto ma quando parlo con Tommaso Sgalippa che mi racconta dei suoi genitori emigrati in Australia negli anni 50, la mia mente non può non andare al toccante film di Luigi Zampa con interpreti Alberto Sordi e Claudia Cardinale. Erano quelli gli anni della povertà più assoluta ma anche della prima ricostruzione. Solo che se sei nelle Marche dove c’è poco da ricostruire, la fame la patisci davvero. Un piccolo pezzo di terra c’era pure. Quello di nonno Antonio. Ma che ci potevi fare? Davvero poco. Allora, armi e bagagli e via. Vivere in Australia non deve essere stato semplice. Vedendo il film di Zampa si capisce la vita degli italiani. E siamo nel 1971. Venti anni prima non oso nemmeno immaginarlo. Eppure è terra delle tante opportunità solo da afferrare. Con capacità, caparbietà e tanto ma tanto lavoro. Papà Mario ne ha.  Lavora come un matto. Lavori umili da manovale per iniziare. Tanto lavoro, tanta fatica, giusti risparmi lo portano a poter comprare l’azienda per la quale lavora. Affare che va in fumo purtroppo. Pure in Australia le cose non vanno sempre per il verso giusto. Che ce ne si fa allora del gruzzoletto? Mio nonno gli scrisse che si vendeva una azienda. Una bella azienda agricola. Così papà venne in Italia e acquistò l’azienda con 4 ettari. Tornato in Australia dovette decidere se rimanere li o tornare. Decisero di tornare. Acquistarono altra terra. Erano gli anni 60 e l’agricoltura era diversa. Non c’entra niente con quella di oggi. Tutto un’altro mondo.  La terra, l’azienda. Uno pensa che ci si potesse campare. Niente di più sbagliato. Occorreva fare altro. Specialmente se hai cinque figli. E Mario non si tira indietro. Non può. Cinque figli sono tanti.  Papà fece l’esame per diventare daziere. Poi i dazi vennero aboliti e andò a lavorare all’Ufficio del Registro di Fermo. Avevamo due mezzadri che lavoravano con noi ma poi ci lasciarono. Papà lavorava all’Ufficio del Registro la mattina e nell’azienda il pomeriggio. Avevamo gli animali ma le cose non andavano molto bene e si decise di puntare tutto sulla vigna. Era pure nata la cantina sociale della quale mio padre era socio fondatore. Insomma vita difficile che lo diventa ancor di più quando Mario, a soli 56 anni, muore.  Tommaso ha quindici anni. È il maschio di casa ora ma ancora troppo piccolo per l’Azienda. C’è mamma Rosa e le quattro sorelle. Cosa te ne può fregare a quindici anni della terra, dell’azienda, del vino. Tommaso è il capobanda del paese. Quello che va casa per casa a cercare gli amici per giocare.  Io che sono nel 65 sono cresciuto in mezzo alla vigna che sinceramente manco mi piaceva. Abitavo al centro del paese e andavo a chiamare gli amici. Così che quando il pomeriggio dovevo andare in campagna per me era più un pianto che una gioia  Mamma Rosa prende lei in mano le redini dell’azienda. Tommaso deve finire il collegio ad Ascoli e le figlie non sanno dove mettere le mani. Mio papà aveva aiutato tante persone perché era un generoso. Così mamma si è trovata avvantaggiata in campagna. Venivano molte persone a lavorare a giornata. Tommaso Sgalippa, l’inflessione marcatamente marchigiana. Il sorriso proprio di una persona che non solo sa il fatto suo, ma lo sa bene. Battuta pronta. Aneddoti uno dietro l’altro. Questo è Tommaso Sgalippa, detto Sgaly. Come la sua azienda: Sgaly Azienda Agricola Biologica di Tommaso Sgalippa. Ma poi perché Sgaly? In collegio ci chiamavamo tutti per cognome. Invece di Sgalippa mi chiamavano Sgaly. Volevo pure registrare questo nome perché mi piaceva. Così ho contattato la Società Italiana Brevetti. Ci dissero che in Francia c’era una ditta che si chiama Skalli che vendeva vini in tutto il mondo. Sconsigliarono di usare un nome simile. Ma io sono testardo e visto che la azienda era stata acquistata con le sterline inglesi ho detto “allora mettiamo la y per differenziarci”. Poi il logo con i due delfini che rappresentano i miei genitori. La cantina era dei miei genitori. Con mio padre avremmo potuto fare l’azienda vinicola venti anni fa ma poi il signore l’ha chiamato a se. In questa frase c’è molto di Tommaso. La testardaggine ad esempio. Quella caratteristica che ti porta ad andare avanti come un treno basandoti sulle tue convinzioni. Alle volte contro tutto e tutti. Puoi avere delle difficoltà, ma non ti abbatti. Vai avanti. Tommaso nonostante ne abbia avute tante di difficoltà nella vita, non ha mai smesso di intraprendere la strada più difficile per la sua azienda. Ma anche quella che meglio aderiva alle sue convinzioni: il rispetto di quello che si ha, il rispetto della natura che ci circonda. Siamo nelle Marche. Ortezzano per la precisione. Sulle colline che dai Monti Sibillini degradano verso l’Adriatico. Una terra che per il vino ha tanto ma poco nota se non per qualche mostro sacro. Le Marche non sono viste come una regione vinicola. Neanche sulle previsioni del tempo ci nominano a noi. Siamo come il Molise e la Valle D’Aosta. Tommaso le spara così. Ne ha una per tutti. Senza alcuna malizia. È un puro e questo comporta l’assenza di filtri. Un sorriso che contagia. Un entusiasmo irrefrenabile.  Ora c’è da pensare ad uno come Tommaso come ad una persona che non si tiene davvero. Non lo tieni e non lo tiene nessuno. Quando inizia a parlare, non lo riesci a frenare. La sua schiettezza è così bella ed al tempo stesso disarmante che riesce a dire delle cose politicamente scorrette, ma comunque gli perdoni. Tommaso si prende sulle spalle l’azienda (20 ettari di cui 11 vitati) fino a comprarne parte dalle sorelle e parte ad affittarla dalle stesse. A loro l’azienda non è mai interessata davvero. Una è pure ritornata in Australia a fare l’insegnante. Siamo negli anni 80 e l’agricoltura non quella di adesso.  Io mi ricordo quando, alla fiera di Verona del 1977, mio padre comprò un casco tipo quelli degli astronauti. Dentro di me dicevo: se uno si deve mettere il casco per usare i pesticidi, un po’ di pericolosità la devono avere sti pesticidi. Quando preparavano i trattamenti pensavo che fossero sì veleni e che sì va bene devo portare l’uva alla cantina sociale, ma io in mezzo alla vigna ci lavoro. Ricordo i fuochi di Sant’Antonio dove si andavano a cercare grossi pneumatici da bruciare. La parola
inquinamento non esisteva proprio. Nel 1999 avevamo un appezzamento di vigna con esposizione sud sud ovest. I vigneti facevano oltre 250 quintali per ettaro e in cantina c’è chi si vantava di farne oltre 300. Oggi ne facciamo circa 90.   Ecco la schiettezza di Tommaso. Lui che ha vissuto, come tanti, quegli anni, non ha paura di ricordare quanto fosse tutto diverso. Non c’era alcun tipo di attenzione verso il sostenibile, il bio, la natura. Si pensava solo alla quantità. Chi non ha avuto un nonno che andava in giro per la vigna a dare il verderame? Io ricordo perfettamente nonno Antonio che si vestiva come un palombaro, con la tanica messa a mò di zaino e spruzzava sulle foglie un liquido di colore indefinito. Magari era pure verde ma nonno non lasciava che mi ci avvicinassi nemmeno dopo due settimane “non toccare che ho messo il verderame”. Ho sempre sospettato non si trattasse di semplice rame ma all’epoca non sapevo cosa potesse essere. Magari DDT che ne so. So che c’era tanta leggerezza nell’uso della chimica allora. Mi sono reso conto che era meglio creare una filiera che puntasse sulla qualità. Ma non era semplice. Starci dentro è tutta un’altra cosa. Da soli non si fa nulla. Piano piano ci siamo riusciti. Abbiamo fatto la cantina. Ci rendiamo conto però che ci vogliono tanti soldi. Non siamo ancora riusciti a crearci il mercato che ci serve. Rispetto al lavoro che facciamo non c’è la resa economica che speravamo. Per creare il mercato servono grandi investimenti. Più alti d quelli che sono serviti per la cantina. Poi serve il territorio. Lucido e più realista del Re. Tommaso snocciola quelle verità che tutti conoscono ma che nessuno ammette. La chimica, il biologico, gli investimenti, i costi, la filiera, la commercializzazione. Si parla di vino con il giusto romanticismo ma poi, serve altro oltre il duro lavoro. Uno dei nostri problemi è che non riusciamo a comunicare bene ciò che facciamo. Quasi nessuno capisce cosa c’è dietro. La Nutella a chi non piace? Cosa c’è dietro però lo sa solo chi la produce. Nel vino è la stessa cosa. Molti si nascondono dietro le docg le regioni famose i territori famosi. Il vino però è come le carte: sono sempre le stesse ma ogni volta che fai una partita cambiano. Cosi il vino. Tanti dicono. Bono il vino ora fallo sempre così. Allora non hai capito niente. Sante verità. Specialmente quando sei votato al biologico come Tommaso e la sua Sgaly.  Ho cominciato ad usare solo prodotti semplici come rame e zolfo. Serviva solo stare più attenti e usare i prodotti giusti al momento giusto. Concimare significava prima dare una spinta, una droga alla pianta per farla diventare più grande, più produttiva. Ma anche più debole. La pianta però non ne ha bisogno. Così ho iniziato a pensare in maniera diversa. La campagna non doveva servire per fare reddito: il reddito è una conseguenza di ciò che facciamo. Ho capito che il biologico si poteva fare. Abbiamo iniziato nel 2004 e ottenuto il certificato nel 2007. Non potevamo però più stare con la cantina sociale perché i costi sono diversi e non ti vengono riconosciuti. Tommaso ha il potere di illuminare con le sue parole. Semplici e dirette. Ha messo in chiaro come non servano tanti prodotti ma, al contrario pochi (e giusti) al momento opportuno. Allo stesso tempo però, tutto ciò che è biologico porta maggiori necessità di tempo dunque costi che non vengono riconosciuti da realtà come le cantine sociali.  Qui, magari Tommaso mi perdonerà se dissento un pò poiché c’è differenza tra le diverse cantine sociali. Ci sono quelle che lavorano sulla qualità estrema e quelle sulla quantità. Basta conoscerle. Ma convengo sul fatto che ci vuole fortuna ad essere su un territorio che predilige il primo aspetto. Il vino è tutto una variabile. Sono incognite che scopri dopo. Noi facciamo il biologico per bene. Il solo loghetto del biologico non vuol dire nulla. Ci vuole serietà. Sullo Chardonnay ad esempio abbiamo da cinque sei anni la cocciniglia che non riusciamo a debellare. Ci sono dei trattamenti chimici che in uno due volte la debellano. Ma non li usiamo perché è contro la nostra filosofia. Non imbottigliamo anche se ci sono delle perdite economiche importanti.  Tommaso si dimostra una persona con le idee estremamente chiare e la sua schiettezza si palesa ancora più marcatamente quando gli chiedo del lavoro in cantina.  In cantina è tutto controllato. Ho impostato tutti i parametri. Il lavoro vero e proprio arriva dopo la vendemmia. Abbiamo diverse varietà che ci consentono di distribuire il lavoro nell’arco di due mesi. Non c’è l’enologo perché come in vigna serve la presenza e ciò che conta sono analisi certe. Ma quindi fai tutto tu Tommaso? Abbiamo avuto un genio laureato a Udine con 110 e lode e bacio accademico (mi dice il nome ma lo ometto…). Un fenomeno che ci ha fatto fare 115 ettolitri di aceto e vari danni per migliaia di euro. Poi è sparito dalla circolazione e ora sa che mi deve passare lontano. Nonostante i danni, non gli ho detto nulla perché era un ragazzo e poteva sbagliare. Però ha studiato non per aiutare ma fregare la gente. Si sentono i fenomeni a trovare la scorciatoie. Ho avuto anche un enologo che lo era stato di una grande cantina delle Marche. È stato da noi e mi scriveva una pagina intera con le sostanze che dovevo mettere nel vino: “ma allora non hai capito niente. Io vado in vigna a spaccarmi la schiena e tu mi dai le schifezze da mettere dentro”? Ora, premesso che con battute di questo tipo, che battute non sono poiché frammenti di vita vissuta, Tommaso mi ricorda a pieno proprio Alberto Sordi, non fa altro che scoperchiare quel vaso che in tanti tendono a mantenere ben coperto. Sono pochi, anche se sempre di più, i vignaioli bravi che rifiutano di inserire nel vino sostanze miracolose ancorché chimiche (magari anche biologiche). Non occorre offrire al mercato prodotti uguali negli anni e privi di errori. Va compreso sempre di più che il vino deve, necessariamente deve, rispecchiare le diverse annate. Questa è la vera magia del vino!  Vignaioli testardi e tutti di un pezzo come Tommaso, sono proprio quelli dai quali non puoi aspettarti che il vino sia sempre lo stesso anno dopo anno. Così come non puoi chiedergli lo Chardonnay se la cocciniglia se lo mangia. Al Falerio Pecorino potremmo aggiungere altro secondo il disciplinare ma io lo faccio in purezza. Altrimenti poi non mi piace. Anche la Passerina la facciamo in purezza. In passato abbiamo fatto Chardonnay di livello ma ora per la cocciniglia non è più quello del passato. La cocciniglia viene portata dalle formiche che sono ghiotte della melata. Dunque occorre eliminare le formiche. Ma in modo naturale. Il Falerio Pecorino è uno dei vini che ho assaggiato. La recensione completa è sul mio blog Instagram. La Sgaly produce sei etichette. Tre bianchi, Falerio Pecorino, Centuria Romana Passerina, Hausum Chardonnay; un rosato, Rosa di Cuma. blend di Merlot e Sangiovese; due rossi, Rosso Piceno (blend di Merlot, Sangiovese e Montepulciano) e Cuma (Montepulciano in purezza con affinamento in barrique). Tutti vini che svelerò piano piano sempre sul mio blog.  Rimango comunque colpito dalla tecnologia che c’è in cantina. Si capisce non solo di più dei costi di cui parla spesso Tommaso ma anche della necessità di supportare al meglio il biologico.  Siamo partiti con un signore, Domenico D’Angelo, che mi ha aiutato a progettare la cantina. Mi ha instradato. Siamo stati fortunati ad appoggiarci a persone competenti. A me piacciono le cose fatte bene. Non mi piacciono le cose a risparmiare. È stato un sacrificio economico che ancora oggi paghiamo. Ma ne è valsa la pena.  Tommaso si occupa di tutto in azienda tranne che della parte contabile e commerciale. A questo ci pensa la moglie Nicoletta. Due le figlie, Caterina e Chiara. Caterina, laurea in agraria, si occupa anche lei del commerciale e dei Clienti. Chiara fa la maestra in un asilo nido e supporta la famiglia durante la vendemmia.  A Caterina le piace molto la poltrona e il computer.  Il ragazzo di Chiara invece fa l’enologo e stiamo cercando di farlo entrare in azienda ma ha un buono stipendio Cosa mi rimane di questa chiacchierata? Aver conosciuto un personaggio come Tommaso, testardo e schietto. Nonostante una vita difficile, nonostante la fatica, porta avanti le sue convinzioni con forza e tenacia. Senza voltarsi indietro. Senza piangersi addosso. Anzi, lo fa con coinvolgente grandissima energia evidente anche solo dal modo di parlare e di porsi. I vini sono una sua diretta espressione. Allora, è bello finire con le sue di parole più che con le mie. Perché queste debbano essere l’omaggio ad un uomo prima all’imprenditore dopo: tutto il mio rispetto. Non voglio infangare nessuno però a me piacciono le cose pratiche e fatte bene. Io lavoro come se qualcuno mi stesse costantemente guardando perché sono stato educato all’onestà e al rispetto. Onestà e rispetto. Quando ci sono queste due virtù, tutto il resto, non può che essere una piacevole, meravigliosa, conseguenza. Tommaso, aggiungerei solo la tua testardaggine! Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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25 Ottobre, 2023

Gambero Rosso "Tre bicchieri" 2024

Gambero Rosso “Tre bicchieri” 2024 Uno, nessuno, centomila. Oppure 498, come il numero dei vini premiati con l’ambito riconoscimento “Tre bicchieri” del Gambero Rosso. Possono sembrare tanti, ma se sono il frutto di oltre 50 mila etichette degustate, appare immediatamente evidente come rappresentino una percentuale bassissima (circa l1%).
Occorre anche sfatare il luogo comune che solo vini di prestigio possono ambire al riconoscimento poiché, tra i 498 premiati ve ne sono 56 (l’11%) sotto i 15€. Significativo invece come il 35% sia rappresentato da aziende biologiche e biodinamiche. Ogni vino è una opera d’arte poiché frutto di una attenta elaborazione della materia prima. Mani esperte che colgono i grappoli. Mani esperte che li lavorano. Mani esperte che trattano ogni fase del processo. Dietro ogni bottiglia c’è l’attento lavoro di persone che usano prima il cuore poi la mente per elaborare qualcosa che non può essere banalizzato come semplice “liquido”. Profumi, sapori, sensazioni. Ciò che troviamo nel vino è essenza, storia, passione, fatica. Una vera opera d’arte. Così, presentare i vini del Gambero Rosso in un luogo pazzesco come il Palazzo Esposizioni Roma di Roma, non può che essere la cosa più naturale del mondo: opere d’arte tra le opere d’arte. Ecco che i colori del vino e la creatività delle etichette si fondono perfettamente con l’ambiente circostante. Un museo che prende vita non solo dalle pareti ma anche dai banchi di assaggio. Qui si incontrano i creatori dei vini. Qui si parla di vino. Qui si discute di sentori. Qui si discute della storia. Ho avuto il piacere e l’onore di conoscere tante persone. Dialogare con loro. Parlare la stessa lingua. Quella della passione. Ho avuto il piacere e l’onore di testare le loro opere e discutere di queste. Sul mio canale Instagram ho cercato di raccontare con delle storie le etichette. Magari un giorno avrò modo di raccontare anche le storie di alcuni creatori. Uscendo dal museo risulta difficile capire quale sia l’opera che ha attirato maggiormente l’attenzione. Allo stesso modo mi è impossibile dire quale vino, tra i tanti degustati, abbia fatto breccia in me. Perché ognuno mi ha fornito sensazioni diverse e importanti. Ognuno ha trovato uno spazio nella mia mente e nel mio cuore. In fondo così sono le opere d’arte: ci aprono la mente verso nuovi modi di esplorare il mondo. Grazie a tutti i produttori che ho incontrato e grazie al Gambero Rosso che mi ha consentito tutto ciò. Al prossimo anno! Ivan Vellucci Mi trovi su Instagram : @ivan_1969
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20 Ottobre, 2023

Furnari: orgoglio, riscatto, giustizia

  Quanto vanno di moda i vini siciliani. Tutti si vantano di conoscere i vari Nero d’Avola, il Grillo, l’Insolia, il Catarratto, il Marsala. Tutti a citare i vini dell’Etna, le meraviglie del Trapanese, la DOCG del Cerasuolo di Vittoria. Insomma si fa man bassa di vino siciliano grazie anche alle numerose cantine che sono sorte in Sicilia negli ultimi anni. E meno male dico io. Meno male che ci siamo arrivati fino a questo punto. Con ancora tanta ma tanta strada da fare per valorizzare una terra così unica e meravigliosa quale è la Sicilia. Isola, continente, nazione a parte. Chi lo sa. Chi può dirlo. Quando a Roma piove e fa freddo, in Sicilia si può fare il bagno. Se mangi un arancio della Sicilia sa di sole e caldo. Così come una pesca tabacchera. Solo qui trovi quelle vere.  Terra strana la Sicilia. Ricca di tutto. Anche di contraddizioni.  Pochi ricordano come era un tempo. Non parlo di centinaia di anni fa ma del dopoguerra. Gli anni del boom economico, della voglia di fare impresa, della ricostruzione. Il fermento che pervadeva l’Italia intera qui, in Sicilia, era solo un piccolo refolo di vento. Nulla di più. Si viveva ancora in maniera contadina e pochi avevano voglia di fare impresa. Facile e intuitivo pensare alla innominata Mafia, alla incuria dei governi nazionali e regionali, alla mentalità delle persone.  Eppure, qualche persona che aveva voglia di rischiare e fare impresa, anche qui c’era. Qualche appunto. Perché fare impresa in Sicilia nel dopoguerra era complicato. Parecchio complicato. Se poi volevi farla nel campo del vino, era più che parecchio complicato.  Il vino siciliano, quello che oggi vediamo tutto bello imbottigliato ed etichettato, prima non c’era. Il vino si produceva per essere esportato come vino da taglio. O al massimo venduto sfuso. Chi poteva essere il pazzo che andava a metter su una azienda vinicola per vendere il vino imbottigliato? Francesco Furnari. Ecco come si chiamava uno di quei pazzi, visionari imprenditori. Lui e pochi altri le cui bottiglie oggi sono in vendita come oggetti da collezione. Tempo fa lo zio di mia moglie mi disse di aver trovato in cantina una serie di bottiglie storiche degli anni 60 e 70. Voleva venderle e chiedeva una possibile valutazione. Una volta invitatemi le foto capisco che si trattava di oggetti da collezione. Non bevibili ma comunque con un minimo valore da collezionisti. Erano le bottiglie del vino Corvo dei Duca di Salaparuta che insieme ai Florio rappresentavano due delle poche realtà siciliane. Francesco Furnari era un imprenditore che, partendo da Piazza Armerina, lo splendido paese vicino Enna famoso per i suoi mosaici, creò una azienda vinicola con l’ambizione di vedere le proprie bottiglie sui tavoli dei più importanti ristoranti del mondo. Un prodotto di qualità insomma e non certo un vino da taglio benché mai sfuso. Francesco era un ragazzo sveglio. Dovevi esserlo per forza in quegli anni dove per campare occorreva arrangiarsi senza appoggiarsi ai genitori. Sportivo di quelli seri (anelli, fondo scherma), politico attivo, aprì il suo primo magazzino per la vendita di birra e vino sfuso dopo la guerra. Si sa come vanno queste cose. Inizi a vendere merce degli altri ed ad un certo punto ti chiedi: ma perché il vino non ce lo facciamo da noi? Vigneti ce ne erano in quantità. Solo che per produrre vino, tranne quello di casa, non è che si fosse molto esperti. Francesco però osserva e prende quello che c’è. Che è tanta roba. Perché in quegli anni, le aziende del nord mendavano in Sicilia i propri enologi a comprare l’uva. Bastava agganciare uno per iniziare a collaborare. Detto fatto. Non rimane con le mani in mano però: ci sono da fare le ricerche ampelografiche per stabilire cosa trasformare e creare lo stabilimento produttivo. È così che nel 1962 nasce il primo vino nello stabilimento di Piazza Armerina.  Tre le linee di prodotto create: Fleming, rosso con Calabrese (Nero d’Avola) e Nerello Cappuccio; un bianco da Catarratto, Insolia e Verdello; un rosato, vero fiore all’occhiello, da Nero d’Avola con vinificazione in bianco e frizzante per seguire la tendenza dell’epoca (vino questo anche più volte  premiato). C’erano poi anche vini di più facile beva e a prezzi ridotti. Tanto per completare la gamma.  L’azienda, in poco tempo, crebbe molto grazie anche ai tanti premi ricevuti ed alle esportazioni in varie parti di Italia ed Europa. Giovani enologi che diventeranno poi famosi, come Franco Giacosa, si formano nella sua azienda. Certo, imprenditoria e politica non sono mai andati troppo a braccetto. Chiaro che Francesco non ricevette agevolazioni da questo connubio. Tutt’altro. Andò avanti lo stesso arrivando ad esportare i vini fino a New York. Per fare questo dovette incontrare Frank Sinatra. A quel tempo occorreva il benestare di chi gestiva tutto. Andò male perché esportò dei container e a New York ma volevano in cambio delle cose che lui non poteva dare. Riuscì a tornare in Italia anche se in maniera rocambolesca. Così Cristiano Furnari, nipote di Francesco, ricorda l’episodio. Così come ricorda di quando il nonno andò ad esportare il vino anche in Perù quando erano vietate le importazioni di alcolici.  Fece un accordo con le autorità locali che gli diedero le chiavi della città, lima. Fino a quando gli chiesero in cambio di esportare altro. Si rifiutò. Difficile anche fuori dall’Italia fare impresa in quegli anni. Davvero complicato.  Agli inizi degli anni 80 Francesco si ammala e non riesce più a seguire l’azienda che, purtroppo, cade in disgrazia.  Mio padre era giovane (con due sorelle) e lavorava in cantina da quando aveva 10 anni. Mia nonna lo invogliò a cambiare vita e andare a studiare. Via dalla Sicilia. Era troppo pericolosa. Con l’azienda in fallimento, i creditori che aleggiavano come avvoltoi, gli avversari politici e quanto altro si possa immaginare di peggio per rendere una permanenza pericolosa, quasi scontato il destino a cui Fabio, il papà di Cristiano fosse indirizzato: sul Continente. A Roma.  Mio nonno aveva qualche ettaro di vigneto ma comprava l’uva. Tutte le terre sono andate perdute insieme allo stabilimento. Non abbiamo più possesso di niente perché quando nonno è morto, c’è stato un fallimento e fu svenduto tutto. Il tempo passa e si tenta, si cerca di dimenticare. Ci prova soprattutto Fabio che dall’aiutare il padre in cantina si trova catapultato a Roma cambiando totalmente vita.  Non ho conosciuto Fabio ma mi sarebbe davvero piaciuto molto. Impegnato nella cultura come cantautore, scrittore nonché titolare della casa editrice e discografica Terra Sommerse. Magari un giorno lo conoscerò e vorrò chiedergli quanto della canzone Mio Padre del suo album Cavalieri e soldati. Dal testo che ho ascoltato, uno struggente mix di amore e denuncia. Denuncia che emerge prepotente anche nella struggente prefazione “Il miracolo del vino” del libro di Fabio, Gasolio, scritta da Maurizio Prestifilippo. In ogni modo, passa il tempo, inesorabile. Ma la storia rimane. Rimane nei ricordi tramandati ai nipoti di un tempo che fu: Francesco che vive a Bari, Alessandro in Sicilia, Cristiano a Roma. L’idea alla base era recuperare una eredità morale e anche un sentimento di riscatto per una storia particolare. Con la consapevolezza che riprodurre una azienda come quella del nonno, anche per la sua enorme capacità imprenditoria, non poteva essere nei nostri obiettivi.  Alessandro, Francesco, Cristiano decidono sedendosi attorno ad un tavolo, che il nome dei Furnari doveva tornare a stare sulla etichetta di un vino.  Io me la immagino la scena di questi tre carusi che fantasticano di vino, di cantina, di vigna, di commercio. I racconti con protagonista nonno Francesco, quei racconti che si sentono fare da quando erano piccoli, adesso, possono trovare un minimo di realtà. Sentono in loro la possibilità di fare qualcosa. Così come immagino Fabio, che il vino lo ha fatto veramente insieme al padre, con gli occhi che gli brillano. Forse anche di commozione.  Già, tutto bello. Ma l’azienda e il vino sono tutt’altra cosa che ricordi e volontà. I tre, che carusi non sono più, decidono di partire. È il 2018 e nasce (o rinasce), la Azienda Vinicola Furnari. Nasce la società ed è già un inizio (per mera cronaca ha sede legale non in Sicilia ma a Roma, negli stessi locali di Terre Sommerse).  Occorre produrlo il vino però. Cosa non semplice senza vigne.  I tre ragazzi sono ingegnosi e investono i successivi due anni nella implementazione di un piano ben preciso.  In primo luogo la ricerca delle vigne. Se non puoi comprarle e non hai capacità e competenze, l’unica strada è trovare una azienda che produca uve della tipologie e qualità necessarie. Lo trovano a Butera, poco sopra Gela. Non abbiamo dei vigneti di proprietà. Per ripartire abbiamo preferito appoggiarci ad un vignaiolo esperto del quale ci fidiamo e sappiamo come lavora. Ci conferisce le uve. Così siamo entrati gradualmente nel mercato. Dopo 35 anni è tutto cambiato. Necessità di ripartire da zero.  Poi occorre capire che tipo di vino produrre. C’è certamente bisogno di un enologo. Qualcuno però che supporti nella rievocazione delle bottiglie del nonno in chiave moderna. Spazio dunque ai monovitigni che soppiantano i blend.  Facciamo circa 10.000 bottiglie l’anno. Negli anni 70 ne faceva circa 200mila. Erano tante allora. Abbiamo voluto ripartire da zero. Con umiltà. Facendo un passo per volta. Richiede tanto impegno e sacrificio. Bottiglie poche. Non ci si vive.  Nascono così i tre vini della Furnari i cui nomi ricalcano e fanno rivivere quelli di nonno Francesco: il rosso da Nero d’Avola, Flaming; il Bianco di Lidia da Insolia; Velvety, il rosato da Nero d’Avola. Sul mio blog ho recensito il Velvety, un vino con tutta la Sicilia dentro! Ci siamo affidati all’enologo con l’idea del vitigno. Mio padre aveva conservato le trascrizioni delle ricette. Per delle cose sono cambiate per altre no.  Volevamo fare il rosso in blend ma non siamo riusciti a trovare il Nerello Cappuccio. Adesso stiamo tentando di fare un rifermentato in bottiglia sulla base del nostro rosato.  Francesco Furnari con Franco Giacosa Tutte lavorazioni semplici. Solo poche bottiglie affinano in barrique. Gli esperimenti sull’insolia con una piccola percentuale di barrique ma non ci ha convinto. Ora, potrebbe sembrare che questa sia l’opera di tre ragazzi che, ancorché animati da nobili sentimenti, vogliano gettarsi in una attività senza la propria anima. Rendendosi le cose più semplici possibili. Ma credetemi, non è così. I giovani non vanno mai sottovalutati. Perché oltre le idee, fantasiose o strampalate che siano, c’è tanto entusiasmo, tanta passione, tanto studio, tanta programmazione.  Francesco, Cristiano, Alessandro (e metto dentro anche Fabio), fanno tutto in maniera estremamente intelligente.  Anzitutto un business plan. Che per molti non vorrà dire nulla ma per chi ne sa un minimo di imprenditorialità è l’elemento senza il quale neanche si costituisce la società. Poi c’è lo studio relativo agli aspetti che vano dalla coltivazione, alla cantina, alla commercializzazione.  Abbiamo studiato molto. Io ho molto approfondito tanti aspetti. Il nostro vino viene dal lavoro di una persona che ci sta giorno e notte e la segue bene. Su indicazioni diverse abbiamo trovato chi soddisfaceva le nostre caratteristiche. I contatti ci hanno aiutato. Instradandoci bene. Ci è voluto un pò, quasi due anni per farsi bene una idea.  Quindi c’è l’ascolto di chi ne sa più di loro a cominciare da papà Fabio. Ci siamo appoggiati ad un enologo, Donato Lo Vecchio, che aveva curato anche Planeta e Settesoli. Poi ad un agronomo. Con i contatti ci sono state consigliate strade da prendere. Persone più esperte con le quali parlare. Fabio Furnari Infine la scelta del luogo e del partner agricolo cui affidarsi. Siamo andati in un territorio come quello di Butera, vicino Caltanissetta. Vicino Piazza Armerina. Mio cugino vive li e mia nonna ha vissuto li. Li c’erano i vignaioli di mio nonno che prendeva l’uva li tra Caltanissetta e Vittoria per il Nero d’Avola; Menfi e Alcamo per i bianchi. Siamo andati li perché cera un significato. Quei vitigni esprimono un significato. Se uno vede le vigne di Butera se ne innamora. I terreni sono molto calcarei. Su sabbia bianca. Conferendo molta mineralità e sapidità. Scelte precise e non certo improvvisate. Attente e ponderate riflessioni per ripartire con qualcosa che consentisse rischi non elevati e gradualità. Se non è una scelta intelligente questa! Vorremmo andare in autonomia con una cantina totalmente nostra. Non tanto con le vigne perché ci manca tempo ed esperienza. Nulla toglie che se le cose andassero bene molliamo tutto e ci mettiamo a fare vino al 100 per cento. Sarebbe la mia massima aspirazione. Tuo nonno cosa ne penserebbe di questo? Non l’ho conosciuto purtroppo. Forse mio padre ti risponderebbe meglio. Era un altro contesto, un’altra testa. È stato geniale ma ha commesso degli errori per il suo sogno. Sarebbe comunque contento perché abbiamo ripreso questa attività. Magari troverebbe anche altre soluzioni. Noi, anche forti di quella esperienza, consapevoli, abbiamo fatto un’altra scelta. Ecco, questa la storia di un sogno infranto. Questa la storia di chi, per senso di riscatto, rispetto e orgoglio (forse anche di giustizia) sta tentando una resurrezione.  Non so come andrà a finire questa storia e cosa aspetterà i tre carusi (che carusi non sono più) tra qualche anno. Spero solo di poter, un giorno, scrivere ancora di loro e di come siano riusciti ad onorare la memoria di nonno Francesco. Francesco Furnari. Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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13 Ottobre, 2023

Terrae Laboriae: orange, anfora, cuore e testa.

  Le buone idee nascono dalle intuizioni. Guardarsi attorno in maniera incantata come fa un bambino. Senza un preciso scopo. Chiedendosi perché, come, quando. Entusiasmarsi. Meravigliarsi. Stupirsi. E, al tempo stesso, riflettere. Pensare.  Non è un meccanismo automatico. Occorre allenamento e predisposizione.  Avete presente quei giochini della Settimana Enigmistica per i quali occorre unire i puntini numerati così da formare una figura di senso compiuto? Ecco, proprio quelli. Immaginate dunque come ogni puntino, senza una linea che li congiunga, non sarà mai niente di definito. Unendo i punti però, appare la figura nel suo insieme. Chiara, lampante. È sempre stata li ma non l’avremmo mai vista senza una congiunzione.  L’idea appare chiara e non aspetta altro di essere realizzata. Già, ma mica è semplice realizzare fisicamente una idea. In molti ci provano, in tanti falliscono.  Per realizzare qualcosa di concreto, qualcosa che può farti svoltare nella vita o che dia a questa un senso diverso, è necessario non solo averla, l’idea, ma anche essere in grado di realizzarla. Con cuore e con testa. Andiamo per ordine.  Il primo puntino si chiama Antonio Sauchella. Ingegnere, manager, appassionato di vino. Una persona che sa il fatto suo e che a circa 40 anni può vantare solide esperienze consulenziali in Italia e all’estero. Soprattutto in Asia. Antonio è un entusiasta oltre che una persona estremamente competente. Senza spocchia e con quella giusta dose di umiltà che non fa mai male. Anzi, direi pure di più di quanto servirebbe perché il curriculum è di tutto rispetto ma non lo da a vedere. Il secondo puntino sono i vini Orange che in Asia hanno da tempo una buona diffusione. Non sapete cosa sono i vini Orange? Immaginate di realizzare un vino bianco alla maniera del vino rosso ovvero con la macerazione delle bucce. Ciò che accade è il rilascio di sostanze coloranti (polifenoli) e tannini. Il vino invece che bianco, assume una colorazione aranciata più o meno marcata in funzione del vitigno e del periodo di permanenza sulle bucce. Il risultato sarà un vino che, generalmente, mantiene i sentori del vitigno di provenienza ma risulterà tannico. Davvero molto interessante. Il terzo puntino è la provenienza di Antonio: Benevento. Territorio meraviglioso con vitigni meravigliosi. Quel territorio che se ti ha visto nascere ha sicuramente lasciato una impronta indelebile. Per le tradizioni, per la passione, per le persone. Ti ha lasciato anche l’accento. Fa strano, ma manco tanto, sentire parlare Antonio che di lingue ne conosce parecchie e vive a Milano, ancora con un leggero accento campano. Che meraviglia! Il quarto puntino è Angelo. Vignaiolo di famiglia di vignaioli che possiede e lavora le terre e le vigne. Che non trasforma però in vino. Vende le uve al consorzio. Pochi ettari ma tutti trattati con cura e amore. Unire questi punti per Antonio è semplice. Un consulente ci mette un attimo a capire che si può fare qualcosa di buono. Buono però è nemico di ottimo. Anche se non ho mai capito dove si posiziona distinto. Infatti a scuola Ottimo era il massimo e pure qui non va bene perché ci sarebbe Eccellente ma non si metteva mai. Un pò come il 10. Meno male che ora le cose sono cambiate e i 10 fioccano. Eravamo ad Antonio. Fare le cose buone non consente di fare quelle migliori. Quelle che in qualche modo ti contraddistinguono rispetto al resto.  Così Antonio pensa in maniera diversa. Ancora di più. Lo fa non da solo ma con Angelo. Perfetta simbiosi, perfetto allineamento dei pianeti e soprattutto congiunzione di tutti i puntini. Dunque. Vini Orange. Antonio li scopre in Asia. La sua permanenza li per lavoro gli regala sentori diversi, gusti diversi. Così che gli abbinamenti con i vini Orange risultano vincenti. “In Italia ce ne sono pochi di vini Orange” avrà pensato tra se e se. Quando uno proviene da una terra con meravigliosi vitigni autoctoni dotati di grande freschezza, dunque adattabili alle lunghe macerazioni e ha un caro amico che li coltiva, beh, la figura comincia a prendere forma.  Eh già, ma di produttori che realizzano vini da Falanghina e Piedirosso ce ne sono a iosa nel Sannio. Occorre qualcosa di diverso e Antonio, insieme ad Angelo, vado dritti come treni sull’anfora georgiana. Ma non basta. Occorre spingersi oltre per guadagnarsi una vera distinzione nel territorio (e non solo). Ecco allora che la filosofia di un vino naturale prodotto con lieviti indigeni e nessun tipo di aggiunta nel processo prende forma. Ricapitoliamo. Vitigni autoctoni del Sannio. Macerazioni in anfora. Lieviti indigeni. Nessun tipo di aggiunta. Permettetemi di dire “wow”! Insieme a questo mio amico, viticoltore da generazione nel Sannio, è nata l’idea di fare qualcosa di diverso. Ci piaceva molto la filosofia naturale visto che viviamo in un mondo così tecnologico e con prodotti figli della tecnologia. Abbiamo studiato la filosofia georgiana con il mondo degli orange wine, macerazione lunga, complessità, tannino nel vino bianco. Ci siamo spinti su questa filosofia. Il ritorno agli arbori vuol dire avere prodotti artigianali con solo uva e niente altro. Le anfore come si usavano migliaia di anni fa. Niente uso di tecnologia, lieviti autoctoni, massaggi del cappello, nessun controllo della temperatura. Questo sorprende anche gli operatori del settore perché non avere tecniche di controllo è complicato. Di fatto noi abbiamo delle anfore di terracotta posizionate cinque metri sotto il terreno che è il migliore mitigatore degli sbalzi termici. Anfore da 1000 litri con una produzione annuale di poco più di 4000 bottiglie. Piccole quantità con una ricerca estrema della qualità perché vogliamo un prodotto che eccelle per qualità senza chimica. Interveniamo molto in vigna.  Antonio è un manager abbiamo detto. Si occupa di consulenza tecnologica in una azienda che lui stesso ha contribuito a fondare. È davvero meraviglioso come senta forte il bisogno di artigianalità, di ritorno alle origini e soprattutto di mantenimento delle tradizioni. Innovazione e tradizione possono e devono andare di pari passo. Perché il mondo non sarebbe quello che è senza l’innovazione e non saprebbe dove andare senza le tradizioni. Un connubio che dovrebbe sempre di più essere rafforzato poiché non in antitesi ma assolutamente in simbiosi. Nasce quindi Terra Laboriae. Nasce il progetto di Antonio e Angelo in quel di San Lorenzo Maggiore (BN) dove ci sono le terre. Un nome che identifica proprio la “Terra del lavoro” già ai tempi di Plinio il Vecchio, la Campania Felix che a tutti gli effetti è la culla del vino in Italia. Terreni fertili, clima fantastico, vitigni meravigliosi.  La scelta delle anfore, insolita in questo territorio, e ancor di più della completa naturalezza del vino, come mantra aziendale. Elemento imprenscindibile e insostituibile.  All’inizio c’era un pò di scetticismo ma il prodotto ci soddisfaceva rendendoci forte. La prima volte che ho visto il vino mi sono emozionato. Quasi come se fosse un figlio che nasce. Frutto di tante idee e pensieri.  Le anfore arrivano dalla Toscana. Una scelta obbligata a seguito della guerra in Ucraina che ha bloccato il commercio.  Erano già pronte per la spedizione. Il produttore voleva mandarle via Turchia ma senza garanzia.  Le abbiamo comunque messe noi sotto terra. L’idea era di avere una cantina sotterranea.  Riusciremo prima o poi ad importare anfore dalla Georgia  Una società fatta da due persone a distanza. Con Antonio a Milano e Angelo in a San Lorenzo.  Antonio che si occupa della parte sales&marketing, Angelo della gestione della vigna. Insieme quando si tratta della vendemmia e della realizzazione delle bottiglie. Quattro ettari di vigna nel cuore del Sannio e tanta positività in questi due ragazzi che partiti nel  2022 con la prima vendemmia, hanno imbottigliato le prime bottiglie nel 2023 e solo ora pronti per uscire sul mercato con tre etichette. Tre tipologie di vino che rappresentano tre puntini da unire con una semplice linea ad identificare la filosofia aziendale.  La prima è una Falangina, Tetri (il cui nome è bianco in lingua georgiana, თეთრი) con macerazione breve. Raccolta e pressata manuale. Macerazione in anfora di 24 sul bucce e raspi per non perdere il sentore vegetale (le vigne hanno circa 25 anni dunque si può fare). Poi affinamento in anfora per 12 mesi.  L’obiettivo di questo vino è un prodotto maggiormente fruibile poiché la macerazione è meno spinta. Per un pubblico che vuole “capire” di cosa si tratta senza spingersi molto in avanti. Il risultato è una Falanghina che esalta odori e sapori: già dal colore dorato stupisce. I frutti al naso non sono bianchi ma gialli: pesca, melone, ananas. Arriva il fieno e la camomilla quasi mielosa. Infine lime e pera. Il mix ricorda una marmellata di arance. Secco, caldo, fresco e sapido ad esaltare il territorio. Un meraviglioso retro olfatto di albicocca disidratata pervade la bocca rendendo il sorso unico e insolito per questo vitigno. Chiusura di bocca precisa e persistenza anche lunga. Stupendo Poi il rosso Teli (rosso in lingua georgiana, წითელი) da Camaiola, un bel vitigno autoctono usato già dagli antichi romani e confuso nel passato con la Barbera tanto da prendere il nome di “Barbera del Sannio”. Il vino viene prodotto con 8 giorni di macerazione e 12 mesi di invecchiamento in anfora. Molto colorato e dotato di buona freschezza ancorché meno tannico del sempre presente (in queste zone) Aglianico. Rubino con riflessi porpora, appare impenetrabile nel colore. Tanta frutta rossa e nera quasi a ricordare la macedonia degli alberghi di montagna (mi ci tufferei!). Prugna e tante spezie dolci che vanno dai chiodi di garofano alla noce moscata, al pepe di Sichuan. Poi la rosa che appare fresca e vegetale. Morbida al palato, rotonda, suadente, sinuosa. Un tripudio di sensazioni dovute alla immediata durezza (è secco, fresco, caldo) che si ammorbidisce donando setosità. Teli è un vino che si arricchisce pian piano che trascorre tempo in bocca arrivando ad una chiusura impeccabile grazie anche alla meravigliosa mineralità. Sembra uno vino del nord ma molto più morbido e bilanciato. Buona la persistenza. Infine Speri (arancio, ფორთოხალი) la Falanghina più spinta con 28 giorni di macerazione e 12 mesi di affinamento. In anfora ovviamente. Per garantire l’ossigenazione si eseguono ripetuti e giornalieri massaggi a mano. Una vera coccola per queste uve che restituiscono poi un colore che tende all’orange insieme ad una buona complessità olfattiva. Le note minerali si uniscono a quelle affumicate e all’arancia candita, al mandarino, all’albicocca quasi in crostata. Pesca e fiori di mandorlo ed arancia. Si percepisce anche una nota delicata nota vegetale. In bocca si palesano i tannini così da renderlo abbinabile ad una vasta gamma di piatti. Secco, caldo, fresco ma non troppo. Minerale. Davvero tanto minerale. Stupendo per la sua partenza quasi dolce e la virata verso un delicato e stuzzicante amarognolo per via dei raspi lasciati nella macerazione. Pulitissima la bocca e ottimo bilanciamento. Un vino non per tutti ma del quale ce ne si può facilmente innamorare. Le produzioni non possono che essere di nicchia. 2400 bottiglie di Falanghina Tetri, 1000 bottiglie di Speri e altrettante di Teli. Uno dei vantaggi dell’anfora è il mancato influenzamento del mosto. Totalmente neutra. Tutto ciò che senti arriva dal vitigno. L’idea alla base doveva essere un prodotto non convenzionale in una terra che di convenzionale ha molto. Qualcosa che oggi non si fa. Ero tornato dall’Asia con l’idea di questi vini. Li dove hanno cultura e passione per questo tipo di prodotto. Angelo mi ha sempre seguito. Inizialmente avevamo coinvolto anche un altro produttore con base convenzionale che non era molto d’accordo sulla filosofia. Non abbiamo continuato insieme perché non credeva alla nostra filosofia. Abbiamo trovato l’enologo specializzato in vini naturali che opera nel nord Italia Francia e Romania. Non era mai stato al sud e non conosceva la Falanghina. Alle prime visite in cantina ha detto di aver visto terreni vigorosi, terreni che cedono vigore ai vigneti: Campania felix! Ora, se si tratti di un vero approccio filosofico o di una filosofia costruita a scopo commerciale dopo una attenta e minuziosa analisi del mercato di riferimento e con un occhio al business plan, non l’ho nemmeno chiesto. Non credo sia importante davvero perché le idee, occorre non solo averle, ma anche renderle fattive. Nel tempo. Dunque, che si tratti di filosofia pura o di una strategia commerciale, poco importa. Il prodotto che ne esce è comunque sensazionale. Ho avuto modo di provare in anteprima le bottiglie e ne sono rimasto piacevolmente colpito. La recensione dello Speri è sul mio canale Instagram. Di certo, il business plan è stato fatto e con cura. Molti vignaioli nemmeno sanno cosa sia un business plan. Spesso si iniziano attività commerciali o produttive così, ad intuito. Perché piace l’idea e ce ne si innamora. Poi, come va va. Vediamo alla fine dell’anno.   Così, se va bene, si arriva alla fine dell’anno e se ne ricomincia un’altro senza sapere se si stia andando nella direzione giusta oppure contro un muro.  Antonio il business plan lo ha fatto e ci mancherebbe altro. Un pò per deformazione professionale e direi per professionalità. Un pò perché stare dietro ad una attività del genere richiede tempo, soldi, energia. Sprecarli, non avrebbe senso ne servirebbe a qualcosa. Fare un business plan vuol anche dire tener conto dei costi di promozione dell’attività. Anche questo un aspetto sottovalutato e che poi torna prepotente quando i magazzini rimangono pieni. Sfugge ai più. Non può sfuggire ad un consulente. Esperto.  È così che Antonio oltre ad occuparsi del prodotto, presta molta attenzione alla costruzione delle etichette così come alla tipologia di bottiglia e al packaging. Volevamo fare qualcosa di diverso per proporre al mercato qualcosa di speciale e con un vero appeal. Le etichette sono fatte da un artista cubano, Juan Carlos Polo Chaviano. La mia ragazza è cubana e l’anno scorso siamo stati li. Parte delle mie vacanze le ho trascorse con questo artista a ragionare su come potevamo fare le etichette. Ha inventato questo personaggio che si chiama Gordito che è un uomo che brinda con il calice in mano rappresentato in diverse configurazioni ma sempre con l’anfora vicino per evocare il messaggio. C’è molto di investimento anche dal punto di vista del design e del fascino. Anche la bottiglia borgognotta: scura per non avere influenze della luce e del calore; spessa perché essendo un vino naturale, meglio lo conservi e meglio è.  Infine c’è l’astuccio che, oltre a dare una protezione aggiuntiva per viaggiare sempre al buio, è scenografia e design.  Bellissime in effetti le etichette come sono stupendi gli astucci. Stupende tonalità di colore e grafica accattivante. Fosse anche solo per esporle. Ciò su cui si dovrebbe prestare attenzione nelle parole di Antonio è l’aver messo a fuoco, analizzato e sviluppato ogni singolo aspetto del progetto: niente è e può essere lasciato al caso. Niente è improvvisabile.  Nonostante l’avventura sia appena iniziata, guardare al futuro è una necessità. Davvero il giusto approccio per non rimanere fermi, per pensare che ogni giorno è nuovo e diverso dall’altro.  Vorremmo mantenere quantità basse per gestire bene il processo. Potremmo salire fino a 6/7000 bottiglie con un paio di anfore in più. A livello di prodotti le innovazioni sono pensieri che vengono giorno dopo giorno. Avere qualche linea in più sempre con la stessa filosofia. Ad esempio con la Malvasia e il Piedirosso. La cantina è spoglia e servirebbe qualcosa per gli ospiti. Più strutturata e magari visitabile.  Ci pensi a staccarti dal lavoro? Per adesso è prematuro per la fase del progetto in cui siamo. Ma ci penso. In una città come Milano dove per sopravvivere devi lottare parecchio, la consapevolezza di avere un vigneto, una cantina, seguire le fasi della natura….alletta parecchio. Adesso che tutti i puntini sono riuniti, il progetto di una nuova realtà come Terrae Laboriae, prende davvero forma.  È un progetto che mi piace poiché nasce con solide basi frutto di intuizione, idee, calcoli, programmazione, studio, fatica, lavoro, tradizione, innovazione, territorio. Un mix perfetto si direbbe. No, non basta. Non stiamo parlando di ingredienti che devono unicamente mescolarsi indipendentemente dalle quantità. È necessario metterci due cose importanti: cuore e testa. Antonio e Angelo le hanno entrambi. Cuore e testa. Senza che l’una non domini sull’altra.  Un grande in bocca al lupo per questa splendida avventura. Sono certo che Teri, Teli e Speri saranno ricordati per molto tempo. Insieme agli altri che arriveranno…. Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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6 Ottobre, 2023

Azienda Francesco Maggi: Marco e la carica del Buttafuoco

Azienda Francesco Maggi: Marco e la carica del Buttafuoco  C’è poco da fare. Quando sei uno sportivo, uno di quelli che ha la carica dentro come se fosse una molla compressa, l’energia deve solo uscire. Non si tratta di un semplice sfogo ma di quella positività e forza vitale che è in grado di coinvolgere e travolgere. Lo sportivo ha sempre un obiettivo a cui puntare e si danna l’anima pur di raggiungerlo. Appena lo raggiunge poi, è subito pronto a trovarne un altro. Ciò che serve è solo pianificazione, allenamento massacrante, rinunce. E tanta ma tanta ma tanta forza di volontà.  Ad uno sportivo non piacciono le sfide facili. L’asticella deve sempre essere più in alto del proprio limite. Perché se già sa che si può raggiungerla, nemmeno vale la pena iniziare. Marco Maggi non ha ancora 40 anni e sportivo lo è di razza. Prima nel basket, poi nel kick boxing, infine nel ciclismo. Inarrestabile. Marco è una di quelle persone che hanno bisogno di canalizzare la propria energia nel modo più opportuno. Verso un obiettivo che, una volta inquadrato, deve e sottolineo deve, essere raggiunto.  Buttafuoco. Questo è l’obiettivo che si è dato Marco. Facciamo un pò di ordine altrimenti detto così non ci si raccapezza nulla. Tra sport e Buttafuoco si vedono poche assonanze. A proposito, ma che è Buttafuoco? Siamo nell’Oltrepò pavese, terra ai più noti per le splendide bollicine metodo classico da Pinot Nero. Non fosse altro perché fa riferimento alla omonima DOCG.  In questa vasta zona posta nella provincia di Pavia a sud del grande fiume Pò, il Pinot Nero arriva dopo e non da autoctono. Anche se conquista subito. Un pò come fa una squadra piena di campioni dal nome altisonante.  I circa 225 vitigni autoctoni oggi ridottisi a 12, hanno sempre fatto la parte dei comprimari. Relegati dopo sua Maestà il Pinot Nero (che comunque qui trova espressioni fantastiche).  Non solo Pinot Nero ma anche vitigni internazionali come Riesling, Chardonnay e Pinot Grigio. Poi, nelle parti basse della classifica, quelli nostrani: Barbera, Moscato, Malvasia, Cortese, Croatina, Ughetta (o Vespolina), Uva Rara. Ora, tutti questi vitigni e l’elevazione del Pinot Nero fanno pensare ad una zona che di storia e tradizioni ha ben poco. In effetti, se si prova a cercare anche on line, non è che si trovi molto.  Qui il vino si faceva in buone quantità e si vendeva in maniera generosa. Sfuso o in damigiane. Vino rustico, senza tante pretese. Quello del contadino insomma. Rosso, nemmeno a dirlo. Terra strana questa. Forse perché di transito per i tanti dominatori che dall’est andavano ad ovest e viceversa. Spesso nemmeno ci passavano da qui, prediligendo la pianure al nord del Pò. Eppure, proprio qui, a Stradella (piccolo comune a sud di Pavia e del Pò) vennero spediti un piccolo drappello della Marina Austro Ungarica ad assistere i commilitoni nel passaggio del fiume. Scomparvero nel nulla e non già perché inghiottiti da qualcosa o periti in uno scontro a fuoco, ma solo perché ubriachi persi dopo aver bevuto litri di un vino prelevato da botti sulle quali era scritto “Buttafuoco”. La leggenda, alla quale credo poco, vuole che venne dedicata pure una nave a questo episodio, la Feuerspeir (che vuol dire proprio Buttafuoco). Ma ce li vedete gli austroungarici che dedicano una nave ad un manipolo di ubriaconi? Suvvia. Mi piace più credere alle cronache che riportano come il poeta dialettale Carlo Porta, dopo aver assaggiato un bicchiere di questo vino, esclamò “butafueg” ovvero, butta fuoco! Leggende metropolitane e storie inventate a parte, ciò che è certo è che questa zona abbia una bellissima predisposizione alla cultura della vite e che il Pinot Nero abbia da un lato contribuito alla notorietà, dall’altro affossato ulteriormente i vitigni che, da sempre, alloggiavano in Oltrepò. Io però me li vedo i contadini a produrre vino con quello che avevano in campagna: Croatina, Uva Rara, Vespolina, Barbera. Il mix non poteva che essere esplosivo.  La Croatina (meglio conosciuto come Bonarda) è amabile, fruttata, floreale, asciutta, di corpo e molto acida. La Vespolina è tannica e con spezie. L’Uva Rara è fresca e di poco corpo. La Barbera con alta acidità e bassi tannini. Se si mettono insieme il risultato non può che essere un vino tagliente.  Ma quello c’era in vigna prima. Così che non faccio fatico a credere che chi lo bevesse potesse esclamare “butafueg”! Quando quindi ti trovi per le mani una azienda con oltre 30 ettari che produce da sempre vino vendendolo sfuso o nelle classiche damigiane, la vera sfida, quella per la quale serve lo sportivo di razza, il visionario, il motivatore, l’energivoro, sta nel diventare grandi con vini di eccellenza. Marco Maggi è il legale rappresentante della azienda che venne fondata oltre ottanta anni fa dal nonno, Francesco Maggi.  La nostra azienda ha più di 80 anni nata da mio nonno, Francesco Maggi. Aveva un ettaro nel comune di Montescano. Li, ovvero sotto casa, aveva la cantina. Lui lavorava come mezzadro perché aveva poca terra. Si davano tutti una mano. Negli anni 70 mio zio e mio papà decidono di fermarsi in azienda. Gli anni 70 erano anni di crescita e l’azienda prende più struttura. La sede si sposta nel comune di Canneto Pavese. Comincia ad avere i 5/6 ettari vitati. Negli anni 75/80 mio papa era riconosciuto per la damigiana che portava nell’hinterland di Milano. Da Pavia a Milano vendendo il vino sfuso alle osterie e ai ristoranti della bassa. Vita dura ma che consente comunque di espandere l’azienda. Marco entra in azienda a vent’anni, nel 2001. Con lo spirito e personalità giusta. Anzitutto gli studi, per capirne e non essere impreparato, non possono che essere quelli enologici. Poi con una strategia ben chiara ovvero il passaggio dalla botte alla bottiglia, per dare personalità e immagine all’azienda. Infine con la squadra perché per vincere le sfide occorre un team coeso.   Facevamo 20.000 bottiglie. Con tanto entusiasmo volevamo entrare nella distribuzione. Abbiamo deciso come azienda di farci una nostra rete di vendita. Ora in Italia siamo presenti in 14 regioni con 30 distributori. Più 4 all’estero. Adesso produciamo 180.000 bottiglie su 30 ettari vitati. 18 etichette in portafoglio che erano 25 nel 2001. Davvero tante ma ciascuna rappresentativa del nuvolo di vitigni del territorio. Tante si e necessarie per sostenere l’azienda e il progetto. Quello che Marco, appoggiato in tutto e per tutto da papà e zio, vogliono portare avanti per il futuro dell’azienda: il Buttafuoco.  Siamo nella zona orientale dell’Oltrepò pavese. Al centro dei sette comuni che possono pregiarsi di utilizzare la DOC Buttafuoco. Siamo partiti a fare il Buttafuoco Abbondanza nel 1991 con l’uvaggio costitutivo da Croatina, Barbera, Uva Rara e Vespolina. L’abbiamo sempre fatto fermo perché questa è l’espressione migliore.  La storia del Buttafuoco non ha radici antiche. Anche se la Maggi lo produce dal 1991, che fanno pur sempre 32 anni, il mix che costituisce il vino, disciplinato nella omonima DOC, è qualcosa che i contadini qui facevano da sempre. Nel 1996, una ventina di produttori (oggi 17) fondano il Club del Buttafuoco Storico con l’obiettivo di conservare e valorizzare un patrimonio culturale. Poco più di 22 ettari, un bottiglia identitaria, un marchio specifico. Tanta coesione per non fallire.  Uno con il temperamento di Marco può restare a fare il comprimario? Ovviamente no. E infatti oggi è lui il Presidente del Club del Buttafuoco Storico, Club nel quale la Francesco Maggi entra nel 2001. Ma non era l’anno nel quale Marco entra in azienda? Sarà destino. Oggi spingiamo su 7/8 etichette e il lavoro che stiamo facendo su queste, mi piacerebbe raccontartelo tra dieci anni. Ad oggi non sostengono ancora i costi di gestione della nostra azienda e ci serve il bagaglio degli altri vini per il traghettamento. Marco non è spavaldo ma saggio. Sa che la sua è una azienda in trasformazione e la gamma dei vini serve a sostenere l’azienda.  Con il Vigna Costera facciamo 4500 bottiglie, con Abbondanza 18.000. Il Buttafuoco ancora non riesce a sostenere l’azienda e per questo dobbiamo aumentare le bottiglie. Portare avanti un prodotto poco conosciuto è difficile perché far capire lo storytelling che ha questo prodotto è complicato. Richiede tempo. Sono 3/4 anni che comincia ad andare bene con la richiesta di questo prodotto e abbiamo iscritto un’altra vigna di 3 ettari per produrre fino a 12.000 bottiglie di Buttafuoco Storico dal 2025. Vigna Costera è il Buttafuoco Storico, Abbondanza il Buttafuoco DOC. I due vini identitari al vertice della strategia di Marco.  Il vino si fa in vigna e noi in cantina possiamo solo rovinare il prodotto che ci ha dato la natura. Il nostro Buttafuoco era molto tannico con tannini quasi verdi. Adesso abbiamo imparato così da avere un vino pronto come lo vuole il consumatore. Nulla è lasciato al caso e seguiamo molto il mercato. Il passaggio dalla damigiana e sfuso (che comunque, per tradizione, ancora in parte si mantiene) alla bottiglia è compiuto. Adesso, anche insieme al Club, gli sforzi sono orientati a posizionare opportunamente il Buttafuoco Storico.  Difficile, dannatamente difficile nel panorama vitivinicolo italiano e con un fardello dell’Oltrepò Pavese identificato nel metodo classico da Pinot Nero. Ma se fosse una cosa facile, nemmeno c’era da porselo come obiettivo no? La forza di Marco sta però anche nell’avere un papà ed uno zio che lo appoggiano dandogli fiducia.  Ho avuto la fortuna che mio papà e mio zio hanno accettato le mie idee dandomi fiducia. Scegliere di non fare damigiana voleva dire perdere clienti. Fare una bottiglia medio alta voleva dire fare un percorso su un mare agitato. Papà e zio sono i titolari dell’azienda. Io sono il rappresentane legale. Penso di essere stata una delle persone più fortunate in questo lavoro perché mio padre e mio zio mi hanno sempre appoggiato avendo anche una solida esperienza. Vedo aziende con figli che vogliono fare cose diverse ma i genitori li frenano. La mia fortuna è stata mio zio perché, va bene il papà, ma uno zio che da fiducia al nipote non è comune.  Sono stato fortunato ad avere vicino due persone così. Due persone speciali che hanno donato a Marco una grande forza e serenità. Due persone che hanno sempre avuto una visione comune dell’azienda. Questa la grande forza. Forza e coerenza anche da un punto di vista commerciale. Senza snaturare la strategia e con la barra puntata sulla qualità e sostenibilità. Avevamo impiantato tutta bacca rossa e volevamo fare anche degli spumanti e vini bianchi. Così abbiamo comprato dei terreni: non ci fidavamo delle uve comprate. In questi ultimi anni abbiamo seguito la scia del Prosecco che ci ha insegnato come la gente voglia bere qualcosa di fresco e immediato. Abbiamo quindi un extra dry fatto con Pinot Nero che è entrato non a sostituire il Prosecco ma per offrire una alternativa al consumatore. Qualcosa di diverso rispetto al veneto da una uva nobile come il Pinot Nero. Una gamma dunque estremamente variegata atta a soddisfare tante necessità e mantenere la sostenibilità per garantire il futuro. Ho assaggiato Abbondanza e devo dire che mi ha molto convinto per i suoi sentori vinosi, da vino vero, per la sua frutta rossa e nera intensa che ho trovato al naso insieme al sottobosco e alla balsamicità; alla viola e alla peonia. Una fusione di odori che lo rendono, già così, caldo e pastoso. Pastosità che torna in bocca ancorchè lieve e non aggressiva. I tannini sono stati ben domati cosi come la freschezza che c’è ma senza essere aggressiva. Non butta proprio fuoco insomma (anche perché ai giorni nostri non farebbe strada). Secco e caldo, mi ricorda un buonissimo succo di mirtillo con un finale che da sull’agrumato. La bocca è piacevolissima nonostante una persistenza anche lunga. Non è un vino particolarmente strutturato ma proprio per questo interessantissimo e convincente. Con un formaggio mediamente stagionato sta alla grande. Io ho sempre fatto sport a livello agonistico. Quando ho iniziato a lavorare ho imparato che appena arrivo ad un piccolo traguardo devo sempre averne in mente un altro. A me piacerebbe fare Buttafuoco Storico su tutti i 30 ettari e se ciò si realizzasse vorrebbe dire che a livello nazionale sarebbe un vino conosciuto ovvero una doc importantissima. Ma non solo, la rivalutazione dei nostri terreni e della zona sarebbe immensa. Senza contare che, per me poi che sto spingendo da pazzi, vorrebbe dire che il lavoro è servito a qualcosa. Ecco, così è Marco. Non aggressivo, non spavaldo. Competitivo e con la voglia di emergere per far emergere un territorio. Da vero Capitano! 19419
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