Suggestioni di Vino

Suggestioni di Vino è la rubrica che racconta le persone del vino. Della loro storia, dell’amore, della passione che inoculano nel vino. Perché il vino è materia viva e le persone ne sono il nutrimento.

Le incursioni enoiche di Ivan Vellucci, ingegnere e manager per dovere, ma soprattutto Sommelier raccontano con passione e trasporto, territori e produttori d’eccezione.
Ivan ci porta a conoscere realtà prima di tutto umane, dove il sorriso e l’ospitalità dei vignaioli sono lo specchio dei vini che producono. La rubrica Suggestioni di Vino propone ogni settimana  suggestive esplorazioni e scoperte enologiche, narrate con trasporto e partecipazione. Al lettore parrà di accompagnare Ivan in queste visite speciali e sarà stimolato a fare lo stesso: vivere il mondo del vino come un bambino, con lo stupore negli occhi e la magia nel bicchiere.

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1 Settembre, 2023

Cantina Bosco Sant’Agnese. Antonio, Angela e il rock in vigna

Cantina Bosco Sant’Agnese. Antonio, Angela e il rock in vigna Quando una persona ti sta simpatica a pelle, non c’è niente da fare, l’ascolti con grande attenzione. Segui il suo sguardo. Aspetti i sorrisi. Soprattutto, le dai sempre ragione. Girovagando per una di quelle manifestazioni di presentazione dei vini, vengo attratto da una coppia di vignaioli quasi fuori contesto. Lui alto, lei più minuta. Sorriso non troppo pronunciato. Entrambi emanavano una sensazione di appagata serenità. Mista alla insofferenza nel trovarsi forse dove non volevano essere. Sia durante quella occasione sia nella successiva, capisco il perché ma soprattutto vengo conquistato da Antonio e da sua moglie, “la titolare” come è Antonio stesso a definirla, Angela. Ora, già immagino qualcuno che ha avuto a che fare con Antonio, che non sarà troppo d’accordo con me e potrà dire quanto sia una persona che “scassa” come dicono dalle sue parti, ma a me sta simpatico. Che ci volete fare. Sarà perché mi ricorda nel fisico e nelle movenze (ma anche nel modo di parlare) mio nonno Antonio. Vallo a sapere. Le sue parti sono quelle di Calvi in provincia di Benevento. La cantina si chiama Bosco Sant’Agnese. L’incontro con Antonio è di quelli scoppiettanti. Si discute di vita, di vigna, di terra, di vino. Poi di figli, di mogli, di parenti, affini. Di politica e pure di calcio. Come se si fosse al bar piuttosto che in una azienda agricola. Ma in fondo non può che essere così perché il vino è parte integrante della vita così come la terra è da dove tutto ha origine e dove tutto finisce. Antonio e Angela vivono soli nella casa di campagna. Due figli ormai trentenni che hanno preso la loro strada. Alla fine, ti ritrovi ad avere oltre 60 anni ed essere in una casa di campagna tu con la moglie. Non è una cosa simpatica. I figli dell’azienda non vogliono saperne. “Manco se mi fucili. È tua e te la gestisci per i fatti tuoi” Tanto per mettere le cose in chiaro. Ma si sa, se nasci in una famiglia contadina, non è il massimo rimanere nell’ambiente. E dire che Bosco Sant’Agnese non è nata poi tanti anni fa. Produce vino in maniera ufficiale da circa 10 anni. Nel senso che da 10 anni si produce vino con una società, un marchio, un simbolo e una commercializzazione sul mercato. Manco a dirlo, prima si faceva comunque vino. Il papà di mia moglie è sempre stato appassionato agricoltore e di vino. Insomma, attenzione al vino c’è sempre stata. Un vino che avesse però i connotati di naturalità. È una indicazione che adesso non è proprio il termine esatto. Ci ritroviamo ad averlo sostituito nella gestione dei vigneti di proprietà. Ristrutturati e resi più idonei ad una lavorazione da “single”. Perché questo è uno degli altri problemi. Non è facile trovare collaboratori con la stessa visione e passione. Ho cercato di rendere il più possibile questi vigneti tali da poterli gestire in autonomia. Lavorazione da “single”. Poi dite che non mi deve stare simpatico! Antonio è così. Parla di getto anche se le sue pause stanno a significare una ricerca delle parole. Come a far capire che le parole lui le utilizzava in maniera ponderata. La perplessità sul suo passato mi induce dunque a chiedere quale fosse la sua attività precedente alla pensione. Se te lo dico ti viene da ridere. Sono un ex dipendente dello Stato. In particolare, ero un appartenente alla Polizia di Stato e, da circa 3 anni, in pensione. L’attività l’ho iniziata molto prima di andare in pensione. A dire il vero non vedevo l’ora di andare in pensione per dedicarmi a tempo pieno. Adesso gestisco in prima persona con l’aiuto di mia moglie. Anche solo con il pensiero, lei è sempre vicina. Circa 5 ettari di vigna dei quali 3 ritrovati di proprietà, gli altri acquistati nel corso del tempo. Antonio a fare il doppio lavoro e Angela, “la titolare”, coltivatrice a tutti gli effetti conducendo l’azienda del papà da circa 30 anni. La scelta di legarci ai vigneti non è stata casuale ma condivisa da entrambi. Quando si è presentata l’idea di dar vita ad una cantina eravamo consapevoli e con le carte in regola. Il papà di Angela era uno della vecchia generazione di contadini multitasking: allevamento, latte, letame, coltivazioni. Era necessario avere il bestiame per vivere. Perché le coltivazioni non bastavano. Già, le coltivazioni. Qui, nel Sannio, da poco dopo il 1740, si coltiva il tabacco. Grandi distese colme di foglie verdi portate poi ad essiccazione. Un’area a forte vocazione tabacchicola. Del tutto politica. Noi siamo a 200 metri dalla zona del Taurasi indicata a vocazione vitivinicola mentre noi, tabacchicola. Politica pura. Concentratevi bene perché questo aspetto di Antonio è quello che mi ha conquistato. Battagliero e pieno di energie. Non burbero ma vero, sincero, vivace, mai artefatto. Come i suoi vini. Ci siamo riappropriati di un discorso vitivinicolo poiché nel passato queste storie erano battute dai vinificatori del napoletano che venivano ad acquistare Greco e Coda di Volpe. Quando si dice Greco di Tufo, tanto di rispetto. Ma qui c’era lo stesso senza essere di Tufo. Coloro che lo assaggiavano non se ne rendevano conto. Su alcuni scritti risulta poi il “Bianco di San Giorgio” (macroarea di riferimento n.d.r) che era la Coda di Volpe. Un vitigno abbandonato nel passato ma che ora stiamo ripresentando. Noi siamo di quelli che l’abbiamo riproposta perché crediamo nella Coda di Volpe. Tante aziende se la sono riscoperta per caso. Dato che siamo entrambi persone intelligenti anche se non lo può sembrare dato che sono un ex poliziotto, solitamente mediamente intelligenti, capiamo benissimo che la scelta è solo di carattere commerciale. Insisto, come si fa a non voler bene ad una persona così? Schiettezza e autoironia non sono propriamente da tutti. Antonio non si smentisce neanche quando iniziamo a parlare di vini. La mia perplessità va al fatto che durante il primo incontro parlavamo di vino biodinamico mentre poi sulle bottiglie mi sono ritrovato scritto “biologico”. Siamo cresciuti con l’idea del biodinamico. In un primo momento abbiamo cercato (quando parlo al plurale è con la titolare, mia moglie….), di certificare il biodinamico. È dal 2013 che faccio biodinamica. La cantina è nata nel 2015 ma lo faccio già da prima. Abbiamo cercato di associarci alla Demeter ma non mi è piaciuto l’ambiente Antonio è inarrestabile. Parla senza alcun tipo di rimorso o risentimento. È un buono con idee ben precise. Di quelli che non accettano compromessi e che non fanno cose senza capirne il motivo. Anche con gli ispettori sono successi, più di una volta, dei litigi. L’utilizzo del letame veniva imposto. Io gli dicevo che nel vigneto il letame non va bene perché la vite non ha bisogno di vigoria. Ma loro mi dicevano che il letame ce lo dovevo avere. Siamo stati tre anni con la Demeter poi mi sono dissociato. Avevamo provato con Agribio, che è un signore di Cuneo con una associazione per la biodinamica. Anche in quel caso c’è stato un litigio durante la pandemia. Voleva venire a fare la visita ispettiva: ma che vieni a fare che non abbiamo ricavato un ragno dal buco. Devo venire. Allora mi sono dissociato. Continua a piacermi sempre di più Antonio. Chiamatelo burbero. Chiamatelo quello che “scassa”, ma se ce ne fossero molti di più come lui, ci sarebbe non solo da ridere ma anche da guadagnarci in credibilità tutti quanti. È rimasta solo la certificazione biologica. Solo perché nel napoletano chiedono la certificazione come se questa attestasse davvero che sei biologico. Non è polemico Antonio ma più realista del re. Sempre con la sua fine ironia e il grandissimo rispetto per tutto. In primis dell’ambiente. La scelta del biodinamico, certificato o meno, è per Antonio e Angela una scelta di vita. Sostenibilità andando oltre il mero “sostenibile” ovvero verso il recupero di ciò che nel passato si faceva di buono. Economicamente la biodinamica è più sostenibile e quindi era meglio per me quando lavoravo. Ci vuole certo più lavoro e i preparati, che sono integratori, costano. Dove sta il bello? È che tutto il resto che si utilizza per la vinificazione non può essere usato. Per avere un buon vino c’è bisogno di un anno un anno e mezzo. Non per scelta tecnica ma per necessità, per la regolare fermentazione e stabilizzazione. La parte economicamente che crea problemi è lo stoccaggio. Una volta entrato a circuito oltre lo stoccaggio non hai più spese. Non sono d’accordo con i miei colleghi che presentano il vino biologico e biodinamico a prezzi più alti perché paradossalmente dovrebbe costare di meno. Schietto fino in fondo Antonio. Dice una di quelle verità scomode. Il vino biodinamico dovrebbe costare meno degli altri. Non aggiungo altro e lascio che la frase riecheggi bene. Certo, occorre tener conto delle diverse annate così da non poter ottenere, mai lo stesso vino. Ma è proprio questo il bello! Le annate cattive possono darti sorprese. Però io parto dal principio che ci dobbiamo prendere l’annata così come viene. Se tu hai una annata regolare farai un buon vino. Se ti becchi una annata sfigata la vai a maledire. La biodinamica è un di più perché le buone pratiche agricole valgono per tutti. Semplicità e saggezza. Possiamo dire che non fai una biodinamica pura facendo ciò che viene prescritto ma una coltivazione con i correttivi che servono per l’azienda. Io so che il rame in eccesso è un problema per il terreno. Allora cosa faccio? Quando l’annata è regolare a prescindere se il disciplinare mi dice la quantità che posso usare, io ne uso il meno possibile. Da dove arriva la dimestichezza nella vigna e nella agricoltura da dove arriva? Ci sono le indicazioni lasciate da mio suocero: “Bisogna rispettare quello che ci dà la natura”; “Se questo sito è ideale per la vite allora ce la devi mettere. Altrimenti lascia stare”. Indicazioni contadine che vogliono solo dire che non occorre andare contro la natura. Se prendi un bel posto soleggiato con la giusta mineralità per la vite questa avrà meno bisogno di apporti esterni. Rispettare il prodotto. Come praticare la campagna te lo dicono le piante, il posto, l’esposizione al sole. Invece ormai la maggior parte dei vignaioli sceglie il posto e ciò che manca glielo danno con qualcosa di esterno. Noi non lo facciamo. La terra si lavora da sempre. Da prima della chimica che certo ha aiutato l’uomo. O forse no. Mi viene in mente la calcolatrice. Che c’entra? Beh, prima si imparava a contare e fare i calcoli con carta e penna. Magari ci voleva tempo, ma la mente era allenata a questo. Con le calcolatrici, nessuno fa più i calcoli a mano dimenticando anche che si possano fare. La calcolatrice ci ha aiutato. Si. O forse no. Un po’ come la chimica nell’agricoltura. C’è chi sta tornando indietro e, spesso, solo per il gusto di farlo. Se si ama la terra, la si rispetta e la fatica non è altro che soddisfazione. L’anno scorso mi è venuto il pensiero di dare la musica alle piante per vedere poi i risultati. Era chiaro che la musica sarebbe stata quella che piaceva a me mentre alla vite magari piaceva altro. Io sono un vecchio appassionato di rock progressivo. Ci ho provato ed il risultato non è sgradevole. Comunque io ci stavo bene ad ascoltare la musica con la vite. Sarà stato forse un aiuto per le piante, ma per me sicuro. Vedete? Ridere con Antonio e di gusto non è poi così difficile. La sua spontaneità amalgamata da realismo e grande empatia, costituiscono uno di quei mix fantastici. Ve lo immaginate Antonio con le casse acustiche in vigna che spara a manetta canzoni dei Genesis, dei Pink Floyd, di King Crimson? Si, ma alla fine, i vini? Anzitutto i vitigni che non possono che essere quelli locali: Coda di Volpe, Piedirosso, Aglianico, Barbera, Greco. Tutti, ad esclusione di Barbera e Greco, già presenti in azienda prima dell’avvento di Antonio. La prima volta che sono entrato nel vigneto di mio suocero vedevo che c’erano diverse tipologie di uva. Mi spiegò che non era per fare un prodotto differente o per stravaganza, ma solo perchè le piante si compensavano a vicenda senza ulteriori interventi. L’Aglianico può avere una acidità non ottimale in certi periodi dell’anno e con il Piedirosso vicino gliela donava. Stessa cosa per Coda di Volpe e Greco. Un Greco con una giusta percentuale di Coda di Volpe diventa più buona perché il Greco è carico di acidità e la Coda di Volpe completamente scarica. Erano i principi di una volta. Allora perché non recuperare questi principi se sono buoni? Ora, avendo compreso il personaggio Antonio, potreste immaginare che in azienda vi siano supporti agronomici ed enologici? Ricordiamoci però che Antonio è persona intelligente e umile. Le sue solide certezze includono anche quelle di non sapere tutto e di capire quando ha bisogno di supporto. Non ho un agronomo ma ho un enologo. Quello del passato è stato Lorenzetti. Abbiamo avuto rapporti sempre non ottimali. Probabilmente perché sono molto litigioso, così ci siamo lasciati. Era molto legato al biodinamico, dunque con il vino che avesse certe caratteristiche. Io gli dicevo che a me stava bene che il vino abbia certe caratteristiche ma noi dobbiamo fare in modo da evitarne altre. Non era sempre convinto di quello che dicevo. Con il nuovo enologo le cose stanno andando meglio perché più rispettoso di quello che è il mio lavoro. Antonio non è certamente una persona semplice ma è sicuramente competente e con forti convinzioni. Penso sia assolutamente normale che sia lui a dettare i principi cui il suo (loro) vino debba ispirarsi. Non per ultimo l’uso del legno. Anche questo è stato un motivo di disaccordo con il vecchio enologo. Io vedevo come alcuni vini avessero risultato migliore nel legno. L’Aglianico, ad esempio, è uno di quelli al quale il legno da qualcosa in più. Per chi ama vini corposi e forti. Il Piedirosso in legno non mi piace. Lo trovo migliore in acciaio. Il Barbera rilascia più colore e profumi se fermentato nel legno e conservato in acciaio. Allora mi sto adeguando a tutte le differenze dei vitigni invece che farli identici. Quale è il tuo vino preferito Antonio? Il mio preferito è il Piedirosso. Perché ha connotati meno evidenti. Ha caratteristiche sensoriali più tenui e delicati. Invece il Barbera è così forte e deciso, così tutto che io lo chiamo il vino degli stupidi, dei fessi. Anche una persona meno attenta riesce a percepire delle cose. Adesso mi sta iniziando a gratificare anche l’Aglianico anche se con questo ho visto che parlare di uno o due anni è poco. Per iniziare ad avere qualcosa di buono ci vogliono tre anni. Quella del 2019, mò mi comincia a piacere. In effetti il Piedirosso, Federiciano, è stato anche oggetto di una mia recensione. Un vino davvero particolare che ha in sé la croccantezza e vivacità di Antonio. In gamma anche il Barbera (qui non è come in Piemonte dove l’articolo è “la”) Coppacorte, l’Aglianico Corneliano, il Covante d Coda di Volpe, l’Appiano ovvero rosa frizzante da Sciascinoso. Sono vini che rispecchiano a pieno il carattere di Antonio e la sua filosofia dando la piena dimostrazione di come, solo conoscendo di più delle persone che generano i prodotti se ne apprezza a pieno le loro caratteristiche. Di riflesso, così come ho scritto della mia simpatia ed apprezzamento per un personaggio come Antonio, non posso non esprimere altrettanto per i suoi vini. La natura, tanto rispetto, pochi fronzoli e alla via così. Non serve molto altro per produrre ottimi vini. Certo, devi avere la fortuna di vivere in un terreno vocato (non solo al tabacco) ma anche la bravura di non cedere alle sirene del “tutto si può fare”. Così come è necessario avere una idea, giusta o sbagliata che sia, ma una idea ben precisa, identitaria. Qualcosa che ti faccia dire “io sono così”. Nella Cantina Bosco Sant’Agnese io ho ritrovato una identità. Una ottima identità. Che poi è la stessa di Antonio e di Angela (la titolare!).   Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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25 Agosto, 2023

La Vernaccia di San Gimignano senza fronzoli: Azienda Agricola Il Lebbio

La Vernaccia di San Gimignano senza fronzoli: Azienda Agricola Il Lebbio Senti. Io sono a comprare il pane. Te tu torna indietro, fai un po’ di curve in salita e quando arrivi a i sudicio, volta a sinistra e mi trovi li Ecco, questo è Luciano dell’azienda agricola “Il Lebbio”. Siamo a San Benedetto frazione della più nota San Gimignano. San Benedetto alto mi raccomando. Non basso perché Luciano ci tiene e ci tiene anche a dire che Google si è sbagliato (in effetti non ci si arriva con GoogleMaps). Dunque San Benedetto alto. Dopo di sudicio insomma! Siamo in Toscana è vero, ma non per questo dovete aspettarvi una azienda di quelle tutte “per benino” con la reception, il viale alberato, la sala degustazione, l’esposizione dei vini. Luciano è Luciano e l’azienda è di quelle vere. Quelle di campagna che le puoi trovare nel momento di splendore, perché in tempo di vinificazione tutto deve essere lindo e pinto pena i batteri che assaltano l’uva e distruggono il vino, oppure in completo caos dovuto alla stagione morta. Febbraio (ci sono stato per il mio compleanno) è stagione morta per la vite e le cantine, quelle vere, devono rifarsi il trucco. Ecco, io l’ho trovata così ma Luciano me l’aveva detto “troverai un po’ in disordine…” Una azienda agricola, una vera, di quelle gestite a livello familiare, non può che essere così. Arrivati al Lebbio trovo Luciano impegnato con altri clienti a far assaggiare vino e inscatolare le bottiglie. Luciano è un omone di altri tempi. Mani grosse, un cappello di lana in testa, una abbondanza che sa di lavoro e fatica. Una persona schietta e buona che non ci pensa un attimo a farti vedere cosa fa con quell’orgoglio tutto toscano che si porta dietro. E dentro. Spiegarti cosa fa e perché lo fa dispiacendosi che è un po’ tutto in disordine. Tutto tranne la barricaia che è pulita come deve essere. Lui sa che ciò che conta è ciò che c’è dentro la bottiglia mica il resto.
Finito il giro ci accomodiamo in uno stanzino dove tiene l’esposizione delle bottiglie: una semplice mensola con sopra tutto ciò che produce. Non c’è un tavolo ma un grosso pallet con sopra casse di vino. Un luogo suggestivo e schietto per provare il suo vino. Mica serve la prenotazione qui. Puoi mandargli una email e lui ti gira il suo telefono così lo chiami. Se non ti risponde è solo perché impegnato a fare qualcosa. Così mentre mi sta aprendo una bottiglia arriva quello che sembra essere un suo vecchio cliente (non di età ma di data) che ha bisogno del vino. Così Luciano fa diventare immediatamente i calici da riempire da due a tre: “o mica vorrai fa bere il signore da solo?”. Chiedo di assaggiare la Vernaccia. Siamo a San Gimignano, la patria della Vernaccia. Un vitigno così antico e così di classe che nel medioevo doveva essere sulle tavole dei nobili. Sarà forse stato per quel color oro che appare appena versato nel calice. Luciano stappa una bottiglia giovane. È della vendemmia appena trascorsa. La annuso ma i sentori non sono ancora definiti. È troppo giovane davvero specialmente per un vino come la Vernaccia che può tranquillamente evolversi per svariati anni. Quando la assaggio, anzi quando la assaggiamo, con il vecchio cliente ci guardiamo e conveniamo con uno sguardo che occorre farla riposare ancora un po’. Luciano io quelle giovani non le voglio. Mi devi dare quella dell’anno passato” così dice il cliente di vecchia data. Come a dire “cosa stai facendo assaggiare?. Perdo la timidezza e confermo che questa non va bene. Luciano, senza pensarci su va a prendere quelle un po’ più datate. Basta dell’anno prima. Ne stappa una e subito appare chiaro che si tratta di altra cosa. Bel color dorato, odori di frutta bianca, zafferano, iodio, fiori bianchi. Più roteo il bicchiere e più si sentono effluvi meravigliosi. Al palato ancora meglio perché la vernaccia si esprime in tutta la sua bontà: fresca, sapida, calda quanto basta. Ovviamente secca. Vien voglia di berla e berla perché è davvero notevole. Questa è la versione base. C’è anche qualcosa di più importante “Tropie” ottenuta da uve selezionate. Il salto di qualità si sente. Eccome. Quando la apro a casa qualche settimana dopo ne apprezzo appieno la piacevolezza e l’abbinamento con i pecorini toscani mi riporta da Luciano (qui la recensione @ivan_1969). Apre poi una bottiglia di rosso. Un “Kerass” del 2015. Da uve Ciliegiolo che invece di fare da comprimario al Sangiovese per colorarlo, si esprime in tutta la sua freschezza da solo, dopo aver riposato almeno due anni in botti di rovere. Il risultato è interessante. Non esaltante, non spaziale ma interessante per gli odori decisi di frutta e fiori e per la grande freschezza e morbidezza. Luciano dice che non riesce a farlo tutti gli anni perché non sempre il Ciliegiolo dà il meglio di sé. Guardo sullo scaffale e c’è anche un Vin Santo. “Luciano, ma fai anche il Vin Santo?”. “Haivoglia” risponde lui andando meccanicamente ad aprirne una bottiglia versando così il prezioso nettare in un bicchierino. Lo assaggio ed è poesia. Non ho qualcosa cui abbinarlo ma è secco e fresco ovvero possiede quella giusta acidità che non lo rende stucchevole. È sì tipico Vin Santo ma possiede aromaticità e freschezza che lo rendono bevibile anche senza pucciarci dentro i cantuccini. Vado via con la mia cassa di vino contenente due bottiglie di Vernaccia DOCG, due Tropie una di Polito (che non ho assaggiato ma me la porto comunque via perché è un Sangiovese al 90% del 2016 che il cliente di vecchia data mi ha tanto raccomandato) e due di Vin Santo (una per la suocera che non guasta mai). Le colline intorno a San Gimignano sono uno spettacolo e aziende come queste, piccole, familiari, rustiche, vere sono la rappresentazione di ciò che il vino insegna: non servono fronzoli e orpelli ma tanta passione e concretezza. È questo che ho trovato qui ed è questo che serve al vino: conoscere e andare oltre le apparenze. Dopo “di sudicio” insomma. Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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18 Agosto, 2023

Cantina del Vesuvio: un piccolo lembo di paradiso

Un piccolo lembo di paradiso. Ah! Che bell’aria fresca… Ch’addore ‘e malvarosa… E tu durmenn staje, ‘ncopp’a sti ffronn ‘e rosa!     Quando penso al golfo di Napoli, mi risuonano in mente i versi di una meravigliosa canzone napoletana, “I’te vurrìa vasà”. Sarà la melodia struggente o il testo che narra della voglia di un uomo di baciare la sua donna che dorme profondamente ma che non vuole svegliare. Come il Vesuvio che domina il golfo, il gigante buono che se ne sta lì, immobile, a dormire. Che tutti amano poiché giace su quel lembo di terra baciato da Dio. Così bello che Lucifero durante la discesa negli inferi, cacciato dal paradiso terrestre, se lo porta con sé. Così bello che il Cristo, addolorato nel riconoscere proprio quel pezzo di paradiso ormai perduto, piange lacrime divine. Le stesse lacrime che donano la vita alla pianta dalla quale si genera il vino vanto di questa zona, il Lacrima Christi. I’ te vurria vasà…I’ te vurria vasà…. Ho scelto di andare a visitare la Cantina del Vesuvio in quel di Trecase. Muoversi per le vie dei paesi vesuviani non è agevole. Strette, a doppio senso e non proprio ben livellate. Occorre salire un po’ per trovare i vigneti. Occorre arrivare a ridosso del Parco del Vesuvio istituito per salvaguardare la montagna e ciò che rappresenta. Li da milioni di anni a donare la vita e la morte come se fosse un giudice implacabile. Il caos delle stradine si dissolve proprio sul cancello della cantina oltrepassato il quale tutto è alle spalle. È come entrare in una bolla fatta di perfezione e attenzione ai dettagli. Non artefatti, non costruiti ma genuini e dettati dal voler fare le cose per bene. L’accoglienza è di quelle che non ti aspetti. Un bottiglia di bollicine da Aglianico e due calici con Serafino che ci dà il benvenuto con una cordialità disarmante. È mattina ma sorseggiando questo vino non posso non pensare ad una pizza e a come ci starebbe bene come accoppiamento. Serafino è un ragazzo impagabile. Con lui passeggiamo tra le vigne che crescono su un terreno tanto generoso quanto difficile. Ma vorrei essere io quelle piante per il panorama che riescono ad ammirare ogni giorno. Il golfo è proprio dinanzi a noi. La brezza marina si sente delicata, pura, salmastra. Il sole è su di noi e ci accarezza la pelle. Serafino non si cura del paesaggio. È più interessato a narrare di quelle piante che conosce come se fossero suoi figli. Le cura con passione. Ogni tanto tira fuori i suoi arnesi e aggiusta un tralcio, toglie un’erba che non lo convince. La passeggiata si conclude sulla terrazza della cantina, luogo di degustazioni estive al tramonto. Ne rimango estasiato. Sorseggiare un vino con quel paesaggio dinanzi e il sole che si fonde con il mare, non ha eguali al mondo.
Al piano immediatamente sotto la terrazza c’è la sala ristorante. Un piccolo angolo di paradiso nel paradiso. Qui si fanno le degustazioni invernali. Gli odori che escono dalla cucina sono paradisiaci. Qui incontro Maurizio Russo, figlio di quel Giovanni fondatore della cantina nel 1930. È una persona che ti mette subito a tuo agio e che quando ti parla mostra la sua passione, la passione per quel luogo. Non è un gioco ma è vita vissuta con le cicatrici sulla pelle. Anche se quando ne parla, proprio per la sua disarmante gioiosità, sembra un bambino nella sua stanza dei giochi. Chiacchieriamo di vino, del Vesuvio, della terra, della sua terra che è un po’ anche la mia per via dei miei nonni che abitavano in un paesino non troppo lontano di qui. Maurizio ci tiene a che siamo suoi ospiti a pranzo. Lo dice con slancio, entusiasmo, spontaneità. Ma non possiamo e quando glielo dico, capisce ma si rammarica. Assaggio un Lacrima Christi bianco da uve Caprettone. Semplice e immediato con quel suo bouquet di fiori e frutti bianchi. Fresco come il vento del Vesuvio, caldo come il sole che ci scalda, sapido come i venti del mare. Segue un Lacrima Christi rosso da uve Piedirosso che qui chiamano “per’e palummo”, piede di piccione per il colore della vite. Un vino immediato, non impegnativo. Ma schietto come un vero partenopeo sa essere. Non posso non assaggiare il Lacrima Christi superiore che, riposandosi in botte, restituisce sentori e sapori più importanti rendendo il vino meno immediato, più meditativo. Mi conquista anche perché mi immagino a sorseggiarlo su in terrazza. Maurizio è presente ma discreto. Non cerca di influenzare le mie impressioni. Aspetta sornione che sia io a parlare. Lui, invece, ci tiene a raccontare la filosofia dell’azienda basata su una maniacale qualità in ogni fase del processo. In ogni persona. In ogni gesto. Questo fa sì che consideri ogni singola bottiglia prodotta come un pezzo di vita, un pezzo di sé. Che non può affidare al primo che passa. Per scelta infatti non vende in zona. Non troverete una sola bottiglia della cantina nei ristoranti locali. Vuole affidare le sue bottiglie ai singoli consumatori finali: da uomo a uomo. Per mantenere il rispetto. Così il suo modello di business si basa sulla vendita on line così come sulle visite in cantina. Da uomo a uomo snobbando la distribuzione. Come se volesse conoscere, uno ad uno, le persone che avranno cura delle sue bottiglie. Maurizio è un fiume in piena. Ha rotto gli argini e non si accontenta di parlarne. Vuole farci vedere le vigne di altura. Quelle ancora più vicine alle fauci del vulcano. Così saliamo a bordo del suo fuoristrada per le strade sterrate andando lungo le pendici del vulcano dormiente. Si ferma a parlare delle sue vigne e di quanto sia difficile e eroico coltivarle su questo terreno fatto di cenere vulcanica. Difficile ma generoso. Aglianico, Caprettone, Piedirosso. Poche varietà. Tutte campane. Tutte locali. Perché li territorio è cosa seria e che ne sai se coltivando qualcosa di non locale, il Vulcano se la prenda! Maurizio come Serafino (adesso so da chi ha preso), non perde occasione per sistemare qualcosa. È presente e non si tira indietro. Non demanda. Fa. Dobbiamo andare via da questo pezzo di paradiso e capisco davvero come possa generare una lacrima. Vedi Napoli e poi muori. Muori perché capisci, solo quando stai andando via, cosa lasci. Non solo il paesaggio, il cibo, il vino. Il calore della gente. La generosa spontaneità delle azioni. Il disincantato altruismo e la schiettezza del vivere la vita. Sento stu core tujo ca sbatte comm’a ll’onne! Durmenno, angelo mio, chisà tu a chi te suonne.. ‘A gelusia turmenta stu core mio malato: Te suonne a me?….Dimmeléllo! O pure suonne a n’ato? I’ te vurrìa vasà… I’ te vurriìa vasà… Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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11 Agosto, 2023

Cantina I Germani: l'equilibrio del tutto

Ognuno di noi ha una storia da portare con sé. Bella, brutta, complicata, facile. Chi può dirlo. Almeno senza racconto. Senza quel grande dono che sta nell’aprirsi a qualcuno narrando ciò che ci si porta dentro. Ognuno con un modo diverso di raccontare. Enfatizzando o minimizzando poco importa. Ciò che importa è il dono che si riceve. Quando incontri una persona come Emanuele Congiu dell’azienda I Germani, ti rendi conto che esistono altri modi di raccontare le cose. La propria storia. Come l’entusiasmo, il sorriso, l’equilibrio raggiunto. Quasi come se non vi fosse bisogno di raccontare nulla perché ciò che c’è, ciò che intorno è, è perfetto così. In tale armonia che basta guardare. Far parlare la natura, far parlare i silenzi. Far parlare la terra. Non serve aggiungere futili parole perché stonerebbero all’interno di un naturale dipinto. Che varia ogni giorno nell’alternarsi delle stagioni. Una sorta di silente filosofia di vita che porta all’avere rispetto di ciò che ci circonda. Un rispetto che non richiede il vantarsi per qualcosa realizzata. Perché, in fondo, quel qualcosa è la natura che lo ha condotto fino a noi. Ciò che veramente conta è trattare la natura con rispetto. E amore. Ti accorgi del rispetto e dell’amore che Emanuele ha per la natura e ogni cosa che lo circonda, solo sentendolo parlare. È come se non avesse bisogno di raccontare perché ciò che c’è attorno a lui basta e avanza. Mostra ciò che è mostrando ciò che c’è. Non ciò che ha creato ma quanto ha custodito. Grandissima umiltà e grandissima considerazione di quello che è un ulteriore valore: la famiglia. Non è la mia azienda ma è la nostra azienda. Perché è una azienda familiare che nasce una ventina di anni fa dai miei genitori che sono nati in campagna. Con l’obiettivo di tramandare della passione da padre a figlio. Tutto è iniziato con un uliveto di proprietà al quale si è poi aggiunto un terreno seminativo e infine la vigna. Circa 25 ettari con l’uliveto a fare la parte del leone. Non può che essere così quando ti trovi a gestire piante con età tra i 50 e gli 80 anni. La invece vigna occupa circa 7 ettari. Il vicino voleva vendere le vigne e il vino era la grande passione di papà. Così nascono le cose. Per puro caso. Per assecondare le intuizioni, le passioni, la vita. Papà si era reso conto che l’uva prodotta dalla vigna era molto di più di quella che solitamente lavorava. Abbiamo scelto di prendere delle attrezzature per lavorare noi i nostri frutti. Già da subito. Circa venti anni fa. La cantina ha 19 vendemmie alle spalle Monica, Sangiovese, Merlot, Syrah, Cabernet, Cannonau per i rossi. Nuragus e vermentino per i bianchi. Ah già, non ho ancora detto dove siamo! I più attenti avranno notato un mix di vitigni internazionali e un paio tipici di una regione: la Sardegna. Siamo infatti a Serdiana, un piccolo comune a poco più di 20 km da Cagliari ma in provincia di Sud Sardegna. Se però cercaste la cantina su Google la trovereste ad Assermini (CA) sua sede legale. Qui i terreni pietrosi assorbono il calore del sole tanto che in estate diventa tutto rovente. Poco male se poi le piante ne trovano giovamento. Certo, le radici sono costrette a trovare nutrimento in profondità. Giù giù fino a trovare acqua e nutrimento. Solo le viti più forti sopravvivono così che ciò che se ne ricava ha il senso della sopravvivenza e del vigore. Condito dal sale del mare che non è poi così lontano. Il duro lavoro di Emanuele e la sua famiglia, in condizioni come queste, non possono però evitare basse rese degno dei cru francesi: non superano i 50 quintali per ettaro! Ecco che oltre le 20.000 bottiglie l’anno, non si può andare. Ciò che aiuta le nostre piante a crescere è il meraviglioso ambiente. Viviamo in armonia con la natura. Queste sono le nostre piante. Non importa se il terreno è difficile. Non importa se coltivare in biologico sia complicato. Ciò che veramente importa è vivere in simbiosi con l’ambiente. Emanuele è un’anima pura e quado fa certe affermazioni non solo ne è convinto, ma le sue poche parole evidenziano come non abbia bisogno di raccontarlo, di vendere un concetto commerciale. Per lui è il Credo. Non ci sono altri metodi. Né per lui né per la famiglia. Che è unita anche in questo. In famiglia siamo io mia sorella Stefania, mio padre e mia madre. Tutti in famiglia diamo una mano. Papà Carmelo, mamma Anna Maria, Emanuela la figlia di Stefania. La famiglia Congiu al completo. Che lavora unita come non mai. Così unita che hanno ritenuto di dover fare tutto da soli. Senza supporti esterni. Perché ciò che conta è lo studio e l’esperienza. Con gli errori non ad essere rimpianti ma a costituire bagaglio culturale per il futuro. 19 (quasi 20) vendemmie non sono poche. Ma neanche tante. Non c’è un enologo ma ci sono delle consulenze ad hoc. Fino ad un paio di anni fa siamo stati seguiti da degli enologi ma abbiamo ritenuto che il nostro cambiamento non doveva venire da ciò che gli altri ci dicevano ma solo dal nostro apporto. Dallo studio e dal mettere in pratica Emanuele non ha studiato enologia. Neanche Stefania che dell’azienda è la titolare. Ci siamo solo rimboccati le maniche e con gli sbagli abbiamo imparato. Stiamo imparando. Cerchiamo di fare le cose al meglio studiano e mettendo in pratica ciò che studiamo. I vini hanno una identità precisa. Non parlano le etichette. Non parlano le storie che si potrebbero raccontare sugli stessi. Parlano quando sono nel calice. Quando li bevi. Surmaturazione delle uve. Niente legno. Solo esclusivamente acciaio. Vinificazione in purezza e successivo blend per i rossi. Tutti vini che produco sono con surmaturazione delle uve perché produco in maniera biologica e la gradazione alcolica mi consente di avere una protezione. Voglio sentire il sapore dell’uva e per questo prediligo il vino in acciaio. I vini sono tutti una scoperta e già quando si portano al naso è facile cogliere la territorialità ed il calore del sole sardo. Nel mio blog Instagram ho recensito l’Anàdi Reale, Syrah in purezza del 2019 che restituisce delle sensazioni importanti ed interessanti. Non è un vino banale. Ha in sé il senso della sofferenza e del riscatto. Vigoroso, potente e al tempo stesso equilibrato. In pace con il creato. Un vino che meriterebbe tanto di più. Poi c’è Anàdi, blend di Monica, Carignano, e Sangiovese e Merlot. E non chiedete le percentuali perché variano! Non poteva mancare un bianco ed ecco Concairdi che in sardo vuol dire “testa verde” ma è anche il nome del Germano Reale maschio. È il blend dei vitigni sardi Nuragus e Vermentino Infine, il vino dolce Dulche Mugori (dulche sta per dolce in sardo e Mugori è una delle zone dove risiedono le vigne). Un Moscato passito che già ad agosto, qui dove il caldo non fa sconti, raggiunge un elevato grado zuccherino tanto gradito alle api. Subito dopo i bagordi di Ferragosto si raccoglie lasciando le uve in appassimento per circa 5 settimane. Rese bassissime ma risultato straordinario: un nettare non è per le quantità. La cantina si chiama “I Germani” e i vini hanno una forte riconducibilità al Germano Reale: cosa c’entra il Germano Reale con il vino? Probabilmente niente. Ma, si sa, i nomi hanno una loro etimologia e scavando, qualcosa viene fuori (anche se qualcuno più preparato sa che il Germano Reale è uno dei pennuti più diffusi in Sardegna). Due le motivazioni. Al nostro paese di origine c’è uno stagno e uno degli animali tipici è il Germano Reale, un animale sia stanziale sia migratorio. Mia mamma poi, sin da ragazza collezionava ochette in legno, ceramica ecc. Abbiamo dunque trovato un connubio tra il territorio e la collezione di mamma. Emanuele, come ti vedi tra qualche anno? Come ci vediamo! Sicuramente più maturi e più rotondi Analizzando questa frase conclusiva, trovo tutto il senso della chiacchierata. Emanuele non vede lui stesso, vede la famiglia alla quale appartiene. Ci sono le persone. Che si muovono nell’ambiente stesso ove vivono quasi in punta di piedi. Vivono. Crescono. Si evolvono. Sbagliano. Cadono. Si rialzano. Si migliorano. Un ciclo dietro l’altro. Una vendemmia dietro l’altra. Senza la voglia sfrenata di far soldi. Meglio vivere in armonia con l’ambiente. È più appagante. Non fosse altro perché il resto vola via. Come il Germano Reale quando abbandona lo stagno. Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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4 Agosto, 2023

Azienda Agricola Gian Piero Marrone. La vita, le storie, i ricordi, il vino

Azienda Agricola Gian Piero Marrone. La vita, le storie, i ricordi, il vino Tutti noi abbiamo avuto o abbiamo un amico/a, un/una compagno/a di classe che quando attaccava a parlare non la finiva più. Carlo Verdone inserì un personaggio simile nel film “Compagni di scuola”: Postiglione (interpretato da Luigi Petrucci). Di lui non si ricorda mai il nome che era Ottavio. Come si poteva ricordare il nome di uno che si preferiva evitare? Postiglione era secchione e prolisso. Sapeva tutto e voleva raccontarti tutto. Era così insopportabile che, per farlo tacere, Bruno Ciardulli alias Christian De Sica gli versa nel bicchiere di vino delle gocce di sonnifero. Il dialogo della scena è meraviglioso. Walter Finocchiaro (Angelo Bernabucci): ma quante gliene metti aho? Bruno: qui c’è scritto “adulti fino a 25 gocce” Walter: ma ch’è. Ma quello è un replicante. Che non lo vedi? Bruno: allora gliene metto altre dieci. Walter: ma si! Bruno: ma gli farà male? Walter: ma de che. Bruno versa le gocce di sonnifero in un calice di vino e rivolto a Postiglione che sta leggendo: Postiglione? Tu ne capisci di vino? Postiglione: caspita! Bruno: allora dicci come è questo vino perché lui lo trova schifoso, io ottimo. Postiglione osserva il bicchiere, lo rotea, lo annusa, lo assaggia. Bruno: questo c’ha due palle cosi eh! Walter: e che non lo so Postiglione: è un passito secco. Con un retrogusto un pò amaro. Walter: te lo dicevo Postiglione: si, ma non è un difetto. È carattere. È un vino isolano e più che amaro è salino. Bruno: lo vedi che avevo ragione io che è salino. Walter: ma bevi ‘sto vino va. Postiglione: è salino. Bruno e Walter: e bevilo tutto!   Detta così, ci si aspetterebbe di leggere di un personaggio noioso. Invece ho volutamente utilizzato una antifrasi per descrivere e far risaltare al meglio la piacevolezza della chiacchierata avuta con Denise Marrone della Azienda Agricola Gian Piero Marrone. Denise è una donna energica e vitale. Di quelle che hanno l’argento vivo addosso. Esuberante, sorridente, piena di vitalità. Non gesticola. Non ha bisogno di movimenti particolari. Parla a raffica come se avesse necessità di trasmetterti qualcosa. Lo fa con ardore e partecipazione interrompendo l’interlocuzione solo per sorridere. Eppure, se la guardi da lontano, con la sua aria minuta, gli occhiali, la compostezza tutta piemontese, non immagineresti mai che ti troverai a parlare con un vulcano in eruzione. Siamo a La Morra (CN) nel cuore delle Langhe. Patria di quei vini che il mondo ci invidia. Ma soprattutto il luogo dove vino e cibo trovano uno dei migliori connubi I vini piemontesi se bevuti mangiando sono meglio Le Langhe. Già. Chiunque vi sia stato, chiunque voglia andarci, chiunque abbia assaggiato i vini qui prodotti, non può che parlarne bene. Così bene che ormai le Langhe sono diventate un pò snob (o per snob) visti i prezzi e le difficoltà nell’andarci. Eppure, chi ha buona memoria, sa che non era così. Uso le parole di Denise perché rappresentano anche il mio di pensiero. Il Barolo ha una storia corta. Negli anni 50 qui c’era la povertà più nera. Mia nonna metteva i conigli nella cesta e andava a venderli al mercato per comprare i vestiti e tornava a casa. E noi stiamo qui a fare i barolisti snob. Siamo snob perché ci siamo fatti un culo così e abbiamo la possibilità di raccontarlo. Prima il Barolo era frizzante, era bianco e non piaceva a nessuno. Tralasciamo un bel pezzo di realtà Ecco. Partiamo proprio da qui. Dal motivo per il quale Denise ha tutta la voglia di raccontare qualcosa. Raccontare la propria terra, la propria famiglia, il proprio vino. Ma soprattutto, la vita vissuta. Quello che ti rimane addosso Quello che ti rimane attaccato alla pelle è quello che hai fatto tu. Ti rimane dentro ed è ciò che trovi nel vino. Abbiamo aperto il ristorante per raccontare queste cose. Se stai con noi e ti posso raccontare quello che sto raccontando a te, esci fuori con una diversa considerazione. Raccontare pezzi di vita. Quello che c’era. Da dove arriviamo senza pensare a ciò che saremo. Ciò che diventeremo. Quello che siamo è perché nel passato, più o meno remoto, sono successe delle cose. Sono state fatte delle cose. Ci sono state persone. Tutto questo fa parte di un bagaglio di vita che, se raccontato, non può che fornire un sapore diverso alle cose. E chissenefrega di come sarà dopo. Il futuro, la sua evoluzione, avrà anch’esso un sapore diverso se affonderà le radici in un passato ricco di significato. Di vita vissuta. Così, ciò che conta, è la semplicità delle cose. Nessun arzigogolo ma solo quella semplicità contadina scandita dal susseguirsi del giorno e della notte, del sole e della pioggia, dell’inverno, della primavera, dell’autunno, dell’estate. Quando uno più uno fa due poi è facile da raccontare. Perché sono cose normali e facile da capire anche per uno che vende scarpe. Non serve creare storie. Ci sono quelle di famiglia. Semplici. Fatti che neanche sono tradizioni. Avvenimenti. Consuetudini. Storie di cucina. Storie di terra. Storie di vite. Storie. La storia della famiglia, le radici, la nascita, forse è la cosa meno importante. Ma per quello basta andare sul sito internet dell’azienda. Quello che c’è sul sito internet è giusto e ufficiale perché l’ho scritto io. Ciò che non c’è sono i racconti di vita. Di quelle storie che sonno ricordi che sono sensazioni che sono pezzi di vita e che, come dice Denise, ti rimangono incollati addosso. E se pure sul sito internet c’è scritto che la quarta generazione è fatta di donne, Denise, Valentina, Serena, papà Gian Piero è sempre li. Perché alla fine Non si muove foglia che Gian Piero non voglia. Quella per Gian Piero non è venerazione né tantomeno insofferenza. È pieno rispetto per una persona che ha creduto tanto nell’azienda. Non avremmo quello che c’è qui senza la sua follia. Ha sempre avuto il passo molto più lungo della gamba. Finché siamo riusciti a sostenerlo siamo andati avanti di dieci anni quando ne sarebbe bastato uno. Ben contenti perché è un visionario e ha sempre delle cose in testa. Mi ha avuto molto giovane a venti anni, dunque in qualche modo ci capiamo. Siamo mediamente vecchi tutte e due insieme. Lui a 70 anni sente la fatica e si spaventa. Ma per la visione aziendale siamo tutti insieme poiché ci interessa solo il risultato finale. Se ti metti a bisticciare è perché quel giorno hai voglia di bisticciare altrimenti, dagli ragione! Tutto parte da una semplice cascina, sopra Alba, a Madonna di Como con il bisnonno Piero. Altro che vino a quei tempi (siamo poco prima dello scoccare del 1900). C’erano le bestie da pascolare, i campi, la frutta. La cascina contadina era ciò che bastava per vivere in un Piemonte non ricco se non per i nobili. Ma un pò di vino serviva sempre. Così che qualche filare si impianta. Nonno Carlo continua la vigna senza tralasciare mai il resto. Perché il vino si beve mica si vende. Man mano che abbiamo ricordi più certi mio bisnonno ha sempre dato via via le bestie e piantato vigna. Ha tolto le pesche perché quando sono arrivati i trattori moderni con l’albero piantato, in vigna non passavi. Ancora io e mia nonna avevamo 120 conigli. Non ti parlo di un milione di anni fa. Io l’ultima pecora me la ricordo ancora. Mi ricordo mia zia che filava la lana con l’arcolaio come Biancaneve che faceva la canottiera a mio zio: fresca d’estate e calda in inverno. Ricordi che non fanno in tempo ad emergere che Denise ne tira fuori altri. Uno dietro l’altro ad una velocità che potresti far fatica a starle dietro se non vedessi quanta passione lei ha. Quanta voglia di raccontarsi. Altro che Postiglione! Poi mio nonno è stato il primo a pensare che la qualità pagava. Erano gli anni 50. È venuto in terra di Barolo e ha comprato i poco più di due ettari che ancora abbiamo. Già allora non si trovava nulla qui. Un pezzo in Bussia. Affittiamo un pezzo di Castelletto. Quindi per le MGA posizionate bene qualcosa c’è. Ha comprato questa cantina qui. Adesso abbiamo dieci km e mezzo frutto di un ragionamento, che ha fatto bene a fare, che qui era meglio di là. Là abbiamo i Nebbioli superiori, i Barbera superiori, le vigne più vecchie. Qui abbiamo Barolo e abbiamo affittato un terreno a Barbaresco perché a me piace Ora immaginatevi che tutto questo (e il resto dopo) Denise lo dica con una velocità pazzesca insieme ad un sorriso che ti coinvolge e ad un modo di porsi di una persona che ha davvero la voglia di raccontarsi. Quarta generazione adesso. Tre donne coinvolte nella gestione dell’azienda. Più papà Gian Piero. Vorrei capire se e come il papà influisca la gestione aziendale. Ho un pò di timore, quasi vergogna. Non è che si possa chiedere ad una donna che ha faticato tanto per arrivare a dirigere, sempre insieme alle sorelle dunque sole donne, come il papà entri in azienda ecc ecc. Denise però continua a manifestare tutta il suo buon umore. Andrò in pensione prima io di lui..non ti preoccupare…puoi star tranquillo Ma che livello di delega c’è? Siamo quasi intorno allo zero? È vero, quello che ti dico è la verità. Si è sempre occupato della campagna fino a quando l’abbiamo portata in bolla. C’è un agronomo che ci segue e che cerca di parlare alla pianta. Con la logica che se la pianta non sta bene l’uva buona non te la può dare. Papà è nato in campagna dunque ci capisce. Ha seguito L’agronomo fino a quando ha capito che ci capiva. Stessa cosa in cantina dove c’è mia sorella Valentina. Lei è la mamma dei vini, è l’enologa. Ha finito la scuola venti anni fa. Sono venti vendemmie. Ha sempre fatto i vini con lui. Lui ha sempre prodotto vini: che le annate sono diverse, che il clima è diverso quando ti trovi una cesta di uva in mano perlomeno sai cosa farne. Lui la ha aiutata, le ha insegnato. Adesso può anche considerarsi indipendente. Certo le telefona venti volte al giorno… Valentina in cantina dunque. Serena in ufficio che, come la definisce Denise “è la donna dei numeri”. Denise che parla tedesco e segue dunque quei mercati che sono così importanti per l’Azienda, oltre a tutta l’accoglienza in cantina ma soprattutto al ristorante insieme a mamma Giovanna. Ecco, il ristorante. Più che un luogo dove si mangia è un luogo utile per una esperienza. Culinaria, di abbinamento con i vini e soprattutto di vita. 130 coperti ed è sempre pieno perché la gente legge dietro l’etichetta l’indirizzo e gli viene la curiosità di capire da dove arriva la bottiglia. I primi sono i torinesi ma in estate arrivano da ovunque. Un ristorante che c’è dal 2018. Prima luogo adibito a tappa enoturistica con la cucina di casa e un piatto di raviole. Poi ci siamo spinti oltre perché ci piaceva perché sei a casa tua e hai l’orgoglio di fare meglio. Diamogli qualcosina da mangiare perché i vini piemontesi se bevuti mangiando sono meglio. Anche in questo caso i ricordi di Denise si susseguono con un ritmo incessante. Sgorgano come può sgorgare acqua da una sorgente. Sempre fresca. Sempre dinamica e attiva. Abbiamo cominciato una ventina di anni fa con un tavolo da 12 persone in ufficio e lei (mamma Giovanna) con la cucina di casa. Lei ha cucinato da quando abbiamo aperto il ristorante fino a una cinquantina di persone. Poi arrivano tutti insieme, le pretese aumentano, lei è invecchiata…si è spaventata così che abbiamo preso una cuoca. Ci siamo inventati le classi di cucina mettendo tutti insieme. Sono cose che completano e fanno star bene la gente. Nelle classi di cucina arrivano alle 4 di pomeriggio, cuciniamo insieme, facciamo festa, assaggiamo i vini, preparano cena. Ti rimane nel cuore. Ci divertiamo perfino noi.  Gli ingredienti rigorosamente a km 0. Gli faccio mettere le mani dentro. Gli faccio assaggiare carne cruda. Perché per noi qui la carne cruda è normale. Gli faccio assaggiare gli amaretti, gli faccio assaggiare il barolo chinato. Quando puoi mettere le mani da tutte le parti poi te lo ricordi. In stagione portiamo la gente al mercato. Gli facciamo comprare i funghi, facciamo la quiche. Tutto bello e divertente. Così ti accorgi che è certo business, ma non solo. Ed è proprio quel “non solo” che rende una persona, le persone, una azienda, speciale. Te ne accorgi dalle piccole cose, dalle attenzioni, dai piccoli particolari non artefatti. Non gettati li come se fossero inutili sovrastrutture. Un ricordo, un aneddoto raccontato vuol dire aprirsi. Accoglierti ed invitarti a far parte della famiglia. Così che ognuno, ogni persona, si sente persona e non cliente. Tutto è normale. Sei sempre o con uno della famiglia o con lo chef o con uno dei ragazzi che è come se fosse uno dei nostri fratelli. Quindi c’è sempre uno che la cantina la conosce da anni e ha tante storie da raccontare. È tutta gente che o è nata qui o ci vive. Ho una signora olandese che ha trasferito tutta la famiglia ad alba perché si è innamorata di Alba. Tutto normale? Beh, direi di no. Perché nel frattempo il vino tocca farlo. Quello che succede in cantina è la cosa più importante. Possiamo stare a chiacchierare fino a domani quando vuoi tu ed io ma se i vini non sono buoni Una azienda diventata nel tempo poi nemmeno così piccola. 15 dipendenti, 17 ettari, 200 mila bottiglie. Al momento 200mila bottiglia su 17 ettari. Divisi in tre pezzi: qui a Barolo, su a Madonna di Como e un pezzo che affittiamo a Barbaresco. Nell’arco di 20 e qualche km. I numeri sono quelli che possiamo gestire. Magari arriviamo a migliorare la qualità per poter aumentare prezzo e target ma a livello di numeri di bottiglie non è che ce ne servano più di tante. Anche perché in terra di Barolo non trovi nulla di terra. Quello che hai ben venga. C’è ancora qualche pezzetto di bosco intorno a quello che abbiamo di mio nonno che puoi ancora sistemare, c’è un pezzo che frana continuamente. Questo è. Una azienda non piccola ma nemmeno tanto grande. Gestita a livello familiare. Senza particolari intoppi, litigi, screzi. Io e mio papà bisticciamo ma poi siamo qui. Dove vuoi andare. Quello che mi dà da pensare è la gamma di etichette. Ne ho contate 20 nonostante il sito ne riporti 19 (manca il Viognier). Solo a ricordarsele mi viene male. Quasi una etichetta per ettaro. Davvero strano. Eppure, quando le chiedo il perché, la sua risposta mi spiazza. La gamma è frutto di curiosità interna nostra. Di Barbera superiore ne facciamo 3000 bottiglie. Di Nebbiolo superiore, 3500. Quindi è più il casino di farlo e di tenere una vasca impegnata. Però se non fai il top di gamma non puoi fare la seconda selezione. E se non selezioni le vigne giovani abbassi la qualità degli altri. I bianchi ci divertivano. Il rosato lo abbiamo fatto perché siamo tre sorelle e volevano un vino rosa. Di Viognier ne facciamo 1000 bottiglie. Ho piantato io dieci filari. Però ti diverti. Se no, è troppo facile. Con il cambiamento climatico hai uva sempre più bella. Il Viognier si produceva solo in Francia e noi lo abbiamo voluto perché ha la stessa radice del Nebbiolo. Poi ci è venuta la curiosità di vedere cosa capitava piantato nella nostra cascina. Sono incuriosito dal rapporto tra le sorelle. Possibile che non si litighi mai in questa famiglia? Ah, non ci vediamo mai. Ci vediamo il giorno di Natale. Una sta in cantina, io sto sempre qui nel mio antro, una sta in ufficio. Ci incontriamo, bisticciamo un pò e torniamo al nostro lavoro. Mia figlia mi ha sgridato che erano quattro settimane che non vedeva i cugini. E abitiamo a 20 km di distanza. Il mio letto è ad Alba ma sto sempre qua. Il letto di una mia sorella è a La Morra. Il letto dell’altra sorella è un paesucolo verso Asti che si chiama Govone. Papà e mamma abitano nella cascina. La forza di una famiglia è rimanere unita. Sempre e comunque. C’è sicuramente il merito di Gian Piero e di Giovanna nell’aver tirato su tre figlie con quei principi contadini che volevano ognuno impegnato in qualcosa, tutti impegnati nell’azienda. Per farla andare avanti. non fosse altro perché è di tutti e serve alla famiglia. Senza dimenticare l’intelligenza di donne che sanno quale sia il vero bene: la famiglia e l’azienda. Ci sono tante aziende qui intorno che sono arrivate ad un certo punto e poi per contrasti hanno venduto. A me sarebbe dispiaciuto tanto perché abbiamo lavorato tanto. Hai tanti ricordi e vendere solo perché non riesci a metterti d’accordo, è un peccato mortale. Il futuro. Il futuro va ancora scritto. Ci sono le idee. Se ne parla. Ma senza fretta. Senza ansie. Perché quando c’è la passione, l’armonia ed il sorriso, perché preoccuparsi? Il ristorante funziona molto bene. Quindi adesso c’è il passo successivo della degustazione. Abbiamo spazio per le persone. Per le esperienze. In famiglia fai piccoli passi. Pensi a breve. C’è un commerciale nuovo che ci supporta con grande dinamicità. Abbiamo anche un consulente che ci fa una testa tanta purché non sappiamo cosa faremo tra cinque anni. Ma tra cinque anni non so nemmeno io cosa farò! Nuovi vini? L’idea sarebbe di toglierne qualcuno come il Dolcetto. Abbiamo due Dolcetto con le vigne del giovane che stanno diventando vecchie e se ne potrebbe fare uno solo di qualità più alta. Ma poi pensiamo che ci sono clienti affezionati che lo vogliono e lo seguono da tanto. Quando cerchi di togliere un vino è un casino. C’è sempre qualcuno che si lamenta. Sorrido a queste parole. È come se volessi togliere loro un pezzo di storia. Ogni vino ha dietro qualcosa. Un ricordo. Un pezzo di vita. Toglierlo è come quando cancelli dalla posta eliminata i messaggi: sì forse puoi recuperarli, ma non li hai più dinanzi agli occhi ogni giorno. Valentina, Serena, Denise. Sono loro la quarta generazione della famiglia Marrone con le basi per la quinta. Quasi tutta al femminile. Denise ha una figlia femmina. Mia sorella, la seconda, ha un maschio e una femmina. Il maschio è l’unico di famiglia. L’altra, due femmine. Tutti troppo piccoli per entrare in azienda. Mia figlia che ha sedici anni mi ha detto che con me non lavorerà mai. Sta facendo il linguistico che è la mia stessa scuola. Lei si spaventa perché vede tutto quello che facciamo, tutto questo lavoro. Non si rende ancora conto che dietro c’è gente che si diverte. Gente che ritorna. Gente di tutto il mondo. Non hai neanche bisogno di viaggiare perché il mondo viene da te e ti raccontano la qualunque. C’è una apertura mentale che a 16 anni non hai. Denise continua ad essere un fiume in piena e a spiazzarmi con i suoi ricordi che non si fermano. Io ho viaggiato mezza vita. Fino al covid ho considerato di stare una settimana qui e una settimana fuori. Ho visto 4 volte Tokyo prima di vedere il Colosseo. Non lo dire a nessuno. In venti minuti faccio la valigia per star via una settimana. Il tuo vino preferito? Due. Il rosato e il Nebbiolo superiore. Entrambi figli di Nebbiolo. Nebbiolo tutta la vita con un accenno di Pinot Nero. E tuo papà? Lui ama tanto la Barbera superiore. Sarà per le vigne vecchie o perché è stato uno dei primi superiori importante che abbiamo fatto. Ricordo che era il ‘98 e avevo finito quinta superiore e dovevo iniziare l’università. Non avevo da studiare. Avevo le mani talmente nere perché l’ho aiutato tutta l’estate in vigna e cantina a lavare. Ho sempre e solo toccato l’acqua. Ricordo che c’era una premiazione e io non osavo andarci poiché avevo le mani brutte. Quella Barbera superiore era buonissima. Ne abbiamo poco fa trovato una bottiglia ed era buona da buttarsi per terra. Ciò che più mi è piaciuto della chiaccherata con Denise è il suo rimanere con i piedi ben piantati per terra. Quella terra senza la quale la sua famiglia, la sua azienda, la sua passione, non avrebbe neanche avuto vita. Ricordarsi da dove si arriva. Questo serve ogni giorno. Denise lo fa attraverso i ricordi, ricordi che a loro volta non esisterebbero senza la sua famiglia. Terra, famiglia, vita, vino. Non si inventano le storie. Si vivono. Giorno per giorno. Si sentono sulla pelle. Si scolpiscono nella mente. Per poi riaffiorare quando qualcosa scatta. Condividerle con le persone per il piacere di farlo. Per chi sa ascoltare. Per chi capisce che la vita è questa. Semplice. Contadina. Senza snobbismo. Così che la frase più bella che Denise mi ha donato è il giusto finale di questo articolo. Siamo snob perché ci siamo fatti un culo così e abbiamo la possibilità di raccontarlo PS non si può dimenticare i vini ovviamente. Ma la storia mi ha così preso che sono passati in secondo piano. Sono partito nel recensire il Barolo Pichemej, la vetta della produzione (già nel nome che vuol dire “più che meglio”!). Scelta insolita magari, ma volevo capire tutte le potenzialità dell’azienda. La recensione completa sul mio blog Instagram Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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28 Luglio, 2023

Barbara Violati, la terra e l'acqua

Barbara Violati, la terra e l’acqua l grillo disse un giorno alla formica
“Il pane per l’inverno tu ce l’hai
Perché protesti sempre per il vino?
Aspetta la vendemmia e ce l’avrai”
Mi sembra di sentire mio fratello
Che aveva un grattacielo nel Perù
Voleva arrivare fino in cielo e il grattacielo adesso non l’ha più Fin che la barca va lasciala andare
Fin che la barca va tu non remare
Fin che la barca stai a guardare   Si può amare una terra, la propria, in maniera viscerale. Così tanto da comprarla da chi non ne è interessato per preservare l’azienda di famiglia. Quella dei propri genitori. Quella di una vita. Sì, certo, puoi comprarla, per possederla. Come si può possedere un grattacielo nel Perù. Ma se poi il cuore va altrove insieme a tutto te stesso, la terra, comunque, rimane lì. Ad aspettarti. Silente. In attesa di qualcuno che la sappia far rivivere. Come meriterebbe. Come è giusto che sia. Barbara Violati è una donna forte. Almeno all’apparenza. Di certo non te la manda a dire. Determinata, di polso. Ma sempre con un latente velo di malinconia che, ogni tanto, traspare nelle pieghe della voce. Di quei silenzi che sembrano un intercalare. Sarebbe troppo facile pensare che avrebbe voluto che il papà fosse lì ad ammirare quanto realizzato nelle terre di famiglia. Già il papà. Non un papà qualsiasi. Barbara lo definisce così: Era un amante della vela e delle macchine. Quella è stata la sua vita. Ha sempre avuto questo attaccamento a San Gemini e alla terra. Però non ci ha mai creduto e non ci ha mai investito. Due pinze ed una tenaglia. “Amante della vela e delle macchine”. Eppure, Fabrizio Violati, il papà di Barbara, non era solo un “amante della vela e delle macchine. Era considerato il Collezionista di auto. Non auto qualunque, Ferrari. Si divideva tra l’essere Amministratore delegato delle acque di famiglia (Sangemini e Ferrarelle..), la passione per le auto (che collezionava e sulle quali correva) e la vela. Collaborava alla progettazione di barche a vela. Non barche a vela qualunque. Meravigliosi scafi utilizzati per le regate. Gli appassionati di macchine e di vela non potranno non ricordarlo. Insomma, tempo per la terra di famiglia, non credo ne rimanesse molto. L’azienda Violati nasce, anzi, rinasce grazie a Barbara. Alla sua tenacia. Alla voglia di vivere e far rivivere qualcosa che lega lei e la sua famiglia a San Gemini, in Umbria. Un’azienda che arriva dagli anni trenta del secolo scorso quando i nonni la fondarono prima di passarla ai tre figli tra i quali, Fabrizio. A cavallo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, Fabrizio rileva l’intera azienda dal fratello e dalla sorella. C’era di tutto e coltivato in mezzadria. Finanche le mucche c’erano. L’azienda aveva circa 400 ettari con 40 vitati. C’era la cantina, il frantoio e le stalle per allevamento. Arrivarono poi i tempi nei quali si incentivava l’eliminazione dell’attività zoologica, così che si fece a meno delle mucche da latte. I nonni chiusero la cantina ed il frantoio. L’uva veniva dunque conferita alla cooperativa e l’olio venduto più che altro all’ingrosso. All’ingrosso, come gran parte della produzione senza che venisse trasformata. Olio a parte perché questo, almeno in parte, si continuava a fare. Il tutto gestito da un agronomo. Tecnicamente l’azienda era seguita dal papà. Tecnicamente appunto. Le passioni del papà non erano certo compatibili con la stanzialità della gestione della terra. Nel 2000 l’agronomo, dopo più di venti anni di lavoro, decide di andare via e Barbara inizia a metter il naso nell’azienda dopo aver confidato al padre: Vorrei capire come funziona. Trovatasi sola, da donna intelligente quale è, capisce che fare tutto da sola non era cosa. Impossibile per una persona senza esperienza in campo agricolo. Io di agricoltura non ne capivo niente. Zero spaccato. Così capita che le parlano bene di Marco Zannoli, un giovane appena uscito dalla scuola agraria. L’incontro con Marco regala subito affinità. Marco dal suo canto, capisce le potenzialità dell’azienda dunque del suo sviluppo. Servono investimenti che tra il 2000 e il 2010 gli investimenti sono davvero pochi e quando ci sono legati ai contributi per il rinnovo dei vigneti. Esigui per una azienda così grande. Noi avevamo vigne di 40 anni. C’era una vite e dopo 4 metri ce ne era un’altra. La produzione non poteva che essere poca. Stavamo sempre li. L’uva la conferivamo, l’olio non si vendeva. Fino a che non è venuto a mancare mio padre. Anche se nel frattempo avevo cominciato a pensare che, se si voleva andare avanti, serviva una cantina. Ma papà non mi veniva dietro. Già, il papà. Il 2010 segna l’anno, all’inizio del quale Fabrizio viene a mancare. La perdita. Perdere il papà è comunque un trauma. Figura rilevante per tanti motivi. Rilevante e allo stesso tempo anche una sorta di collo vulcanico: una volta tolto, il vulcano può esplodere in tutta la sua potenzialità. Barbara e le sue idee possono venir giù come lava. Papà non ha mai creduto nell’azienda. Ha fatto altre cose. Pazzesche. Non gli ho mai chiesto perché non credesse all’azienda. Ho sempre immaginato fosse troppo impegnato nel suo progetto con le macchine e le barche. Il rapporto tra Barbara ed il papà non deve essere stato facile. Lei stessa lo definisce “difficile”. Penso però sia una questione privata ed è bene rimanga così. Alla morte di Fabrizio, Barbara si ritrova a con i fratelli che desiderano vendere tutto. Mi dicono vendiamo tutto perché non ci interessa niente. Come biasimarli? Altre vite. Altri interessi. Una proprietà di tali dimensioni che non può che spaventare chi di terra non se ne è mai occupato. Barbara ci pensa su anche lei. Si rende conto che ciò che l’aspetta non sarà affatto semplice. Il pensarci su però dura poco. Giusto il tempo di un battito di ciglia. Il vulcano si è svegliato. Rileva così l’azienda nel 2015. La storia del papà si ripete: come lui l’aveva rilevata dai fratelli, anche Barbara trova la forza per farlo. Supportata comunque dalla famiglia. Sempre vicina. Sempre dalla sua parte: si può cedere la propria quota ma l’attaccamento alla terra fa si che ogni cosa si debba fare in armonia. Neanche il tempo di cominciare e capita che l’immobile adibito ad agriturismo presente all’interno della proprietà ma venduto da tempo ad un terzo, va all’asta dopo essere rimasto sette anni invenduto con tutte le aste andate deserte. Insomma, nessuno che voglia investire a San Gemini. Barbara invece vuole, vuole fortemente quella proprietà nella sua interezza. Così nel 2016 acquista l’immobile nel deserto dell’ultima asta. Nel 2015 prendo l’azienda. Nel 2016 prendo l’immobile. Nel 2017 c’è la prima vendemmia in cantina: in un anno e mezzo tutto si è stravolto. L’opera di Barbara e Marco è certosina. Rimettere a posto i venti ettari di vigneto e ripristinare l’oliveto non è cosa da poco. Il progetto, il senso di una azienda, piano piano prende forma. Con la cantina. Con la voglia di creare una filiera corta in regime biologico. Accanto alla vigna e agli olivi anche una parte di seminativi dove si coltivano ceci, lenticchie e farro. L’immobile rilevato non è certo piccolo. Dotato di camere e di un ristorante è la struttura ideale per realizzare un wine resort. Progetto ambizioso ancorché di grande respiro: la piscina con vista sui vigneti, le degustazioni, l’ospitalità. Suggestione e meraviglia di questo territorio. Manca la ristorazione ma anche Barbara sa essere prematura poiché complicata. Arriverà prima o poi. La lava primo o poi arriva. A progetto finito verrà una bella cosa. Vogliamo promuovere il territorio e soprattutto questa zona dell’Umbria che ha potenzialità grandissime. Voglio riportare il nome dei miei nonni che hanno contribuito a creare San Gemini. Riportare il nome della famiglia con qualcosa che crei lavoro e magari una possibilità per mio figlio. (Marco) Portare la gente qui per vedere il vino in maniera diversa. Riusciamo a tramettere a chi viene da noi i nostri valori. Riuscire a trasmettere qualcosa perché vengono fuori gli episodi della nostra vita, la sofferenza che è stata necessaria per arrivare dove siamo ora. Quando guardi banalmente la pagina del sito internet della cantina dedicato ai vini, appare subito evidente una sorta di “anomalia”: spumanti in primo piano con etichette raffiguranti barche a vela. Strano per una azienda umbra. Per niente strano perché sanno tanto di omaggio al papà. Marco ci tiene immediatamente a spiegare. La spumantizzazione nasce dalla volontà di Barbara, appassionata di bollicine. Lei ti racconterà perché si chiamano in un determinato modo. Comunque sia, per noi farsi fare lo spumante ovvero fuori dall’azienda non ha senso. Abbiamo deciso di farli in cantina con i nostri metodi e la nostra uva. Così c’è Vinca è il brut rosato realizzato con ciliegiolo. Vihuela, dosaggio zero con base Grechetto, Sangiovese vinificato in bianco e Malvasia. Entrambi Charmat lunghi con sei mesi di fermentazione. Poi il metodo classico Kheira con 18 mesi almeno sui lieviti. Forse questa avventura è nata anche dalla mia passione per la bollicina e le bollicine le ho volute come dedica a mia madre e mio padre. Barbara parla del suo passato con un misto di allegria e tristezza. Di un tempo di sorrisi e famiglia. Delle estati passate a bordo delle barche create dal papà e che venivano adibite a luogo di convivenza e convivialità. Lì, a bordo, dove gli spazi angusti erano nidi per stare tutti, finalmente, insieme. Quel tempo che trascorreva leggero con la speranza che non finisse mai. Il metodo classico, Kheira, prende il nome dalla barca storica dei miei nonni che hanno trasmesso la passione per la vela a mio padre. Il Kheira non me lo ricordo ma ho ancora le foto dalle quali ho ricavato l’etichetta. Gli Charmat sono le due barche, Vinca e Vihuela, che mio padre ha progettato insieme a Giulio Cesare Carcano un ingegnere di Genova. Due barche da regata al tempo altamente competitive. In estate venivano allestite e si partiva per due/tre mesi con noi ragazzini e gli amici di mio padre. Si facevano queste vacanze pazzesche. Vacanze molto “mangiarecce”. Goliardiche. Sempre, tutti i giorni, la mattina dopo mezzogiorno e il pomeriggio dopo le sei mio papà diceva “diamo un senso alla giornata”. Si tirava fuori una bottiglia di vino frizzante che mio padre comprava a Ponza dove c’era una signora al porto che la vendeva, e la stappava. Così facevamo l’aperitivo e iniziava la festa. Piccola digressione. I ricordi di Barbara sono meravigliosi anche se illuminati da una luce fioca. Come se fossero soggetti ed oggetti messi in secondo piano nelle inquadrature di un film. Eppure, a guardar bene, rovistando tra le sue parole, emerge un pezzo di storia d’Italia. Quella realizzata dal genio di persone speciali, pionieri e innovatori vissuti in periodi di grande fermento sociale che probabilmente non rivedremo più nel loro entusiasmo e forza propulsiva. Giulio Cesare Carcano non è un ingegnere qualunque. È il pioniere delle barche a vela d’altura e progettista della mitica Moto Guzzi. Un genio che ha fatto della “V” il suo credo, realizzando per primo la prua delle barche: a “V” così come il motore della Guzzi. Le barche venivano realizzate non da uno qualunque ma dalla famiglia Gallinari, ad Anzio, maestri d’ascia da sei generazioni. Quelle barche non solcavano il mare, volavano sulle onde. Fabrizio Violati, forse il più grande collezionista di Ferrari al mondo (suo l’idea di un museo a San Marino) e ideatore di barche fantastiche. Gallinari, Carcano, Violati. Geni, innovatori, pionieri. Memorie di un fantastico tempo che fu. La bollicina, la barca, il mare, l’acqua: abbiamo creato tre vini e sono gli unici che hanno un nome. Gli altri no. Quasi come a dire che questi tre, le bolle, solo questi tre meritassero un nome. Una dedica. Una memoria. Il Metodo Classico è arrivato per ultimo. Perché Barbara non è una che si improvvisa. Aveva bisogno, non fosse altro perché si trattava di dediche, di certezze. Lo Charmat, rigorosamente fatto in cantina, offriva la possibilità di sperimentare senza molti rischi. Partendo dal niente avevamo bisogno di capire se li sapevamo fare. Stiamo ora valutando se lasciare gli Charmat per fare solo il Metodo Classico. Andiamo avanti sempre a piccoli passi e dove vediamo che sbagliamo, cambiamo strada. Abbiamo iniziato con il bianco, dosaggio zero. Poi il rosato. Il covid ci ha un po’ fermato. Infine, solo quando i due prodotti sono piaciuti, è partito il metodo classico Per rappresentare al meglio il territorio non possono ovviamente mancare vini fermi prodotti con uve locali. (Marco) I primi anni non abbiamo vinificato tutto ma creato micro vinificazioni con uve provenienti da zone diverse della tenuta. Abbiamo vinificato un po’ tutto per capire come venivano i prodotti. La gamma prevede un Grechetto, un Bianco blend i Malvasia e Grechetto, un Rosso da Sangiovese, il Ciliegiolo, il Merlot. Nessun nome di etichetta. Semplicità pura. (Marco) Vini abbastanza semplici e poco artefatti. Puntiamo sulla qualità dell’uva con la giusta raccolta. Parecchia tecnologia in cantina. Autonomi in tutto. Quello che facciamo deve essere fatto con queste manine. Niente deve venire da fuori. Abbiamo investito nella cura del vigneto. Molti sono lungo la strada e quando passi durante la stagione non puoi non esserne estasiato. (Marco) La raccolta a macchina consente di raccogliere in tempi brevi assicurando la qualità. Quando porto gente in cantina e dico che raccolgo a macchina mi guardano strano. Ma la tempestività nella raccolta dei bianchi supera la poesia della raccolta manuale. Siamo passati in biologico. Per scelta ma anche perché la qualità è migliore. Marco ci crede. Senza essere talebano e semplicemente guardando i risultati. (Marco) Oltre all’omino che fa i trattamenti con il trattore che ha i filtri, ci sono pure quelli che stanno in mezzo alle vigne. Il solo pensiero che le persone potevano respirare chimica mi disturbava. Abbiamo anche un occhio alla tradizione. Una parte di uva la vendiamo in cassetta e la raccogliamo a mano. Così come anche la parte di uve, dedicate al Ciliegiolo, che vanno in appassimento. Una gamma davvero consistente che necessita di un assestamento ma anche di sviluppo. Abbiamo fatto una Malvasia Orange. Forse qualche etichetta dovremmo eliminarla per facilitare la gestione in cantina. Ma non ora. Per adesso rimaniamo fermi. Abbiamo tre spumanti, due blend bianco (Chardonnay e Malvasia) e, a breve, un rosso (Sangiovese e Montepulciano), monovarietali (Merlot, Ciliegiolo, Malvasia, Grechetto), il passito. Per il momento come gamma stiamo bene. (Marco) C’è l’idea di dare un nome al Merlot. È l’unico nostro vino che può permettersi un invecchiamento. Lavoriamo bene con il vino sfuso perché abbiamo fatto uno sfuso alto di qualità. Quello che va in bottiglia ha una attenzione particolare, come ad esempio il passaggio in legno. Assaggio il Ciliegiolo che rappresenta, per molti versi, l’azienda nel territorio umbro: grande attenzione in vigna, mix di raccolta manuale e meccanica, parte di vendemmia tardiva, passaggio in legno. (Marco) Il Ciliegiolo è fresco e di pronta beva con un colore accattivante per via del grande estratto. Per irrobustirlo un pochino abbiamo scelto di far appassire un 10/15% delle uve in pianta per circa 10/15 giorni. Questa parte fa botte grande per qualche mese per poi unirla alla massa che ha fatto acciaio. Così c’è più struttura. Si sente in effetti la struttura che si coniuga alla freschezza. Colpisce al naso la balsamicità. È un naso che si apre completamente grazie a dei sentori quasi di mentuccia. C’è frutta a profusione e non può mancare la ciliegia ovviamente. Tutta croccante, quasi matura. Ci sono e spezie. Nelle degustazioni chi assaggia il Ciliegiolo viene colpito. Anche chi non lo ama particolarmente. La particolarità di questo vino è il connubio tra rotondità e freschezza. Un gioco doppio, quasi ambiguo che non mi dà certezze su cosa berrò. Bellissimo. Intrigante. I sentori freschi, anche d sottobosco, si uniscono a quelli dolci tipici dell’appassimento. Non è complessissimo ma invoglia a mantenere il naso nel bicchiere. Al sorso è bello caldo, corposo, secco. Il tannino è importante e si sente come abbia bisogno di qualche anno per ammorbidirsi. Non è un tannino forte, comunque, poiché la sensazione in bocca è piacevole. Non è particolarmente sapido. Chiude bene in bocca con un retronaso che torna a ricalcare le sensazioni olfattiva. Lineare e coerente; regolare e preciso. Ottimo per una merenda a base di salumi ma lo abbinerei anche con una tagliatella al ragù. Non avendo una lunga persistenza ci sta bene. È uno di quei vini per i quali servono due bottiglie. La prima da assaggiare adesso, l’altra tra due o tre anni allorquando si ammorbidirà maggiormente creando una beva quasi più ruffiana. Ho iniziato questo articolo con una canzone di Orietta Berti, Fin che la barca va. Spero abbiate, ora che siamo giunti alla fine, intuito il perché. Barbara e le sue barche. Quelle che ha nella memoria. Quelle che le hanno ispirato le bollicine. Quelle che ha dedicato ai genitori. Al papà che di esse è stato il creatore. Quella barca che a mio modestissimo modo di vedere rappresenta anche la sua vita che con la morte del papà ha potuto prendere il largo. Capitanata solo da lei, Barbara. Con forza, coraggio e tanta volontà. La canzone di Orietta Berti chiude con queste due righe Quando l’amore viene il campanello suonerà
Quando l’amore viene il campanello suonerà Barbara, l’amore per la terra che era dei suoi nonni, poi di suo papà, ora sua. Per lei il campanello ha veramente suonato. Segno che l’amore è arrivato a compimento.   Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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21 Luglio, 2023

Vitivinicola Iovino: 'o mare, 'o sole, 'o vino

Vitivinicola Iovino: ‘o mare, ‘o sole, ‘o vino Guardando Napoli dall’alto, attraverso il finestrino di un aereo in una giornata limpida, è facile riconoscere la natura vulcanica di tutta la costa. A destra di Napoli il Vesuvio con la ragnatela di case sorte, più o meno lecitamente, alle sue falde e il mare subito appresso. Il paesaggio è così affascinante che spesso si ritira lo sguardo sospirando. Quasi a recuperare il fiato dopo essere rimasti estasiati dal gigante buono che diede vita alla sua ultima eruzione nel 1944 (anche tutti noi ricordiamo solo quella 79 d.c quando distrusse Pompei ed Ercolano. Eppure, se si rimanesse con naso e fronte attaccati al finestrino, appena passato Napoli si potrebbero scorgere ben altri crateri: il lago di Agnano, il Monte Corvara, il Monte Nuovo, il lago d’Averno. In pochi si accorgerebbero della solfatara dei Campi Flegrei che poi è il vero vulcano attivo dell’area. Da ben 80.00 anni con la Caldera a rappresentare ciò che sprofonda per via dei vari bradisismi. Tra mare e vulcani, attivi o spenti, filari di viti da tempo immemore danno vita a Falanghina e il Piedirosso (o come lo chiamano qui, per’e pallummo, piede di piccione), veri gioielli dell’enologia campana. Dal 1994 protetti dalla DOC Campi Flegrei che comprende i comuni di Bacoli, Pozzuoli, Monte di Procida, Quarto, Marano e Procida. Purtroppo, o per fortuna, poche sono le cantine che ne fanno parte. Terreno difficile. Condizioni difficili. Vitigni non immediati. Tutto sembra dannatamente complicato. Eppure, quando ti imbatti in un personaggio come Antonio Iovino della cantina che porta il suo cognome insieme a quello del Monte Spina dove sorge (il nome intero è Azienda Vitivinicola Monte Spina di Iovino Antonio), tutto assume una prospettiva diversa. Quello che sembra complicato diviene non solo facile ma anche “spensierato”. Solo a vedere il suo sorriso non ho potuto esimermi dal cantare (a mente visto che non potevo farlo a voce) il ritornello della canzone Simmo e Napule paisà: Basta ca ce sta ‘o soleCa c’è rimasto ‘o mareNa nénna a core a core na canzone pe’ cantá Chi ha avuto, ha avuto, ha avutoChi ha dato, ha dato, ha datoScurdámmoce ‘o ppassatoSimmo ‘e Napule paisá! La prima volta che l’ho incontrato ero alla manifestazione IoVino a Roma. Dire che ho incontrato Iovino a IoVino mi fa ancora ridere. Comunque sia, la mia attenzione andò subito verso lo stand di Antonio attratto da tre cose principalmente. La prima, di origine affettiva e storica: mia mamma faceva di cognome proprio Iovino e mio cugino di nome Antonio. Dèjà vu. Mai nessuno mi aveva detto in famiglia di un parente viticoltore. E infatti Antonio non è nell’albero genealogico. La seconda, per i nomi dei vini che presentava. In particolare “Vigna Solfatara”: poter assaggiare un vino campano prodotto evidentemente nell’area della solfatara mi allettava molto. La terza, il sorriso di Antonio e di sua moglie Teresa: vedere con quale grazia ma anche felicità accoglievano gli ospiti non poteva che invogliarmi ad una sosta da loro. Il sorriso di Antonio non è che l’aperitivo di una entusiastica esuberanza tutta di stampo partenopeo. Una persona che ti coinvolge quando parla, quando ride, quando racconta gli aneddoti della sua vita. Semplici e veri. Come è lui. Come è la sua famiglia. Che ama in maniera spassionata. Come ama il suo lavoro. La sua vita. Sono tre le componenti essenziali della vita: passione, tenacia e molta ma molta umiltà. Ecco, già ad uno che mi dice così non posso non volergli bene a pelle. Mi piace di Antonio proprio la passione che lo porta a raccontare con ardore le sue esperienze. Mi piace la tenacia nel portare avanti i suoi progetti in un territorio che è tanto meraviglioso quanto difficile. Mi piace l’umiltà nel non dare mai nulla per scontato e non dimenticarsi mai da dove arriva. Passione, tenacia, umiltà. Tutto ciò genera entusiasmo. Contagioso nel tono della sua voce, nel sorriso che ti spiazza anche quando gli parli al telefono. Orgoglioso delle sue origini semplici che lo tengono con i piedi ben piantati per terra. L’azienda ha origine antica. Non come la solfatara ma certamente non comune nel panorama vitivinicolo. 1892. Oltre 130 anni di storia. Mica male! Tradizione antica di fare vino dal 1892 con mio nonno che piantò la prima vite nei Campi Flegrei a Pozzuoli sul Monte Spina. Nel mio terreno ci sono delle vite secolari che lo testimoniano. La tradizione è poi proseguita con mio padre e questa è la terza generazione con me. Poi ci sarà sicuramente la quarta con i miei figli. Altra caratteristica tutta meravigliosamente meridionale. La famiglia e la voglia di far qualcosa per i figli. Già i figli. Antonio ne va così orgoglioso. Gli occhi gli si illuminano quando ne parla. Consiglia, la femmina, che gestisce la parte amministrativa; Giuseppe, lo chef dell’Agriturismo annesso alla tenuta, Il Gruccione. Ma la famiglia sarebbe niente senza Teresa, la sua metà. Mia moglie è il braccio destro e senza di lei non avrei fatto assolutamente niente. Dietro un grande uomo c’è una grande donna. Mia moglie si chiama Teresa Amore: un cognome eccezionale. Ora i più potranno leggere nelle parole di Antonio l’idea di autonominarsi “grande uomo”. Ma non è così. Perché il senso della sua frase era un omaggio a Teresa più che a lui. Umiltà. Antonio rimane umile. Anche nei ricordi di quando era bambino. Di quando tornava a casa dopo aver studiato a scuola. Perché doveva aiutare il papà in campagna. Era il 23 novembre 1980 quando la terra tremò in Irpinia con magnitudo 6.9. Una scossa che sconvolse l’intero Sud. Napoli e l’hinterland ne furono particolarmente colpiti così che le poche scuole rimaste aperte dovettero fare il doppio turno per accogliere gli studenti. Io ho lavorato sempre con mio padre. Ho fatto ragioneria ma la grande scuola è quella del contatto diretto con la terra. Quando venivo dalla scuola dopo che ci fu il terremoto non avevo il tempo per studiare perché dovevo aiutare mio padre in campagna a potare la vite, governare le mucche da latte. Studiavo a scuola. Eccola l’umiltà di Antonio. Quella di una persona che si è rimboccata le maniche. Si è sporcata le mani di terra, fango, sudore. Ha vissuto su di sé, ma non per sé, gioie e dolori. Ora ringrazio mio padre perché mi ha fatto conoscere la realtà della terra. Studiare è una cosa ma la pratica è altra cosa. Se il tuo teorico non lo metti in atto, rimane a sé. Saggezza popolare. Di quella saggezza che gli fa conoscere i propri limiti. Perché un conto è la terra, la vigna, la potatura. In vigna ci sono io. Il sottoscritto. La mia passione predominante. Altro conto la cantina dove ci vuole il mestiere. Che non si improvvisa né si sperimenta. Altrimenti vini buoni non ne escono. In cantina c’è un enologo anche se la maggior parte del lavoro lo faccio io in campagna e nella raccolta. Ciro Verde è molto bravo nella parte enologica. L’avventura dell’imbottigliamento comincia dopo il 1988, quattro anni dopo la fondazione della DOC Campi Flegrei Sono stato il secondo ad avere la DOC. Con mia moglie abbiamo portato avanti questa grande passione perché se non c’è passione non fai nulla. La passione appunto. Quella grande droga che non fa male e che se ti scorre dentro ti consente di avere forze in maniera continuativa. Di non fermarti mai guardando, con ottimismo, avanti. Antonio e Teresa si gettano nell’avventura della vigna trasformando l’azienda da semplice produttrice di uva e vino sfuso a vera azienda vitivinicola. La nostra nasce come azienda che fa il vino del contadino. Poi, grazie al lavoro, arriva la prima bottiglia DOC nel 2003. Guardare avanti abbiamo detto. Ciò vuol dire non tanto avere l’ambizione di crescere e guadagnare di più. Certo, importante, ma non vitale. Vuol dire poter far sì che la famiglia abbia il suo modo di sostenersi, di stare bene, di non avere problemi. È così che Antonio ha l’intuizione. Cosa ha di grande la Campania? Napule tre cose tiene ‘belle, ‘o sole, ‘o mare, ‘o Vesuvio. Così si diceva. Anche se poi si trovava sempre qualcosa da cambiare nel trittico. Si arrivò anche a sostituire il Vesuvio con il Dio Maradona quasi a significare che questi non poteva sostituirsi al mare ed al sole ma in quanto a potenza non era certo secondo al vulcano. Divagazioni a parte, Campania e cibo rappresentano un binomio inscindibile. Materie prime provenienti da un territorio baciato da Dio (non dal Dio Maradona) fanno di tutta la Campania un vero e proprio Eden. L’obiettivo era abbinare al vino la cucina tipica dei Campi Flegrei. Nel 2014 apre così l’agriturismo “Il Gruccione” con il figlio Giuseppe nella delicata funzione di chef. Un ragazzo che raccoglie da papà Antonio la passione, la tenacia, l’umiltà. Ma anche quella meravigliosa intraprendenza giovanile (e un bel pizzico di propensione commerciale il cui mix a Napoli si chiama a’ cazzimma) che lo porta a partecipare ad una serie di trasmissioni culinarie televisive (di quelle che riempiono i palinsesti di ogni rete). Anzi, mi correggo. Non solo partecipare ma anche vincere. Ha vinto varie trasmissioni televisive come la Prova del Cuoco con la Isoardi e “È sempre mezzogiorno” con la Clerici, “Camper – Nella vecchia Trattoria” con Federica De Denaro. Si dà da fare anche lui. Va bene tutto. Ma la vigna? 7 ettari di terreni dislocati intorno all’agriturismo ed al Lago d’Averno. Luoghi meravigliosi e di puro incanto. Se non ci siete mai stati, una gita è d’obbligo. Qui tutto merita. Dal cibo dello chef Giuseppe, ai vini di Antonio, al Tempio di Apollo (che era un complesso termale), al complesso dei Campi Flegrei, alla Solfatara. E se sentite come ne parla Antonio capite quanto amore c’è nei suoi luoghi. Qui è davvero molto bello. Spettacolare direi. Come la collina di Monte Spina a 300 metri sul livello del mare che si affaccia su Procida, Nisida, Ischia, Sorrento, Capri…..Si vede tutto questo ben di Dio di panorama. Quattro etichette per due tipologie di uvaggi. Campani ovviamente. Della DOC Campi Flegrei manco a dirlo. Falanghina e Piedirosso (o per ‘e palummo). Falanghina Grande Farnia e Piedirosso Gruccione. Due vini semplici ma di grande identità vista la matrice del terreno e l’età delle vigne. Vigne che sono in una zona di 120 e nell’altra di 130 anni. La più giovane ha tra i 60 e i 70 anni. Tanto per rimarcare ancora la provenienza dei vini, i nomi stessi sono dedicati a qualcosa di territoriale. La Grande Farnia è la quercia propria del Monte Spina, il Gruccione è l’uccello dai mille colori che qui ama risiedere. Gli altri due vini invece sono delle menzioni speciali “Vigna Solfatara” derivanti sia da Falanghina sia da Piedirosso. 1253 bottiglie per ogni vitigno coltivato all’interno della Solfatara dalle piante più antiche. Coltivo tutto a ridosso del vulcano Softatara. La gran menzione dei Campi Flegrei solo io lo posso fare perché il mio terreno rientra nella Solfatara. Due vini di assoluto rilievo (la Falanghina l’ho già recensita sul mio blog Instagram ) e dire “esplosivi”. La Falanghina mostra la matrice minerale del terreno appare già nell’invitante colore dorato che si accende di luminosità. Il naso nel calice si crogiola delle nocciole, degli agrumi, della mela annurca, del basilico, dello iodio, dell’alloro: un tripudio di odori tipicamente campani. Così, tanto per ricordare dove ci troviamo.
La bocca al sorso è bellissima e buonissima. Gli agrumi e la mela tornano prepotenti esaltati dalla mineralità. Il finale tende ad andare verso la mandorla amara senza mai arrivarci. Un vino che ha mille sfaccettature tali da esaltarne la bevibilità e gli accoppiamenti. Scegliendo, più che su un pesce all’acqua pazza (con il quale ci starebbe benissimo) lo userei per una pizza bufala e pomodorini del piennolo. Per il rosso, non svelo nulla ma lo troverete comunque a breve sul mio blog @ivan_1969. Io, nu poco fatto a vinoPenzo ô mmale e penzo ô bbeneMa ‘sta vocca curallinaCerca ‘a mia pe’ sa vasá!Tarantella, si ‘o munno è na rotaPigliammo ‘o minuto che sta pe’ passá Antonio e Teresa hanno la doppia anima di viticoltori e ambasciatori del loro brand. Girano in lungo e in largo l’Italia per far conoscere i propri prodotti. Mossi dall’orgoglio, dalla voglia, dalla passione. Sempre con il loro sorriso e la positività che li contraddistingue. Senza però alcuna voglia di fermarsi. Io e mia moglie abbiamo un progettino. Lei è di Reggio Calabria. Li ci sono ottimi vini non conosciuti. Vogliamo fare un blend tra i miei campani e i suoi calabresi. Vorrei dedicarlo a mia figlia. Faremo gli assemblaggi e capiremo cosa fare. Non sa ancora bene cosa fare Antonio di questa pazza idea ma io sono certo che un giorno, nemmeno poi così tanto lontano, mi chiamerà per farmi assaggiare la sua nuova creatura. Anzi, la loro nuova creatura. E io non vedo l’ora!!! Basta ca ce sta ‘o soleCa c’è rimasto ‘o mareNa nénna a core a core na canzone pe’ cantá Chi ha avuto, ha avuto, ha avutoChi ha dato, ha dato, ha datoScurdámmoce ‘o ppassatoSimmo ‘e Napule paisá! Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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14 Luglio, 2023

Terre d’Aquesia: Tiziana, Vincenzo e tanta allegria

Terre d’Aquesia, semplicemente Tiziana e Vincenzo Quanti come me hanno passato i quaranta. Riformulo. Quanti come me hanno passato i cinquanta (così va meglio), ricorderanno una delle prime (o forse la prima e sicuramente più longeva) sitcom italiana più longeva in assoluto, Casa Vianello. In onda dal 1988 al 2007 ci ha mostrato le evoluzioni della coppia Sandra Mondaini e Raimondo Vianello. Lui, Raimondo, impeccabile professionista; lei, Sandra, padrona di casa fine ed esplosiva. Una meravigliosa coppia che ha fatto della semplicità, della schiettezza e soprattutto dell’ironia, una ragione di essere. Non so se la coppia Sandra e Raimondo fosse appassionata di vini, ma quella che ho incontrato io, oltre a ricordarmela per medesime caratteristiche, lo è senza dubbio. Vincenzo Adduci è il proprietario di Terre d’Aquesia, Tiziana sua moglie. Terre d’Aquesia sorge ad Acquapendente (VT). Siamo sotto il lago (vulcanico) di Bolsena, nel triangolo che congiunge Lazio, Toscana ed Umbria. Un territorio che, con fatica, cerca di affermarsi per la qualità dei vini e delle persone che hanno deciso di vivere o vinificare qui (o entrambe le cose). Credo oltretutto che queste zona abbiano un che di magico visto che è già la seconda volta che mi imbatto in una coppia che ha scelto questi luoghi per soddisfare la passione vinicola. Vincenzo ed il suo aplomb unita alla pacatezza dell’ingegnere qual è; Tiziana frizzante, schietta, diretta, ironica, pratica (e grande acume) come si addice ad una dirigente scolastica. Vincenzo Adduci non è nato nel mondo del vino. È un ingegnere di quelli precisi e meticolosi che arriva (ma non è che non ci stia ancora) dal settore oil&gas che nulla ha a che vedere con il vino. Un ingegnere con la passione del vino. Di quelle che covi dentro da tempo. Che ti tormenta piacevolmente per esplodere al momento opportuno. Ecco il momento opportuno. Per molti questo è frutto di impulso. Un po’ come gli amori che esplodono al primo sguardo. Per un ingegnere non è così. Ci vuole qualcosa prima. E non parlo di certezze quanto di conoscenza. Ha bisogno di sapere. Sapere di ogni cosa che c’è da fare per produrre vino buono e di qualità. Consapevolezza insomma. È così che Vincenzo, continuando a lavorare, si prende una bella laurea in Viticultura e Enologia a Firenze. Con 110 e lode. Ovviamente. Eh quando c’è la passione Tiziana non si trattiene. Ma è così. Meravigliosamente così. Sostiene la passione di Vincenzo che è diventata anche la sua. È una passione. Purtroppo, o per fortuna. Fare un altro lavoro in più alla cantina serve. Prima di crearci una fetta di mercato.. Una fettina. Non so se riusciamo a pagarci le spese della vigna, della passione.. Io faccio l’ingegnere per pagare le spese della cantina. Mi piace sperimentare. Ogni anno faccio vini nuovi, diversi, con metodi diversi Con tappi diversi. Contenitori diversi. Studia lui Vincenzo si laurea con l’intenzione di “costruire” un vigneto. Si, avete letto bene, “costruire”. Non è che si accontenterebbe di gestirne uno. Poi capita l’azienda con la cantina c’era già. Siamo arrivati e abbiamo usato le stesse vigne per costruire vini diversi. È successo tutto nel 2020. Abbiamo fatto il compromesso a novembre del 2019 facendo la vendemmia. L’atto è stato fatto a giugno durante il covid. Capita così che Vincenzo debba “accontentarsi” di costruire vini e non vigne. Poco male anche perché la proprietà che acquisiscono, con un misto di follia e ragione, consta 12.5 ettari di cui 10.5 vitati. Non proprio pochi per due alle prime armi. Oltre alla vigna, alla cantina e a tutto ciò che gira intorno devono pure gestire il personale che lavora in azienda. Ah già, dimenticavo, il lavoro di Vincenzo e Tiziana è a Roma. Non troppo lontano ma nemmeno tanto vicino. C’è il personale che lavora in vigna. Alle volte siamo in 10/12. Durante la vendemmia, a mano, io sono in cantina perché ricevo le uve e le lavoro. Non ho l’attrezzatura per i bianchi ma uso un metodo artigianale. Metto le uve nel torchio e uso il mosto fiore. Ciò che avanza lo uso come sfuso. Le rese sono dunque molto basse. Chardonnay e Grechetto ci danno grandi soddisfazioni. Il 2021 penso che sarà quello più internazionale e morbido. Il 2019 si sentiva ancora l’amarognolo  Vincenzo è l’ingegnere che studia e studia davvero. Dopo la laurea nel 2017 si mette pure a fare consulenze per la regione Lazio. Ho applicato delle tecniche che avevo studiato ad alcune vigne sui Castelli Romani, a San Vito romano, a Nettuno. In fondo ho fatto la tesi sull’agricoltura nel Lazio. Non è stato ben visto in Toscana La tesi era “Il Bellone e la viticultura nel Lazio”. Ero uno sconosciuto a Firenze. Hanno visto che non parlavo di Chianti del Brunello… Sono stati carini i professori con lui Prima della laurea ho esercitato con gli assaggi Abbiamo girato tutte le cantine del mondo. I nostri viaggi erano tutti a sfondo enologico. Vincenzo mi diceva “Ti andrebbe di andare lì?”. Cosa andiamo a visitare un museo? Rispondevo io. Poi giravamo per cantine e assaggiavamo di tutto Napa Valley, Francia, Germania, tutta l’Italia… Ci siamo esercitati bene. Tiziana lavora a scuola dicevamo. Faccio il lavoro che amo. Per me il vino è in più. Vengo da una famiglia di San Vito Romano e i miei nonni vivevano di vino e olio. Dell’infanzia ricordo la fatica dei vigneti. Mi sono fatta contaminare da questa passione. Attorno al vino c’è tanta passione e ho preso il bello di tutto questo. Dal lunedì al venerdì (o sabato mattina) lavoro a scuola. La sera e il fine settimana, in cantina. Pendoliamo tra Roma e Acquapendente. I pendolari della vigna. La cantina va seguita. Gli operai vanno seguiti. I cantinieri. La gente vuole che sia tu a presentare il prodotto. Il produttore fa la differenza. L’amore per il vino contagia. Vincenzo ha contagiato Tiziana. Tiziana sostiene Vincenzo. Entrambi prendono questo come pura passione ma anche quel minimo di ambizione che non guasta mai. Giusto un minimo perché, adesso, ciò che conta è stare bene. Insieme e con gli altri. La cosa più bella è accogliere le persone in cantina e parlare del vino. Farglielo assaggiare. Parlarne discuterne. Io mi diverto in questo senso. Taaanto Passo ore e ore a parlare Ora ore no. Ci fa però piacere ricevere le persone e siamo felici quando vanno via contenti. Mangiamo qualcosa insieme. Mangiamo il salame il prosciutto. Assaggiamo i vini. Io faccio assaggiare i vini dalle barrique Solo quando sono molto simpatici però Una passione sfrenata che si trasforma in un business? Business è una parola grossa. Un giorno forse. Speriamo una volta in pensione, di ritirarci a vita privata. Tra cinque anni Cosa vedete dinanzi a voi? Taaaanto vino, taaaanta uva. Taaante bottiglie. Taaaante barrique… Ride Tiziana. Ride di quella allegria che solo la spensieratezza nel fare qualcosa che ti dona gioia può dare. Non c’è frenesia. Non c’è voglia di emergere. C’è solo tanta voglia di vivere in armonia con tutto ciò che ti circonda. A riportarla sul lato serio, c’è sempre Vincenzo. A livello commerciale dobbiamo andare verso est. Un progetto internazionalizzazione verso gli USA e l’Europa del nord. Abbiamo un importatore. Nel 2021 abbiamo fatto 22000 bottiglie. Non avendo mercato non le abbiamo prodotte. In un momento in cui il mercato era troppo saturo non volevamo imbottigliare perché quello è il costo più alto. Dopo il covid tutti hanno abbassato avendo i magazzini pieni. Con i suoi 10 ettari vitati, l’azienda ha comunque una elevata potenzialità. Fino a circa 50mila bottiglie. Il che vuol dire una resa decisamente bassa. Ma con uno certosino e meticoloso come Vincenzo, vi sareste aspettati una resa più alta? Dobbiamo trovare una dimensione che coniughi guadagno, divertimento e produzione di qualità. Siamo alla ricerca di questo connubio. Vincenzo è rigoroso in vigna come in cantina: si parte dalla bassa resa in vigna, si passa per il biologico, si arriva in cantina dove non può che esserci tecnologia, acciaio e barrique usate e selezionate. Processi e protocolli perché tutto sia controllabile e controllato. Anche il giudizio dei vini viene affrontato con un rigoroso, ma divertente processo. Siamo un gruppo di enologi che assaggiamo C’è un conclave. È divertentissime perché tornano in ginocchio. Le barrique vengono assaggiate tutte ed etichettate con una sigla che solo loro capiscono: A, AAA, AA++, A-…  Poi vengono miscelate a seconda della valutazione da questo conclave di enologi che mischiano oltre che il vino anche le competenze. Appaiono tutte felici quando vanno a fare queste cose In effetti, ci sono 90 barrique…dopo un po’ sbarelliamo. Procedure su procedure quando fanno queste cose. C’è una selezione che giustifica anche il costo. I ristoratori vogliono il vino a due euro e noi non possiamo fornirli. Vincenzo dirige (avevate dubbi?) le operazioni in vigna. Non può fare tutto da solo in cantina e in vigna: il processo non lo permetterebbe! C’è anche un agronomo. Che è mio fratello. Ma glielo hai imposto? E certo. No scherzo. È una azienda familiare. È sfuggita solo mia sorella ma prima o poi la porto. Per adesso, come me, assaggia. Sandra e Raimondo. Sono loro. Non ditemi di no vi prego! La particolarità di questo territorio è l’essere a pochi km dalla Toscana. I terreni sono gli stessi di quelli della Val d’Orcia: argilla con marne. San Casciano dei Bagni è letteralmente dietro l’angolo. È così che le vigne di Sangiovese non possono che produrre un ottimo risultato. In passato venivano dalla Toscana comprare l’uva. Stiamo implementando anche altri vitigni nuovi C’è una parte della vigna che ha avuto dei problemi di siccità. C’era Montepulciano che non ci piaceva. Abbiamo messo due ettari di Ciliegiolo che arriva dalla Maremma che confina anche con noi. Siamo Lazio ma è come se fossimo in Toscana o in Umbria. Un triangolo. Un po’ da una parte un po’ dall’altra. Vincenzo ha trovato qui vitigni internazionali come lo Chardonnay e il Cabernet Sauvignon. Produrli in purezza avrebbe eliminato quel tratto territoriale, quella identità che ricercava. Così che taglia lo Chardonnay con il Grechetto, il Cabernet Sauvignon con il Sangiovese. Uno stile Supertuscan. Il Cabernet grazie al terroir si esprime bene senza essere pesante. Non irrighiamo Cosa hai portato nei vini? Eleganza e finezza perché erano vini un po’ grossolani. Gli ho tolto un po’ di corpo per renderli più fini. Ho poi inserito il Ciliegiolo che non c’era. Va un po’ di moda certo. Ora io me lo immagino Vincenzo che sperimenta come se fosse il piccolo chimico. Non ci sono alambicchi e pozioni magiche ma tini, botti, torchio, sensori. Mi ritengo sperimentale. Faccio anche naturale senza aggiunta di nulla. Senza additivi. Sto facendo un bianco e un rosso. Lo chiameremo Jazz. Dedicato alla musica. Io suono e adoro il jazz Ogni tanto dorme! Suona il pianoforte. Non dire niente. In fondo gli ingegneri sono poliedrici. Basta che gli dai un manuale, istruzioni precise e l’iniziativa arriva da soli. È vero che a lui piace sperimentare. Però è molto tradizionalista nel modo in cui ad esempio si coltiva. Tutto il personale è di Acquapendente. Le persone sono quelle che fanno questo lavoro da sempre e che vivono nella zona. Questa è sostenibilità del paese. Vengono a vendemmiare perché hanno fatto quello nella vita. C’è rispetto per la vigna perché fa parte del territorio. Rispetto delle persone e della zona. È un modo che si ha di pensare il lavoro e la vita. Noi è che noi dobbiamo diventare ricchi. Ormai siamo vecchi e non dobbiamo diventare ricchi. Ci vogliamo divertire e non vogliamo fare del male al luogo e alle persone. La passione che non può e non deve passare sopra a tutto. Perché vivere in armonia con ciò che si ha intorno vuol dire tante cose. Alcune magari inflazionate ma, in questo caso, reali. Pure. Perché dettate dalla passione. Quando si inizia proprio con il rispetto del luogo che ospita, delle persone che ci vivono, allora il resto ovvero il risultato, non può che essere una conseguenza. Attenzione al territorio, al materiale, ai lieviti. La gente beve e non sta male con la testa. Ieri abbiamo bevuto un sacco di vino. Nessuno ha il mal di testa. Anche persone molto sensibili alla solforosa. Metto il minimo indispensabile. Uso la solforosa molecolare ma solo per evitare i batteri acetici. Ecco, temo che se facessi una domanda tecnica a Vincenzo sulla solforosa molecolare, partirebbe con una disquisizione tecnica e tecnologica. Me la tengo anche perché Tiziana subito rincalza. Quest’anno abbiamo messo il concime delle aziende vicine, il letame insomma. È una scelta. Non ci facciamo vedere con il cavallo. Usiamo il trattore. Però siamo in pace con l’ambiente e le persone che lavorano con noi. Non ci premiano i soldi ma siamo contenti così. Abbiamo due lavori bellissimi quindi questo ci deve dare gioia. È un hobby costoso. Avrei preferito i francobolli. Che pure faccio. Quando ero piccolo Meno male che li abbiamo lasciati Con una coppia così non ci si può non divertire. È un assortimento davvero ben riuscito. Un connubio che guarda al futuro con tanta serenità. Per il futuro ho delle prospettive Ah ne vengo a conoscenza ora Oggi usiamo barrique usate, che compriamo in Francia o in Italia. Secondo o terzo passaggio. Per il futuro vogliamo usare il cemento e la ceramica. Specialmente per il Ciliegiolo. È un progetto per il futuro. Così come la tecnologia 4.0, temperatura controllate. Monitor in cantina Questo un giorno però eh! Una prossima vita. Tutto insieme non lo possiamo fare Starei a sentirli per ore. Anche perché dando loro il là, sono davvero Sandra e Raimondo. Tra di loro, un tenero ping pong. Un modo di gestire il rapporto che sa di solidità e rispetto reciproco. Nelle loro parole c’è tanto della loro vita e del modo di essere. Sanno prendersi in giro e prendere il bello della vita. Che è fatta di stare insieme. Tutti nostri vini hanno una dedica. Il Rosato, ad esempio, Rosa rotondo è dedicato alla nonna di Vincenzo. Aquesia bianco e rosso al paese che ci ospita. Ciliegiolo, Contaluna è un toponimo di Acquapendente. È il mio vino. Sta maturando dicono gli enologi. Santermete è il Santo patrono di Acquapendente. Abbiamo fatto anche disegnare un sigillo sulla etichetta con una “A” stilizzata che è l’inziale del suo cognome: Adduci. I vini dunque. Aquesia bianco è il blend di Chardonnay e Grechetto. Aquesia rosso è il Sangiovese ammorbidito con un po’ di barrique. Aquesia bianco è un vino più internazionale e la territorialità c’è con la pesca e la nocciola del Grechetto. Tutto dipende molto dalla annata. Da come si è evoluto. Vincenzo è molto attento alle annate. Le sfumature che cambiano il vino come se fossero tonalità di colore. Vini diversi che trovi diversi nel bicchiere. Senza standardizzazione. Senza omologazione. Abbiamo preso in affitto una vigna in collina a 700 m di altitudine (qui siamo a 300) con vitigni misti. Sangiovese e Ciliegiolo. Faremo vini con solo acciaio. Una sorta di cru. Usciremo quest’anno con il 2021. È in vasca il vino Dorme…. Abbiamo fatto uno studio sui tappi e adesso siamo contenti Ci credo, costano il doppio. Per la prima vendemmia abbiamo usato i tappi Nomacorc con il passaggio di ossigeno controllato. Per alcune bottiglie ho invece usato i Diam: 3 per rosato e bianchi, 10 per i rossi. Poi, con le degustazioni comparative ha vinto il Diam. Me lo ha fatto assaggiare chiedendo quale fosse il più buono. Provo qualche vino partendo dall’Aquesia bianco, curioso del blend Grechetto e Chardonnay. Colore paglierino vivace e sentori semplici di note erbacee e frutta bianca quasi mallo di noce. Si sentono gli agrumi, la pesca bianca, la nocciola. Le tipiche note dello Chardonnay molto evidenti insieme ad una evidente sapidità. In bocca è fresco, caldo, secco e con la sapidità già percepita al naso che adesso si evidenzia in tutta la sua forza. Un vino bilanciato con la freschezza che predomina anche se alla fine risulta un vino semplice e lineare. La persistenza buona e il finale tende ad andare verso l’amarognolo. Un vino che fornisce a pieno la potenzialità di abbinamento tra questi due vitigni. Lo abbino in maniera facile e sincera ad un pesce di mare al forno. Vado al Grechetto 2021. La colorazione qui è più vivace del precedente e i riflessi diventano dorati. Le note agrumate e la sapidità risultano ancore più evidenti. Un vino che esprime in tutta la sua semplicità con sentori di fiori e frutta bianca (con la pesca che spicca insieme ai fiori di iris). Appare leggermente più complesso del precedente con la semplicità comunque che prevale. Il gusto è comunque più pieno e avvolgente. La sapidità rimane spinta. Fresco, moderatamente caldo, secco. Finale pulito che va verso l’ammandorlato. Persistenza buona. Un vino che si presenta si verticale ma che fa della semplicità e avvolgenza le due caratteristiche (insieme alla sapidità) che ho più apprezzato. Qui abbino però una pasta con il pesce (senza pomodoro!). Passo ad un Aquesia rosso 2020. Sangiovese in purezza con 6 in barrique e 8 acciaio. Colore rosso rubino e riflesso porpora dotato di bella limpidezza. Si sente la violetta e l’arancia rossa sanguinella. Un leggero sottobosco si evidenzia insieme a leggere note speziate. Sentori dunque puliti e semplici per un Sangiovese domato! Ottima freschezza in bocca insieme ad un tannino non particolarmente aggressivo. Buona la sapidità e l’invitante retro olfatto invitante. Finale leggermente amaricante ancorché coinvolgente. Ne risulta un vino semplice e schietto: tipico Sangiovese quasi da Chianti. Proseguo con il Cantaluna 2019. Ciliegiolo in purezza che si divide i 20 mesi di affinamento tra acciaio e barrique rigorosamente usata. Nel calice rubino con riflessi porpora. Al naso la ciliegia matura non può che prevalere sulla restante frutta (prugna e arancia sanguinella). Tabacco, noce moscata, pepe verde e un tocco di balsamico chiudono l’olfazione. Secco, caldo, fresco, sapido. I tannini sono già maturi e arrotondati. La persistenza è buona e il finale lievemente amaricante. Un bel vino davvero che rappresenta a pieno il territorio. Finisco con il Santermete 2020, blend di Cabernet Sauvignon e Sangiovese. 8 mesi in acciaio e 20 in barrique servono per arrotondarlo un pochino. Colorazione rubino senza particolari riflessi. Naso interessante per una immediata balsamicità, la ciliegia MonChery, la prugna, la mela cotogna. Ricorda una macedonia di frutti di bosco con limone. Poi la violetta, la foglia di pomodoro, il peperone, pellami, tabacco, pepe, chiodi di garofano, sottobosco. Insomma, un bel corredo olfattivo che offre una complessità interessante tale da rendere invitante questo vino. Un invito reso ancora più interessante da contemporanea sensazione nasale di dolcezza e freschezza. In bocca si conferma una bella e fresca espressione. I tannini sono già setosi e avvolgenti anche se un po’ ruvidi ancorché non particolarmente aggressivi. Sento la sapidità e un retrogusto che parte con la frutta volta a spegnersi per riprendersi verso un amaricante che continua senza mai essere fastidioso: è come se la ciliegia si trasformasse in visciola (cosa che mi invoglia a provare questo vino con una crostata). Buona la persistenza non particolarmente lunga e finale bello e pulito. Con un ragù lo vedo perfetto ma anche con una bella amatriciana. Lo lascerei un altro anno in bottiglia perché merita un maggior riposo. Ciò che ho provato mi ha convinto molto. La capacità di produrre qualcosa di qualitativamente valido in così poco tempo è senza dubbio notevole. Così notevole che sarà difficile migliorare. Anche se sono certo che Vincenzo e Tiziana sapranno ancora stupirmi. Alla fine di questa spumeggiante chiaccherata posso dire di aver avuto il piacere di incontrare due persone che sono loro stessi un blend di vita. Passione, precisione, meticolosità, voglia di sperimentare per Vincenzo; spumeggiante allegria, coinvolgimento, ironia, preparazione per Tiziana. Ciò che ne risulta è Terre d’Aquesia che non è solo una azienda agricola, una cantina, un produttore di vini. È un luogo, una speranza, un progetto di vita. Insieme. Tiziana e Vincenzo e gli amici che li circondano. Un angolo di mondo e di vita che si sono ritagliati. Non tanto per fare soldi quanto per continuare a divertirsi coltivando la passione prima della terra. Rispettando le persone, il territorio, il vino, loro stessi. Niente improvvisazione ma tanto studio, tanta preparazione. Che con l’allegria viene meglio. O no? Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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7 Luglio, 2023

Società Agricola Capriotti e la semplicità del Verdicchio

Società Agricola Capriotti e la semplicità del Verdicchio Quando mi capita di parlare con una persona ho spesso la tendenza a posizionarla all’interno di una cornice ben precisa: un film, un libro, una canzone. Una sorta di raffigurazione schematica per inquadrarla in un contesto più ampio. Come se qualcuno prima di me abbia avuto la genialità di rendere “personaggio”, protagonista o meno, quella persona. Spesso rido perché il ricordo va ad un personaggio comico. Altre volte rimango intrigato. Qualche volta mi rattristo. Può succedere poi di non avere un appiglio sicuro e rassicurante. Di non riuscire capire dove e come incasellare l’interlocutore. Forse capisco di non aver letto il libro o guardato il film o ascoltato la canzone con quel personaggio. Incontrando Mirko Capriotti della Società Agricola Capriotti la sensazione è di avere dinanzi qualcuno che ancora non ha trovato spazio nell’opera di un autore. Non fosse altro perché, quando pensi di inquadrarlo in un contesto, ti spiazza facendoti andare da tutt’altra parte. Schietto, verace, diretto, ironico, perspicace, pragmatico. C’è una frase che emerge dalla conversazione con Mirko che dà il senso del prologo. Qui tutti dicono che sono viticultori alla terza generazione. Potevo dirlo anche io perché nonno era viticultore, mio papà, anche se per un periodo breve, lo è stato. Ma vogliamo dare, anche continuando quello che faceva nonno, una impronta diversa con vini di facile bevuta senza che siano anonimi. Con un nostro vino se sei in tre, una bottiglia te la finisci bene. Ecco. Ecco Mirko. Siamo a Castelplanio in provincia di Ancona, poco sopra Jesi, nel mezzo di quella Strada Statale 76 che collega il mare di Falconara Marittima a Jesi e Fabriano. Nelle Marche  il Verdicchio la fa da padrone incontrastato dividendo equamente le gioie e i dolori dei produttori (gioie dal successo che sta avendo, dolori dal prezzo non certo elevato). L’idea di costruire una azienda vinicola viene a Mirko e alla sorella Monia nel 2015. Mirko che lavora in una industria di mobili e Monia a girare il mondo lavorando nella ristorazione. Monia che si ferma per metter su famiglia e poi alla ricerca di un lavoro che non arriva. Ci sono i terreni del nonno però. Tre ettari coltivati come poteva coltivarli il nonno e non coltivarli il papà. Dal vigneto al seminativo. Un po’ di confusione. Ma se non è quella la tua attività, ci sta. Non dovrebbe starci ma ci sta. Puoi startene con le mani in mano. Puoi continuare ad andare in giro cercando qualcosa che, forse, prima o poi arriverà. Oppure. Oppure puoi scegliere di avventurarti in qualcosa di complicato, difficile, faticoso. L’agricoltura e la vigna in particolare viene raccontata come qualcosa di meraviglioso. Solo chi la vive sa quanta fatica c’è dietro una singola bottiglia. Con il tempo che passa. La vita che ti passa dinanzi agli occhi. Un ticchettio che è nelle orecchie e ti fa capire che se hai una idea, non devi aspettare. Devi tirarti su le maniche e fare. Monia e Mirko decidono di tirarsi su le maniche e fare. Investendo i pochi soldi che hanno, il tempo e il sudore. La perdita in poco tempo di persone che avevano tanti progetti ci ha fatto capire che se hai una idea in testa devi portarla avanti. Non aspettare chissà quale occasione o quale evento favorevole. Se ce l’hai e ci credi devi andare. Nel giro di sei mesi abbiamo iniziato tutto. Piantando anche i vigneti. Era il gennaio 2015. Prendi i tre ettari del nonno. Li lavori bene con le poche e malconce attrezzature. Pianti le barbatelle. Una per una. Con la voglia di fare qualcosa. Con la speranza di ottenere qualcosa. Con la necessità di produrre qualcosa. Siamo partiti da zero impiantando le barbatelle che abbiamo messo noi e gli amici. I pali da una ditta e noi che aiutavamo. Il nonno essendo agricoltore aveva qualche mezzo. Qualche ferro vecchio che ho usato per le lavorazioni. Messe le barbatelle, inizia il lavoro. Insieme all’attesa. Generalmente se si hanno i fondi a disposizione, il tempo di almeno due anni necessario alle barbatelle per produrre i primi grappoli accettabili, viene impiegato per realizzare la cantina. Se non li hai invece, oltre a non fare la cantina devi sbarcare il lunario. Pianti le barbatelle e poi vediamo. Occorre dunque aspettare il 2017 per la prima vendemmia. Vendemmia che non può prevedere la vinificazione perché la cantina non c’è. Unica strada è farselo produrre da terzi. In molti di quelli che parlano da profeti, e non è critica o invidia, hanno le spalle coperte. Noi no. Non potevamo fare l’investimento della cantina. Abbiamo fatto il vigneto con gli aiuti regionali e il 40% dei lavori in economia. 3000 bottiglie e qualcosa di sfuso. Null’altro si poteva ottenere in fin dei conti. Nel 2017 così come nel 2018 magari con un po’ di sfuso in più. “Il nonno era produttore di vino ma la storia del vino del contadino che era buono è una stronzata pazzesca. Da noi si dice “non si strozzavano”. Se non aggiungevi acqua, era imbevibile. Schiettezza. Mirko è così. Dice ciò che pensa. Dice quelle cose che tutti sanno e pensano ma si vergognano di dire. Gli anni del covid portano a produrre le stesse quantità. L’aumento dello sfuso, la consegna a domicilio e soprattutto i bassi investimenti li aiutano a superare la bufera. Ma proprio nella bufera capitano le cose. E quando capitano puoi prendere o lasciare quello che il destino ti offre. Ogni cosa ha un prezzo. Economico o di impegno. Il prezzo comunque c’è. Capita così che nel 2020 c’è l’occasione di prendere due ettari di un vigneto di Verdicchio impiantato negli anni 80. L’occasione è ghiotta ancorché impegnativa. Sempre in due, Monia e Mirko, sono. Pochi soldi e tanta voglia. Monica a tempo pieno, Mirko a metà. Nel 2020 abbiamo ampliato l’azienda con un vigneto di due ettari dei primi anni 80. Ci siamo avvicinati ad un enologo emergente della zona che ci ha supportato nella gestione del vigneto. Il vigneto acquisito ci ha consentito di ottenere un discreto prodotto. Migliorando con enologo e cantina è uscita la seconda bottiglia. Con il vigneto del 2015 facciamo il Classico, con il vigneto acquisito, il Superiore. La semplicità. Un vigneto, un vino. Niente di più, niente di meno. Nessuna lavorazione in cantina (solo acciaio a temperatura controllata, riposo sulle fecce fini e a febbraio imbottigliamento). Nessuna “costruzione” del vino: non se lo possono permettere e non piacerebbe a Mirko. Io sono una persona che prima di produrre vini ne ho consumato tanto al bar, alle cene, con gli amici. Per me il vino è convivialità: aprire una bottiglia, tagliare una fetta di salame. Questi sono vini ideale per queste occasioni. Fatti bene nella loro semplicità. Non dico che sono unici ma non sono confondibili. Se non è questa la vera semplicità e schiettezza non so cosa sia. Mirko è uno di quelli che pensa che riesci a vedere qualcosa in cui credi. Nel caso del vino meglio se pure consumato. Stiamo iniziando ad impiantare le nuove barbatelle con cloni di vecchie piante. Quelle che stanno scomparendo. In zona stanno appiattendo il vino perché acquistano le barbatelle dallo stesso vivaista, hanno stesse esposizioni, le stesse tecniche in cantina. Iniziare a fare il vignaiolo dal nulla fa capire quello che gira intorno al mondo del vino. Soprattutto ciò che serve per sostenere l’azienda, garantire la sopravvivenza. Partendo dalle dimensioni che non possono non prescindere dal territorio e da ciò che si produce. Su questo Mirko ha le idee chiare. Il nostro obiettivo è arrivare a 7 ettari di vigneto rispetto ai 5 attuali. Produrre non cinque etichette perché è difficilissimo ma magari una bollicina e basta. Per ora, con la conoscenza del vino, e in cinque anni non sei nessuno, non so ancora bene cosa fare. Di certo non gradisco i vini passati in cemento. Su dieci vini che assaggio gradisco solo quelli che fanno acciaio. Perché non aggiunge ne toglie nulla. Cemento e legno tolgono territorio. Non è sbagliato farlo ma per una azienda di 6 ettari con 55/60000 bottiglie vorrei qualcosa di territorio. E le idee chiare anche sul tipo di vino. Adesso tutti ricercano i vini naturali. Ma i vini naturali fatti bene quanti sono? Alla fine, il vino è un passaggio temporale tra l’uva e l’aceto. L’uomo con le prove e lo studio ha allungato questo arco temporale. Molti sul mondo del vino raccontano la storiella strappalacrime o la favoletta. Alla fine, qui si combatte con le riba a fine mese, le buste paga dei collaboratori. Vendere il Verdicchio sopra i 10€ non è facile. La fascia media dei prezzi del classico è da 5 ai 7€. Il Superiore dagli 8.50 agli 11€. Non ci si può permettere di giocare. Ti raccontano quanto è bella la vita in campagna ma a Pasqua pensavo di stare a casa invece ero nel vigneto perché aveva grandinato. Quanta verità in queste parole. Le storie inventate per dare un tono alla cantina sono frutto della ricerca di una qualsiasi narrazione con lo scopo di fornire spessore ai vini, blasone alla cantina. Darsi un tono e cercare nel passato la propria ragion d’essere. Vedere e comprendere invece il lavoro, il lavoro vero fatto di fatica e sudore, per necessità, passione o entrambe le cose, è bellissimo. Puoi raccontare la storia più bella del mondo ma poi, alla fine, il vino lo si beve. Se è buono. Se fornisce gioia attraverso sensazioni e convivialità. Ma quando capisci da dove viene, quanto lavoro c’è dietro, quante gocce di sudore oltre che di uva ci sono nella bottiglia, allora, il vino ha più gusto. Mirko e Monia hanno iniziato questa avventura per un mix di necessità e passione. Al quale forse io aggiungerei la voglia di libertà di Mirko. Ma questa la lasciamo a latere. Anche perché poi Mirko, a parte alcune lavorazioni con i mezzi si occupa di amministrazione, vendita e quant’altro di burocratico c’è da fare. In vigna le lavorazioni le fa esclusivamente mia sorella e non vuole che io ci entro. Potatura e legatura insieme a due baby pensionati. Anche la gestione del vigneto evidenzia a pieno la filosofia di Mirko che deve essere anche quella di Monia Per il vigneto, non siamo in biologico ma facciamo la lotta integrata. Non facciamo uso di erbicidi ma di concimazione organico e sovescio. La poesia è bella ma la realtà è altra. Non possiamo permetterci di perdere il 30% del prodotto o portare l’uva non sana in cantina. Utilizzando prodotti giusti al momento giusto, nel vino non riporto nulla. La solforosa è sotto il limite del biologico perché se l’uva è sana non me ne serve tanto. E questo ce lo dicono le analisi. Fino al 2019 i migliori clienti della cantina Capriotti erano gli stessi Capriotti. Pragmatismo puro. Dettato certo dalla necessità di sostenibilità, ambientale, del prodotto, dell’azienda, ma anche dal carattere di Mirko (e Monia). Senza favolette. Senza prese in giro. Con convinzione e razionalità. Unico vero scopo, unica modalità per non fallire è portare l’uva bella e sana in cantina. Perché poi, non si può fare più nulla. Una filosofia meravigliosa che rende i vini semplici ma veri. Due i figli di Monia, uno di Mirko. Il futuro sarà loro se lo vorranno. Di certo adesso occorre portare avanti l’azienda e ad una eventuale cantina, non ci si pensa. Tutte le cantine che funzionano hanno due/tre generazioni all’interno. Tutte le altre o chiudono o fanno una vita grama. Siamo in due e se faccio una cantina devo mettere un operaio: non ce lo possiamo permettere. Per adesso dunque il piano è pensare al turismo del vino che la Statale 76 in qualche modo agevola. Un agriturismo, la vendita al bicchiere, la vendita diretta. L’imperativo è bilanciare i minori margini derivanti dalla distribuzione. Molti hanno fatto la cantina e poi hanno pensato a vendere. Io penso prima a vendere. Mirko è simpaticissimo ed esplosivo. Con il suo intercalare marchigiano, il sorriso sempre pronto, le battute, gli aneddoti. È uno che vive e ha vissuto. Ma è pratico. Senza fronzoli. Essenziale. Sente il peso delle vendite. La responsabilità del suo ruolo per le entrate della cantina. Lo fa con il sorriso e la leggerezza di chi ha confidenza del prodotto che offre. Qui il barista guarda il prezzo ma io gli dico di non fossilizzarsi sui 30 centesimi in più rispetto alla concorrenza. “Vedi quanti ti chiedono il secondo bicchiere” gli dico. Perché chi inizia a provare il mio vino, se ne innamora. Territorio nelle bottiglie e territorio nella distribuzione. Prima vengono le Marche poi il resto. Che comunque c’è. Sono sempre convinto che se non sono padrone a casa mia non posso andare fuori. Andrò all’estero quando sarò ben conosciuto qui in zona. Stiamo coprendo bene le Marche. Facciamo qualcosina a Roma con un distributore e quest’anno mi devo mettere di impegno per trovare altre strade. Partiti da 3000 bottiglie si è arrivati alle 11.000 bottiglie del 2022 puntando alle 16.000 del 2023.  Tutte con due etichette: La Pietra, un Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico e Kàlamos, il superiore. Niente rossi in lista perché come dice Mirko Il territorio non è vocato per il rosso. Non lo voglio fare a meno che il mercato non me lo chieda ma rischio di non farlo con uve mie. Le bollicine se le faccio, le faccio con le mie. Sto assaggiando tante bottiglie per capire in che fascia di prezzo potrò venderle. Occorre capire l’investimento. Quest’anno sicuramente una base la facciamo. Sto assaggiando anche qualcosina in anfora perché se esco col metodo classico esco tra 3 anni. L’anfora ha poca concorrenza. Ho avuto modo di assaggiare entrambe i vini di Mirko e Monia: rappresentano a pieno il territorio, l’azienda, il carattere. Semplici e non ruffiani. Genuini e non edulcorati. La Pietra, Verdicchio Classico, è un vino che offre una ottima pulizia di bocca grazie al retrogusto agrumato. Retrogusto pericoloso per il finale amarognolo che si accentua se lasciato scaldare. Munirsi dunque del secchiello per il ghiaccio nelle calde sere d’estate è d’obbligo anche se, confermando quanto diceva Mirko, il vino lo si finisce subito. Semplice e ottimo proprio per questa semplicità. Paglierino dai riflessi verdognoli con pochi sentori ma invitanti: agrumi, fiori di campo, fieno e un mango che inizia a percepirsi. Secco, caldo, fresco e soprattutto sapido, offre una persistenza buona ma non eccessiva insieme ad una bella chiusura di bocca. Perfetto anche per un aperitivo. Kàlamos, è Superiore già dalla luminosità di quel color paglierino che rende evidente la provenienza dalle vigne più mature. I sentori diventano articolati con il cedro, il pompelmo, l’ananas, la banana, il lieve vegetale, i fiori di girasole, iodio, pietra focaia. Bella freschezza, secco e un calore non particolarmente evidente. Spicca invece ancora la sapidità. Un sorso molto armonico e persistente con ritorno di agrumi dovuto ad un bellissimo bilanciamento. Uno di quei vini per i quale un sorso invoglia l’altro, sia perché è buono sia perché la bocca viene lasciata in uno stato davvero interessante. Abbinamento direi con una pasta con zucchine o un pesce tipo scorfano. Quanto al nome, Kàlamos, sarebbe stato facile imbastire una storia tipo: il nome Kàlamos è un omaggio ai miei genitori che ogni anno ci portavano in barca proprio a Kàlamos, l’isola greca dello Ionio tra la costa e Cefalonia. Li era la base delle nostre estati. Ecco sarebbe stato facile e bello. Ma i genitori di Mirko e Monia non penso avessero le possibilità di farsi una barca. Kàlamos è il calamo, la sottile canna usata per scrivere. Sottile come la strada, via Canneggie, che collega i due vigneti. Canneggiare poi vuol dire misurare. Anticamente lo si faceva con una canna. Da qui il nome, pratico, legato al territorio, senza fronzoli. Niente di più lontano da una favola. Come lo è Mirko. Niente favole dunque per la Società Agricola Capriotti. Niente favole per Mirko e Monia. Solo cose concrete. Solo fatica, voglia, passione. Da questo nascono vini che sanno di tutto ciò. Difficile emergere in un mondo così complesso ma io glielo auguro di cuore.   Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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