Suggestioni di Vino

Suggestioni di Vino è la rubrica che racconta le persone del vino. Della loro storia, dell’amore, della passione che inoculano nel vino. Perché il vino è materia viva e le persone ne sono il nutrimento.

Le incursioni enoiche di Ivan Vellucci, ingegnere e manager per dovere, ma soprattutto Sommelier raccontano con passione e trasporto, territori e produttori d’eccezione.
Ivan ci porta a conoscere realtà prima di tutto umane, dove il sorriso e l’ospitalità dei vignaioli sono lo specchio dei vini che producono. La rubrica Suggestioni di Vino propone ogni settimana  suggestive esplorazioni e scoperte enologiche, narrate con trasporto e partecipazione. Al lettore parrà di accompagnare Ivan in queste visite speciali e sarà stimolato a fare lo stesso: vivere il mondo del vino come un bambino, con lo stupore negli occhi e la magia nel bicchiere.

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7 Dicembre, 2023

Corte Canella: Gloria, figlia di un sogno

Dico sempre che ero figlia di un sogno che non era mio, era del mio papà. Ora tra le mani ho qualcosa di prezioso: un progetto e qualcuno che crede in me!
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5 Dicembre, 2023

Berebene 2024: i migliori vini italiani sotto i 20€

Districarsi nel mondo del vino è davvero difficile. Nel 2022 l’ISTAT stimava in circa 255 mila le aziende vitivinicole attive in Italia. Avete idea di quante etichette di vino ci potrebbero essere? Solo di vitigni ne contiamo 545. Non voglio fare un calcolo combinatorio ma sono davvero tante. Forse troppe. Una vera giungla nella quale trovare un vino che incontri gusti ed esigenze dei consumatori è arduo. Tanto arduo. Per questo le strade sono molteplici.  Si va in enoteca dove si può scegliere autonomamente o supportati dal proprietario. Oggi ci sono anche i supermercati con cantine di tutto rispetto (Esselunga, Conad e Carrefour sopra tutti) spesso anche con sommelier dedicato.  Ci sono poi le fiere del vino. Qualche produttore li definisce dei “bevifici” ma per un consumatore è una occasione meravigliosa per avvicinarsi al mondo del vino e testare anche etichette prestigiose.  Sui social impazzano gli influencer che si proclamano esperti di vino. Io sono uno tra quelli e mi rendo conto che la credibilità spesso viene messa in discussione da logiche commerciali (che non mi appartengono). Infine le guide. Tante e delle più disparate. Essere presenti all’interno di una guida per un produttore è importante sia per riconoscimento al proprio lavoro sia per riconoscibilità verso i consumatori. Quando però la guida è Berebene del Gamberorosso, dove i vini devono rigorosamente costare meno di 20€ allora il connubio tra qualità e convenienza rappresenta il vero punto di incontro tra produttore e consumatore.  Non tutti possono permettersi vini costosi. Non sempre un vino costoso è sinonimo di qualità. Non si deve sempre bere vini importanti.  La guida Berebene 2024 contiene un nutrito numero di vini italiani (921) sotto i 20€ reperibili in enoteca ma anche nei supermercati. La presentazione è avvenuta nella meravigliosa cornice di Palazzo Brancaccio a Roma domenica 26 novembre dove l’incontro con i produttori ha consentito di testare i vini confermando a pieno la bontà delle scelte. Dunque, se è facile stupire con una bottiglia importante e costosa, più difficile è meravigliare con vini particolari e di assoluto valore. La guida aiuta in questo. Se vorrete poi fidarvi di un onesto blogger, seguitemi su Instagram @ivan_1969 dove trovate tutte le storie dei vini che ho testato. Vi aspetto   Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969  
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1 Dicembre, 2023

San Masseo: suonate, qualcuno vi accoglie

Incontro Michele Badino, un monaco che vive con altri 4 fratelli al Monastero di Bose ad Assisi e, tra le altre cose, è un vignaiolo.
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24 Novembre, 2023

Fattoria di Gaglierano: Auà, sint a mè

Ogni dialetto ha una espressione per catturare l’attenzione. Non è un intercalare. Semmai il preludio che si inserisce all’inizio della frase per assicurarsi che ciò che si sta per dire o fare abbia il giusto livello di coinvolgimento.
In Veneto, dove si è molto attenti a non essere prevaricatori si dice “ascolta”. Questo lo so bene perché non faccio che prendere in giro un mio collega, veneto appunto, al quale conto tutte le volte che me lo dice. A Roma c’è il classico e rude “aò”. Diventa rude perché in genere si aggiunge “ ‘a coso”, “maschio”. Oppure per rafforzare “aò, senti’mpò”.
A Napoli c’è il classico “uè”.
In Abruzzo si usa “Auà”. “Auà, sint a mè” è come dire, “ascolta, fa come ti dico io”. Ascoltami insomma. Auà è un modo per affermare la propria presenza nel mondo. Esisto. Sono, dunque voglio affermarmi. Ma voglio farlo da abruzzese. Con le origini della terra. Con il Gran Sasso e le colline che degradano fino al mare. La grande montagna che divide e unisce. Le terre, le pecore, il mare. E il vino. Già il vino. Quello abruzzese vero e genuino. Come sono tutte le cose in questa terra. Basta si rispettino le tradizioni dei propri avi. Che non potevano che essere contadini o pastori. Auà. È l’inizio dei discorsi ed è l’inizio dell’avventura enoica della Fattoria di Gaglierano. La concretizzazione di un sogno identitario che trova la sua rappresentazione in un marchio. Auà non è un vino ma tre. I tre vini che rappresentano l’Abruzzo nelle sue tradizioni: il Montepulciano, il Pecorino, il Cerasuolo. Incontro quasi per caso Claudio ad una fiera. È con sua figlia Sara e Francesco, il commerciale dell’azienda. Non è la solita chiacchierata. La sensazione che ho è di essere in famiglia. Non so spiegarlo compiutamente ma non mi sento distante o poco a mio agio. Claudio mi tratta come uno di famiglia. Come se mi conoscesse da tempo. Quando mi parla dei suoi vini, dei salumi che produce, della sua azienda, è come se, conoscendomi da tempo, mi dice le cose come stanno.
Il ritorno alle origini e la voglia di rappresentare a pieno le tradizioni non è uno slogan qualsiasi. È convinzione piena. Vedi questo Cerasuolo? Io lo faccio in legno. Perché prima in Abruzzo, mica c’erano i serbatoi in acciaio o in cemento. Il vino si metteva a riposare nelle botti. Quelle c’erano. Già, quelle c’erano. Ci potevano essere le damigiane o il coccio. Così come le botti. Farle, mica era un problema per contadini e pastori.
Ecco, Claudio è così. Schietto. Ma anche sognatore. Fattoria Gaglierano nasce dal nulla. Claudio viveva a Pescara con la moglie e i due figli. Era il 2006 quando l’idea di avere una casa in campagna, sulle colline alle spalle di Pescara prese più forma. La casa l’aveva in mente. La vita che voleva era dentro di lui. Un ritorno al passato. A quella vita in un luogo incantato. La casa voleva progettarla e costruirla lui. Anche se era difficile trasferire questo sogno alla famiglia sempre vissuto in città. Difficile e forse traumatico per i figli spostarsi dalla città con il mare ad un tiro di schioppo alla campagna per uscire dalla quale solo gli autobus potevano essere di supporto. Vaglielo a spiegare a dei ragazzi che devono andare a vivere in campagna. I 20 km che separano Città Sant’Angelo da Pescara sono una enormità. Una vetta insormontabile più alta dei 2.912 metri della cima più alta del Gran Sasso (Corno Grande). Città Sant’Angelo, dove sorge la Fattoria Gaglierano, sarà pure un borgo meraviglioso, ricco di storia e classificato da Forbes tra i 10 migliori posti al mondo dove andare a vivere, ma per gli altri. Non certo per una teenager in piena tempesta ormonale. Ma c’è Claudio in questa storia. Che non solo sogna, coinvolge. Coinvolge la moglie Simona e coinvolge i figli. Il suo è un progetto che non vuole solo per lui ma per la famiglia intera. Qualcosa che resista al tempo e riporti indietro nel tempo. Ai suoi ricordi di bambino. Di quando tutto era semplice e non contaminato.
Ecco, proprio la contaminazione credo sia stato e sia l’elemento della vita di Claudio. Tanto da fondare e dirigere con Simona una ditta specializzata in consulenza ambientale. La sua, la loro attività principale. 15 ettari di cui 5 vitati. Claudio fa impiantare le nuove vigne oltre quelle già presenti. Nel 2009, la prima vendemmia. Per diletto più che altro. Io il vino me lo ricordo in una certa maniera e così lo voglio. Così inizia la ricerca di enologi che in linea con la sua filosofia di vini naturali, senza chimica. La ricerca di un prodotto che potesse rispecchiare la realtà contadina dalla quale proveniva. Che gli ricordava quando era bambino. Fattoria Gaglierano è una piccola oasi. Un casale ristrutturato che serve per abitazione della famiglia. La cantina. Gli ulivi, il bosco, le pecore, gli animali. Coltiviamo tutto noi. Qui ci abitano anche i nostri operai. Un ragazzo dal Marocco e una coppia moldava. C’è bisogno di persone cosi perché siamo impegnati h24. Persone fidate. Del vino in bottiglia all’inizio non se ne parlava proprio. Non era una priorità. La campagna, le coltivazioni, il bestiame. L’idillio insomma. Occorre aspettare il 2015 per vedere la prima bottiglia, utile per capire che il vino veniva bene, con un certo criterio. Pochi esperimenti e tanta passione. Che però non basta se ti manca il tempo. Claudio corre in Fattoria quando può. Il suo lavoro, quello che condivide con Simona, lo porta a viaggiare spesso. Tanti impegni e poco tempo per fare le cose. Relegate al fine settimana quando, per riposarsi va sullo scavatore, nella terra, tra le vigne. Vederlo fermo è impossibile. Claudio si affida nel tempo a più persone. Alti e bassi come è normale in questi casi. Se non altro trova continuità nella parte agronomica ed enologica dove ci sono i due Nicola, uno consulente insieme l’altro forte del bagaglio culturale prodotto della scuola enologica in Moldavia. La vigna sembra una vigna dell’URSS. Precisa e pulita. C’è tanta attenzione ai dettagli. È la fortuna di avere persone attente. Magari siamo stati sfortunati in altro ma non sulle persone. Nicola il moldavo ha responsabilità assoluta della cantina. Nicola l’enologo da i suggerimenti. Claudio mette l’ultima parola. È suo il sogno. Sono suoi i ricordi. Ricordi che ora sono qualcosa di concreto, realizzati, fisici. Qualcosa di così bello che non è possibile tenere solo per se. Il panorama qui è mozzafiato. Mi dispiacerebbe se Fattoria diventasse un luogo di passaggio. Mi piace confrontarmi con le persone. Quando vieni qui vieni a casa. Entri dentro casa nostra. Le persone stanno cosi bene che non se ne vogliono andare. Casa. Casa di tutti. L’accoglienza è qualcosa che devi avere dentro e ce l’hai se intorno a te c’è la pace e la felicità. In questo angolo di Abruzzo sconosciuto anche ai locali. Quando vieni qui non sembra di stare in Abruzzo. È talmente sconosciuto. È talmente difficile da arrivarci. È talmente nascosto che siamo un pò un angolo segreto e incontaminato. Ci fa gioco certo ma dobbiamo investire per comunicarlo. Già. Perché sarà pure vero che vivi in simbiosi con l’angolo di paradiso, ma se quella è la tua vita, quella che hai scelto, hai bisogno di sostentamento. Che solo attraverso quanto produci puoi avere. Produrre e produrre bene, nel rispetto della natura e delle tradizioni non basta. Non è sufficiente. Serve farlo sapere. Altrimenti sei nel limbo e rimani, da solo, nel tuo angolo di paradiso. Ci sono ancora tante cose da fare. Nella sala degustazioni ci mangiamo gli arrosticini noi e quando arrivano gli ospiti, anche loro. Facciamo gli “aperitivi nella vigna eroica” perché siamo con vigne in pendenze del 30%. Claudio è appassionato di cucina e quando arrivano gli ospiti si mette alla brace. Con semplicità. Senza fronzoli. Per gestire una azienda serve anche altro. Continuità certo ma anche notorietà. Farla conoscere. Come se l’identità, abbia bisogno di affermarsi. Auà. La voglia di gridarlo al mondo così che il mondo l’ascolti. Troppo intenso è l’amore per questa terra da volerlo condividere. Non è possibile che sia per pochi. Il paradiso va condiviso. Accanto ai tre Auà allora ci sono i pensieri, i progetti per diffondere la conoscenza di questo paradiso.
Le 15.000 bottiglie di Auà Pecorino, Cerasuolo e Montepulciano non bastano. Commercialmente non ha senso produrne di più così che il resto dell’uva viene trasformata in vino e venduta nelle bag in box. L’idea però è quella di trasformare le box in bottiglia così da commercializzarle magari all’estero. Di questo si discute in famiglia. Capirne i costi. Capirne l’opportunità. L’entusiasmo che si scontra con la tradizione e il non fare mai il passo più lungo della gamba.
Ma c’è anche dell’altro. Abbiamo piantato 0.6 ettari di Pecorino per fare metodo classico. Ma ci vorranno almeno 4 anni. Le riserve di Montepulciano arriveranno. Dalla vigna “Terre dei Vestini” che è l’associazione con la quale facciamo gruppo per arrivare alla DOCG Montepulciano. I tre Auà che ho assaggiato sono delle vere “chicche”. La genuinità c’è e traspare. Non ho mai assaggiato un Cerasuolo migliore di questo tanto che la prima espressione che mi è venuta in mente è stata l’abruzzese “frechete”! (Per chi non lo sapesse è una espressione di stupore che in altre regioni assume forme diverse).
Sul mio blog Instagram la recensione completa.
Pecorino e Montepulciano sono identitari sul serio. La passione è fisicamente dentro i vini. Ogni cosa che ho ricevuto in dono durante la chiacchierata, le tradizioni, la storia, la natura, l’Abruzzo, è qui dentro. Auà, sint a mè, Quànde t’ à’ da ‘mbrijacà’, ‘mbrijàchete de vine bbòne. Ecco, senza ubriacarsi ma bevendo responsabilmente, quando vi verrà in mente di bere vino buono, quello della Fattoria di Gaglierano farà al caso vostro. Con la speranza, con questo articolo di avervi dato l’opportunità di sentire nel calice quanto anche io ho sentito. Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969 PS La recensione di Auà Cerasuolo la trovate sul mio blog qui.
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17 Novembre, 2023

Solis Terrae: Massimo, un sogno oltre i numeri

Il commercialista è un pò come il dentista: ci vai quando ne hai bisogno ma, certamente, non ci vai con piacere. Numeri, calcoli, tasse. Poco altro. Ricordo solo un film nel quale si parla di commercialisti, “Anche i commercialisti hanno un’anima”. Renato Pozzetto, Enrico Montesano Sabrina Ferilli, Maurizio Di Battista per citare qualche attore. Peccato che di commercialisti, anche nel film, nemmeno l’ombra. Come se fosse una professione di poco appeal. Anche per il cinema.
Eppure il titolo era azzeccato poiché, alzi la mano chi pensa che i commercialisti, l’anima l’abbiano davvero. Dinanzi a numeri e tasse (da far pagare) non ci può essere alcuna anima. Ne tantomeno empatia o animo gentile. Puoi però trovarti di fronte una persona come Massimo Caucci, commercialista di professione, con l’aplomb del commercialista, con il linguaggio del commercialista, con lo studio da commercialista. Ma con un amore viscerale per la terra e la vigna. Le cose non nascono per caso. O forse è il caso che le genera.
Se abiti a Roma e hai un papà che per puro investimento acquista tanti ma tanti anni fa 20 ettari di terreno tra l’aeroporto di Fiumicino ed il mare, hai tutto il diritto di fregartene. Roma è una città particolare, dove si vive il quartiere e dove se sei di buona famiglia, non ti resta che vivere nei quartieri giusti tipo Roma nord frequentando solo le persone che i tuoi genitori ritengono giuste. Papà è mancato anni fa e da li è stato un susseguirsi di fatti. Ha creato la partenza però poi non ha inciso. Massimo è un commercialista con l’animo diverso. Non so come fosse da giovane, ma non me lo immagino a far la vita da pariolino che va al Gilda o al Piper (per chi non lo sapesse due delle discoteche più in voga a Roma anni fa). Una decina di anni fa, su quel terreno acquistato dal padre nel punto più a nord del comune di Fiumicino, vicino a Cerveteri e fino ad allora coltivato con colture estensive, decide che qualcosa doveva cambiare. Rimboccandosi le maniche, scendendo dalla sedie per salire sul trattore. Insolito, raro, impensabile per uno della Roma bene. Ma è così che nasce Solis Terrae. Volevo fare qualcosa di diverso per una migliore riconoscibilità. Così, nel 2012/2013 ho impiantato 5 ettari di vigneto che mi hanno cambiato la vita. Sia per gli impegni nel campo che fuori. La volontà di una coltivazione diversa. Andando oltre i seminativi. Che potesse durare nel tempo. Come a voler lasciare qualcosa di tangibile. Oltre l’essere commercialista (che se vogliamo produce qualcosa che si tende invece a voler dimenticare). La vite che ogni anno si rigenera, poi muore, poi ridà i frutti, è qualcosa di affascinante. Massimo, il commercialista serio e pacato che dal 1998 gestisce il proprio ben avviato studio, pur non sapendo nulla di terra, enologia, viticoltura, decide che era arrivato il momento di fare, anche qualcos’altro. Il vignaiolo. Una passione che arriva dal terreno comprato dal papà nel 1982 per investimento. Poi abbiamo costruito la casa e la cantina. Adesso, tutti i fine settimana si va in cantina. Stavolta me lo immagino davvero Massimo che tra una dichiarazione IVA ed un bilancio da redigere pensa solo a quando potrà finalmente guidare il trattore o a fare le potature.
Un sognatore certamente ma con tanta testa.
Da un lato il commercialista che fa i conti per rendere la sua attività sostenibile. Dall’altro il vignaiolo che pensa come la sua agricoltura debba essere sostenibile e senza uso di chimica adottando il protocollo biologico pur senza essere certificato. Ci tengo che venga fatto nel modo più sostenibile possibile. Il concime naturale mi viene da amici che hanno gli allevamenti attorno alle terre. Facciamo un pò di baratto: concime naturale per il vino. Ho un dipendente ma in vigna ci sono anche io. Ho un enologo, non di grido, ma che la pensa come me: agricoltura sostenibile e vini non ruffiani. Come piacciono a noi. Ma ce lo vedete Massimo che baratta letame per vino? La scena è davvero esilarante a tal punto che quando me la racconta gli scappa da ridere facendo emergere un lato del suo carattere sempre un pò sopito. Anche i commercialisti ridono insomma. Mi sa che prima o poi dobbiamo fare una serata insieme con un elevato tasso alcolico. Se ne vedrebbero delle belle.   In ogni modo, tornando a noi, impatto di solfiti molto basso. Lieviti naturali. Lavorazioni basiche e di poco impatto. Sempre tenendo conto che il tempo dedicato alla vigna non può essere totale. Anche se certamente abbastanza rilevante. Corro dall’azienda a Roma come un pazzo. Tre quattro giorni a settimana completamente. Ah Massimo Massimo. Sono certo che se potesse dedicarsi totalmente alla vigna, non ci penserebbe due volte. Ma poi, l’anima del commercialista, l’indole che lo porta a fare conti, bilanci e business plan, non prevale, ma si fa avanti e gli dice che non è possibile. Non lo è ancora. Economicamente non risulta possibile. Si siamo a breakeven, ma a fatica. Guadagno zero. Non si riesce ad avere una linea commerciale valida. Fatica ancora a prendere forma. Le bottiglie vendute non sono ancora in numero soddisfacente per avere una redditività. Ventimila le bottiglie prodotte e vendute su una potenzialità di cinquantamila. Ma non è possibile commercialmente. Così l’uva in eccesso, la vendo. Marco Sargentini mi sta aiutando per la promozione. Ai 5 ettari vitati si affiancano i 15 seminativi con colture che si susseguono in base alla stagione. Broccoletti, grano, girasole. Dai quali si ricava quel che si può. L’investimento della cantina con attrezzature e macchinari non c’è ancora. La vinificazione è conto terzi perché non ci sono ancora i volumi. Siamo a Roma e la DOC creata nel 2011 è un valore. Un modo per dare un nome universale e senza tempo a vini che altrimenti sarebbero ingiustamente relegati a vinelli da osteria. Roma e i suoi vini paga lo scotto di anni di pellegrinaggio, di pasti a basso costo e di vini annacquati. Invece c’è tanto da scoprire intorno alla Città Eterna. Tanti imprenditori seri, vitigni pazzeschi, terreni che vanno dal vulcanico al sabbioso. Tanto tanto tanto! Cinque le etichette Solis Terrae due delle quali nella Roma DOC: Bianco Bellone e Rosso Montepulciano/Syrah. A questi si aggiungono tre IGP: Biancovero (blend di Vermentino e Viognier), Syrah in purezza, Goccia Ambrata (Vermentino con vendemmia tardiva).
Massimo li ama tutti. Uno per uno. Come se fossero cinque suoi figli. Senza preferenze. Senza propendere per l’uno o per l’altro. I vitigni sono stati scelti con l’agronomo in base a quelli che erano vini che a me piacevano. Poi si è scontrato con il territorio. A me intrigava il Cesanese ma l’agronomo me lo sconsigliò per la vicinanza del mare. C’è stato un compromesso. Sulla realizzazione dei vini è una sintonia con l’enologo per andare a centrare la mia richiesta. Così, scegliamo insieme. Ciò che richiedo è un impatto di solforosa il più basso possibile tanto che sono sotto il bio. Poi detto secondo i miei gusti. Scegliere i vitigni della Roma DOC diventa quasi obbligatorio in queste zone. Supportare gli investimenti con un nome altisonante è una opportunità che solo i folli non colgono. Massimo non è un folle ma un commercialista. Di quelli che i conti li fanno e se li fanno. Nel futuro della vigna non ci sono sviluppi diversi da questi. Si vuole rafforzare. Migliorare ma non cambiare è l’obiettivo. Ho avuto modo di recensire il Bellone Solis Terrae sul mio canale Instagram e l’ho trovato un ottimo prodotto. Costo contenuto e alto valore. Non un vino piacione ma qualcosa che si adatta bene dalla patatina dell’aperitivo, ad un primo di pesce, ad una grigliata mista (di pesce). Ben fatto davvero! Il futuro di questa azienda sarà nel solco di quanto fino ad oggi è stato creato. Continuità verso una maggiore sostenibilità. Massimo sa bene che se vuole qualcosa che duri nel tempo e sopravviva anche a lui, ha bisogno di questo. Sostenibilità. Non è qualcosa da commercialista ma da chi ha testa e non solo cuore. Il lavoro del vignaiolo è certamente cuore, tanto cuore. Ma senza testa, senza attenzione ai numeri, si fa presto a non sopravvivere in un mondo sempre più complesso.
Non bastano però i numeri. Serve molto altro e Massimo lo sa. Lo ha intuito da tempo. La sostenibilità ambientale, il rispetto dei cicli naturali, l’assenza di chimica, non sono solo slogan ma cardini per rendere la sua terra prospera e duratura. Sostenibilità legata all’aspetto commerciale, al marketing, alle nuove etichette, al sito internet. Tutto è utile, anzi necessario, per rendere il sogno, il progetto, qualcosa di duraturo. L’attività di commercialista mi fa rendere conto del passo che giornalmente posso e devo effettuare. Le conoscenze economiche mi permettono di capire bene circa gli investimenti. Se farlo ad esempio. Mai il passo più lungo della gamba. È una forma mentis proiettata sulla quadratura dei conti. Questa la parte razionale di Massimo. Il suo essere “quadrato” e centrato sulla realtà. Il suo sorriso appena accennato è li, dietro lo schermo forse creato per la sua professione. Schermo che cade miseramente in vigna dove può essere solo ed esclusivamente Massimo. La persona, l’uomo che si meraviglia al semplice osservare il ciclo della vite.   Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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15 Novembre, 2023

Tenuta Ponziani. Cieca è la passione, folle la vita

“L’essenziale è invisibile agli occhi”. Ma è anche vero che se gli occhi non vedono, è difficile cogliere qualunque sfumatura di colore.
È un difetto?
Quando vediamo qualcosa, i nostri occhi ne traggono giovamento. Il bello ad esempio. Vedendo qualcosa di bello come un panorama, il nostro cuore inizia a battere. L’entusiasmo ci pervade travolti dall’emozione di aver visto una cosa così bella.
Vedendo un tramonto al mare con al fianco la persona che si ama, veniamo rapiti da quel meraviglioso momento. I colori, le venature del cielo che si incastonano nell’azzurro che diventa di un blu sempre più scuro e intenso. Ciò che vediamo è così intenso che può capitare di dimenticarsi di quanto ci è intorno. Persona amata compresa (così che non è insolito beccarsi il rimbrotto “a cosa stai pensando?” “mi sembri distante”).
Gli occhi rapiscono il nostro cuore poiché hanno una potenza immensa e al tempo stesso rapiscono tutto noi stessi. Divorano ogni cosa che tenta di emergere. Come gli altri sensi.
L’udito, l’olfatto, il tatto, il gusto. Tutti vengono sopraffatti da ciò che i nostri occhi vedono. Siamo in trans, rapiti da ciò che vediamo. Troppo impegnati per curarci del resto.
Le persone che non posseggono la vista devono invece curare gli altri sensi così da svilupparli maggiormente tanto che, completando la frase di De Saint-Exupery: “..non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”. Sono stato invitato a vivere una Passione Cieca presso la Tenuta Ponziani, ad Orvieto, degustazione di quattro vini completamente bendato. Una esperienza che è stata utile per guardare qualcosa non solo con gli occhi. Siamo a circa 500 metri sul livello del mare. La Tenuta Ponziani è stata completamente ristrutturata dalla follia di una donna, Rossana Ponziani, che ha fortemente voluto questo luogo non già come vezzo quanto invece per tornare indietro nel tempo e riabbracciare la sua memoria. La terra. Gli odori dei nonni. Il sapore dei piatti cucinati e della frutta raccolta dagli alberi.
Le nostre origini sono nella terra e la nostra memoria, per chi ha la fortuna di aver vissuto una infanzia non contaminata, non può che avere, anche se in angoli nascosti, ricordo di quelle sensazioni. Spesso si dimentica tutto. Per tanti motivi, nessuno dei quali valido. Ogni giorno ci lasciamo andare sempre più lontani per poi, ogni tanto, ricordarci da dove veniamo. Basta magari un odore, una parola udita, una inflessione, un gesto, un colore. Basta davvero poco perché qualcosa riaffiori.
Non per ritrovare ma per far riemergere e tenere vive le emozioni di un tempo e proprie di un territorio pazzesco e meraviglioso. Restituire genuinità e dignità ai prodotti della terra e farli vivere a chi è in grado di aprire il proprio scrigno dei ricordi. Così Rossana ha iniziato questa avventura. I nostri vini sono fatti in vigna. Insistono su un territorio fortunato che ha delle peculiarità che li rendono gradevoli. Per noi che facciamo questi sforzi è una strada verso il miglioramento. Ho impiantato un frutteto perché i succhi di frutta non mi piacciono. Meglio i frullati. Animali di piccola taglia. Coltivazioni. Insomma, tutto vuole raccontare il territorio pazzesco e meraviglioso. È un cammino da far percorrere insieme a chi vuole tornare a vivere emozioni come la bellezza, memoria, amore. Temi che sembrano oggi banali perché il bello si ricerca attraverso il finto; la memoria la dimentichiamo; l’amore è qualcosa di lontano dal concetto vero di amore. Una avventura che Rossana gestisce avvalendosi di fidati collaboratori come Andrea, l’agronomo e Roberto, l’enologo. Oltre che una ulteriore schiera di persone che tengono la tenuta come fosse un giardino. Ecco, un giardino. L’impressione che si ha entrando nella tenuta dal piccolo cancello, è proprio quella di entrare in una casa attraverso il giardino. Non c’è sfarzosità o ricerca di un bello estetico. Si cerca e si trova una bellezza fatta di ordine, pulizia, minimalismo. Qualcosa della quale ce ne si innamora subito senza saperne il perché. O meglio, solo concentrandosi a capirne le motivazioni, ovvero dopo, si ha la consapevolezza.
La nostra mente dunque la memoria difficilmente trova dentro di se situazioni analoghe. Il giardino non sfarzoso, i saloni di ingresso eleganti e sobri, una piscina a sfioro non invadente, le piante medicinali che non impediscono la vista della meravigliosa valle, le vigne pulite che dolcemente accarezzano la cresta della collina. Ecco, l’atmosfera che tutto ciò crea non trova paragoni nella nostra memoria così che l’amore sboccia in maniera istintiva. Passeggiando per questi luoghi si ha la sensazione di casa. Una casa della quale tutti hanno rispetto.
Andrea parla della terra e delle coltivazioni con un sorriso di serenità che lascia trasparire l’amore per ogni zolla, per ogni pianta, per ogni animale che c’è nella tenuta. Rispettare il ciclo della vita riesce anche facile in un territorio come questo che un tempo fu mare. Come gran parte dell’Umbria (tanto che a scavare ancora si trovano fossili marini). Un terreno accarezzato dai venti che sa di minerale, venanzite, dovuta ai vulcani che si sono opposti al mare.
Non serve la chimica qui perché la natura è gentile. E pure se fosse necessaria, ci pensa Rossana a vietarla (con Andrea e Roberto più che d’accordo). La certificazione biologica è una convenzione che, al pari di quelle relative ai vini, non fa parte della filosofia aziendale. Qui quello che conta è la sostanza e la genuinità di qualunque cosa. Niente chimica ma non per convenzione insomma.
Il vigneto, vecchio di 17 anni, si estende per circa tre ettari con Grechetto, Chardonnay, Merlot, Cabernet Sauvignon utili per dar vita ai 4 vini della Tenuta: Velia (blend di Grechetto e Chardonnay con affinamento in acciaio), Veitha (Chardonnay in purezza con passaggio in legno di parte della massa), Fasti (blend di Merlot e Cabernet Sauvignon con affinamento in acciaio), Northia (Merlot in purezza con affinamento in tonneau). Ecco, proprio questi quattro vini sono stati oggetto della Passione Cieca. Quattro vini, stessa filosofia di coltivazione delle viti stessa passione e amore nel trattamento. Un vino deve essere prima apprezzato per le sue colorazioni e sfumature. Poi annusato, odorato, inalato perché tutti i sentori che custodisce possano sprigionarsi e suscitare emozioni. Infine portato in bocca per assaporarne l’essenza, gustato il sapore, valutato il bilanciamento e la persistenza, apprezzata la continuità olfattiva ma, soprattuto, continuare il viaggio emozionale. Nel trovarsi dinanzi ad un calice di bianco, la nostra mente si predispone a certi odori e sapori. Il nostro sistema di catalogazione riesce, in tempi estremamente brevi, a fornire le indicazioni di quanto ci attenderà. Anticipa qualcosa. E se questo “anticipo” ci facesse perdere qualcosa? Una semplice benda mette tutto in discussione. Non sappiamo cosa abbiamo dinanzi. Non siamo in grado di capire cosa stiamo per assaggiare. Dobbiamo fare a meno di un senso per concentrarci sugli altri. Sarà compito del naso indirizzarci verso un colore, una classificazione. Senza pregiudizi. Senza avvertimenti. Come un bambino che vede per la prima volta qualcosa.
I calici sono sul tavolo e vengono riempiti quando siamo già bendati. Percepisco gli effluvi che già mi svelano il colore. Il naso fa la sua parte. Il suono prodotto dal versamento del vino nel calice mi fornisce una ulteriore indicazione. L’orecchio fa la sua parte. Non ho altro a cui appigliarmi. Rimango in attesa delle indicazioni. Il primo vino che assaggiamo è il Velia, blend di Grechetto e Chardonnay. 
Le note sono fresche e pungenti. La salvia appare forte ma ciò che mi da più gioia è la mineralità che arriva impetuosa per poi lasciare spazio alla bianca frutta fresca.
Verticalità e mineralità in bocca con grande freschezza. Diretto Poi il Veitha, Chardonnay in purezza con parte della massa in tonneau per pochi giorni.
Il naso percepisce un colore ambrato. Si riempie di miele e fiori di camomilla oltre all’immancabile mineralità. .
Il sorso è pieno, ampio e rotondo. Ma non come il naso si sarebbe aspettato. Ottimo bilanciamento e persistenza che si affievolisce. Raffinato. Quindi Fasti, blend di Merlot e Cabernet forte di solo acciaio.
Le note di frutta rossa croccante, sono evidenti. Mineralità spinta e petali di rosa. Avvertibile anche la nota vegetale.
In bocca la freschezza c’è tutta. Il tannino presente ma non invadente. La mineralità costante. Vivo e interessante. Infine Northia, Merlot in purezza con leggera surmaturazione e passaggio in tonneau per 12 mesi.
Un grande vino con un ampio bouquet che parte con lampone e frutta quasi sotto spirito. Fiori in potpurri, nota vegetale, mineralità, ematico, ferro, spezie dolci, erbe aromatiche.
In bocca è potente e impetuoso nonostante i suoi anni (ci svelano essere un 2018). Secco e fresco con tannini maturi e non ancora addomesticati. Rotondo ma poi spigoloso. Impetuoso. Le note di una musica soave accompagnano la degustazione guidata da un sommelier che invoglia gli ospiti nel cercare dentro di se le sensazioni. 
Ho fatto decine di degustazioni con colleghi sommelier anche più esperti di me e la condivisione delle proprie emozioni e sensazioni è quanto di più bello possa esserci. Far vivere agli altri ciò che si vive e si è vissuto è un modo di aprirsi, di condividere, di suscitare emozioni similari.
Non mi vedevo, non vedevo gli altri ospiti, non sapevo delle loro espressioni. Sentivo la loro voce anche se il mio mondo era il calice, gli effluvi, il sapore, le emozioni.
Devo essere sincero, bendati, ogni differente sensazione ha acquisito un valore ed un peso diverso. Maggiore. Si, maggiore. Cosa dire dei vini della Tenuta Ponziani. Anzitutto il filo conduttore. Spesso i vini di una azienda sono sconnessi l’un l’altro. Come se non ci fosse una impronta. Quel qualcosa che rappresenta il territorio o il “creatore”. La presenza costante. In questo caso invece, c’è qualcosa che esalta ed identifica la provenienza dallo stesso vigneto. Anzi, lo sesso giardino. La matrice vulcanica e la venanzite è ciò che cammina da un vino all’altro apparendo al naso come mineralità quasi di torba e in bocca con spiccata sapidità.
Arriva marcata nel Velia, si affievolisce nel Veitha, ritorna nel Fasti, si affievolisce nel Northia. Un saliscendi che al naso segue un percorso leggermente diverso ma comunque sempre altalenante. La sequenza di degustazione ha esaltato odori e sapori dei vini in un sapiente crescendo di struttura e complessità.
Ho apprezzato il Velia per la sua verticalità e la forte presenza olfattiva della salvia. Ho scoperto il Veitha per gli aromi di torba sprigionati. Ho stimato il Fasti per la schiettezza. Ho amato infine il Northia per la sua grande complessità ed eleganza. Tenuta Ponziani, un giardino in un territorio fuori dal comune.
Rossana Ponziani, una donna di classe lucidamente folle. La passione è tutta qui. Che sia cieca o meno, poco importa. Ciò che importa è solo la follia. Che è vita Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969  
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10 Novembre, 2023

Tenuta Planisium. Innovazione, imprenditorialità, investimento

  Quante volte ci lasciamo sopraffare dai luoghi comuni. Pregiudizi, consuetudini, stereotipi. Spesso sono così forti che ci troviamo, come in un romanzo giallo, ad essere convinti già dalle prime battute, di chi sia l’assassino. Per poi essere puntualmente smentiti. Nonostante ciò, i pregiudizi sono difficili a morire. C’è addirittura la teoria del pregiudizio di conferma che identifica proprio la tendenza a cercare ciò che convalida quanto sappiamo (o presumiamo di sapere) rispetto al cercare prove che confutino le nostre verità. Ricordo di essere stato affascinato da una scena del film Wolrld War Z nel quale il capo del Mossad, Jurgen Warmbrunn (Ludi Boeken) spiega a Gerry Lane (Brad Pitt) il metodo del decimo uomo.  Se nove di noi sono convinti che un pericolo non si manifesterà, il decimo deve trovare tutti i motivi per i quali invece quel pericolo è reale e imminente Si ma che diavolo c’entra questo con una cantina e il vino? Eh c’entra c’entra. Perché se chiedessi a qualcuno come se la immagina una cantina nel sud, hai voglia a parlare di pregiudizi. Magari si potesse sempre applicare la regola del decimo uomo! Volturino, provincia di Foggia. Poco più di 1500 abitanti a ridosso del tavoliere delle Puglie.  Fermatevi qui e pensate alla prima parola che vi viene in mente in tema di vino. Non so cosa abbiate pensato ma so certamente cosa non avete pensato: innovazione, imprenditorialità, investimento. Quello che ho trovato io qui, alla Tenuta Planisium è invece proprio innovazione, imprenditorialità, investimento.  Ogni cosa, ha sempre, radici nel passato più o meno remoto. Ciò che conta è l’idea. Insieme alla voglia e alla capacità non solo di creare ma, soprattutto, di strutturare. E una volta realizzato, ripartire. Con mia moglie volevamo mettere un pezzettino di vigna vicino casa per farci una cosa artigianale. Poi abbiamo pensato, rinnoviamo i vigneti vecchi con quelli nuovi, mettiamoci con un enologo bravo e facciamo qualcosa di diverso. Antonio Valentino è imprenditore. Costruisce strade, infrastrutture. Ha una azienda florida. Di quelle che devono operare in un territorio difficile. Costernato di problemi. Eppure viene contagiato dalla magia del vino. Io vengo dal settore delle infrastrutture. Faccio strade, autostrade. Era anche per diversificare in quanto ho due figlie femmine e il lavoro che faccio, a me piace, ma non lo vedo adatto per loro. Se posso indirizzarle altrove, ad esempio nel mondo più nobile del vino, mi piacerebbe. Cuore di papà. Sa che il suo è un mestiere di quelli per il quale serve non solo capacità ma anche, soprattutto direi, tanta fegato. Che non sia adatto per le donne, per le sue bimbe, forse è un pregiudizio. Ma anche un modo per proteggerle. Per dare loro un futuro più “nobile”. La terra è quella dei genitori. Tutto nasce dalla terra e qui, in Puglia, la terra vuol dire qualcosa. Non solo radicamento nel territorio ma anche esistenza. Essenza. Il papà di Antonio produceva il vino, Nero di Troia e Susumaniello e forse, come tutti i papà di un tempo, di quelli che avevano la terra, non voleva per il suo di figlio, una vita nei campi. La cultura del vino arriva da mio papà. Sono sempre in giro e a tavola si parla sempre di vino. Mi sono innamorato dell’Amarone. L’Amarone! Un sogno per il sud. Proprio questo evidenza la visione di Antonio. Rappresenta non il punto di partenza ne una ambizione spropositata. Rappresenta la capacità di guardare avanti e progettare un futuro senza subirlo. Un futuro per realizzare il quale occorre partire con il piede giusto, investire, innovare. Essere imprenditori insomma.  Così è partita l’idea con mia sorella. Siamo in tre. L’azienda è intestata alle moglie di mio fratello e mia e mio nipote (figlio di mia sorella). Tutto a gestione familiare  Partire bene progettando ogni cosa. È così che Antonio inizia cercando qualcuno che di vini ne capisca veramente. Chiama Alessandro Leoni, un enologo che di esperienza ne ha parecchia e il professor Marco Esti, docente dell’Università della Tuscia.  Prima di impiantare i nuovi vigneti ho chiamato loro dicendo che avevo in mente di fare questo progetto. Il professore mi disse che gli piaceva il progetto e che ero solo in zona (la prima cantina è a 40 km). Gli dissi che volevo mettere il Primitivo qui in un territorio molto diverso da Manduria. Poi Negroamaro, Nero di Troia e Fiano. Il Fiano perché è sempre stato una vitigno che c’era qui. Siamo a ridosso della Campania e del Molise. A 10 km c’è San Bartolomeo in Cagno, primo paese della Campania e a 30 Tufaro che è il primo paese del Molise. Tutto inizia nel 2015 con la prima vendemmia nel 2020 dopo le pratiche burocratiche e il tempo necessario per permettere alle barbatelle di crescere. Le vecchie vigne di famiglia vengono infatti  espiantate.  Quelle di mio papà sono state estirpate perché vecchie e non andavano bene per quello che volevo fare io. Abbiamo iniziato nel 2015. La prima vendemmia è stata nel 2020 con le pratiche burocratiche e il regime delle piante. Oltre che del percorso bio. Le uve le vendevamo in attesa di partire. Antonio cerca distinzione. Sa che se sei in Puglia, in un luogo dove per pregiudizio il vino è quello da taglio e la qualità non sempre eccelsa, distinguersi è una necessità. Il biologico è un modo. Ma non il solo. La certificazione bio è importante perché volevo vedere come erano le uve. Capire il prodotto. Il vantaggio del biologico è prima il mio che ci tengo alla cura e alla qualità. Per bere e mangiare in maniera sana. La carta non mi serve. Mi serve la qualità. Un modo di pensare. Un modo di essere. La qualità non si apprende sui libri di scuola. Certo, te la insegnano, ma poi la devi realizzare. Con forza e sacrificio. Io vengo dal mondo delle infrastrutture. Enologi e agronomi della zona si sono imparati a fare le cose in un solo modo. Quello è. Da fuori cercano di inserirti in altri contesti. A me è sempre piaciuto partire in un certo modo così che i risultati si vedono subito. Il professore insegna enologia e l’enologo è importante. È vero che c’è stato un costo elevato all’inizio ma i feedback che stiamo ricevendo sono tutti positivi. Come primo anno di uscita avere queste soddisfazioni non è male. Se parti male sei finito. Se parti che è buono… Mio nonno diceva “è meglio una festa grande che cento festicciole”. Come a dire che occorre fare le cose bene, magari una volta sola, ma bene. Ritrovo questo nelle parole di Antonio. Non è necessità di non sbagliare. Semmai è voglia di non deludere prima se stesso, poi gli altri. Perché se vuoi che vada bene un progetto, occorre investire. Con grano salis. Antonio trasla l’esperienza maturata in un settore diverso e lontano anni luce della vigna. Per fare bene le cose occorre non buttare nulla di quello che si è imparato.  Siamo partiti anche con i macchinari di un certo tipo. Se vuoi partire in un certo modo devi seguire gli enologi. Non è fanatismo ma per proiettarci verso livelli alti. Ero partito con un budget minore che abbiamo sforato. Ma per come reagisce il mercato posso dire che abbiamo fatto un ottimo investimento. 12 ettari attuali con i vigneti a 735metri sul livello del mare per i bianchi e a 450 i rossi. Vigne nuove, enologo ed agronomo di esperienza, macchinari di ultima generazione. Mancava solo la cantina e pure quella si costruisce da zero. In maniera ecologica e biosostenibile. Mica si scherza! Facciamolo come si deve! Ecco, questo il motto di Antonio. Che sì, ama questa terra. Ama la cantina. Ama i suoi vini. Ma ancor di più ama la sua famiglia. Così che in azienda lavora la moglie, la cognata e la sorella. In attesa che le figlie diventino più grande. Gestendo il tutto con intelligenza e rimanendo alla giusta distanza dalle scelte. Io sono sempre della opinione che nella casa comanda la moglie ma nella cantina comanda l’enologo. Mi sono affidato perché è giusto cosi.  Antonio è una persona mite. Di quelle che quando parlano, per la pacatezza con la quale si pone, capisci che hai dinanzi una persona che non ha bisogno di niente altro che la sua intelligenza e capacità. Non ha bisogno di dimostrare nulla. Sono i fatti che devono parlare. Rese sotto i 60 quintali per ettaro per realizzare 6 etichette (al momento). Due Fiano, Serritella, con affinamento in acciaio; Notamento in acciaio e barrique. Abbiamo impiantato dei filari di Sauvignon e di Pinot bianco per il Fiano barricato. Tre rossi: Primitivo, Montorso, con 4 mesi di barrique; Nero di Troia, Humara (6 mesi di barrique); Negramaro, Capotorre, per 8 mesi in barrique. Un rosato, Briele, da Nero di Troia (la recensione di questo sul mio blog Instagram). Ci ho tenuto molto anche sulle grafiche. Ho affidato a Simonetta Doni di Firenze quelle per i due vini in prossima uscita e Spazio DiPaolo di Pescara le altre. Per me è un mondo nuovo dove c’è molto marketing. La grafica è importante. Altro tassello proprio di una persona intelligente e imprenditore serio. La capacità di comprendere come il vino, la qualità, il territorio, non sia tutto. Serve la comunicazione, il marketing e gli investimenti a questo legati. Antonio si è affidato ai mostri sacri italiani in questo settore. Le etichette, quello che può sembrare banale ai più, diventa elemento di trasmissione del suo sogno. Vorremmo arrivare a 80 mila bottiglie perché voglio un prodotto di nicchia. Il mio obiettivo è arrivare all’Amarone. Quando vado in giro assaggio e capisco quanto siamo lontani. La visione. Questo deve avere un imprenditore. Non fermarsi a ciò che si ha ma inseguire, perseguire, un sogno. Con costanza, impegno e tanta progettualità. All’enologo ho detto che voglio arrivare ad un livello alto. Anche se so che l’Amarone è inimitabile. Mi accontenterei però del livello. Consapevolezza. Antonio non è un visionario. È una persona la cui esperienza lo porta ad essere con i piedi ben piantati nella terra nella quale è nato e vive. Non serve sognare. La Puglia non è il Veneto e il foggiano non è la Valpolicella. La qualità però, l’attenzione ai particolari, le scelte, il progetto. Tutto questo non possono che portare Tenuta Planisium dove Antonio sa che può arrivare.  L’enologo ci ha fatto fare un vino che avremo a dicembre con surmaturazione delle uve….vediamo come esce. Ma dobbiamo affinare le vendite e non lo vogliamo fare con i distributori. 80 mila bottiglie e un vino come l’Amarone sono i miei obiettivi. Da li ripartire. Ripartire. Non fermarsi. Non pensare mai di essere arrivati. Ma ripartire per continuare. Per rimanere sul mercato. Per affermarsi. Senza spocchia. Senza crearsi false aspirazioni. Innovazione, imprenditorialità, investimento. Non è un sogno. Piano piano, sarà realtà. Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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8 Novembre, 2023

Marco Quintili: oltre la pizza c'è di più

  Quanto nella vita conti la fortuna e quanto il proprio talento non è dato sapere. Certo è che se anche si ha talento, occorre avere la fortuna di scoprirlo. Di capire che lo si ha. Altrimenti, sarà un vero spreco e la vita trascorsa non avrà avuto il compimento che si doveva. Quando mio figlio era piccolo, vedevamo insieme i cartoni animati. Ve ne era uno che si chiamava “In giro per la giungla”. Senza stare a tediarvi troppo, ricordo un episodio nel quale si parlava di talento e il messaggio che passava era che ognuno di noi ha qualcosa di speciale dentro di se. Non importa se piccolo o grande, ma qualcosa di speciale, forse di unico, lo abbiamo. Diverso da quello di un altro. Tutto sta nel comprenderlo, conoscerlo, gestirlo. Il problema è che se nasci in un piccolo paese dove di opportunità per scoprire la tua abilità ce ne sono poche, devi essere ancora più bravo. Altrimenti finisci per fare qualcosa di insignificante o, se va male, qualcosa che ti porta a vivere male e non a lungo. Il paese si chiama Pignataro Maggiore, in provincia di Caserta. La persona che incontro è Marco Quintili che di professione ancora non ho capito se fa il pizzaiolo o l’imprenditore. O magari tutte e due. Conosco bene Pignataro Maggiore perché è a soli 5 km dal paese dei miei nonni materni dunque di mia mamma, Camigliano. Siamo vicino Caserta. Non è la Terra dei fuochi. Non ci sono discariche. Ci sono brave persone che lavorano la terra o nelle poche fabbriche li intorno. Paesi piccoli la cui monotonia viene rotta solo in occasione delle feste patronali. La domenica si va alla messa e ci si incontra al bar per le partite di calcio. I ragazzi, beh i ragazzi non è che abbiano molto da fare. C’è chi si unisce al gruppo parrocchiale, chi fa quel poco di sport che si può fare (oggi sempre di più devo dire), chi invece bighelloneggia in giro facendo le impennate sul motorino. Modificato ovviamente. Marco apparteneva a questa ultima realtà. La scuola non è che gli andasse proprio a genio. Al contrario dei luoghi comuni, la voglia di lavorare c’era tutta. Per essere sveglio era sveglio e ‘a cazzimma la teneva tutta. Così, all’improvviso, come capita alle volte (poche) nella vita, gli si para dinanzi una opportunità. Una di quelle che è più facile lasciare che prendere ma che se dovesse tornare indietro, riprenderebbe ogni volta.
Un suo conoscente, Pinuccio, ha un forno. Di quelli che (siamo nei primi anni 80) produce e vende pizza, pane, fritti. Tanta roba. Pizze americane come le chiama Marco. Si era ammalata una persona e Marco si fa avanti. Qui la vera “cazzimma”. Marco non sa fare nulla. Non ha mai fatto nulla in pizzeria. Ma si butta dicendo a Pinuccio che lui è in grado di fare quanto serviva. Andavo a lavorare alle 8 di mattina. Finivo alle 12 le preparazioni. Pinuccio mi ha insegnato i fritti, come si esponevano nel banco. I prodotti da forno. Mi ha messo dietro il bancone. Dopo le preparazioni, servivi la gente. Ho imparato a cuocere la pizza. Ho iniziato a lavorare nelle aziende del mondo pizza e a 21 anni ho aperto la prima pizzeria a Pignataro in società con altri: “La locanda di Pulcinella”. È rimasta famosa per qualche anno. Lavoravamo tantissimo. Il mio pensiero di pizza era già diverso dall’altro. La gente diceva che la mia pizza era diversa da quelle degli altri. Ma non capivo il perchè. Mi veniva automaticamente in quel modo e piaceva a tutti. Negli anni ho scoperto che era tutto a caso fino a che non ho studiato. Marco è una persona solare che ama parlare dei suoi prodotti invece che di se. La sua è una storia di riscatto ma anche di sacrificio. Dimostrare che anche un ragazzo semplice, lavorando, sudando, studiando ed impegnandosi a fondo, può farcela. Anche se sei disagiato e votato alla criminalità come chi è incappato in questo in quel di Tor Bella Monaca. Ce la puoi fare. Non serve tanto. Serve che la voglia sostenga ogni cosa. Il sacrificio e la fatica da sole non bastano. Serve studiare perché solo con lo studio capisci cosa stai facendo. Dai un senso alle cose.
Marco lo ha capito passando dal fare le cose per caso a comprendere non solo il perché ma sfruttando quel perché per migliorarsi fino ad arrivare a standardizzare.
Se apri più ristornati hai la necessità di offrire, in ogni punto della tua organizzazione, lo stesso standard di prodotto. Lo studio consente di capire per creare ricette, non solo in termini di ingredienti e procedimenti, ma di processi per replicarle. Protocolli che per funzionare devono essere comprensibili ovvero semplici.
La semplicità è uno dei mantra di Marco. Così come il ritorno alle origini. Non come slogan ma come elemento di attaccamento al suo passato.
Come lo capisco Marco. Le nostre radici sono a 5 km di distanza. Li, nel sud, dove le mie estati sapevano di frutta e di pomodori appena raccolti. Dove la pasta si condiva con il pomodoro pelato tritato dei barattoli delle conserve messe a bollire nel barile di latta. Dove la mozzarella era quella di bufala perché solo con quella si faceva la mozzarella seria e che andavamo a prendere con nonno Antonio al Caseificio Russo “‘ncuopp o spartmmient”. Dove ‘a vasinicola (il basilico) si trovava nell’orto di Mimma (così chiamavo mia nonna che in realtà si chiamava Antonina ma le figlie la chiamavano “mammina” e io, storpiando il nome con la lallazione, la chiamavo Mimma). Dove era la spesa non dovevi andarla a fare perchè arrivava da te durante la settimana. Ti svegliavi quando arrivava il venditore che urlava “pesce pesce pesce pesce. ‘O pesce fresco. Le alici, o baccalà”; quello della frutta “‘o melone chien’e fuoc, ‘o melone pasta gialla, ‘o melon’e pane”; quello della verdura “‘e patane d’avezzano, ‘e mulignane, ‘e puparuoli”…
Un universo di colori e sapori che solo chi ha avuto la fortuna di una infanzia così può avere nel proprio bagaglio. Marco lo ha e rimane attaccato al suo passato con tutta la voglia di trasmetterlo, di custodirlo per donarlo. Tramandarlo per non farlo perdere nel passato come se capisse che quel patrimonio non è solo il suo. Innovando certo ma rimandando fortemente attaccato al suo territorio.
La sua pizza ha la particolarità di essere leggera, più leggera delle altre. La tecnica non è nella stesura o nell’acqua come vogliono in molti far credere (c’è chi sostiene che a Napoli il caffè è buono per via dell’acqua ma non ci sono motivi scientifici in questo!). La tecnica è nella scelta della farina che lui ha compreso parlando di chimica. Sembra poco poetico. Sembra dissacrante. Ma è scienza. Quella scienza che in molti applicano bovinamente senza sapere cosa sia. Basta poco però. Basta studiare. Basta affidarsi ad esperti. Basta sperimentare. Ma ci vuole umiltà per questo. Non si può dire “io so fare perché ho esperienza”. Se studi, capisci e ti migliori.
Studiando la farina. Studiando i perché, Marco riesce a realizzare la sua pizza con un panetto di circa 230/240 grammi contro i 300 usuali. Questo rende il risultato ovviamente più leggero.
Semplice ma reale.
Con un risvolto anche meramente commerciale. Quando mangi la mia pizza hai ancora spazio. Te ne mangeresti un’altra o mangi altro. Così lo scontrino medio si alza. Sembra una cosa di poco conto ma è invece qualcosa di profondamente intelligente. Offrire una pizza leggera e che non gonfia, non solo non appesantisce il cliente ma offre la possibilità di sperimentare altro del menu di Marco. Benefici per il cliente e benefici per il business.
Ci sarebbe da chiedersi perché anche gli altri non lo imitino. La pizza di Marco è in stile napoletano. Puro e semplice. Cornicione alto. Impasto morbido.
La scuola è quella e non può che essere quella. Quando parli con Marco ti accorgi della sua serenità interiore ma anche di un senso, quasi, di frenesia. Vuole fare e fare e fare e fare. Non perché non si accontenti di ciò che ha. Marco ha voglia di divulgare ciò che sa. Quello che ha imparato è come se fosse qualcosa di così importante che non può tenerlo solo per se. Ciò che ha non è solo suo. È per questo che ha a cuore le persone che lavorano con lui. È per questo che il suo “metodo” vuole sia facile ma al contempo applicato alla lettera. La fortuna. Il caso. Mah, chi lo sa. Devi coglierle le occasioni. Così quando capita che Laura, la donna della sua vita, quella che diventerà poi sua moglie e madre dei suo figli, da Camigliano (toh, il paese di mamma), vuole spostarsi a Roma dove ha trovato un lavoro migliore. Dire se Marco sia stato animato da amore, da voglia della grande città, da spirito di intraprendenza o non so cosa, non è dato sapere. Fatto sta che molla tutto e va a Roma, ma non per starmene con le mani in mano. Qui lavora e lavora sodo. Ho frequentato panifici e pasticcerie affinando le tecniche. Da li a capirlo ci voleva lo studio. Libri, grandi aziende di farine, tecnologi, mi hanno fatto capire che la farina sembra una cosa semplice ma è chimica. Se metti acqua, lievito, sale, ognuno fa il suo processo. Era tutto un mondo da scoprire. Acqua, farina, lievito, sale. Ecco, così si fa la pizza. Alzi la mano chi durante il lockdown del 2020 non ha provato a fare la pizza. Ci siamo tutti scoperti pizzaioli per poi capire che fare una pizza non era poi così facile. Tanto che quando siamo ritornati ad uscire abbiamo, tutti, immediatamente abbandonato la farina nella dispensa. Eppure le abbiamo sperimentate tutte e tutti siamo diventati esperiti di lievito e farine. Marco invece studia. Capisce, e questo il suo vero salto di qualità, che quello che unisce acqua, lievito, farina e sale è nelle leggi della chimica. Quantità, temperatura, processo. Non basta. Serve una farina particolare per realizzare quanto ha in mente. O quanto realizzava senza saperne il perché. Così, quasi per caso, inizia a collaborare con Molino Magri di Marmirolo (MN) fino a realizzare la sua farina. Quella che oggi usa per le sue pizze alveolate e leggere. Quello che ho fatto tutto oggi è da dimenticare. Gli posso dare un senso a quello che facevo. Non lo capivo all’epoca. Marco dovrebbe essere un esempio per quei giovani che iniziano un mestiere pensando che non serva studiare. Leggere, apprendere, capire e poi fare. Puoi essere fortunato ma non sarai mai nessuno senza una solida base. La prima pizzeria a Roma nasce a Tor Bella Monaca, uno dei quartieri più difficili della capitale. Difficili per chi vive a Roma, non di certo per uno che viene dal sud. Tor Bella Monaca per Marco è casa e bottega. Aprire una pizzeria a pochi metri da una piazza di spaccio è un segno di riscatto. Un modo per far capire a chi vuole, che oltre la siepe c’è dell’altro. Fatto di fatica e sudore certo ma che ti da l’opportunità di creare qualcosa di positivo. Marco è così. Positivo. Di quella positività che non vuole mantenere per te. Vuole far capire a tutti che farcela è possibile. Anche per un ragazzo che arriva da Pignataro Maggiore e che si è diplomato solo quando ha scoperto l’importanza dello studio. Un ragazzo, oggi uomo, che non smette di sognare come non smette di sudare. Lo trovi dietro al bancone ad infornare le pizze come intento ad aprire un nuovo locale.
Anche questa è umiltà. Non si finisce mai di imparare come non si finisce mai di sudare. Questo è Marco. Questo un pezzo della sua vita. Ci siamo dati appuntamento in pizzeria. Ci andrò presto così da parlare, insieme a lui delle pizze.
A presto Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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3 Novembre, 2023

Francesco, due filari e un metodo. Empirico.

Francesco, due filari e un metodo. Empirico, Stanchi della solita routine? Basta, non ce la faccio più del traffico, del capo, dei colleghi. Me ne vado a fare il contadino piuttosto. Secondo un rapporto della Coldiretti, con la crisi provocata dall’emergenza COVID, nel 2020 si è registrato un balzo del 14% di imprese giovanili rispetto a cinque anni prima. Oltre 55 mila sono ora le aziende guidate da under 35. Insomma, sembra che il flusso dalle campagne alle città, quello che portò Artemio (Renato Pozzetto) del film “Il ragazzo di campagna” dai campi della bassa a Milano, si sia invertito. Certo, la madre di Artemio lo aveva avvisato: “la città è piena di tentazioni, l’è tentacolare!”. Ma l’Artemio voleva, comunque, sperimentarla. Troppo forte era l’attrazione. Sarà, però per chi è nato in città, a Milano appunto, viverci e lavorarci allo stesso tempo, non sempre è il massimo. Il lavoro, i ritmi, gli arrivisti, il caro affitti, il caro bollette, i trasporti, le cene fuori. Uffa! Quando sei una persona mite, una di quelle che non amano proprio i ritmi frenetici ne tantomeno arrivista perché la tua passione è per per la campagna e la vigna in particolare, tutto ciò che ti circonda può essere una vera gabbia. Allora che si fa? Si scappa? Magari! Se capita pure di essere un ingegnere, ovvero una di quelle persone che si nutre di calcoli e certezze, non è che puoi scappare prima di aver sperimentato ed accertato ovvero calcolato come si possa vivere con la vita della campagna.   Francesco Siena è un ingegnere e ha anche un bel lavoro. A Milano. Carattere mite. Razionale. Pensatore. Attento ai particolari. Un ingegnere vero. E posso dirlo con ragion di causa essendo anche io un ingegnere. Probabilmente mal riuscito se sono tutto all’opposto di Francesco. Ma forse meglio di altri, so riconoscere le differenze! Francesco ha una passione, la vigna ed il vino. Ma ha anche un sogno, quello di realizzare lui un vino. Non uno qualunque, qualcosa di speciale. Ora, se qualcuno conosce o ha avuto a che fare con gli ingegneri, quelli che lo sono nel midollo (e io non sono tra quelli!) sa che un ingegnere quando si mette in testa qualcosa da realizzare, ha un metodo infallibile (spesso purtroppo gli ingegneri dicono che il metodo sia estendibile a qualunque cosa, finanche alle relazioni con il risultato che talvolta, magari spesso, prendono tranvate pazzesche). Si studia, si sperimenta, si studia….” Semplice no? Si chiama metodo empirico. Va beh, lasciamo stare che poi ci incasiniamo. Basta sapere che occorre non solo studiare ma fare esperienze ed imparare da queste. La passione di Francesco per la vigna nasce non tanto lontano da Milano, nell’Oltrepò Pavese grazie allo zio che si era regalato per la pensione una vigna con tanto di casale. Grande terra quella dell’Oltrepò e grandi spumanti da Pinot Nero. Anche se qualcuno spinge a fare altro con un vitigno così particolare come il Pinot Nero. Come l’enologo di mio zio, Mario Maffi, che incitava a vinificare il Pinot Nero alla maniera della Borgogna. Li ho iniziato a fare esperimenti e mi sono appassionato. Prima dei 30 anni quando vivevo a Milano e vivevo a casa dei miei. Ecco che il quadro di riferimento è abbastanza completo. Francesco, ingegnere, milanese, vive dai genitori (poi per due anni anche da solo), impiegato in una azienda nel campo dei sistemi di automazione (!!), appassionato di vigna. Uno così, o diventa un serial killer a Milano, o scappa.  Francesco scappa prendendosi un anno sabbatico contro il volere di tutti. Piccola digressione. Quando Francesco mi parla di questo, leggo nel suo sguardo e nella sua voce tutta la pressione subita soprattutto dai genitori. Come ti capisco Francesco e come capisco, da padre, i suoi genitori. Al solo pensiero di una cosa del genere fatta da me e comunicata a mia madre, penso che me la sarei dovuta sentire un giorno si e l’altro pure.  E se me la comunicasse mio figlio non credo reagirei diversamente.  Tanti sacrifici per farti diventare ingegnere, un buon lavoro e poi che fai? Ti licenzi? Ma sei matto? Come ti salta in mente? Chi ti ha messo queste idee in testa? Questa sarebbe stata mia madre. Tutta la mia solidarietà Francesco  Cosa fare di questo anno sabbatico se non rincorrere i propri sogni? Ricordare però bene il metodo empirico: studiare come prima cosa ma poi anche sperimentare. Dunque regola numero uno è studiare; numero due, sperimentare. Francesco le applica alla lettera: studiare per imparare come si fanno le cose in agricoltura e sperimentare sul campo lavorando assiduamente. Un pò di ingegno (mica si è ingegneri per caso in fondo) et voilà.  Francesco scova un programma di agricoltura alla pari e ci si tuffa. Una cosa dove, in cambio di vitto ed alloggio si da una mano in azienda. Siamo ben prima del COVID e la cosa non è proprio comune. Ma di pazzi come Francesco, comunque ce ne sono nel programma.  Un programma che aiuta ad imparare oltre che a capire. Ho capito però che era un bagno di sangue. Nessuno campava con questo lavoro e facevano altro per campare. La consapevolezza è arrivata dunque con l’esperienza. Non è una cosa così idilliaca. Ci sono state aziende dove non ho imparato nulla e altre dalle quali ho imparato tanto. In particolare nel Roero e a Poppiano. In quest’ultima azienda ho trovato Guido Galandi che fa biologico con vitigni autoctoni come Fogliatonda e Pugnitello. Lui è il mio mentore e mi ha invogliato a sperimentare il Pinot Nero. Insomma, Francesco metabolizza che a meno che non si sia fortunati e riuscire a partire con ettari ed ettari, è difficile non fare altro. Quasi tutti gli imprenditori che ha conosciuto, hanno un altro lavoro. Quello principale per giunta.  La vita però riserva sempre delle sorprese. Così che se da Milano se ne voleva andare per inseguire il suo sogno, da Milano se ne va per inseguire l’amore. Anche gli ingegneri si innamorano! Da Milano la famiglia si mette su in Toscana, nei pressi di Firenze. La passione della vigna? La porta con se ovviamente. Anzi, in Toscana non può che trovare nuova linfa.  Quando mi sono trasferito per sposarmi a Firenze, ho cercato un terreno in zona e l’ho trovato a Calenzano sotto il Monte Morello, massiccio di calcare che domina Firenze.  Il trasferimento porta l’amore, il matrimonio, i figli, la vigna (circa 1000 metri quadri) e pure il vecchio lavoro.  Mi sono ripreso anche il vecchio lavoro perché mi hanno chiamato. Gli dissi che lo potevo fare solo da casa e a loro andava bene. Sono tutt’ora assunto in questa azienda così da conciliare la passione per il vino con il lavoro. Adesso viene il bello però. Perché il terreno c’è ma la vigna ancora no. Francesco (siamo nel 2013), seguendo la via del Pinot Nero vinificato in rosso, si fa accompagnare dallo zio in Alto Adige a comprare le barbatelle. Prende i giusti cloni, tipo quelli della Borgogna per intenderci, e inizia la sua opera di impianto. Che si fa, si pianta in modo tradizionale? Manco per niente. Ho piantato le barbatelle ad alberello a settonce. Ovvero con tutte le viti equidistanti. Come se fossero tanti triangoli isosceli affiancati con ai vertici una pianta. Una cosa un pò esoterica. Sempre Guido a Poppiano aveva messo una vite ad alberello con un sistema che usavano i romani, meno perfetto del settoncie, mi pare si chiamasse il quinconce con tanti quadrati e rettangoli. Così ho voluto qualcosa di più perfetto. E bello e comodo perché io immaginavo di passare in più direzione. Settonce. Ha studiato il ragazzo non c’è che dire. Una cosa particolare voleva fare. Io già immagino i contadini che passavano di li e lo vedevano fare l’impianto a settonce e pensavano tra se e se (qualcuno magari nemmeno poi così intimamente): ovvia, un settonce…l’è proprio un bischero.  Fa tutto parte della sperimentazione del metodo empirico comunque. Forse a Francesco manca un pò di praticità della quale si accorge subito. In primis perché la coltivazione ad alberello in una zona dominata da animali selvatici offre cibo facile da mangiucchiare. Ho avuto ogni tipo di problema dagli animali. Caprioli, cinghiali. Un pò di tutto. Il concetto dell’alberello non era però male. In teoria. Poi perché, anche se non sta scritto da nessuna parte, il Pinot Nero non predilige il settonce.  Un enologo mi disse che il settonce non era proprio adatto al Pinot e ho dovuto mettere i normali filari.  Osservazione del fenomeno e ritaratura. Il metodo empirico riciccia sempre fuori. Tanto, Francesco di fretta, non ne ha. È un progetto a lungo periodo. Tutto il progetto è improntato alla calma. Io penso che inizierò a fare il vino che voglio tra cinque o dieci anni. È tutto uno sbagliare e un riprovare. Qualcuno potrebbe pensare che non è una cosa seria: è piccola sì, ma lo è seria. Non ho fretta di fare qualche cosa. Ci voglio comunque arrivare. Prima vendemmia nel 2016 che da il là alle sperimentazioni in cantina. Tra le mille difficoltà nel reperire materiali giusti, tecniche giuste, attrezzature giuste.  Sto facendo esperienza via via e ogni tanto capita di fare errori grossi. Quando ti rifornirci nei canali professionali, quelli che richiedono migliaia di pezzi è un conto, se vai nei consorzi ti danno robaccia. Nel 2021 avevo usato una botte che mi aveva dato problemi. Nel 2022 ho usato il vetro e adottato accorgimenti per migliorare la durata.  Francesco prende una pigiatrice e diraspa a mano tenendo i raspi per fare il vino alla maniera della Borgogna. Certo, con le viti giovani è un pò complesso. Ma è un ingegnere con il metodo empirico…. Tengo i raspi per il 53% circa. Sto trovando un equilibrio essendo partito al 70.  La sperimentazione si è avvalsa ovviamente anche della barrique. Abbandonata nel giro di un batter di ciglia avendo capito la difficoltà nel gestirla essendo da solo.  Ho avuto delle barrique ma sono difficile da gestire. Se vado via una settimana per lavoro chi me le colma? Preferisco acciaio e vetro nelle damigiane con olio enologico e a volte uso la co2. La calma con la quale Francesco affronta il suo progetto, è serafica. Sa con certezza che riuscirà. È questione di tempo, ma ci riuscirà. Ne è certo. Sembra di vedere un bambino che gioca al suo Piccolo Chimico attendendo che l’esperimento riesca.  Anche se per Francesco questa è una cosa seria. Non un gioco. Magari un passatempo per la pensione. Di certo non un gioco. “Ogni anno cerco di sistemare qualcosa con l’obiettivo di fare qualcosa di buono da offrire agli amici. Oltre che imparare e avere qualcosa di bello cui dedicarmi. Non adesso che di cose da fare ne ho tante, ma per quando avrò tempo. Una vigna dura decine di anni. Questo mi ha dato molto benessere mentale. Quanto l’ambiente aggressivo dell’azienda, di una città come Milano ti ha spinto e quanto sia stata la terra ad attirarti? Quello che soffrivo tanto era la mia routine a Milano. In ufficio tutte le mattine, il traffico. Ho vissuto a Milano due anni da solo. Tutti questi fattori insieme mi hanno fatto dire basta. Un pò di soldi da parte li ho, proviamo a seguire questa spinta. Ci sono tante idee ma poi non ti fidi e l’esperienza di un anno serviva per imparare e capire come lo facevano.  Lavorare da casa mi ha fatto trovare un equilibrio. Ora mi tengo stretto lavoro e stipendio. Ho fatto non carriera ma aumentato la responsabilità andando a fare consulenze e seminari. Ora amo il mio lavoro da ingegnere. Adesso, è dal 2012 che va avanti questa vita qui.  Lo scorso anno ho fatto un centinaio di bottiglie più un tot di sfuso che vendo soprattuto a mio padre che è il mio cliente numero uno. All’inizio me lo comprava per sostenermi adesso perché gli piace. Ho anche una società per fare birra con mio fratello. La cosa sta andando bene. Ci lavora più lui. Io faccio le ricette e un pò di branding. Il resto lo fa lui. Non siamo un birrificio ma un marchio, commissioniamo la produzione.  È un pò come qui. Una volta che hai a che fare con il lieviti. Io applico il mio approccio da ingegnere che consiste nello studiare, fare prove, studiare, ecc.  Progetti per il futuro per il vino è trovare una stabilità di prodotto. Da un punto di vista agronomico e produttivo penso di aver trovare le chiavi. Mi manca la parte di cantina e confezionamento. Oltre al farlo conoscere.  Francesco, dimenticavo: ma perché il nome “Due filari”? Il nome Due filari deriva dai tempi dell’Oltrepò perché mio zio mi aveva dato proprio due filari da gestire. Quelli più esterni. Non capivo perché me li avesse dati ma poi ho scoperto che li ci andavano i cinghiali che si fermavano ai due filari! Ecco, questa è la storia di Francesco e del suo sogno. Una storia di fuga e di ritrovamenti. Di attese. Di sperimentazioni. Ma soprattutto è la storia di una persona normale, ancorché ingegnere, che coniuga il cambiamento con il sogno. Lasciare la città per la campagna, si può fare. Si può fare davvero. Volete alla fine sapere se il suo Pinot Nero è buono? Si è buono davvero. Uno di quei vini che non troverete mai (almeno per ora) al ristorante o sullo scaffale di una enoteca. Forse chiamando Francesco o contattandolo tramite la sua pagina Facebook o Instagram. Vedete voi. Però, bevendolo vi farà venire voglia di realizzarlo scappando dalla frenetica vita della città con la consapevolezza che si può fare un ottimo vino con passione e metodo. Empirico!  Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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