Suggestioni di Vino

Suggestioni di Vino è la rubrica che racconta le persone del vino. Della loro storia, dell’amore, della passione che inoculano nel vino. Perché il vino è materia viva e le persone ne sono il nutrimento.

Le incursioni enoiche di Ivan Vellucci, ingegnere e manager per dovere, ma soprattutto Sommelier raccontano con passione e trasporto, territori e produttori d’eccezione.
Ivan ci porta a conoscere realtà prima di tutto umane, dove il sorriso e l’ospitalità dei vignaioli sono lo specchio dei vini che producono. La rubrica Suggestioni di Vino propone ogni settimana  suggestive esplorazioni e scoperte enologiche, narrate con trasporto e partecipazione. Al lettore parrà di accompagnare Ivan in queste visite speciali e sarà stimolato a fare lo stesso: vivere il mondo del vino come un bambino, con lo stupore negli occhi e la magia nel bicchiere.

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31 Maggio, 2023

Stefano Menti il Maestro del vino biodinamico

  Si sente spesso parlare di vino biodinamico. Il più delle volte da chi non lo produce e sempre con grande scetticismo. Come se si trattasse di qualcosa proveniente da un altro pianeta. Esoterismo. Pratiche particolari, alle volte incomprensibili. Raramente si ha la possibilità di parlare con qualche produttore biodinamico che lascia da parte la filosofia per farsi capire. Anche attraverso i suoi prodotti: i vini. Stefano Menti è uno di questi. Una persona splendida che non ti mette dinanzi altro che la sua esperienza. E i suoi vini. Stefano non si vanta di nulla. Non nasconde o rinnega il suo passato. Un passato di un ragazzo che ha dovuto dedicarsi al vino. Senza volerlo. Senza averlo chiesto. Non sono arrivato dalla scuola. Ho fatto Ragioneria e dopo il militare ho iniziato ad occuparmi della vendita di prodotti per l’igiene. Siccome sto scrivendo un libro, mi dicono che devo dire così anche se vendevo carta igienica. Non pensavo di entrare in questo mondo qui. A 18 anni il vino non mi piaceva. Mio papà e mio zio facevano un vino che non mi piaceva. Conoscevo solo il vino di mio papà. Quando uscivo fuori con i miei amici per ubriacarmi e dicevo “ah però”. Erano vini che ora ripugno perché con tanto legno. Barrique. Era la moda del tempo. Che però mi ha fatto capire che i vini potevano anche essere buoni. Siamo a Gambellara, patria della Garganega. Qui in molti fanno vino da generazioni sul suolo vulcanico. In molti, così come papà e zio di Stefano. Quei vini che a Stefano non piacevano e non gli andavano proprio giù. L’azienda non se la passava tanto bene così che la società tra i due fratelli si scioglie con la conseguenza di trovarsi in una difficile situazione economica. Io che facevo un altro lavoro ho deciso di investire in azienda più per senso di famiglia che perché ci credessi. Ecco, così è l’ingresso nel mondo del vino di Stefano. Non per amore. Non per passione. Non per necessità. Per senso di responsabilità. Ora, uno che entra in un business nemmeno poi tanto facile, un business dove c’è da lavorare la terra e per fare questo oltre che faticare servirebbe anche un minimo di conoscenza, ma cosa diavolo gliene frega di buttarsi sul biodinamico? Andando a vendere in giro il vino ho trovato tante belle persone anche di quelle importanti che lavoravano in ristornati uno/due stelle e che parlavano con me invece di snobbarmi. Ero un ragazzetto con vini dozzinali. Mi hanno invece dato degli spunti dicendo che i vini erano altra cosa. Così, assaggiavo i vini che loro mi consigliavano e quelli che mi piacevano venivano tutti da agricoltura biodinamica. Forse si sono solo incontrati i gusti o forse è scattato qualcosa di magico tra Stefano e una cultura, un modo di essere quale è il biodinamico. O forse è stato anche un mero calcolo commerciale. Perché Stefano sa bene che la Garganega la lavorano in tanti dalle sue parti e se vuole emergere, qualcosa, di diverso, si deve inventare. All’inizio essere biodinamici rappresentava la voglia per emergere. Ci sono zone non è necessario essere biodinamici perché tanto i prodotti li vendi lo stesso. Che senso ha cambiare e sbattersi per essere diversi, biologici, biodinamici. In altre zone dove ci sono le cantine sociali, non si cambia perché tanto l’uva non viene pagata di più. Qui era davvero necessario fare qualcosa per emergere. Poi è diventata una necessità perché i risultati ci sono. L’ecosistema funziona meglio. Quando il vicino soffre la siccità tu soffri meno. Quando arriva la grandinata la tua pianta si riprende meglio di quella del vicino. L’unica cosa strana è perché il vicino non cambia vedendo questi risultati. Era il 2000 circa. All’epoca di biodinamico si parlava pochissimo. Anche perché coloro, pochissimi, che lo praticavano non volevano parlare con nessuno. Certo non posso biasimarli visto che venivano derisi e messi all’indice. Volevo andare a trovare e mi dicevano che non accettavano produttori in cantina. Mi sentivo ancora più sfigato. Eppure non si scoraggia. Incontra Sangiorgi grazie al quale legge “il vino tra terra e cielo” di Nicolas Joly (pubblicato da Porthos) ed inizia ad approfondire ed appassionarsi al tempo stesso. Stefano si va ad infilare in un cul de sac. Anche perché il papà non è che remasse proprio nella sua stessa direzione. Per uno che da oltre cinquant’anni faceva vino con il metodo tradizionale, quei metodi, proposti da un ragazzino che di vino non ne sapeva nulla, non potevano certo trovare la sua approvazione. Neanche i consulenti gli servivano. I consulenti erano molto integralisti e mi dicevano che o la biodinamica si fa così o niente. Nel 2010 incontrai Adriano Zago che ancora adesso è l’agronomo biodinamico più famoso in Europa. È stato un discepolo di Pierre Masson. Mi disse che non aveva molto tempo ma che, quando in zona, mi avrebbe dato una mano. Stefano si applica e si applica sul serio. Una caratteristica questa che non si può non riconoscergli. Lui si applica. Sperimenta ma sempre e solo dopo essersi documentato. Non fa mai le cose per caso. Ogni cosa deve essere programmata, controllata, verificata. Nel rispetto della natura. Quella natura che, se rispettata, è in grado di emanare energia. I cambiamenti sono presto visibili nel vigneto e nell’orto. Ho cominciato a lavorare con un ragazzetto che mi ha abbandonato per finire l’università. Nel 2015 poi, Marco Barba che faceva il carpentiere prima e a lavorare in una azienda biodinamica nel cantone della Jura diviene il mio braccio destro. Adesso abbiamo 9 ragazzi a tempo indeterminato. Assumono giovani per essere pronti per il futuro. Il più vecchio nel team ha 50 anni mentre gli altri sono ventenni. Assunti a tempo indeterminato così che possano avere un futuro. Gli diamo un abbigliamento figo perché lavorano meglio e hanno una immagine. Abbiamo idea di fare una azienda che funzioni da sola. Come è cresciuto Stefano dopo venti anni. Ora è un manager. Conosce il vino. Sa produrlo. Sa coltivare la vigna. Sa gestire le persone. Sa gestire una azienda. A tal punto che delega e fa consulenza. Non mi sono goduto la giovinezza e l’ho fatto solo per senso di responsabilità verso i miei genitori. Tutti gli anni li ho passati a lavorare come un cretino senza soldi. Con frustrazione perché i risultati non arrivavano. Nel tempo ho capito che sono contento così perché per me è più importante il tempo libero dei soldi. Chissenefrega di guadagnare tanto se non puoi goderteli. Essere una azienda biodinamica per la Menti, per Stefano, non è solo una questione di rispetto per la terra. È etica. È impegno sociale. È rispetto per tutto ciò che lo circonda. L’azienda lavora 5.5 ettari di vigna. Poi boschi e orti. Ma non basta. Perché la cultura biodinamica che Stefano e il suo staff hanno ormai metabolizzato fa sì che altri si siano rivolti a lui per ottenere supporto. Negli anni abbiamo attratto un sacco di gente per aiutarli in cantina. È un progetto di consulenza ampio senza averne cercato nessuno. Insomma le aziende chiedono di essere supportate in vigna, in cantina, nella gestione del vino. Così accanto all’azienda agricola e vinicola è nata una società che fa consulenza. Una azienda che è nei colli Berici ci teneva a passare alla biodinamica. Gli abbiamo dato una serie di libri da leggere, libri pratici: intanto leggiti questi libri qui così quando veniamo a parlare perdiamo meno tempo. Vieni qui quando facciamo il corno letame così vedi come si fa. Ti metti lo zaino in spalla e ti insegniamo come si sparge. Ti diamo una serie di check list che sono le stesse che abbiamo noi. Stefano è pratico ma non sbrigativo. Vuole che la cultura che lui ha imparato non debba essere qualcosa che si vende un tanto al chilo. Se la vuoi applicare devi impegnarti. Devi capire cosa c’è di differente e, se la accetti, la applichi. Ma non seguendo regole ferree. Seguendo ciò che puoi e ritieni migliore per la tua realtà. Le aziende ci chiedono di vinificare da noi o di supportarli in cantina o vigna. Abbiamo attirato gente dalla Campania, Toscana, Sardegna. Puntiamo a dare loro le conoscenze per poi arrangiarsi da soli. Un modello di business che porta oggi la Menti a fatturare circa il 78% nel proprio vino, il restante 22% nella consulenza. Niente male per un ragazzo che non voleva fare questo mestiere. Quando iniziamo a parlare dei vini Stefano mostra tutta la sua carica energetica. Non è un talebano. Non è uno che disdegna i vini non biodinamici. È pragmatico. Il vino piace o non piace. Il vino suscita o non suscita emozioni. Il vino è fatto o non è fatto bene. Molto semplice. Quando mi racconta un episodio, non posso fare a meno che ascoltarlo con interesse e stupore. Io bevo tantissimi vini e mi piace berli con attenzione. Ogni dieci giorni facciamo una degustazione alla cieca in cantina con tre vini naturali o non dove si deve dire mi piace o non mi piace. Quando cominci a produrre e capisci che oltre all’uva sul vino ci possono essere 83 ingredienti non riportati in etichetta e sul biologico possono essercene 60. Sul biologico ci sono dosaggi altissimi. Una sera di vendemmia siamo andati ad una festa di amici. Tutti appassionati di vini che portavano bottiglie di vino costose e vecchie. È arrivato un Radikon che abbiamo aperto con grandi aspettative. Non era cattivo ma non era nemmeno buono. Sembrava un vino morto perché sapeva di acqua e alcol. Eravamo tutti fan di Stanko Radikon e nessuno ha detto niente. La mattina scendo presto in cantina a controllare e mi arriva un messaggio che la notte era molto Stanko Radikon. Tutti noi abbiamo ricomprato lo stesso vino della stessa annata ed è sempre stato un vino della madonna. Ecco, abbiamo tutti pensato che quella sera il vino non aveva voglia di festeggiare. Quando senti parlare Stefano capisci quello che in genere c’è scritto nei sacri testi del vino: il vino è materia viva. Allora se è vivo, ha in sé l’energia del suo produttore. Sarà suggestione. Sarà spiritualità. Ci si può credere o meno. Però il vino è bello per questo, perché è vita e morte. È gioia e tristezza. È felicità. È amore. In ogni sua forma ed espressione. Giovanni parla dei suoi vini con amore. Come un padre parla di sua figlia. Leggi in lui l’emozione. Negli occhi c’è solo ed esclusivamente amore. Amore incondizionato che sa comunque vedere quei difetti che non rifugge ma ammette. Accetta. Come si accettano le paturnie dei propri figli fino quasi a trasformarle in pregi. Tutto però esclusivamente naturale. Come la natura riesce ad offrire. Senza edulcorare nulla ma lasciando che la natura, e la tecnologia, faccia il suo corso. Eppure si dà ancora oggi dello sfigato. Gli è rimasta addosso quella “sfigataggine” del ragazzo che cominciò senza voglia e solo per dovere. In fin dei conti, credo che la sua sia solo una grande, grandissima umilità. Hai mai pensato di fare il furbo con i vini? In passato ero molto integralista forse più di adesso perché convinto che i vini per essere buoni dovevano essere fatti con uva integra. Con la tecnologia invece si può ovviare. Adesso poi non posso più perché sono così riconosciuto per quello che faccio che mi perdonano anche cose che non vanno proprio bene. Specialmente con i rifermentati. Una volta che imbottigli il vino che deve rifermentare, che ha poca solforosa, poco alcol, che ha fatto la malolattica, che non è microfiltrato e che deve rifermentare con lieviti indigeni, hai tutti gli elementi per fare male. Li quando ti va storto qualcosa non puoi fare niente e devi riconoscere commercialmente che non è il massimo. Noi lo vendiamo non fregando la gente ma dicendo che è meglio assaggiarlo prima. Li abbiamo sempre venduti. È tempo di assaggiare i vini di Stefano. Iniziamo da Roncaie. È il vino più semplice da uve Garganega rifermentato in bottiglia aggiungendo solo mosto di passito. Puoi berlo sbattuto così hai tutta la quantità di lieviti. Va aperta a 45 gradi. Noi iniziamo a fare questo vino nel 2007. È stato un po’ la conseguenza di un errore. È un vigneto dell’85 in pianura. Ho fatto una potatura cortissima con pochi grappoli. Il terreno è molto fertile e gli acini si rompevano. Dovevo accettare la resa che fa il vigneto e il basso grado alcolico. In primavera aggiungiamo del mosto di passito in misura di 10 grammi di zucchero per litro. Lui riparte a fermentare, lo imbottigliamo e diventa un frizzante col fondo. È un vino da merenda, da pizza e da frittura (pesce e verdure). È un vino da piscina da bere al posto di una birra. Raramente va in riduzione. Usando il mosto di passito c’è meno fondo. 2000 bottiglie nel 2007 e oggi varia dalle 13 alle 20 mila bottiglie. Mi ha attirato delle consulenze perché ci vuole tecnica. È un vino estremamente particolare al naso. Scovo delle inaspettate morbidezze e una vinosità non accentuata. La rotondità è ovviamente frutto del mosto. Non è un vino per tutti perché non propriamente limpido. Ma proprio per questo dovrebbe essere assaggiato da tutti. Magari alla cieca e con un bicchiere scuro. Perché è davvero una esperienza dalla quale si fa fatica a separarsene. È un vino che ha evoluzione continua. Avrà una bolla sempre più fine. Diventerà più cremoso e dorato facendo crescere la nota burrosa. Che vuol dire abbinarlo con lieviti dolci. C’è molta frutta, molti fiori. Un retro olfatto che porta la frutta ad essere matura. Quando lo bevi continua a stuzzicare la voglia di berlo ancora e finisci per berti tutta la bottiglia. Con un aperitivo è fantastico per via di persistenza niente affatto male. La bocca rimane pulita per via di un delicato agrume, non forte così da portare la bocca verso la dolcezza. La pizza in abbinamento, se è bianca, funziona bene così come i formaggi non carichi. Anche una mozzarella di bufala, una caprese o una fresella con pomodoro e tonno. Ottimo prodotto da piscina, da lido. Anche a pranzo. Bella impronta. Riva Arsiglia 2020. Garganega in purezza. La prima cosa che si nota della bottiglia è il tappo a vite, scelta dovuta alla capacità di mantenere inalterato il prodotto nel tempo. Deriva dal vigneto più vecchio dell’azienda. Impiantato nel 1932 con successive aggiunte. Fermentazione con lieviti spontanei e affinamento in cemento per almeno un anno. Bella pulizia anche senza nessun filtraggio. Eppure è stato due anni sulle fecce! Insomma qui c’è tanta tecnica e ascoltare Stefano che ne parla in maniera così facile è davvero disarmante. Al naso i sentori sono bellissimi. Appaiono gli idrocarburi dovuti alla matrice vulcanica del terreno, tipico della zona, così come i terziari come menta, alloro, mentuccia. Poi c’è la camomilla che tende a virare verso il miele. La frutta è come se occorra andarla a cercare. Non va bevuto molto freddo per dar modo ai sentori di esprimersi con tutta la loro forza. Mi piace soprattutto per la palese continuità con il Roncaie: appartengono alla stessa mano. In bocca c’è rotondità e pastosità con i sentori che si trasformano in sapori. La rotondità si avverte nonostante il vino sia decisamente secco. La persistenza risulta quasi inferiore al Roncaie. Proviene da vigne vecchie, cosa questa che si evidenzia dal maggiore estratto. Nelle annate più calde arriva a 12.5 gradi; in quelle fredde a 9. C’è una buona sapidità che avvolge al sorso. Al pari del Roncaie, intriga perché non banale tanto che al primo sorso non lo capisci, ne bevi un altro po’ e ancora non è chiaro. Devi berlo e riberlo per capirlo conquistandoti perché conquista tornando in mente in maniera sempre non esaustiva. Intrigante davvero anche perché può invecchiare continuando a cambiare. Finiamo con il Monte del Cuca 2020, la versione macerata della Garganega che fa fermentazione sulle bucce. Non c’è una regola per la fermentazione in cemento. Questo ha fatto 40 giorno. Affinamento in cemento e botti di legno grande per poi assemblare le parti. Prima annata prodotta è stata la 2010. La macerazione si vede tutta dalla colorazione orange. L’evoluzione al naso fornisce sentori pastosi di frutta matura e prugna secca e nocciola. I terziari sono quelli del Riva Arsiglia per continuare ancora con la gamma. La complessità olfattiva si avvicina a quella di un rosso e i tannini che si sentono in bocca non fanno che confermarlo. Nonostante la sua verticalità, ha una buona struttura. È secco e caldo; avvolgente e sapido. Molto ben abbinabile a cibi succulenti. Un pesce grasso ci starebbe benissimo. Ma anche un coniglio. Mi piacerebbe abbinarlo con della porchetta per le parti grasse e le spezie. Peccato, siamo arrivati alla fine della chiaccherata con Stefano. Peccato perché parlare con Stefano è una vera esperienza. Al pari o superiore di quella del degustare i suoi vini. C’è energia nelle sue parole e nei suoi prodotti che riconosci per il filo conduttore che li unisce. Quella di Stefano è passione sì ma anche e soprattutto capacità di comprendere come il rispetto per la natura, il rispetto vero, legato a processi e tecniche ben precise siano la base per produrre qualcosa di speciale. La cosa che più mi è piaciuta di Stefano è comunque la sua umiltà. Nonostante tutto non smette di ricordare quando era un ragazzo sfigato. Lo dice più a sé stesso che agli altri. E forse è solo un modo per dire al mondo come, in fondo, le idee e i progetti prevalgono su tutto. Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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26 Maggio, 2023

Da Rimini alle Crete Senesi ovvero Mocine

Da Rimini alle Crete Senesi ovvero Mocine Vignaioli si nasce o si diventa? Totò, il principe della risata, amava dire che “Signori si nasce. E io lo nacqui”. In fondo Antonio De Curtis, alias Totò, forse un po’ di sangue blu lo aveva. Comunque sia divenne il Principe della risata e di Napoli intera. Senza divagare però, la domanda rimane. Ci si può trovare ad avere le vigne in casa e dover decidere cosa farne così come si può essere colpiti da una folgorazione sulla via di Damasco. Valerio Brighi è un caso davvero unico nel panorama vitivinicolo poiché rappresenta non solo il vignaiolo diventato tale e non nato così, ma perché ha scelto di diventarlo senza essere animato dal sacro fuoco della passione per questo splendido mondo. No, Valerio l’ha fatto per mero calcolo. Per fornire alla sua azienda un elemento importante di sostentamento. Ma attenzione. Perché Valerio si è così innamorato del mondo del vino tanto che la prima volta che parlo con lui mi dice: In questo mondo ho imparato che ci si incontra e si incontrano persone meravigliose Siamo nelle Crete Senesi, ad Asciano. Tra Siena e Montalcino, in una terra da sempre dedicata a produrre frumento e foraggio su quelle dolci colline dal colore cangiante con le stagioni così da offrire paesaggi unici e straordinari. Di vigne però ce ne sono davvero poche. Forse perché dopo la seconda guerra mondiale vennero tutte tolte per dare spazio ad un diverso tipo di agricoltura. L’azienda agricola Mocine, quella di Valerio, ha storia antica. Ma proprio perché antica, in un territorio poco vocato alla produzione del vino, la focalizzazione non poteva che essere sull’agricoltura tradizionale, ovvero la produzione di frumento e foraggio. Valerio non è di queste parti. Lui è riminese doc. Romagnolo nel midollo. Svelto, diretto, schietto, pragmatico. Una persona vulcanica che quando ti parla sta già pensando a cosa ti dirà dopo. Gli aneddoti si susseguono senza sosta. Una ne pensa e cento ne fa. Con cervello: pesando e ponderando tutto. Con umiltà: lasciando fare a chi sa. Con determinazione: non lasciando nulla al caso. Valerio gestiva l’azienda stando a Rimini. Cosa questa non certo facile. Ma nemmeno lo è per uno di Rimini andare a vivere nelle Crete Senesi. Valerio non me lo dice, ma credo che a Rimini si divertisse. E molto. Fatto sta che ad un certo punto della sua vita capisce che per gestire bene le cose di una azienda agricola di grandi dimensioni, occorre essere sul posto. Ci sono milioni di cose da fare. Cominciando dal temere o conti in regola. Volevo trovare soluzioni alternative all’agricoltura che mi permettesse un risultato positivo e più stabilità. La ricerca di fonti alternative all’agricoltura lo portano a mettere su la riserva di caccia, l’agriturismo, l’agricoltura. Prima di essere folgorato dalle vigne. O meglio, dal potenziale che le vigne ed il vino potessero offrire. Passando una volta per Montalcino ho notato le vigne. C’ero passato centinaia di volte ma non gli avevo mai dato peso. Invece quella volta sono rimasto affascinato e mi sono messo subito a fare un business plan per capire come poter fare vino. Eccolo qui Valerio. Ora, alzi la mano chi ha mai visto un vignaiolo fare un business plan. O anche un proprietario di una azienda agricola. Valerio non è così. Lui ama parlare con i fatti e i numeri sono fatti. Certo, un conto è fare vino a Montalcino, altro ad Asciano, nelle Crete Senesi dove di vigna non se ne vede neanche un filare. Non se ne vede a meno di non studiare un po’ di storia. Ed essere curioso. Altra caratteristica di Valerio. Storia e curiosità fa sì che Valerio scopra come nel Palazzo Venturi di Asciano e nella Abbazia di Monteoliveto ci fossero delle cantine che secondo i miei calcoli potevano contenere almeno 2000 quintali di vino ognuna. Una successiva visita al catasto (guarda tu Valerio dove è andato ad impegolarsi!) gli fa scoprire che quasi tutti i terreni avevano una vigna. Dunque qui si produceva vino! Insomma, la vigna dal punto di vista economico poteva stare in piedi e anche commercialmente qualcosa si poteva fare visto che il territorio aveva delle potenzialità Mi consentiva di spalmare i costi fissi avendo l’azienda una serie elevata di costi fissi. Quando uno ha in mente in numeri! L’azienda certamente si è sempre retta ma dopo gli anni 90, quando la miniera d’oro della riserva di caccia ha smesso di produrre pepite (chissà forse per il via del cambio generazionale, della diversa propensione delle generazioni) si doveva cercare qualcosa che potesse aiutare ulteriormente al sostentamento. Prima delle vigne ne ho pensate di tutte. Anche le erbe medicinali per la farmacia. Insomma la vigna per necessità. La vigna per spalmare i costi fissi. La vigna per differenziare. Io però di vigna e di vino non so niente. Certamente ho sempre ritenuto questo un vantaggio perché quando non sai le cose sei più attento, vuoi capire, fai domande. Ecco le domande. Ora immaginatevi la scena che per i più sembra surreale ma non per Valerio. Lui ha bisogno di capire. Non è uno che si improvvisa e parte. No, Valerio senza un business plan nemmeno si alza dal letto la mattina. La scena che ho dinanzi agli occhi quando Valerio me lo racconta mi fa sorridere e non perché la ritenga surreale. Nossignore! È ciò che avrei fatto io e ciò che dovrebbero fare tutti quelli che iniziano una avventura di business (cosa che in molti invece non fanno andando poi a schiantarsi nel migliore dei casi). La scena. Ecco. Immaginate Valerio che si prepara un foglio con 30 domande. Domande utili a mettere giù un business plan: quanto costano le barbatelle, quante barbatelle ci vogliono per ettaro, ecc. ecc. ecc. Una volta preparate se ne va in giro per le cantine a fare queste domande. Invece di tornare con delle risposte, torna a casa con ulteriori domande tanto da averne ora circa 100. Riparte con il giro tornando con più dubbi che certezze. Cosa vuol dire fare la vigna. Cosa vuol dire fare la cantina. Cosa vuol dire fare la commercializzazione. La risposta era questione di numeri ma ho scoperto che gli italiani non lavorano con i numeri. Solo alcune aziende più strutturate sapevano darmi i numeri. Dopo due anni di domande e poche risposte, Valerio riesce a predisporre un business plan. Sembra fatta e lo presenta con orgoglio ad una persona che lui reputa competente nel campo. Orgoglio presto represso quando viene completamente bocciato poiché mancante di diversi elementi. Che fa Valerio, si abbatte? Ma quando mai! Ho completato le parti mancanti anche se l’ho dovuto fare tre volte. Però ho fatto cinque ettari e mezzo di vigna e ho sbagliato il costo di 4000€ a mio favore perché due persone hanno lavorato particolarmente bene. Toh, eccolo qui Valerio. Però business plan, tocca fare il vino. Ah già il vino. È il vino che deve produrre e vendere. Mica il business plan. Ma anche in questo Valerio non può che sorprendere. Qui tutti i conoscenti di Montalcino mi dicevano cose diverse sul vino. Allora ho deciso di prendere la persona più capace che c’è in Italia a fare il vino e seguo quello che mi dice. Perché a me servirebbero 300 anni per imparare. Sceglie Attilio Pagli come enologo e l’agronomo che questi gli suggerisce. Sono l’ultimo ad arrivare sulla piazza dunque è inutile che vado a fare ciò che fanno tutti. Il blend me lo voglio fare un po’ originale. È così che Pagli mi ha messo in contatto con un vecchio professore dell’università di Firenze che mi ha consigliato due vitigni autoctoni come Fogliatonda e Barsaglina. Già ma occorre pure trovarli. Perché saranno pure autoctoni ma in Toscana solo pochi contadini li hanno. Sangiovese, Barsaglina, Fogliatonda, Colorino e il blend Valerio è servito. Se tornassi indietro non lo farei più. La Fogliatonda chiede quasi il doppio delle ore di lavoro e altrettanto per la prevenzione. A livello italiano poi un blend nuovo suscita poco interesse. Arieccolo Valerio. Vignaiolo di arrivo. Lucido nelle sue osservazioni. Business oriented si direbbe se si potesse ancora utilizzare l’inglese nei testi.   Non gli basta poi la vigna. Sere anche la cantina per fare il vino. Avevo un capannone in lamiera e ho capito che si poteva fare il vino anche in un capannone. Ho acquistato le vasche per la refrigerazione e via. Perché per fare il vino non occorre la cantina da due milioni di euro. Tra dieci anni se sarò ancora vivo allora potrò fare dei ragionamenti di investimento più importante. Pragmaticità. Efficacia. Efficienza. Insomma, tutto fatto. anche se lo sa anche lui che un conto è fare un business plan, tutt’altra cosa la commercializzazione. Puoi capire quanto ci vuole per un ettaro di vigna ma capire che riuscirai a vedere 20000 bottiglie è altra cosa. Facciamo il punto. Il business plan funziona (sulla carta). La vigna con i vitigni nuovi c’è (ah per la cronaca ha pure impiantato Vermentino, Chardonnay e Trebbiano per un bianco veloce tanto per generare cash). La cantina ancorché in un capannone c’è. L’enologo e l’agronomo pure. Non manca più nessuno. Solo non si vedono i due liocorni mi verrebbe da dire. Scherzi a parte il vino occorreva venderlo. Ho un amico che ha una bella cantina in Umbria e l’avevo coinvolto nelle cose che facevo. Mi ha dato consigli. Mi ha supportato. Così che quando sono arrivato ad avere le prime bottiglie sono andato a trovarlo per avere un aiuto a venderle. Lui mi ha detto che non mi avrebbe aiutato “tu devi trovare il tuo percorso se lo sai trovare. Può anche essere che non lo sai trovare e devi cambiare mestiere”. Ecco, lo devo ringraziare perché mi ha responsabilizzato: ognuno ha la sua strada. La strada Valerio l’ha trovata comunque con 25.000 bottiglie prodotte e vendute all’anno. Prodotte e vendute. Un binomio da sottolineare e che lui stesso sottolinea. Perché è anche arrivato a produrne di meno quando le scorte in magazzino erano alte. Tanto per non doverle svendere. Chapeau! Ad oggi sono contento perché una buona fetta la vendo negli USA. Senza agenti. Faccio tutto io. Perché la gente compra il vino? Perché ci si incontra. Ecco. Ritorna quella frase che mi ha tanto colpito di Valerio. Valerio che ha la passione per ciò che fa. Non solo per il vino. È un bagaglio culturale. Da applicare ovunque. Un bagaglio che gli arriva dal passato. Da quando dopo la guerra il papà da manovale divenne muratore e poi mise su una piccola ditta. Che si rimboccò le maniche come quelli della sua generazione e costruì da solo la casa dove vivere con la famiglia. Questa cosa rappresenta la voglia di fare. Il proprio lavoro è bello. La mattina quando mi alzo sono contento di fare le mille cose che devo fare. Vino o non vino. Io faccio con gusto il mio lavoro. Attorno a me ci sono una serie di persone che lavorano che sono veramente brave. Ma non trovo più gente che vuole lavorare. Valerio sa che prima o poi avrà bisogno di riposare. Ma trovare qualcuno che possa continuare il suo lavoro è complicato. Sono ameno cinque anni che mi sto guardando attorno ma non trovo il profilo di una persona misto tra commerciale, dirigente, imprenditore. Non la trovo. Un velo di tristezza che dura solo il breve battito di ciglia. Perché Valerio ha tante cose per la testa e ancora di più da fare. Mica si può fermare ad essere sentimentale. Ma va là. Ah dimenticavo i vini. Bianco a parte le chicche della sua azienda sono quattro. Il SantaMarta semplice ed immediato con il blend Valerio senza Fogliatonda. Il Mocine, pieno blend Valerio ma senza legno. L’OttoRintocchi che invece di legno ne fa. S’Indora ovvero Fogliatonda in purezza. S’Indora sono 500 bottiglie che faccio ogni tanto. Hanno le etichette dipinte a mano e firmate dalla mia amica Letizia Fornasieri, pittrice affermate. Se uno vuole conoscere la Fogliatonda in purezza deve berla con questo vino che non è prodotto per scopo commerciale. Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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19 Maggio, 2023

Terracruda e l'entusiasmo che può tutto

Terracruda e l’entusiasmo che può tutto. Quello dell’entusiasmo non è uno stato d’animo che si riduce ad una semplice eccitazione partecipe. È qualcosa di estremamente più profondo, potente, massiccio. È il risvegliarsi di una forza tramite la quale non c’è meta che non sia a portata di mano, non ostacolo che non possa essere abbattuto, non collettività che non ne possa essere travolta e coinvolta. È lo stato d’animo attivo, centrato e sorridente che schiude l’infinita realizzabilità dei sogni. L’entusiasmo è qualcosa che coinvolge. Si trasmette come un virus diffondendosi prima intorno formando una vera e propria aureola per poi attaccare gli altri. L’entusiasmo è quello che diffonde Luca Avenanti dell’azienda Terracruda in ogni sua esternazione. Ha un sorriso e una vitalità unica. Ride di se stesso. Ride della vita. Ride dei propri errori. Non è una risata forzata o sciocca. È qualcosa di vero, propria di quelle persone che sanno non prendersi sempre sul serio. Anche se dirigere una azienda è cosa seria. Specialmente quando ci sono sedici ettari (o venti) da condurre e quando occorre garantire lo stipendio a quasi venti persone. Leggerezza e spensieratezza sono proprie delle persone che ne hanno passate tante così come di quelle che hanno sbagliato per poi riuscire. Solo sbagliando si può arrivare alla soluzione. Terracruda è una cantina a gestione familiare. C’è lo zio Vincenzo che invece di godersi la pensione dopo aver lavorato da sempre nell’agricoltura non si è tirato indietro nella gestione dell’azienda. Così è lui che dà le linee guida per la vigna. Poi c’è la sorella Maria Vittoria che solo una brutta malattia riesce a tenerla a casa. Gli studi in Wine Management ne fanno una risorsa fondamentale per il marketing. La cugina Emma che ha un altro lavoro ma nei week end e in estate da una mano in cantina. Il papà Zeno che non può che essere in direzione generale. Infine Luca che ha preso le redini insieme al suo compagno Carlos con il quale sono insieme da oltre 11 anni. Senza dimenticare mamma Adele e zia Nadia! Siamo in sei di famiglia più cinque a supporto tecnico e dieci in vigna. Io sono il frontman che fa la gestione commerciale. È bello dire vado a fare il commerciale ma se bisogna fare il travaso nella botte o andare in vigna, io ci sono Agricoltori e vignaioli non ci si inventa ed infatti le radici della famiglia Avenanti in qualche modo avevano a che fare con la terra. La famiglia di mia mamma, mio zio, i miei nonni lavoravano nell’agricoltura. I miei nonni erano i mugnai e lavoravano il grano. Vivevamo già qui. Erano dei contadini e lo dico in maniera orgogliosa. Da parte di padre invece si producevano, artigianalmente, mobili. Qualità e tanta attenzione ai dettagli. Due famiglie con tanti ettari a disposizione e la necessità di fare una scelta. Venti anni fa si è detto: cosa facciamo con i terreni? Vogliamo perseverarli per bene o non facciamo nulla. Ai tempi avevo venti anni ed erano affascinato dalla vigna. Piantiamo un po’ di vigna e produciamo una piccola quantità di vini. Così non mandiamo in malora i terreni dei nostri nonni. Da qui parte l’avventura. Una partenza che senza entusiasmo non si sarebbe trasformata nella realtà che oggi rappresenta nel territorio marchigiano. Siamo a Fratte Rosa, un piccolo comune di poco più di 800 anime in provincia di Pesaro Urbino, nel cuore delle DOC Bianchello del Metauro, Pergola Aleatico, Sangiovese Colli Pesaresi tra le colline equidistanti dal mare e dal monte Catria. Una zona dove si vinifica da tempo immemore anche se in molti si sono lasciati attirare dalle sirene di vitigni internazionali o comunque non autoctoni. La scelta di Luca e dell’azienda è invece diversa. Identitaria e territoriale. Solo se hai l’entusiasmo te ne vai in giro a ricercare i vitigni abbandonati ancorché presenti sul territorio da sempre. Perché poi oltre a trovarli devi ottenere le barbatelle, devi classificarli, devi normarli. Insomma serve tempo, visione, forza d’animo. Ed entusiasmo. Incrocio Bruni e Garofanata sono due esempi di vitigni poco noti e pressoché abbandonati. Il primo è del 1936 ed è merito del prof. Bruni che al suo tentativo n. 54 di trovare un incrocio resistente alla fillossera provò un mix tra Verdicchio e Sauvignon. Non resisteva alla fillossera ma il risultato fu comunque buono tanto da spingere i contadini marchigiani a coltivarlo. Siamo andati con il nostro enologo a cercarli dai contadini. Abbiamo iniziato con mezzo ettaro e adesso ne gestiamo quasi due ettari. Del secondo, sempre a bacca bianca, non si hanno tracce certe anche se negli appunti del pro. Bruni (sempre lui!) se ne trovano cenni. Va bene l’entusiasmo ma se hai tanti ettari non è che puoi lavorare solo con due vitigni quasi sconosciuti. Ecco che allora si pianta l’Aleatico di Pergola che va ad affiancare il Bianchello e Sangiovese (siamo nelle Marche ed è quasi un obbligo!). Varietà autentiche ed uniche. Basse rese per ettaro con la conseguenza che non puoi che fare qualità! Siamo in collina. Dunque la zona è vocata. Riusciamo a produrre l’Aleatico in versione secca con alcolicità accettabile. Un equilibrio tra freschezza, maturazione e alcolicità. Arrivare ad imbottigliare oltre 150 mila bottiglie denota la capacità di una azienda di compiere un percorso di crescita. Certo, ci sono voluti quasi venti anni. Si sono commessi errori. Si è sperimentato molto. Si è faticato molto. Con l’entusiasmo però, si ottengono risultati. Un entusiasmo che porta a non abbattersi negli incidenti di percorso. All’inizio l’azienda non era solo un affare di famiglia. La poca esperienza e le vigne appena piantate indussero ad inserire un socio che portava in dote vigne storiche, passione per il vino, capacità in vigna. Poi però, quando si capisce che l’essere biologici e diminuire le rese in vigna può essere non solo una questione di identità ma anche di distinzione sul territorio, le strade si dividono. Nel percorso eravamo partiti con una idea di agricoltura tradizionale ma ci siamo resi conto che in un terreno poco blasonato se arrivavamo a produrre il Bianchello così, il mondo non se ne sarebbe accorto. Allora abbiamo detto: noi passiamo al biologico e corriamo i nostri rischi. La cosa è riuscita benissimo. Sarà stato l’entusiasmo o comunque la scelta delle persone in vigna, dell’agronomo, dell’enologo. Fatto sta che nel corso degli anni, sperimentando, sbagliando, i risultati sono arrivati. Ed è arrivata anche una vera filosofia aziendale individuabile nella produzione di vini da mono vitigno. Nessun blend insomma per esaltare le cultivar e far apprezzare appieno ogni singolo acino. Noi abbiamo creduto sin da subito nel mono uvaggio e nelle varietà autoctone. Il Bianchello del Metauro DOC venti anni fa era come oggi. Noi volevamo fare una versione superiore, uno spumante ma era difficile. Se facevi un passito ad esempio dovevi scrivere vino da tavola. Al momento invece sono sette tipologie da una che era. Una gamma che è fatta di tanto lavoro. Ed entusiasmo. Il Bianchello si presta alla spumantizzazione così che facciamo lo charmat, l’ancestrale e il metodo classico. Facciamo il giovane di annata, la vendemmia tardiva con surmaturazione nei migliori anni, il superiore. Ci sono voluti dieci anni per arrivare a quello. C’è un bel percorso. Per arrivare a dei risultati con il mono uvaggio devi sperimentare tanto. E sbagliare tanto. Tantissimi giorni e ore ma questo lavoro lo fai solo se hai passione. Come per il Metaurum. È il Bianchello superiore, prodotto per surmaturazione (un tempo si chiamava Campodarchi Oro perché proveniente dalla vigna che ha il medesimo nome) come evoluzione del vino che una volta sostava due anni di barrique sur lies. Era una impostazione anni 90. Lo facevamo bene. Con la raccolta delle uve a mano. Una chicca insomma. Però poi l’impronta del legno era troppo marcata per il mercato così l’abbiamo alleggerito cambiando solo la lavorazione in cantina per una piccola produzione. Vediamo all’assaggio come si comportano i vini. Ne scegliamo tre. Non possiamo che partire dall’Incrocio Bruni 54 annata 2021. È biologico e dal 2022 sarà certificato. Colore verdolino che sa di giovinezza. Nel calice si sente sia verdicchio sia sauvignon. Molta mela. Agrumi. Molta pera. Fiori bianchi. Un vino semplice che fa solo acciaio. Abbiamo ricercato la semplicità perché ci siamo resi conto che nel mercato locale della ristorazione ce lo richiedeva. Il risultato è un vino beverino forte di una buona aromaticità e giusta persistenza. Agrumi che tornano in bocca insieme a grande freschezza e sapidità rendendolo perfetto con il pesce. È un bel prodotto che fa risaltare i due vitigni sia per le caratteristiche dei singoli sia per la loro unione. Non ritroviamo l’opulenza del Verdicchio perché i sentori sono semplici e definiti, la freschezza è importante, la persistenza non stanca. Il colore verdolino attira forse poco inducendo comunque a non aspettarsi in bocca la piacevolezza che ti fa bere tutta la bottiglia. Insomma, un vino estremamente potabile che dopo qualche ulteriore mese di bottiglia sarà ancora più rotondo. E piacione. Ottimo con un pesce. Poi il Campodarchi Bianchello Superiore. Colore simile al precedente stavolta quasi luminoso. I sentori, grazie alla vendemmia tardiva di fine ottobre, sono più importanti. La frutta è matura e i fiori sono di camomilla che con l’aumentare della temperatura virano sul miele. È un vino che non va bevuto molto freddo. In bocca si presenta fresco, sapido, secco e molto caldo. Parte con una sorta di dolcezza ed aromaticità finendo con una nota amarognola che esalta la capacità di sposarsi con piatti di tendenza dolce come la pasta o anche un rombo con patate. Per un rosso non potevamo che provare l’Aleatico Ortaia 2018. È il nostro vino di punta anche se io prediligo il Sangiovese perché più secco e tannico. Se bevi una volta l’aleatico lo vuoi bere più frequentemente. L’uva viene raccolta verso metà settembre ovvero tardivamente considerando la maturazione precoce dell’Aleatico. Seguono 30 giorni sulle bucce, un anno di barrique dal secondo a quinto passaggio, poi un ulteriore anno di bottiglia. Il colore è un rosso rubino ciliegioso non troppo carico. In fondo l’Aleatico ha la buccia sottile e di antociani ce ne sono pochi. Il risultato è corredato da una bella limpidezza. Quasi trasparenza. Al naso è la balsamicità che emerge immediatamente. Poi c’è sì la frutta ma dopo il tabacco, il pepe, i chiodi di garofano. C’è la rosa, la violetta, il petalo di rosa appassito. La frutta (ici) è esotica ma anche nostrana: il melograno e l’arancia rossa ancora non matura. La frutta in generale non è pienamente matura. In bocca spicca l’aromaticità dell’Aleatico che tende a virare verso l’amarognolo senza mai farlo percepire in pieno. Continua ad esserci sapidità portata dai terreni argillosi con sabbia stratificata. Grande coerenza con l’olfatto e persistenza non particolarmente lunga così che l’abbinamento con un brodetto o una zuppa di pesce (ma anche con un ragù) è assicurato. È un vino che quando lo si beve ricorda in pieno il Pinot Noir arrivando ad essere una grande espressione di Aleatico! Se Luca voleva trasmettere il suo entusiasmo attraverso i vini, devo dire che c’è riuscito in pieno. Io almeno mi sono entusiasmato e non posso che dirgli grazie per avermi coinvolto e contagiato. Quella di Luca e della sua famiglia è una realtà che dimostra a pieno come l’entusiasmo, la determinazione, la passione, lo studio, la programmazione e mai l’improvvisazione possano portare a produrre vini che meriterebbero tanta ma tanta maggiore notorietà. Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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12 Maggio, 2023

Giovannino Pusceddu e la sua Sardegna

Giovannino Pusceddu e la sua Sardegna Cannonau e Vermentino. Vermentino e Cannonau. Non è che si va molto più lontano di così se si vuole identificare la Sardegna nel mondo del vino. Almeno per i più. Parlare di altri vitigni della Sardegna è come dire ad un turista che in Sardegna c’è altro oltre il mare. Se non ci si ferma alla superficie, si può trovare molto di più in Sardegna. Anche oltre le spiagge. Bosa ad esempio. È un paese in provincia di Oristano. Qui, i più esperti, sapranno citare la Malvasia. Di Bosa appunto. Certo, c’è pure il Cannonau. Come privarsene in fondo. Se arriva un turista e gli proponi la Malvasia, probabilmente non la prende. Se non hai nemmeno il Cannonau, cosa vendi? Il Vermentino…. Bosa è sul mare ma a stretto ridosso delle colline che cadono proprio nel mare. Nell’entroterra ci sono pascoli e boschi. È in altura che si trovano erbette che forniscono al latte, dunque ai formaggi e alle carni, un sapore del tutto particolare. Negli anni 50 la Granarolo mandava i camion in Sardegna e acquistava il latte da mio nonno. Poi i latifondi si sono frammentati, il prezzo del latte è crollato e il sistema si è sgretolato Il nonno di Giovannino Pusceddu aveva parecchia terra destinata all’allevamento di bovini e ovini. Oliveti e qualche vigneto con produzione per consumo familiare. C’era il frantoio ma non la cantina. Così che il vino che eccedeva si vendeva sfuso. Come l’olio ovviamente. Non è che si poteva imbottigliare. Tanto il vino si beveva per quello che era. Si coltivava il Pascale perché dava rese altissime grazie anche ai contadini che lo piantavano in zone prossime al fiume. È un vitigno che fa 10 kg a pianta. Peccato che dopo la produzione il vino non arrivasse a primavera inacidendosi precocemente senza che questo impedisse ai contadini di berselo lo stesso. Era un alimento. Ad un cristiano gli davi una bottiglia di questo vino spunto, una cipolla, un panino e quello stava a zappare tutto il giorno. Giovannino da sempre è affascinato dal vino. Così affascinato da aver conseguito una laurea in viticultura ed enologia. Una passione trasmessa dal nonno che, resosi conto che il settore dell’allevamento stava andando in declino, ebbe la pensata di piantare una vigna di 9 ettari di Malvasia e farsi una cantina. Peccato che alla sua morte il padre si sia occupato di altro e la vigna venisse divisa in famiglia. Finiti gli studi Giovannino non rimane in Sardegna. Vuole, ha bisogno, di fare esperienza. Di toccare con mano. Di mettere in pratica gli studi. Visto però che è uno che non ha tanta voglia di aspettare ha una pensata. Ho iniziato con l’idea di fare due vendemmie all’anno, una nell’emisfero nord, una in quello sud. Si dice in genere siano necessarie 14 vendemmie per definirsi enologo. Invece di metterci 14 anni ce ne metto 7 Come fai a non voler già bene ad una persona così? Giovannino va Svizzera per poi tornare e continuare a studiare per diventare sommelier. Visto che deve continuare a fare le vendemmie altrimenti non si può definire enologo, parte per la Nuova Zelanda e l’Australia. Siamo nel 2016 e qui lavora come operaio in una grande cantina. Solo che il metro per definire “grande” in Australia è diverso da quello nostro. In Australia si ragiona a tonnellate. Quando Giovannino racconta dell’Australia ha gli occhi che gli brillano così che si capisce quanto sia appassionato e fiero. Fiero di una esperienza del genere. Unico italiano nella cantina, così l’inglese lo ha imparato bene. Ha anche imparato la pragmaticità degli australiani (che in fatto di vini sono decisamente ad un buon livello). Nella worksheet la mattina leggo “aggiungere 3000 litri di acqua al tank n.18”. Era un modo per portare un vino da 18 gradi a 14: si aggiunge acqua. Per loro è normale. Una cosa che non fa male si fa e basta Stava bene in Australia Giovannino. Imparava l’inglese. Guadagnava il giusto. Faceva il mestiere che gli piaceva fare. Imparava a diventare enologo. Insomma di tornare non è che gli andasse molto. Anche se poi arriva il momento nel quale uno un po’ di nostalgia per la sua terra la sente. Siamo nel 2016 e un pensiero nella testa di Giovannino inizia a frullare. Se ritorno è per fare qualcosa. Così parla con la sua famiglia. Se valorizziamo il terreno, torno, apriamo una cantina e lavoriamo seriamente. Oppure rimango in giro per il mondo. Alla fine apre la cantina Azienda Agricola Fratelli Pusceddu insieme alla sorella Ottavia. Per ripartire subito dopo. Perché le 14 (o 7 per due) vendemmie, le doveva pur completare. Siamo io e mia sorella. Io ho fatto enologia lei tecnologia agroalimentari. Per il momento si è occupata di burocrazia perché stava studiando. Avevamo un operaio che tralasciamo ci ha creato tanti problemi e se ne è andato. Per adesso faccio tutto da solo. Imbottigliano il primo vino nel 2017. Non avendo tutte le attrezzature, porta l’uva nella azienda di Sassari dove lavora Giovannino. Nel 2018, gli investimenti e finalmente la prima annata viene imbottigliata in proprio. Due soli vini. Particolari. Ma solo due. Ecco, qui c’è tutta l’intelligenza e il pragmatismo di Giovannino. Se hai pochi ettari, tra l’altro con rese davvero basse (la Malvasia qui arriva a 30/40 quintali per ettaro) e vuoi in qualche modo affermarti, devi avere la quantità oltre che la qualità. Fare più di due etichette vuol dire disperdere. L’etichetta del rosso Temo è identificativa del territorio ma ha dello strano: c’è un fossile di conchiglia stilizzato. Il terreno intorno a Bosa è calcareo anche se c’è un po’ di argilla. Un calcareo ricchissimo di fossili. I fossili vengono fuori dal terreno. Mi creano problemi perché sono come dei sassi. Li usiamo per i muri a secco dei terrazzamenti. Non durevoli nel tempo perché sono si sgretolano. La disgregazione non è solo dei fossili ma anche dei terreni del nonno. Non rimane molto di quello che era. C’è un mezzo ettaro in campagna dove vivono i genitori. C’è un ulteriore ettaro ereditato dalla nonna. Ho ereditato dalla nonna materna un ettaro di Malvasia di Bosa in una zona che può essere considerata la grand cru della Malvasia. Peccato che la vigna, con meravigliose piante di 40 anni, produceva a mezzo servizio. Troppo poco per essere sostenibile. A malincuore, non rimase che buttare giù tutte le piante e reimpiantare le barbatelle. Infine un ulteriore ettaro e mezzo, piantato a uve a bacca rossa, derivato dalle terre del padre usate come uliveto e bosco. Un totale di 3 ettari e mezzo. In tre luoghi diversi. Tre zone distanti pochi minuti di macchina che con il trattore diventano 25. Tre terreni che cambiano donando ricchezza e diversità alle varie cultivar. Cannonau e Vermentino. Ricordate? Questo si produce in Sardegna. Ma qui siamo a Bosa. Dunque c’è la Malvasia. Poi c’è la vigna di rosso. Ma che rosso? Sembra arzigogolato, ma ricordiamoci che Giovannino è pragmatico. Oltre che enologo (le ha fatte alla fine le 14 (o 7 per due vendemmie). Un enologo pragmatico nonché proprietario (insieme alla sorella Ottavia) di una azienda, sa che poi il vino lo deve vendere. Oltre ad essere buono, il vino deve essere vendibile. Le pensa tutte Giovannino. Così che gli vengono in mente due vini interessanti. Un bianco come blend tra Vermentino e Malvasia. Un rosso che lui non ha timore nel definire “taglio bordolese sardo” poiché blend di Cannonau, Sangiovese e Cabernet Sauvignon. Se qualcuno pensa che ciò sia frutto di un vezzo, si sbaglia di grosso. Giovannino ha fatto sua l’esperienza certo ma ha perfettamente capito come la distinzione passi per qualcosa di identitario e speciale. Creare un blend di Malvasia e Vermentino vuol dire offrire a questo, stra noto in Sardegna, una nota insolita. Oltre che massimizzare la bassa produzione di Malvasia. Dove ci sono le viti di Malvasia è sì calcareo ma molto argilloso. Va gestito in base alle piagge. La Malvasia si raccoglie ad ottobre ma dipende dal tempo con il risultato che è quasi un passito. Per il rosso, inserire Sangiovese e Cabernet nel Cannonau, vuol dire arricchire il vino sardo fornendo struttura e longevità. Oltre che colore. Giovannino sa il fatto suo. Ama la sua terra e ama parlarne. Così come è meraviglioso quando parla delle sue piante. Delle sue terre. Essere sardo per Giovannino è esistenziale analogamente all’essere enologo. Le due cose si fondono perfettamente quando parliamo della potatura che lui dice di fare tardivamente perché evita le gelate (così non la stimoli e rimane dormiente il più possibile). C’è un detto in Sardegna. Te lo dico prima in sardo poi in italiano. Arbili at mortu sa mama a fritu. Aprile ha ucciso la madre con il freddo. Ogni anno qui succede qualcosa. Sono arrivate anche le cavallette. Ora ci manca Mosè Che mito Giovannino. Fa tutto da solo. In vigna e in cantina. Fa il vignaiolo e l’enologo. Fa il contadino e il cantiniere. Non si abbatte mai Giovannino. Tanto che per non farsi mancare nulla ha pure aperto un ristornate con un amico. Ho preso in gestione un ristorante con un altro socio. Piuttosto che avere una piccola enoteca prendo un ristorante e faccio conoscere i miei vini. Bosa è turistica. Così le persone che lo assaggiano mi contattano. Si è passato ad un bere di qualità e io voglio spostare il consumatore dalle classiche due taniche da cinque litri ad una cassa di bottiglia. Un po’ di sfuso lo vendo per il cash. Fa pagare le bollette Insomma, Giovannino è uno che ci sa fare. Scelte ben precise con uno scopo ben preciso. Senza poi tralasciare una nota di tenerezza. Se non ci fosse la mia compagna mi sentirei da solo in campagna. Assaggiamo per prima il bianco Alvu, con Malvasia (10%) in blend con il Vermentino (90%) con solo acciaio. Il pulitissimo giallo paglierino che ho nel calice sta virando verso il dorato. Colore già proprio del riflesso. Volevo fare qualcosa di diverso. A fare il Vermentino di Gallura sono buoni tutti. Volevo dare una firma locale e ho aggiunto la Malvasia. È un naso da Malvasia con sentori salini. Sapidità. Iodio. Viene bene La frutta viene fuori bene. Ho cercato di lavorare con una peristaltica riuscendo a trattare con i guanti il vino. È una cosa viva e va trattato come una donna. Ho acquistato una candeletta e qualunque movimento è fatto con azoto. Fare un lavaggio con azoto lo pulisce evitando di usare rame. Ecco, questo è Giovannino. Si certo, sta parlando con una persona che ne capisce. Ma la sua naturalezza nel dire queste cose, nell’affrontare la tecnica del vino, è meravigliosa. È padrone della materia e ne parla come se stesse al bar. Un grande! I sentori comunque di questo Alvu sono pulitissimi. La pera, i fiori bianchi di camomilla emergono in maniera distinta. Semplici, puliti, identificativi. In bocca torna a pieno la pera sentita prima al naso. È una pera Smith. C’è la sapidità oltre alla dolcezza della pera con un finale lievemente amarognolo dato dalla Malvasia. È una coda che arriva con la deglutizione scomparendo immediatamente a causa della sapidità. La sensazione che ne deriva è piacevole perché quando l’amaro sta per arrivare, scompare in un gioco che c’è piacere a ripetere. Persistente, secco e caldo. Un calore però che non si percepisce nel pieno dei suoi 14 gradi Non riesco a fare di meno però non li senti. Sono riuscito a bilanciare tutto. È un vino un corposo. Sì sottile ma che poi si allarga grazie alla dolcezza della pera. Quest’ultima, unita alla secchezza, limitano la sensazione di calore. È un vino beverino che rischi di sentire dopo. Da abbinare con un pesce al sale. Per la pasta userei solo crostacei. Poi ecco Temo (nome che deriva dal fiume, navigabile, che attraversa Bosa), il rosso del 2021 per il 70% Cannonau dunque già pronto di suo. Grazie al Cabernet il colore è un rosso rubino acceso. 6 mesi di barrique di secondo/terzo passaggio, acciaio e vetro (la recensione sul mio blog Instagram) Mi sono trovato costretto a fargli fare la barrique perché Sangiovese e Cabernet vanno domati. Il cannonau va in bottiglia perché te lo bevi tranquillamente. Gli altri hanno tannini verdi che devono polimerizzare. Bella pulizia, indicativa di un ottimo lavoro in cantina. Le note che emergono al naso sono dolci di frutta matura, spezie come chiodi di garofano, vaniglia, tabacco dolce, fiori quasi in potpurry. Non può mancare la violetta del Sangiovese. Sottobosco ed ematico chiudono un bel bouquet che avrà tempo per evolversi in bottiglia. È infatti un vino giovane nonostante la rotondità dei sentori merito del legno. Tra alcolicità e acidità, dieci anni di bottiglia gli fanno un baffo. È vero che deve evolversi ma in bocca tornano i frutti. È caldo, secco, sapido. La freschezza ed il tannino ci sono. Così come la importante persistenza. Avrà sicuramente una evoluzione ma è pronto adesso tanto che risulta molto piacevole da bere, meglio se accompagnato. Sarebbe utile prendere più bottiglie per apprezzare le diverse per le annate e la loro evoluzione. Quando ti trovi dinanzi una persona giovane come Giovannino Pusceddu, non puoi che avere speranza per il futuro. Passione, forza, determinazione, voglia di emergere. Unita all’amore per la propria terra e per il proprio duro lavoro. Una durezza che non spaventa anzi appaga. Così come appagano tutti i singoli risultati che ottiene insieme ad Ottavia. Se si dice che per diventare enologi servano 14 vendemmie (7 anni per Giovannino tra i vari continenti) allora io auguro a Giovannino cento di queste vendemmie. Te, le meriti. Ve le meritate tutte. Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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5 Maggio, 2023

Tenuta Agricola Pesolillo e l’ospitalità abruzzese

Tenuta Agricola Pesolillo e l’ospitalità abruzzese Cosa porta a produrre vino? Passione? Amore? Calcolo? Si dice spesso che per ottenere risultati economici interessanti il vino debba avere grandi quantità. Volumi e volumi in grado di generare margini sufficienti per essere definiti azienda. Anche se ancor più spesso le aziende sono famiglie, con la loro storia, la tradizione, la continuità. C’è chi è nato vinicoltore. Chi ci è diventato convertendo la coltivazione. C’è chi ha scoperto l’ospitalità per legarla alla cantina. Un po’ per arrotondare, un po’ per darsi un tono. Raramente mi è capitato qualcuno che abbia iniziato a produrre vino grazie all’ospitalità. Nel caso della Tenuta Agricola Pesolillo forse si è trattato proprio di assecondare l’agriturismo. Siamo in Abruzzo, a Chieti. Le colline scendono dolcemente verso il mare separando questo dagli Appennini. Dal mare arrivano i venti salini che rendono le estati meno calde. Così come gli inverni meno rigidi. I terreni, di matrice sabbiosa, sono da sempre vocati alle grandi produzioni di uva. È questa terra di pastori e di agricoltori. Persone ospitali e schiette che non vanno tanto per il sottile quando si tratta di mangiare. Figuriamoci di bere. Incontro Lorenzo Pesolillo, terza generazione della azienda. Un ragazzo che si sta facendo strada e che ora, dopo aver preso una laurea in economia, fatto esperienze all’estero e in Italia per una importante azienda che produce e commercializza la bevanda gassata più famosa al mondo (va beh lo scrivo che è la CocaCola), si dedica anima e corpo alla azienda di famiglia. È Lorenzo che si occupa della promozione e vendita dei vini di famiglia. Ci siamo divisi i ruoli. Un mio fratello fa la sala nell’agriturismo; l’altro sta in cucina. Uno fa più la parte burocratica; uno più cantina vera e propria. A me dicono: con questo vino cosa facciamo? Marco, Luca, Lorenzo. Loro sono i figli di Giuseppe Pesolillo, diretto discendente di Domenico, fondatore dell’azienda nel lontano 1961. 12 gli ettari di terra. Non tantissimi per una azienda agricola. Ma se sai cavalcare il momento, puoi trovarne di che vivere. Ai primi degli anni 90 papà Giuseppe coltiva le pesche per poi venderle all’ingrosso. Alla fine degli stessi anni, vedendo che qualcosa stava cambiando, inizia la coltivazione fuori suolo e in serra. I tempi cambiano ancora e Giuseppe capisce che qualcos’altro su quella terra si può fare. Mette così su l’agriturismo con la ristorazione e le stanze per gli ospiti. La ristorazione, con la schiettezza dei cibi abruzzesi, necessita di vino. Sincero e senza fronzoli. Così come sono gli stessi abruzzesi. In azienda il vino si è sempre fatto perché le vigne fanno parte di questo territorio. Montepulciano (d’Abbruzzo ovviamente) e Pecorino. Si fa il vino dall’uva che rimane dopo il conferimento alla cooperativa. Si faceva per la famiglia e si fa ora per l’agriturismo. Eh già l’agriturismo. Quello ne chiede di vino. Così come di ortaggi e tutto ciò che la terra può dare. Turisti, turisti, turisti. Bella intuizione in una terra che ha tanto da offrire ma ancora poco sfruttata. Avevamo la cantina in versione light. Vinificavamo 5/6000 litri tra bianco e rosso. Per l’agriturismo. Agriturismo vuol dire ospitalità. Vuol dire aver rispetto degli ospiti, dei clienti. Offrire loro prodotti a km zero non avrebbe senso se non biologici: sani e coltivati nel rispetto della terra. Oltre che del territorio. Se inizi a produrre ortaggi a km zero, diventa una filosofia che la vigna non può che recepire. È così che il rapporto con la cooperativa alla quale si conferisce l’uva, si incrina. Non tutti sono infatti disponibili a seguirli nel biologico (forse non riuscivano a vedere lontano). Non tutti limitano le produzioni in vigna badando più alla qualità. L’unica soluzione possibile è coltivare e trasformare l’uva in proprio: un progetto di lungo periodo. Tutta l’uva però. Cosa questa che non potrebbe più essere assorbita dal solo agriturismo. Anche diminuendo le rese, le bottiglie rimangono tante. Occorre pensare a produrre vino e a venderlo. Il passo successivo è dunque una conseguenza: investimenti per le attrezzature di cantina, per la cantina stessa, per le persone, per la commercializzazione. Non è la cantina che ti fa dire wow ma è funzionale e c’è tutto di quello di cui hai bisogno. Un percorso necessario che porta l’azienda a concentrarsi, anche, sul vino. Lorenzo è un ragazzo diretto e con il sorriso sempre pronto. Ha dalla sua l’anima commerciale che lo porta a raccontare con leggerezza e maestria la sua azienda ma anche a fuggire dai lavori in vigna o in cantina. Conosce le sue capacità e riconosce le sue conoscenze. Così come i limiti. Non sono un enologo ma mi fido del nostro. Non puoi saper far tutto per cui ti servi di un tecnico bravo. Soprattutto, quando verso il vino nel bicchiere sento la differenza. Per iniziare a produrre vino, vino che sia rappresentativo del territorio, che non sia opulento ma schietto, pronto e fresco, serve lavorarci sopra. Non sono passati tanti anni. Eravamo pronti per il 2020 ma il covid ci ha bloccato. Siamo usciti nel 2021. Serviva un tecnico ed è stato preso. Serviva l’attrezzatura ed è stata acquistata. Serviva un buon packaging e l’hanno creato. Tutto in un bel piano sequenziale. Merito dell’intuito ma anche di tanta preparazione. Abbiamo ricreato daccapo tutte le etichette. Abbiamo fatto alcune accortezze in cantina sia da un punto di vista tecnico sia di presentazione. Devo essere contento anche se tutti i commerciali vorrebbero sempre di più. È un inizio. Il prodotto piace dunque va bene. I 12 ettari di vigneto diventeranno 15 a breve. Le rese per ettaro sono basse per un territorio che ha fatto (nella maggior parte dei casi) la quantità come focus: 150 quintali per ettaro per il Montepulciano; 100 per il Pecorino. Raccolta manuale su tutti gli ettari. Per come abbiamo i vigneti noi si farebbe anche fatica con la macchina. Ma serve perché con le piccole dimensioni si gestisce bene la tempistica vigna-cantina. Una azienda giovane dunque. Governata da giovani con idee chiare e una filosofia che si ritrova tutta nel bicchiere. La voglia, manco a dirlo, è quella di offrire prodotti genuini, identitari, semplici. Schietti. Come gli abruzzesi. Iniziamo ad assaggiare i vini partendo dal Pecorino superiore. È un 2021. Uva raccolta nella seconda metà di agosto per mantenere freschezza e immediatezza. Il colore verdolino scarico evidenzia la giovinezza. Le note erbacee di fieno appena tagliato, la confermano appieno. I fiori sono bianchi e c’è un sentore vinoso che lo rende già così schietto e diretto. La mela verde Granny Smith è croccante. Le note semplici e dirette non deludono le aspettative. Il sorso non è da meno. Già mi piace il retro olfatto che richiama fortemente i sentori apprezzati all’olfazione. Torna la mela verde donando la sensazione di grande freschezza: non serve gustarlo particolarmente freddo (8/10 gradi). È sapido. Molto diretto, non opulento. Molto verticale. È un vino che ha una freschezza e secchezza così importante da renderlo quasi tannico. Serve abbinarlo ad un piatto di pesce dolce tipo salmone o gustarlo durante un aperitivo accompagnandolo con un formaggio non stagionato. La bocca chiude bene e la persistenza è giusta. Lorenzo è davvero commerciale. Parla a raffica della bottiglia. Del prezzo. Del fatto che deve essere un prezzo abbordabile per il consumatore per portarlo a bere anche due bottiglie. Sa il fatto suo! Passiamo al Rosato IGT. In una terra dove il Cerasuolo è monumento, sembra quasi un controsenso non chiamarlo così. Eppure, anche in questa scelta, noto lungimiranza, determinazione, serietà. Nella bottiglia non c’è il solo Montepulciano ma anche della Malvasia Rossa. Il colore che ne deriva è più chiaro di un classico Cerasuolo. Territorio, vitigno, tradizione. Non aveva senso proporre un Cerasuolo così chiaro. C’è qualcosa di diverso per via della Malvasia che da dolcezza ma no n residuo zuccherino. Quasi aromaticità. Al naso la cerasa è quella bianca, una ciliegia dolce e croccante: dolcezza della Malvasia, croccantezza del Montepulciano. Oltre la cerasa, un po’ di melograno, della pera Smith, un po’ di mela e dei fiorellini di campo, non c’è molto altro. Ancora semplicità dunque. Schiettezza, immediatezza. Come si conviene ad una serata di campagna in estate. Volevamo un prodotto più moderno, internazionale. Questo Rosato si dimostra amabile. Quasi piacione. Lo senti e dici “ah però”. In bocca emerge la parte fresca che al naso veniva coperta dalla Malvasia. La ciliegia scompare quasi per dare spazio ad una fragolina che non smette di essere presente. Molto secco. Sapidità più spinta del Pecorino. In finale molto più convincente di alcuni Cerasuoli. Rimane un senso di agrume in bocca che sembra una arancia. Si può bere da solo! Saltiamo nel mondo dei rossi partendo dal Montepulciano biologico. 2021. L’uva è raccolta in base agli anni tra l’ultima di settembre e la prima di ottobre. Imbottigliato a marzo 2022 dopo 4 mesi di acciaio per ricercare una beva estiva. Un obiettivo che fa capire il perché del vino: l’agriturismo! È nato da quello che ci dicevano i nostri clienti in agriturismo quando gli si proponeva il Montepulciano. Abbiamo voluto fare una versione più beverina. Colore rubino con riflessi porpora dice che nel calice c’è un Montepulciano giovane e non impegnato (né impegnativo). Al naso si intuisce la giovinezza: è come se fosse stato spremuto un grappolo direttamente nel bicchiere. Ricorda, per la frutta che si evidenzia al naso e per la freschezza, un vino novello. Freschezza e accessibilità. Se non ami particolarmente i rossi, questo potresti apprezzarlo. In bocca il tannino non è per nulla irruento. Molto secco. Caldo. La frutta in bocca mi ricorda, positivamente, un novello. D’estate con 30 gradi fuori e il vino a 16 si apprezza. Una bella scelta commerciale pensato per l’agriturismo. Per le serate estive e le cene all’aperto al chiaro di luna. È un vino “infame” (nel senso buono ovviamente!) perché te lo bevi tutto e i suoi 14 gradi rischi di sentirli dopo (ma tanto hai la stanza a due passi e ci può stare). Saliamo di livello e apriamo un Montepulciano “Filari in costa”. Coltivato in un appezzamento di circa due ettari (“in costa” vuol dire in pendenza) con esposizione sud sud est. Maturazione protratta in avanti Il colore ricorda il precedente ma senza la porpora come riflesso. I sentori di mora e ciliegia si sentono più maturi. Un po’ di sottobosco c’è. Il passaggio in botte (su circa il 25% della massa) è breve (sei mesi) e di basso impatto (terzo passaggio delle barrique) lo rendono diretto anche se c’è una maggiore e ovvia rotondità rispetto al precedente. Non mi aspetto tanta freschezza in bocca ma rotondità in evoluzione. Il tannino che si apprezza al sorso è infatti più vellutato. La rotondità c’è pur con un finale leggermente amaricante. Secco e non particolarmente sapido. Un vino non impegnato che ordini nuovamente poiché di facile abbinamento e di beva non impegnata. Ciò che mi piace è la continuità con il precedente rosso. Non so se è un caso o meno. Lo scoprirò assaggiando il prossimo. La Riserva 2019. Sempre di Montepulciano ovviamente. 3800 bottiglie. Etichetta numerata, ceralacca, cartavelina e cartone dedicato. Qui ci si dà un tono. Raccolto ancora più tardi del Filari in Costa, fa un anno di acciaio e un anno in barrique. Poi in bottiglia per un ulteriore anno. L’aumento della complessità olfattiva evidenzia l’evoluzione del vino. La frutta è quasi cotta. I fiori sono vicini al potpurry. Spezie dolci di cardamomo, chiodi di garofano, tabacco, pellame. Poi pepe. La secchezza è la stessa dei precedenti. I tannini sono levigati. La persistenza si allunga e la bocca si chiude precisa con una importante ciliegia. Il maggiore affinamento ha tolto anche il finale amaricante del precedente. La spalla garantisce una sicura evoluzione non tanto per i sentori quanto invece per i tannini che continueranno ad ammorbidirsi. Lo trovo splendidamente abbinabile con la brace (un arrosticino di pecora, manco a dirlo!).  È comunque una bottiglia che non necessita di particolari occasioni per essere bevuta. Anche questo ultimo assaggio mi conferma che c’è un filo conduttore tra i diversi vini a dimostrare che quando si attua un progetto, non necessariamente si deve venire da lontano. Basta essere coerenti e consistenti. La coerenza rende particolarmente evidente l’evoluzione sensoriale dei i vini. Pesolillo è uno dei produttori dove ho maggiormente trovato, nella semplicità, il legame dunque la costante impronta tra i vari prodotti. È bellissimo infatti constatare come da uno stesso vitigno si possano avere sensazioni olfattive e gustative completamente diverse ma legate tra esse. La scelta di produrre vino per l’agriturismo è senza dubbio una scelta intelligente e soprattutto vincente. Cosa ricerchiamo quando andiamo in un luogo del genere? Piacere, relax, convivialità. Proprio come il vino. Cosa è il vino se non sensazioni, ricordi? Ecco allora che aprendo certe bottiglie non possono che tornarci alla memoria le sensazioni vissute. O che vorremmo vivere. Non so quali e quanti clienti dell’agriturismo dovrò ringraziare per aver ispirato questa evoluzione aziendale, ma davvero grazie. Grazie anche alla famiglia Pesolillo che con lungimiranza e capacità è riuscita a realizzare qualcosa che spero, sia solo l’inizio di una storia.   Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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28 Aprile, 2023

Barabara Gatti il Moscato ha trovato il suo sorriso

Barabara Gatti il Moscato ha trovato il suo sorriso Quindic’anni, quindic’anni, quindic’anni Poesia di un’età che non ritorna Sulla bicicletta in due senza mani Matti come due cavalli io e te Era il 1976 quando il gruppo “I Vicini di casa” cantavano la canzone “Quindic’anni” garantendosi un successo discografico per poi scomparire nel dimenticatoio subito dopo. Già, è facile cantare una canzone così e poi scomparire. Più difficile è quando, proprio a quindici anni, non puoi scomparire perché inchiodato a responsabilità che non hai chiesto, non hai voluto. A quindi anni sei nel pieno della adolescenza. Vuoi andare in giro in bicicletta senza mani (nel 1976) o scorrazzando con una di quelle dannate macchinette ai giorni nostri. Ti batte il cuore se un ragazzo ti scrive o ti guarda. Pensi al mondo come non dovesse mai finire. Quando però a finire è la vita del faro della tua vita, di colui che ha rappresentato l’esempio, allora il mondo ti casca addosso. Anche una quindicenne ha un’anima e una sensibilità nel capire che quando il papà muore e rimani sola con tua madre, lì, non solo inizia il vuoto, ma il macigno che ti grava sulla testa è qualcosa che non sei sicura di poter sopportare. Barbara Gatti perde il papà quando ha quindici anni. Non c’è solo il vuoto lasciato, il macigno del dolore, la consapevolezza che da ora in poi sarà solo lei con la madre. No, c’è anche una azienda da portare avanti. A quindici anni? Già. Purtroppo. Per fortuna. Chissà. Siamo a Santo Stefano Belbo (Cuneo), luogo noto ai più per aver visto la nascita di Cesare Pavese; ai meno (purtroppo) perché centro nevralgico del Moscato d’Asti. Qui, sulla collina di Moncucco, sorge l’Azienda Agricola Piero Gatti che dagli anni 80 produce il nettare che ha reso famoso questo territorio nel mondo. Piero era il papà di Barbara. Piero insieme a Rita, la mamma di Barbara, fondarono l’azienda nel 1988. Due soli ettari di terra fino a quel momento utilizzati, anche dai loro genitori, solo per produrre uva da conferire. Il grande passo che papà Piero si sentiva nelle corde, forse anche nel dovere, di fare. Barbara era piccola. Così piccola che i ricordi di quei tempi affiorano con difficoltà. Non i momenti felici, le sensazioni che solo la vigna, la vendemmia, la cantina, i viaggi per portare il vino in giro possono imprimerti nella memoria. Gli odori e i sapori del vino sono nella sua memoria. Come un tatuaggio mnemonico. Ricordi sensoriali. Poi arriva quel momento. Quello che non ti aspetteresti mai. Che rifuggi perché non nella testa di un adolescente. Papà Piero che non c’è più. Si fa anche difficoltà a proferire la parola “morte”. Troppo dura. Troppo difficile ancora da digerire. Si dice “è venuto a mancare”. Ma manca. Manca davvero tanto. Come manca il terreno da sotto i piedi. Un terreno che però rimane li. Con tutta la azienda. Con la decisione di cosa fare Scegli tu cosa fare. Se andare avanti con l’azienda o meno. Mamma Rita è questo che dice a Barbara. A soli quindi anni ti viene voglia di scappare. Altro che rispondere. Sai in cuor tuo che se decidi di dire sì, prendi la tua giovinezza e la getti nel cesso. Se dici no, a finire nel cesso è l’azienda di tuo papà. La risposta che Barbara dà alla mamma è racchiusa nel suo sorriso. Sorriso disarmante. Tenero ma duro allo stesso tempo. Di quei sorrisi che ti fanno brillare gli occhi perché riesci a vedere dentro e capire quanto si dimeni tra felicità e tristezza. Felicità per ciò che fa, ciò che le circonda, ciò che è riuscita a portare avanti; tristezza per aver perso una parte importante della sua vita. Sono cresciuta un po’ in fretta. Ho dovuto prendere delle responsabilità che a quindici anni non si prendono. Non ho vissuto a pieno l’adolescenza Forza, tenacia, volontà. E tanto buon umore. Come puoi non aver rispetto per una donna come Barbara? Caso strano ci parliamo nel giorno della festa della donna. Dopo la morte di papà Piero c’è voluta la forza di mamma Rita unita a quella di Barbara per mandare avanti tutto. La mamma è stata un pilastro portante. Si è sobbarcata l’azienda per tanti anni in un periodo dove in queste zone una donna era guardata come una extra terrestre. Era l’unica donna che andava a comprare i prodotti per la vigna. Oggi, per fortuna, ci sono donne che lavorano la terra e guidano pure il trattore. Fino a quando anche mamma Rita non decide che sia arrivato il momento di raggiungere Piero. Così che Barbara è davvero sola. La guardi negli occhi e il sorriso quasi scompare. Troppo facile leggerle dentro una fragilità che però non dà a vedere. Quasi rifugge e sfugge ai pensieri con il sorriso a farle da schermo. Una azienda, che nel frattempo è diventata più grande, da portare avanti non è cosa da poco. Quando poi produci un prodotto identitario ma difficile come il Moscato, devi farlo bene. Devi necessariamente produrre un prodotto di eccellenza. Sì, certo, per i clienti. Ma anche, forse soprattutto, per papà Piero e mamma Rita. Perché loro da lassù guardano, osservano e non possono essere delusi. Barbara lo sa. Sa che il suo di compito non è semplice. È sola. Ma non demorde. Una spera che attraverso il lavoro, l’azienda e i loro insegnamenti di tenerli vivi. Le tocca davvero ripartire da zero. Per una che ha fatto il classico e poi si è iscritta a lingue all’università dover fare tutto da sola perché nemmeno mamma Rita c’è a condividere la conduzione, vuol dire ricominciare. Da zero. Grande umiltà. Grande spirito di adattamento. Grande forza. Occorre chiedere consiglio. Occorre sperimentare. E tanto. Barbara lo fa. Sono andata al Vinitaly da quando avevo quattordici anni Non lo dite in giro che facevano entrare minorenni altrimenti sono problemi!o Barbara ha ampliato i mercati verso l’estero arrivando a vendere il 50% fuori Italia. Papà faceva solo il moscato. Hanno aggiunto poi il Brachetto e i due rossi. Lei ha creato altri vini, il passito e il bianco “Due Gatti”. Cerchiamo di fare vini vegani. Ho fatto esperimenti sui passiti con appassimenti in vigna e graticci. Preferirei però fare vini in tradizione pura. È nato così ed è buono così. Talebana! Ho fatto solo esperienza con persone che mi hanno insegnato i trucchi del mestiere mentre con il vino tanti assaggi. Che ne penserebbe papà dei due vini? Io spero ne sia fiero. La filosofia che abbiamo sposato è sempre la stessa: fare vini di qualità, farli bene, rispettando la terra, le tradizioni. Spero possa esserne fiero. Barbara. È lei che gestisce l’azienda. Lei che crea vini e mantiene la tradizione. Frutto di passione e tanto amore. Una sfida continua con sé stessa. Perché papà Piero e mamma Rita possano essere soddisfatti di lei. Sembra quasi un peso questo. Che lei porta con allegria e fierezza. Ma anche con fermezza. Pretendendo da tutti il massimo, controllando che tutto sia a posto. Non può deludere papà Piero e mamma Rita. Mi spiacerebbe per tutti i sacrifici fatti da mio papà e da mia mamma che qualcosa andasse male. Non può permetterselo. In fondo ora c’è Agata, tre anni. Il futuro di questa azienda. Agata che porta il cognome di Barbara perché la continuità si fa anche così. Se le piace l’aiuto ma se non le dovesse piacere non voglio forzarla. Difficile comunque portare avanti l’azienda con una bambina di tre anni. Difficile, duro ma non da farle perdere il sorriso. Tempo libero non ce ne è dunque cerco di fare i lavori quando dorme o è all’asilo” Sorride mentre lo dice. Sorride di quella tenerezza che Barbara sa “diffondere” nell’ambiente che la circonda. Non si abbatte. Non si scoraggia. Sorride alla vita. E tuo marito? Lui fa l’agronomo. Ci siamo conosciuti per lavoro. Gli chiedo ovviamente di aiutarmi come in vendemmia: si prende le ferie! Se potessi scegliere di tornare indietro ai tuoi 15 anni? Io sono contentissima. Mi piace questo lavoro. Veder bere alle persone una cosa che hai fatto tu è una soddisfazione incredibile. L’idea di Barbara è di aumentare la produzione per via di qualche ettaro in più da far fruttare. Ma senza esagerare.   Poi vediamo quando cresce la mia bimba. Barbara Gatti e la sua spontaneità, la freschezza, la voglia di non mollare. Per papà Piero. Per mamma Rita. Per Agata. Per sé stessa. Ti auguro tante, tante meravigliose vendemmie con la speranza di vedere quanto prima la piccola Agata seguire le tue orme. Ve lo meritate.   PS ho assaggiato il Moscato e che dire se non “wow”? Un vino che per i suoi pochi gradi di alcol e la dolcezza non stucchevole, può essere bevuto da tutti. Un naso ricco di dolcezza con la pesca, la mandorla dolce, l’uva, gli agrumi dolci e i fiori di camomilla. In bocca esplode la dolcezza avvolgente senza essere stucchevole. C’è una base fresca e la sapidità che lo rende non opulento. La chiusura di bocca è gradevolissima, quasi elegante. L’ho degustato con la pastiera: eccellente!   Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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21 Aprile, 2023

Virna Borgogno la Signora delle Langhe

Virna Borgogno la Signora delle Langhe Ricordo di aver conosciuto Virna Borgogno durante una serata di presentazione di vini rimanendo colpito non dalle bottiglie di Barolo che aveva sul suo tavolo quanto dal nome di un bianco “Sto fuori”. Così quando mi presento e le chiedo di questo vino lei mi risponde candidamente che la voglia di evasione l’aveva portata a creare il Timorasso. Così Virna mi ha conquistato per rimanere poi estasiato dall’assaggio dei suoi Barolo. Virna Borgogno. Una donna che ti conquista con la sua schiettezza e con quei modi pragmatici, per certi versi fatalisti. Fiera di essere donna. Fiera di essere davvero la signora delle Langhe. Non è lei che si definisce così ma, dal mio punto di vista, è la definizione migliore che le si possa attribuire. L’azienda che Virna gestisce insieme alla sorella Ivana ha storia non tanto remota. Il nonno e il papà scomparso da pochissimo, iniziano l’attività nel primo dopoguerra. Erano gli anni nei quali occorreva sbarcare il lunario dopo che la guerra aveva distrutto tutto. La prima necessità era guadagnarsi da vivere. Ha iniziato come sapeva. Era più una questione di necessità economica per guadagnarsi da vivere. Bisognava produrre e vendere. Uva e vino. Senza badare tanto alla qualità perché non era quella la priorità. Poi, il papà trova la strada e inizia ad acquistare qualche terreno costruendo la cantina e la nuova casa dove si trasferiscono. 12 ettari di proprietà più circa 8 tra affitto e co-conduzione insieme ad altri agricoltori Si fa così nelle Langhe dove acquistare un terreno è diventato impegnativo. Forme di questo tipo sono l’ideale. 80.000 bottiglie l’anno. Per una azienda di Barolo non sono poche. Una parte dei nostri Barolo vanno in vendita ad imbottigliatori classici. È anche una questione di scelta. Per fare delle cose buone in bottiglia bisogna anche scartare. Vogliamo fare delle selezioni che prevedono uno scarto. Fin qui sembra tutto nella norma. Una famiglia. Le vigne. Il salto generazionale. Una zona baciata da Dio. Sembra tutto facile no? Ehm, non proprio. occorre fare un salto indietro nel tempo per capire bene. Immaginatevi di essere negli anni 80. Siamo sempre a Barolo, nel pieno centro delle Langhe. Li, in quel tempo, se sei figlio di un produttore poteva essere facile farsi strada. Figlio appunto. Essere “figlia” era altra cosa. Le donne al massimo partecipavano alla vendemmia. Ma per il resto, l’essere relegate in casa era la normalità. Lodovico Borgogno aveva solo due figlie femmine, Ivana e Virna. Siamo due femmine e papà ha avuto sempre un po’ di tristezza nel non avere avuto un maschio. Era il principio dei produttori. Occorreva comunque pensare all’azienda e alla sua successione. Non che ci fossero problemi ma papà Lodovico aveva capito che c’era bisogno di un cambio di passo. Lui che aveva iniziato a fare vino senza tante esperienze. Lui che sapeva come trattare la vigna e l’uva ma meno il vino. Lui che faceva il vino secondo la tradizione aveva capito che serviva altro per andare avanti. Così che tra le due figlie sceglie Virna. Si è poi accontentato puntando su di me perché avevo le caratteristiche del produttore. Virna non è una che si improvvisa. Sa che per affermarsi, per farsi valere, per far capire come una donna sappia fare come, anzi meglio di un uomo, serva studiare. Serva essere preparati e solidi. Non basta l’esperienza che ancora non ha. Non basta essere la figlia del produttore. Lei sa che deve sentirsi solida. Non le interessa tanto dimostrare. Lei, Virna, vuole essere consapevole. Così studia alla scuola di Enologia. Ma non basta. Si iscrive, unica donna, alla facoltà di Enologia a Torino e diventa la prima donna in Italia a conseguire la laurea. Siamo nel 91. Sembra un secolo fa e per certi versi, per la mentalità che fortunatamente c’è oggi, lo è. Bellissimo che sia cambiato tutto in trenta anni. Peccato ci sia voluto così tanto. Ma nel 91 faceva clamore la cosa. Anche se a Virna interessava poco. Per lei era solo l’inizio. Anzi, continuare ciò che stava facendo. Perché non è che da studentessa non si occupava dell’azienda. Sono arrivata a casa un po’ più carrozzata. In quei tempi lì la presenza femminile nel campo non era sviluppata come oggi. Allora come adesso. Poche anche oggi fanno scelte enologiche di cantine. Dopo la laurea non è che Virna ha subito la strada spianata. Il passaggio del testimone richiede tempo. Ci sono voluti dieci anni anche se è avvenuto passo passo. Papà aveva un carattere forte ma era generoso e soprattutto pensava al futuro. Aveva già messo in pista tutti gli aspetti per avere continuità. Non si è tenuto tutto fino all’ultimo. Dal punto di vista delle scelte produttive voleva toccare con mano. Ho insistito per fare delle scelte e man mano che i vini venivano meglio, che venivano apprezzati deve aver pensato che si poteva dare spazio. Un marito può essere di supporto ma può anche essere ingombrante. Soprattutto se è un produttore di Barbaresco. Pure bravo. Ogni tanto papà mi diceva di farlo parlare con tuo marito. Condividere progetti con una parte maschile forte aiuta ma allo stesso tempo relega un po’ nelle retrovie. È come se non prendessi totalmente possesso delle proprie capacità. Forse è qualcosa che arriva dalla tradizione, dalla realtà rurale. Forse noi donne non abbiamo la consapevolezza di non poterlo fare. C’è qualcosa che arriva dalla tradizione. Vedo che c’è questo sentimento che viene da lontano che noi stesse coltiviamo. Alla fine serve la mancanza. Perché fino a quando hai l’appoggio non decollerai mai. Ed è così, quando la vita porta ad intraprendere strade diverse, quando la separazione dal marito avviene, che Virna spicca il volo. Con il papà che iniziò a darle fiducia. Papà non aveva studiato. Veniva da una famiglia povera e il primo aspetto era portare a casa la pagnotta. Quando si è accorto che la qualità diventava sempre più importante ha lasciato spazio. Pensare ad un diradamento in fase di produzione andava oltre l’immaginazione. In fondo venivano da un mondo diverso. Dopo la guerra. Nel 2005, dopo circa dieci anni che ero in azienda, Virna ne prende le redini. Fiera Virna. Veramente fiera. Di essere donna e di lavorare in questo settore. Ma senza vantarsi. Lo dice con la leggerezza e la pragmaticità che la contraddistingue. Virna che si occupa della parte tecnica. È lei che fa le scelte enologiche. È lei che si occupa del lato commerciale. La parte tecnica la faccio io. Non faccio più i lavori pratici come i travasi ma le scelte le faccio io. Ho due collaboratori che mi seguono per la parte pratica. Ho un appoggio esterno di un collega che viene ogni tanto. Mia sorella che si occupa della parte burocratica. Le lascio fare la roba grama. Riconosciuto anche dal papà che diceva agli altri che i vini li faceva Virna perché lui li aveva sempre fatti come gli era stato detto di farli. La scelta delle nuove etichette con il suo nome, Virna, impresso e che diventa un brand. Una scelta per sdoganare un cognome, Borgogno, forse troppo impegnativo. I nomi dei vini. Scelti in maniera identitaria con la voglia di essere sé stessi. Virna consapevole che in questo campo non si abbia mai abbastanza esperienza: ogni annata è diversa, le basi di partenza sono diverse. Io mi ritengo sempre abbastanza ignorante perché ci sono situazioni che stupiscono sia in vigna. Sono una che pensa che i vini vadano seguiti ma non cambiati. Non mi piace l’abbandono perché noi abbiamo una funzione importante. Se lo lascio lì e fa una strada sua non va bene. Serve seguirlo perché poi dopo chiediamo dei soldi. Grande merito di Virna è aver capito le diversità che il territorio delle Langhe può offrire e come questo si identifica nel vino. Caratterizzare le singole vigne per creare qualcosa di riconoscibile. Di partenza abbiamo dei prodotti diversi dunque puoi valutare se appiattire oppure se seguire le differenze. Abbiamo scelto di seguire le differenze perché ci sono. È molto più stimolante e stressante. Altrimenti ci si annoia. In Virna c’è la vera voglia di far crescere il territorio. Ognuno con le sue identità. Differenti. Senza fare classifiche ma lasciando al mercato e ai produttori la valorizzazione delle zone con carattere più spiccato. Anche con sperimentazioni come quella del Timorasso, non per dimostrare qualcosa a qualcuno ma come scelta. Scegliere di essere unici e di farsi apprezzare per questo. Sono una che non se ne frega tanto di cosa dicono gli altri. Facciamo le nostre cose. Tante vendemmie alle spalle per Virna e tante ancora dinanzi a sé. Un futuro tutto da scrivere magari con Lorenzo, il figlio di Ivana. Il fatto di essere zia è un bellissimo vantaggio. Lorenzo è un ragazzo in gamba con grande capacità di parlare con la gente. Perfetto da un punto di vista commerciale. I miei figli uno è piccolo e uno si sta laureando in legge. Loro dicono che devo fare almeno altre dieci/quindici vendemmie. Papà ha lavorato fino a 87 anni. Tutti i giorni a far qualcosa. Quindi non è che mi spavento tanto. Se non ho dei problemi continuo a lavorare. È un impegno ma riempi la giornata facendo cose belle. Una donna forte. Una di quelle con la schiena dritta che ha come unico vanto non i suoi vini ma di aver fatto gli studi di enologia, prima donna in Italia. Il fatto di essermi preparata mi aiutata tantissimo ad affermarmi. Un po’ di preparazione ci va. Questo vorrei capissero i miei figli. Condurre insieme alla sorella una azienda totalmente al femminile non è da sottovalutare. Affermarsi in un mondo maschilista superando i pregiudizi non deve essere stato facile per nulla. Anche sfidando tutto e tutti. Sono una persona molto pratica. Mi fanno arrabbiare i concetti puritani sulla produzione e sulla cantina. Nella vita e nella produzione ci vanno i compromessi. Non posso fare l’uva buona senza fare i trattamenti. Bisogna raccontare le cose come stanno perché la realtà è diversa. I vini sono come lei. Caratteriali. Forti. Unici. Vini che lasciano il segno. Che vanno aspettati, ascoltati, compresi. Ma che poi restituiscono, generosamente, tutta la loro unicità. Spessimo mi dicono che sono vini eleganti e spesso dico che tutta l’eleganza che non ho è nei vini. L’ho messa tutta li. Invece Virna è elegante. Di quella eleganza che è nella schiettezza, nei modi di porsi, di esaltare la propria azienda, di essere identitaria. Questo la rende una vera signora. Anzi, la Signora delle Langhe.   Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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14 Aprile, 2023

Pian delle vette e l’orgoglio delle Alpi Bellunesi

Pian delle vette e l’orgoglio delle Alpi Bellunesi Anche se ho vaghi ricordi della geografia studiata alle scuole medie, delle Alpi Bellunesi non ho proprio memoria. Eppure se qualcuno mi chiedesse di Cortina, non esiterei a definirla la perla delle Dolomiti. Cortina, Dolomiti, Alpi Bellunesi. Tutto qui? No, ovviamente. Le Alpi Bellunesi sono un unicum del nostro variopinto territorio tanto da dedicarci un Parco Nazionale. Meriterebbero dunque maggiore notorietà. Analogamente per il vino. Alzi la mano chi pensando, per il vino, alle Alpi, pensa a Belluno. Facile dire Trentino, facile dire Alto Adige. Meno Belluno. A meno che non si parli di Prosecco (e anche qui sfido ad associarlo alle Alpi). Eppure le Alpi Bellunesi hanno tutto. Ci sono le esposizioni, il suolo, i vitigni. C’è il clima, i venti, l’umidità, l’influsso del mare. Allora è solo una questione di notorietà. Proprio questo deve aver pensato Egidio quando, in quel di Rivergaro (Piacenza) dove lavorava, si trovava a parlare con i colleghi e nessuno conosceva le sue terre di origine. Per il vino ovviamente! Non serve essere orgogliosi per pensare che qualcosa in più si possa fare. Impegnarsi in prima persona perché la terra dove si è nati possa avere un ruolo. Siamo a Feltre, proprio ai piedi delle Alpi Bellunesi, nell’omonimo Parco Nazionale. 600 metri sul livello del mare. Prima della Grande Guerra qui si produceva vino per l’impero austro ungarico. Emigrazione, fillossera e indirizzo lattiero caseario delle terre generarono anni di oblio fino a quando, alla fine del secolo scorso, la Regione Veneto pensò che si dovesse rigenerare la viticultura di queste zone. Con questi presupposti, anzi su queste basi nasce Pian Delle Vette. Una delle poche aziende nate dall’impulso della Regione Veneto verso la cultura del vino in queste aree. Non basta un impulso però per far funzionare le cose però. Ci vuole una idea. Ci vuole imprenditorialità. Ci vuole dedizione. Oltre che tanto altro. L’azienda Pian delle Vette non gode di buona salute. Tanta produzione, qualche scelta di vitigni non proprio azzeccata. Insomma c’è da rimetterci mano. Così, per caso, come spesso capita in queste cose, Egidio D’Incà capisce che questa che gli si presenta è l’occasione per fare veramente qualcosa per la sua terra. Da solo sarebbe impossibile. Il suo lavoro è un altro e non può certo abbandonarlo. Ha bisogno di un socio e lo trova nel modo più semplice: Walter il promotore finanziario, amico di lunga data.   Io sono un suo cliente da quando ha iniziato la sua attività negli anni 80. Poi lui ha vissuto nel paese di Mugnai dove ho vissuto anche io. Paese storico della viticultura bellunese. È il 2016 quando Egidio e Walter si buttano letteralmente in questa iniziativa rilevando l’azienda dalla coppia trevigiana che l’aveva fondata. Ero rientrato dall’esperienza di Rivergaro aiutando i soci nel veneto. Avevi del tempo. La passione per coltivare la terra c’era ed è venuta questa occasione e abbiamo deciso di fare il salto. Qui c’era una situazione talmente ideale per fare una buona cosa che lo stimolo è venuto fuori. Ai due si aggiunge nel 2020 Alessandro che di mestiere fa l’istruttore sportivo e fisioterapista e che si innamora delle vigne nel periodo del Covid quando la sua attività è ferma. Sono quelle casualità che capitano e che si possono prendere oppure no. Non avevo grandi conoscenze specifiche. Durante il lockdown era tutto chiuso e ho iniziato a dare una mano ad Egidio. Mi è piaciuto quello che si faceva qui e dalla passione è diventato un progetto, un lavoro. È il mio lavoro e un po’ alla volta ho imparato la gestione agronomica dall’agronomo e la cantina. Egidio mi sta dando nozioni sulla parte amministrativa. Egidio, Walter, Alessandro. Tre persone prestate alla viticultura da altri ambiti. Tre persone con una idea ben precisa. Con un progetto imprenditoriale che è proprio ciò che serve perché una azienda possa funzionare davvero. Tre persone animate dall’impegno verso un territorio. Dal senso di appartenenza verso un territorio che sentono proprio. Lo stimolo è stato il fatto che noi siamo una provincia un po’ bistrattata e quando ero in quel di Rivergaro si parlava solo di Trentino e Alto dige. Quando rientro in patria devo fare qualcosa. Egidio sa bene come ci si debba sentire quando si vive lontano dalla propria terra natia. Quando, un po’ come a scuola, nessuno sa cosa siano le Alpi Bellunesi. Ma soprattutto nessuno le conosce quando si parla di vino. La regione aveva fatto uno studio ampelografico dove andava a dichiarare i risultati la nostra zona era propensa per la coltivazione di vini bianchi fermi e spumanti e vini rossi dell’arco alpino. Su questa scorta sono stati piantati 8 tipologia di vitigni dell’arco alpino. L’azienda che rilevano è piccola. Due soli ettari (poi diventati tre) coltivati con vitigni internazionali come Chardonnay, Muller Thurgau, Pinot Nero ma anche locali come Bianchetta e Teroldego Il Teroldego viene considerato come vitigno trentino però il primo impianto è stato fatto nell’800 a Tese Valsugana Il grosso delle vigne lo abbiamo trovato così. C’era l’impostazione del vigneto e una importante quantità di vino perché il precedente titolare non aveva uno sfogo commerciale. Siamo dovuti partire in maniera veloce. I primi due mesi abbiamo dovuto affrontare tutto. Come l’imbottigliamento. Per il vigneto abbiamo dato la svolta in funzione della nostra visione. Infatti la svolta è nell’utilizzo anche di vitigni svizzeri come Gamaret (incrocio di Gamay e Reichensteiner), Diolinor (incrocio tra Pinot Nero e Rouge de Diolly) resistenti e di struttura: grande segno di imprenditorialità nell’utilizzare vitigni resistenti eliminando quelli poco versatili come il Traminer. Dalla passione all’entusiasmo per portare avanti un progetto. Con ampi margini di miglioramento. Ruoli ben definiti con Alessandro che si occupa del vigneto e della vinificazione; Egidio della parte strategica, commerciale e amministrativa; Walter che fa da jolly della situazione con focus sulla parte agronomica. Ciò che manca sono i supporti agronomici. A Feltre abbiamo una scuola agraria che si occupa di lattiero-caseario; a Conegliano fanno solo prosecco. Dunque dobbiamo andare a cercarlo in Trentino Idee chiare, strategia altrettanto chiara, programmi per il futuro. Chiari. Il terzetto insomma ha dato una vera svolta imprenditoriale a Pian delle Vette. Due linee di prodotto per due diverse tipologie di vini. La prima fascia costituita da selezioni di uve Pinot Nero, Teroldego, Gamaret, Diolinor, Chardonnay (questa anche in metodo classico con il Pinot Nero) e una seconda fascia di ingresso. Abbiamo iniziato un progetto con un vicino creando una linea di entrata: frizzante, rifermentato, rosso e bianco fermo, un rosso base. Tutti base Teroldego, Merlot e Muller Thurgau. In totale la produzione non supera le 15 mila bottiglie anche perché le rese arrivano al massimo a 50 quintali ettaro. Da noi se vuoi fare qualità devi fare queste quantità. Bhè con vigneti a circa 600 metri di altitudine, terreno morenico e pendenza a 35/45% di più non si può proprio fare nonostante operazioni in vigna in parte meccanizzata. Non possiamo fare il diserbo meccanico perché ci sono terrazzamenti. Abbiamo inserito una macchina che ci fa questo lavoro ma non dovunque. Dove ci sono le scarpate più alte occorre farlo a mano. Obiettivo manco a dirlo è diventare una azienda che sia riconosciuta per la qualità dei vini. La qualità appunto. Ho personalmente provato il Pinot Nero 2017 (la recensione completa su @ivan_1969) e ne sono rimasto molto colpito dai coinvolgenti e complessi sentori: i frutti rossi e neri e gli aghi di pino a ricordare che siamo ai piedi delle Alpi. Poi la prugna non ancora matura, la violetta in potpurri, il pepe, la cannella, la noce moscata e l’alloro. Tanto per dimostrare di aver riposato per due anni in botte. Non può mancare il balsamico perché siamo in quota. Al sorso me ne sono innamorato. Fresco, secco, caldo, minerale con tannini quasi eleganti perché si possa bere, senza problemi, l’intero calice. Bella persistenza e chiusura di bocca elegante con la prugna che torna. Un vino mai banale, complesso e avvolgente, non morbido ma deciso. Determinato e imponente senza darsi arie. L’ho abbinato ad una tagliatella al ragù ed è stato sublime. Qui attorno sono nate poche realtà e ancor meno fanno vinificazione. Dunque ci sarà nel futuro possibilità di ampliamento. Per la linea principale molte viti devono arrivare alla maturazione giusta. E anche la visione del futuro sembra decisamente chiara! Se parliamo e non facciamo niente, l’esempio per i giovani non c’è. Questo può essere un esempio per far capire che le cose si possono fare. Egidio, Walter, Alessandro. Sono le Alpi Bellunesi ad essere orgogliosi di voi. Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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7 Aprile, 2023

Azienda Agricola Mattè. Semplicemente Bruno e Michele

Azienda Agricola Mattè Semplicemente Bruno e Michele Nella favola di Lev Tolstoj “i due fratelli”, il fratello maggiore è quello che si pone obiettivi ambiziosi, sfidanti e rischiosi; il fratello minore colui che tende a non perdere di vista i piccoli piaceri della vita e rimanere attaccato alle tradizioni. Bruno e Michele di cognome fanno Mattè. Hanno 36 e 33 anni. Una famiglia alle spalle che ha sempre lavorato la terra in quel di Volano a poco più di 20 km da Trento. Quando si ritrovano a dover gestire i pochi ettari che papà Marco aveva ricevuto dal nonno (pochi perché quando hai dieci figli devi dare un po’ ciascuno) e che non erano sufficienti per produrre vino in quantità utile per campare (negli anni 80 la quantità era l’unica unità di misura disponibile per il vino) si comportano come non ti aspetteresti da due ragazzi. Nelle tante storie di cantine che si tramandano di padre in figlio (o figli) infatti si vede spesso uno stanco proseguire dell’attività in un mercato sempre più difficile. Invece no. In questa storia, tutto è profondamente diverso. Siamo dinanzi a due ragazzi, Bruno e Michele che non solo sanno il fatto loro, ma hanno bene in testa il loro futuro. La lunga chiaccherata con Bruno e Michele la sintetizzo così: Il fondo coltivato consta di quattro ettari di proprietà e sei in affitto; Sul fondo gravitano tre aziende tutte riconducibili a loro e sui quali si lavora insieme; Un solo ettaro, composto dalle particelle migliori, è vitato per la cantina; Vitigni coltivati: Marzemino, Carbernet Sauvignon, Carmenere, Nosiola per le linee base (anche se di base non si può parlare); Pinot Nero, Grigio e Chardonnay per le linee top che dovranno uscire (maggiori affinamenti ed anni alterni) Metodi di vinificazione ricercati e non banali Sì certo, raccontarla in questo modo è facile. Due ragazzi nati nei campi, tra le vigne del trentino che non avevano mai visto una cantina prima di entrarci da soli. Per necessità o forse solo per poter credere nelle loro idee, nel progetto, nel sogno. La voglia di creare qualcosa di diverso. Negli anni impari, assorbi e cerchi di riportarlo nella nostra realtà. Abbiam cercato in questi tre anni di trovare una identità aziendale. Bruno e Michele non è che non abbiano faticato per arrivare sin qui (e sin qui per loro stessa ammissione è solo l’inizio perché di strada da fare ce ne è e molta). Anzitutto lo studio. L’istituto Agrario di San Michele all’Adige non è tanto lontano ed entrambi diventano periti agrari per poi darsi dei compiti in azienda: Bruno in vigna, Michele in cantina. Poi la sperimentazione.  È il 2007 quando iniziano a fare micro vinificazioni. Piccoli esperimenti su come si può produrre del vino in modalità diverse dal solito. Con le diverse particelle. Con diverse tecniche in cantina che vanno ad imparare curiosando in giro. Quindi l’intuizione, il pensare che se vogliono differenziarsi in quel del Trentino ma ancor più in Italia devono offrire qualcosa di diverso. In queste terre, nelle terre che furono del nonno prima e del padre poi ci sono varietà che rappresentano il territorio, il Trentino. C’è la Nosiola e il Marzemino ad esempio. Due vitigni complicati ma unici. Poco conosciuti ma proprio per questo ancor più difficili. Occorre qualcosa di diverso sia per vincere le ostilità dei vitigni sia per farli affermare. Andare controcorrente. Quando siam partiti ci prendevano per pazzi perché volevamo lavorare con Marzemino, Carmenere e Nosiola Infine investono. Puoi avere anche le migliori idee del mondo ma devi investire se vuoi emergere. Abbiamo ristrutturata la cantina, le attrezzature, la barricaia, la sala degustazione. Il 14 di agosto sono arrivati i serbatori e al 21 abbiamo iniziato la vinificazione. Come nella favola di Tolstoj, Bruno è il fratello maggiore e forse è quello che si pone obiettivi ambiziosi. È anche l’anima commerciale dell’azienda. Michele, da fratello minore è forse quello più pacato. Che pensa a come fare il vino in una maniera innovativa. Ma sono una bella coppia e soprattutto una vera squadra. Bruno ci tiene a dirmi che loro sono una azienda artigianale Siamo una azienda artigiana dall’inizio alla fine. Un artigiano puro. Tutta la gestione aziendale. Non abbiamo nemmeno un agente perché giriamo noi con la macchina. Abbiamo una etichettatrice semi automatica e una imbottigliatrice manuale. Che la famiglia Mattè sappia vinificare in zona era cosa nota. Già il papà Marco produceva bollicine con metodo classico che poi conservava in un rifugio anti areo ma, arrivare ai livelli di Bruno e Michele, proprio no! Quando Michele mi spiega le tecniche di vinificazione (perché è lui l’enologo al quale piace lavorare da solo in cantina!) rimango esterrefatto. Celle frigorifere per la vendemmi per preservare le ossidazioni. Vasche refrigerata. Saturazione azotata e argon. Fermentazione dei rossi in tini aperti. Bianchi con fine fermentazione parte in legno e acciaio. Acini interi. Macerazioni carboniche. Tre anni di barrique. Tostature lievi. Affiniamo tutta la nostra massa in legno. Anche la Nosiola e il rosato da Cabernet. Ogni anno fanno prove come se la cantina fosse un laboratorio. Ogni anno è diverso e occorre provare. Perdonate il francesismo ma l’unica parola che mi viene da dire è: minchia! L’impressione che ho parlando con Bruno e Michele è che questi due ragazzi non solo sono preparati ma abbiano talmente bene in mente il loro percorso, sappiano perfettamente i loro punti di forza e le debolezze che quasi quasi penso mi stiano facendo una candid camera: non starò parlando con qualcuno che mi mette alla prova? Scavando nelle persone si coglie davvero il loro spirito. La voglia di vivere la terra e la famiglia Una famiglia che lavora. Io e mio fratello. Mia madre, mio padre. Alla vendemmia si parte al mattino. Una bella colazione alle 9. Un aperitivo prima di pranzo. Una merenda nel pomeriggio. Una vendemmia tutta manuale ovviamente. Perché qui si crede ancora al valore dell’uomo e all’apporto che può dare alla terra. Ma anche perché il terreno è tutto marne e calcare. Se poi piove è ancora peggio. Però poi te lo ritrovi nel prodotto finale. Il grappolo di uva che lo prendi con le mani e fai la cernita così da trovartelo in cantina sano. Questo dà ai vini grande pulizia. Preparazione. Visione. Idee. Famiglia. Ma piedi ben piantati nel terreno dal quale nasce la vite. Siam partiti con l’aspettativa di aumentare le bottiglie. Sono poi arrivati due anni di Covid e la vendita è iniziata nel 2022. Passi piccoli, graduali con l’idea di arrivare al massimo a 15.000 bottiglie con nicchie di produzione. Produzioni calate per migliorare la produzione. Numeri piccoli per ricercare la qualità. Consci delle proprie possibilità, delle attrezzature, delle proprie forze utili solo per raggiungere la qualità. Il Covid è stato per loro quasi una fortuna perché con i vini in bottiglia hanno potuto osservarne l’evoluzione e il loro miglioramento. Ora siamo fuori con la line giusta. Quasi non vogliono venderli per l’evoluzione. Ma anche su questo sanno quanto sia importante farsi conoscere e avere il giusto riconoscimento. Abbiamo anche un Trento doc con il quale potevamo già essere fuori ma vorremmo portarlo a 60/120 mesi. Come se non bastasse! Cominciamo ad assaggiare e partiamo da una vera chicca. Stoll, la Nosiola metodo Classico stabulata in legno. Il nome, un omaggio al rifugio anti areo dove papà Marco metteva il suo di metodo classico “Sono anni difficili, bisogna tener duro. Ogni anno impariamo per migliorare. La Nosiola spumante metodo classico siamo solo noi a farla. Cerchiamo strade diverse per evitare la concorrenza. 15 mesi di lievito: non si deve eccedere perché la Nosiola può diventare semi aromatico e loro sanno che non troverebbe mercato. È una bolla che esula completamente da qualsiasi altra bolla trentina. Gli odori sono quelli freschissimi di nocciola caratteristica della Nosiola. Una nocciola i cui aromi partono dal verde della buccia (come faccio a spiegare a mio figlio l’odore della buccia della nocciola adesso? È tanto che la vede con il guscio. Lasciamo perdere che è meglio) per poi evolversi e diventare frutto. C’è una bella freschezza data dagli agrumi che spiccano. Una mineralità da pietra focaia ma, soprattutto un meraviglioso sentore di che mi ricorda la “torta della nonna” nella versione con la crema al limone. Quando assaggio noto subito una bolla molto fine e la delicata spalla acida per nulla invasiva ottenuta grazie all’affinamento in legno e al controllo delle temperature in post fermentazione. Va quasi a chiudere sull’amarognolo. La persistenza è buona con ottimo retro olfatto che fa riemergere la frutta e, soprattutto la voglia di un altro calice. Insomma, si lascia bere volentieri. Lo abbinerei ad una pizza base mozzarella di bufala bianca o a del riso zucca e speck. Bolla convincente La Nosiola è un vitigno molto esile da un punto di vista strutturale. Si mantiene di più nel tempo. Assaggiamo delle Nosiole di venti anni fa. Facciamo due vendemmie sulla stessa superficie. I grappoli più verdi per la spumantizzazione; i più spargoli per la surmaturazione in vigna (almeno 15 giorni in più). Già questo lascia intravedere una lavorazione in più per un vino bianco da Nosiola. Quella che assaggiamo è la Nosiola Avel 2019 con un 30% di appassimento unita a fine fermentazione. Questo procedimento le dona un bel colore carico di oro. La surmaturazione si sente dai fiori di camomilla che virano verso il miele di acacia. C’è il balsamico e si sente la mentuccia. La particolarità di questo vino è data dalla frutta che qui vira sul tropicale o a pasta gialla. In bocca c’è una secchezza importante. La spalla non è eccessiva grazie all’affinamento in legno per un 40% cosa questa che regala anche una certa rotondità e un accenno di tannino. Il finale è ancora verso l’amarognolo, caratteristica varietale che si mantiene. Bel vino anche se l’abbinamento risulta un po’ complesso. C’è bisogno di un pesce grasso come scorfano o rana pescatrice. Una anguilla, un capitone. Vino non banale non è facile. Bravi È un vino che da quando lo abbiamo imbottigliato ad oggi è in continua evoluzione. Siam partiti con note di gelsomino esagerato e ci siamo accorti che per caratteristiche genetiche, tende a complessarsi. A distanza di sei mesi il vino è completamente diverso. Siamo usciti dopo due anni di bottiglia Questo denota sempre di più una grande visione. Apriamo il Rosato Fiorir de Soreie da uve Cabernet 2020. Qui abbiamo azzardato. È un cabernet vinificato in bianco dove abbiamo una macerazione in cella frigo per una settimana con estrazione del colore. Poi in vasca per una settimana di stabulazione per far emergere i sentori e una fermentazione lunga anche due settimane. Poi in legno per 8 mesi per poi andare in bottiglia. Scusate se è poco! Si sentono le note semi ossidative che richiamano uno champagne anche di un certo affinamento. È un rosato fresco e complesso. Qui abbiamo rischiato con un metodo provenzale avendo degli amici che vinificano li. Seguito la Grenache provenzale con un Cabernet proveniente da vigne esposte a nord est Quando metto il naso nel bicchiere, mi piace molto per i sentori freschi e vivi. C’è del mirtillo, del fico, del melograno. Ricorda le caramelle balsamiche fatte con le erbe. Complessità interessante di composti di mele cotte, vaniglia. C’è la mela annurca che mia nonna ci tagliava a fettine in estate. Sono fermo all’olfazione perché è i sentori mi suscitano ricordi meravigliosi. La dimensione è così dolce e rotonda che quasi non ce la faccio a berlo. In bocca le note ossidative emergono preponderanti. Il sentore di mela annurca me lo ritrovo in bocca ancorché molto sapido. La rotondità arriva comunque aprendosi completamente in bocca. Si sente il legno e torna quella caramella balsamica colta dal naso. La scelta di legni poco o per nulla tostati sono utili per non rendere stucchevole quello che risulta un grande vino. Poi è il turno dei rossi. Krea, il Marzemino. Vitigno particolarmente difficile perché germoglia precocemente e con le gelate tardive è soggetto a perdite di produzione. In cantina, se non trattato bene, tende ad andare in riduzione. I sentori molto chiusi lo rendono di difficile impatto commerciale. Con uno studio certosino abbiamo deciso di stravolgere il marzemino. Nasce da un vigneto di 63 anni nella zona classica dello Ziresi. Bruno ne parla con un po’ di delusione. Ce lo hanno declassato dalla doc perché non rispetta il disciplinare. Per aspetti legati al prodotto perché non richiama la tipicità. Già, perché quando vuoi fare qualcosa di diverso, di significativo ed unico, c’è sempre da combattere. È un 2019, prima vendemmia. Porta in sé un 30% di uva appassita in arellario. Lavorata ad acini interi con una macerazione quasi carbonica in tini aperti. Fermentazione sulla prima massa di 15/20 giorni poi in acciaio. Dopo 45 giorni di appassimento delle altre uve si diraspano ad acini interi e fermentati. Poi tutta la massa viene ripassato sulla massa appassita lasciando il cappello sommerso. Va poi in botti extra fine di rovere leggermente tostato per avere una struttura più importante ed evitare che abbia un finale vero l’amarognolo. Va spesso travasato per evitare che vada in riduzione. Vanno anche tolti tutti i vinaccioli per evitare la nota amara. Già così si può capire la complessità che questi due ragazzi portano in un vino. Quanto studio, quanta passione, quanto tempo ci vuole per creare qualcosa del genere. La recensione sul mio blog @ivan_1969 Colore rubino estremamente compatto. Lievi riflessi viranti verso il granato. La dolcezza si sente già al naso con note di amarena sotto spirito, fiori in potpurri. La viola è molto evidente e si amalgama molto con nel potpurri. C’è tabacco, vaniglia, chiodi di garofano. Tutte note piacevolmente dolci. La complessità olfattiva non è elevata perché il vitigno quello può offrire ma se lo si tenesse in bottiglia potrebbe esprimere ancora di più. In bocca tannino e freschezza prevalgono. La sapidità è presente. Ti aspetteresti una maggiore rotondità che ci sarà solo tra qualche tempo. È un vino che offre una diversità tra naso e bocca meravigliando per la freschezza. Il finale ha ancora un pelino di amarognolo comunque levigatissima. Persistenza non lung. Il retro olfatto richiama gli odori del calice. Un vino con cui pasteggiare. Non è un Marzemino croccante ma quasi masticabile che si abbina bene con carni o una tagliatella al ragù. Io lo proporrei con un pizzocchero. Posso dire che hanno preso un marzemino e ne hanno fatto un grande vino. Finiamo con i Cabernet Mener. Stesso vigneto del rosato vendemmiato 15 giorni dopo. 65% di Cabernet Sauvignon, 5% di Cabernet Franc e 30% di Carmenere appassito con lo stesso procedimento del Marzemino. Insomma, la lavorazione è la stessa del Krea cambiando solo un po’ la tostatura delle botti per il Carmenere. Nel bicchiere bel rubino con colore similare al Marzemino. I sentori cambiano poiché non propriamente morbidi. Semmai più ruvidi. Volevamo un taglio bordolese come si facevano prima in trentino senza il merlot. Sono evidenti le note di liquirizia e cacao. Il Carmenere in surmaturazione porta il pepe verde. C’è la balsamicità che è come un marchio di fabbrica dell’azienda. Sento sottobosco e aghi di pino che richiamano le foreste. La complessità è simile al Marzemino. Interessante per la sua freschezza. Nonostante procedimenti analoghi i sentori passano dalla rotondità alla freschezza. Il sorso evidenza coerenza tra olfatto e gusto. Grande freschezza e sapidità. Secco e caldo. Meno masticabile del Marzemino. Persistenza che si allunga rendendo l’abbinamento necessario con qualcosa di consistente tipo capriolo e cervo. Lo vedo benissimo con una polenta funghi e formaggio fuso. Abbiamo cercato di stare in linea con il nostro territorio offrendo bassa alcolicità. Più sulla freschezza e sapidità che sul corpo. Ecco, siamo alla fine ma vorrei non finisse mai. Perché parlare con Bruno e Michele fa solo capire quanta preparazione ci sia in persone come loro. Quanto studio. Quanta passiona. Quanta voglia di emergere. Bravi! Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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