Suggestioni di Vino

Suggestioni di Vino è la rubrica che racconta le persone del vino. Della loro storia, dell’amore, della passione che inoculano nel vino. Perché il vino è materia viva e le persone ne sono il nutrimento.

Le incursioni enoiche di Ivan Vellucci, ingegnere e manager per dovere, ma soprattutto Sommelier raccontano con passione e trasporto, territori e produttori d’eccezione.
Ivan ci porta a conoscere realtà prima di tutto umane, dove il sorriso e l’ospitalità dei vignaioli sono lo specchio dei vini che producono. La rubrica Suggestioni di Vino propone ogni settimana  suggestive esplorazioni e scoperte enologiche, narrate con trasporto e partecipazione. Al lettore parrà di accompagnare Ivan in queste visite speciali e sarà stimolato a fare lo stesso: vivere il mondo del vino come un bambino, con lo stupore negli occhi e la magia nel bicchiere.

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4 Agosto, 2023

Azienda Agricola Gian Piero Marrone. La vita, le storie, i ricordi, il vino

Azienda Agricola Gian Piero Marrone. La vita, le storie, i ricordi, il vino Tutti noi abbiamo avuto o abbiamo un amico/a, un/una compagno/a di classe che quando attaccava a parlare non la finiva più. Carlo Verdone inserì un personaggio simile nel film “Compagni di scuola”: Postiglione (interpretato da Luigi Petrucci). Di lui non si ricorda mai il nome che era Ottavio. Come si poteva ricordare il nome di uno che si preferiva evitare? Postiglione era secchione e prolisso. Sapeva tutto e voleva raccontarti tutto. Era così insopportabile che, per farlo tacere, Bruno Ciardulli alias Christian De Sica gli versa nel bicchiere di vino delle gocce di sonnifero. Il dialogo della scena è meraviglioso. Walter Finocchiaro (Angelo Bernabucci): ma quante gliene metti aho? Bruno: qui c’è scritto “adulti fino a 25 gocce” Walter: ma ch’è. Ma quello è un replicante. Che non lo vedi? Bruno: allora gliene metto altre dieci. Walter: ma si! Bruno: ma gli farà male? Walter: ma de che. Bruno versa le gocce di sonnifero in un calice di vino e rivolto a Postiglione che sta leggendo: Postiglione? Tu ne capisci di vino? Postiglione: caspita! Bruno: allora dicci come è questo vino perché lui lo trova schifoso, io ottimo. Postiglione osserva il bicchiere, lo rotea, lo annusa, lo assaggia. Bruno: questo c’ha due palle cosi eh! Walter: e che non lo so Postiglione: è un passito secco. Con un retrogusto un pò amaro. Walter: te lo dicevo Postiglione: si, ma non è un difetto. È carattere. È un vino isolano e più che amaro è salino. Bruno: lo vedi che avevo ragione io che è salino. Walter: ma bevi ‘sto vino va. Postiglione: è salino. Bruno e Walter: e bevilo tutto!   Detta così, ci si aspetterebbe di leggere di un personaggio noioso. Invece ho volutamente utilizzato una antifrasi per descrivere e far risaltare al meglio la piacevolezza della chiacchierata avuta con Denise Marrone della Azienda Agricola Gian Piero Marrone. Denise è una donna energica e vitale. Di quelle che hanno l’argento vivo addosso. Esuberante, sorridente, piena di vitalità. Non gesticola. Non ha bisogno di movimenti particolari. Parla a raffica come se avesse necessità di trasmetterti qualcosa. Lo fa con ardore e partecipazione interrompendo l’interlocuzione solo per sorridere. Eppure, se la guardi da lontano, con la sua aria minuta, gli occhiali, la compostezza tutta piemontese, non immagineresti mai che ti troverai a parlare con un vulcano in eruzione. Siamo a La Morra (CN) nel cuore delle Langhe. Patria di quei vini che il mondo ci invidia. Ma soprattutto il luogo dove vino e cibo trovano uno dei migliori connubi I vini piemontesi se bevuti mangiando sono meglio Le Langhe. Già. Chiunque vi sia stato, chiunque voglia andarci, chiunque abbia assaggiato i vini qui prodotti, non può che parlarne bene. Così bene che ormai le Langhe sono diventate un pò snob (o per snob) visti i prezzi e le difficoltà nell’andarci. Eppure, chi ha buona memoria, sa che non era così. Uso le parole di Denise perché rappresentano anche il mio di pensiero. Il Barolo ha una storia corta. Negli anni 50 qui c’era la povertà più nera. Mia nonna metteva i conigli nella cesta e andava a venderli al mercato per comprare i vestiti e tornava a casa. E noi stiamo qui a fare i barolisti snob. Siamo snob perché ci siamo fatti un culo così e abbiamo la possibilità di raccontarlo. Prima il Barolo era frizzante, era bianco e non piaceva a nessuno. Tralasciamo un bel pezzo di realtà Ecco. Partiamo proprio da qui. Dal motivo per il quale Denise ha tutta la voglia di raccontare qualcosa. Raccontare la propria terra, la propria famiglia, il proprio vino. Ma soprattutto, la vita vissuta. Quello che ti rimane addosso Quello che ti rimane attaccato alla pelle è quello che hai fatto tu. Ti rimane dentro ed è ciò che trovi nel vino. Abbiamo aperto il ristorante per raccontare queste cose. Se stai con noi e ti posso raccontare quello che sto raccontando a te, esci fuori con una diversa considerazione. Raccontare pezzi di vita. Quello che c’era. Da dove arriviamo senza pensare a ciò che saremo. Ciò che diventeremo. Quello che siamo è perché nel passato, più o meno remoto, sono successe delle cose. Sono state fatte delle cose. Ci sono state persone. Tutto questo fa parte di un bagaglio di vita che, se raccontato, non può che fornire un sapore diverso alle cose. E chissenefrega di come sarà dopo. Il futuro, la sua evoluzione, avrà anch’esso un sapore diverso se affonderà le radici in un passato ricco di significato. Di vita vissuta. Così, ciò che conta, è la semplicità delle cose. Nessun arzigogolo ma solo quella semplicità contadina scandita dal susseguirsi del giorno e della notte, del sole e della pioggia, dell’inverno, della primavera, dell’autunno, dell’estate. Quando uno più uno fa due poi è facile da raccontare. Perché sono cose normali e facile da capire anche per uno che vende scarpe. Non serve creare storie. Ci sono quelle di famiglia. Semplici. Fatti che neanche sono tradizioni. Avvenimenti. Consuetudini. Storie di cucina. Storie di terra. Storie di vite. Storie. La storia della famiglia, le radici, la nascita, forse è la cosa meno importante. Ma per quello basta andare sul sito internet dell’azienda. Quello che c’è sul sito internet è giusto e ufficiale perché l’ho scritto io. Ciò che non c’è sono i racconti di vita. Di quelle storie che sonno ricordi che sono sensazioni che sono pezzi di vita e che, come dice Denise, ti rimangono incollati addosso. E se pure sul sito internet c’è scritto che la quarta generazione è fatta di donne, Denise, Valentina, Serena, papà Gian Piero è sempre li. Perché alla fine Non si muove foglia che Gian Piero non voglia. Quella per Gian Piero non è venerazione né tantomeno insofferenza. È pieno rispetto per una persona che ha creduto tanto nell’azienda. Non avremmo quello che c’è qui senza la sua follia. Ha sempre avuto il passo molto più lungo della gamba. Finché siamo riusciti a sostenerlo siamo andati avanti di dieci anni quando ne sarebbe bastato uno. Ben contenti perché è un visionario e ha sempre delle cose in testa. Mi ha avuto molto giovane a venti anni, dunque in qualche modo ci capiamo. Siamo mediamente vecchi tutte e due insieme. Lui a 70 anni sente la fatica e si spaventa. Ma per la visione aziendale siamo tutti insieme poiché ci interessa solo il risultato finale. Se ti metti a bisticciare è perché quel giorno hai voglia di bisticciare altrimenti, dagli ragione! Tutto parte da una semplice cascina, sopra Alba, a Madonna di Como con il bisnonno Piero. Altro che vino a quei tempi (siamo poco prima dello scoccare del 1900). C’erano le bestie da pascolare, i campi, la frutta. La cascina contadina era ciò che bastava per vivere in un Piemonte non ricco se non per i nobili. Ma un pò di vino serviva sempre. Così che qualche filare si impianta. Nonno Carlo continua la vigna senza tralasciare mai il resto. Perché il vino si beve mica si vende. Man mano che abbiamo ricordi più certi mio bisnonno ha sempre dato via via le bestie e piantato vigna. Ha tolto le pesche perché quando sono arrivati i trattori moderni con l’albero piantato, in vigna non passavi. Ancora io e mia nonna avevamo 120 conigli. Non ti parlo di un milione di anni fa. Io l’ultima pecora me la ricordo ancora. Mi ricordo mia zia che filava la lana con l’arcolaio come Biancaneve che faceva la canottiera a mio zio: fresca d’estate e calda in inverno. Ricordi che non fanno in tempo ad emergere che Denise ne tira fuori altri. Uno dietro l’altro ad una velocità che potresti far fatica a starle dietro se non vedessi quanta passione lei ha. Quanta voglia di raccontarsi. Altro che Postiglione! Poi mio nonno è stato il primo a pensare che la qualità pagava. Erano gli anni 50. È venuto in terra di Barolo e ha comprato i poco più di due ettari che ancora abbiamo. Già allora non si trovava nulla qui. Un pezzo in Bussia. Affittiamo un pezzo di Castelletto. Quindi per le MGA posizionate bene qualcosa c’è. Ha comprato questa cantina qui. Adesso abbiamo dieci km e mezzo frutto di un ragionamento, che ha fatto bene a fare, che qui era meglio di là. Là abbiamo i Nebbioli superiori, i Barbera superiori, le vigne più vecchie. Qui abbiamo Barolo e abbiamo affittato un terreno a Barbaresco perché a me piace Ora immaginatevi che tutto questo (e il resto dopo) Denise lo dica con una velocità pazzesca insieme ad un sorriso che ti coinvolge e ad un modo di porsi di una persona che ha davvero la voglia di raccontarsi. Quarta generazione adesso. Tre donne coinvolte nella gestione dell’azienda. Più papà Gian Piero. Vorrei capire se e come il papà influisca la gestione aziendale. Ho un pò di timore, quasi vergogna. Non è che si possa chiedere ad una donna che ha faticato tanto per arrivare a dirigere, sempre insieme alle sorelle dunque sole donne, come il papà entri in azienda ecc ecc. Denise però continua a manifestare tutta il suo buon umore. Andrò in pensione prima io di lui..non ti preoccupare…puoi star tranquillo Ma che livello di delega c’è? Siamo quasi intorno allo zero? È vero, quello che ti dico è la verità. Si è sempre occupato della campagna fino a quando l’abbiamo portata in bolla. C’è un agronomo che ci segue e che cerca di parlare alla pianta. Con la logica che se la pianta non sta bene l’uva buona non te la può dare. Papà è nato in campagna dunque ci capisce. Ha seguito L’agronomo fino a quando ha capito che ci capiva. Stessa cosa in cantina dove c’è mia sorella Valentina. Lei è la mamma dei vini, è l’enologa. Ha finito la scuola venti anni fa. Sono venti vendemmie. Ha sempre fatto i vini con lui. Lui ha sempre prodotto vini: che le annate sono diverse, che il clima è diverso quando ti trovi una cesta di uva in mano perlomeno sai cosa farne. Lui la ha aiutata, le ha insegnato. Adesso può anche considerarsi indipendente. Certo le telefona venti volte al giorno… Valentina in cantina dunque. Serena in ufficio che, come la definisce Denise “è la donna dei numeri”. Denise che parla tedesco e segue dunque quei mercati che sono così importanti per l’Azienda, oltre a tutta l’accoglienza in cantina ma soprattutto al ristorante insieme a mamma Giovanna. Ecco, il ristorante. Più che un luogo dove si mangia è un luogo utile per una esperienza. Culinaria, di abbinamento con i vini e soprattutto di vita. 130 coperti ed è sempre pieno perché la gente legge dietro l’etichetta l’indirizzo e gli viene la curiosità di capire da dove arriva la bottiglia. I primi sono i torinesi ma in estate arrivano da ovunque. Un ristorante che c’è dal 2018. Prima luogo adibito a tappa enoturistica con la cucina di casa e un piatto di raviole. Poi ci siamo spinti oltre perché ci piaceva perché sei a casa tua e hai l’orgoglio di fare meglio. Diamogli qualcosina da mangiare perché i vini piemontesi se bevuti mangiando sono meglio. Anche in questo caso i ricordi di Denise si susseguono con un ritmo incessante. Sgorgano come può sgorgare acqua da una sorgente. Sempre fresca. Sempre dinamica e attiva. Abbiamo cominciato una ventina di anni fa con un tavolo da 12 persone in ufficio e lei (mamma Giovanna) con la cucina di casa. Lei ha cucinato da quando abbiamo aperto il ristorante fino a una cinquantina di persone. Poi arrivano tutti insieme, le pretese aumentano, lei è invecchiata…si è spaventata così che abbiamo preso una cuoca. Ci siamo inventati le classi di cucina mettendo tutti insieme. Sono cose che completano e fanno star bene la gente. Nelle classi di cucina arrivano alle 4 di pomeriggio, cuciniamo insieme, facciamo festa, assaggiamo i vini, preparano cena. Ti rimane nel cuore. Ci divertiamo perfino noi.  Gli ingredienti rigorosamente a km 0. Gli faccio mettere le mani dentro. Gli faccio assaggiare carne cruda. Perché per noi qui la carne cruda è normale. Gli faccio assaggiare gli amaretti, gli faccio assaggiare il barolo chinato. Quando puoi mettere le mani da tutte le parti poi te lo ricordi. In stagione portiamo la gente al mercato. Gli facciamo comprare i funghi, facciamo la quiche. Tutto bello e divertente. Così ti accorgi che è certo business, ma non solo. Ed è proprio quel “non solo” che rende una persona, le persone, una azienda, speciale. Te ne accorgi dalle piccole cose, dalle attenzioni, dai piccoli particolari non artefatti. Non gettati li come se fossero inutili sovrastrutture. Un ricordo, un aneddoto raccontato vuol dire aprirsi. Accoglierti ed invitarti a far parte della famiglia. Così che ognuno, ogni persona, si sente persona e non cliente. Tutto è normale. Sei sempre o con uno della famiglia o con lo chef o con uno dei ragazzi che è come se fosse uno dei nostri fratelli. Quindi c’è sempre uno che la cantina la conosce da anni e ha tante storie da raccontare. È tutta gente che o è nata qui o ci vive. Ho una signora olandese che ha trasferito tutta la famiglia ad alba perché si è innamorata di Alba. Tutto normale? Beh, direi di no. Perché nel frattempo il vino tocca farlo. Quello che succede in cantina è la cosa più importante. Possiamo stare a chiacchierare fino a domani quando vuoi tu ed io ma se i vini non sono buoni Una azienda diventata nel tempo poi nemmeno così piccola. 15 dipendenti, 17 ettari, 200 mila bottiglie. Al momento 200mila bottiglia su 17 ettari. Divisi in tre pezzi: qui a Barolo, su a Madonna di Como e un pezzo che affittiamo a Barbaresco. Nell’arco di 20 e qualche km. I numeri sono quelli che possiamo gestire. Magari arriviamo a migliorare la qualità per poter aumentare prezzo e target ma a livello di numeri di bottiglie non è che ce ne servano più di tante. Anche perché in terra di Barolo non trovi nulla di terra. Quello che hai ben venga. C’è ancora qualche pezzetto di bosco intorno a quello che abbiamo di mio nonno che puoi ancora sistemare, c’è un pezzo che frana continuamente. Questo è. Una azienda non piccola ma nemmeno tanto grande. Gestita a livello familiare. Senza particolari intoppi, litigi, screzi. Io e mio papà bisticciamo ma poi siamo qui. Dove vuoi andare. Quello che mi dà da pensare è la gamma di etichette. Ne ho contate 20 nonostante il sito ne riporti 19 (manca il Viognier). Solo a ricordarsele mi viene male. Quasi una etichetta per ettaro. Davvero strano. Eppure, quando le chiedo il perché, la sua risposta mi spiazza. La gamma è frutto di curiosità interna nostra. Di Barbera superiore ne facciamo 3000 bottiglie. Di Nebbiolo superiore, 3500. Quindi è più il casino di farlo e di tenere una vasca impegnata. Però se non fai il top di gamma non puoi fare la seconda selezione. E se non selezioni le vigne giovani abbassi la qualità degli altri. I bianchi ci divertivano. Il rosato lo abbiamo fatto perché siamo tre sorelle e volevano un vino rosa. Di Viognier ne facciamo 1000 bottiglie. Ho piantato io dieci filari. Però ti diverti. Se no, è troppo facile. Con il cambiamento climatico hai uva sempre più bella. Il Viognier si produceva solo in Francia e noi lo abbiamo voluto perché ha la stessa radice del Nebbiolo. Poi ci è venuta la curiosità di vedere cosa capitava piantato nella nostra cascina. Sono incuriosito dal rapporto tra le sorelle. Possibile che non si litighi mai in questa famiglia? Ah, non ci vediamo mai. Ci vediamo il giorno di Natale. Una sta in cantina, io sto sempre qui nel mio antro, una sta in ufficio. Ci incontriamo, bisticciamo un pò e torniamo al nostro lavoro. Mia figlia mi ha sgridato che erano quattro settimane che non vedeva i cugini. E abitiamo a 20 km di distanza. Il mio letto è ad Alba ma sto sempre qua. Il letto di una mia sorella è a La Morra. Il letto dell’altra sorella è un paesucolo verso Asti che si chiama Govone. Papà e mamma abitano nella cascina. La forza di una famiglia è rimanere unita. Sempre e comunque. C’è sicuramente il merito di Gian Piero e di Giovanna nell’aver tirato su tre figlie con quei principi contadini che volevano ognuno impegnato in qualcosa, tutti impegnati nell’azienda. Per farla andare avanti. non fosse altro perché è di tutti e serve alla famiglia. Senza dimenticare l’intelligenza di donne che sanno quale sia il vero bene: la famiglia e l’azienda. Ci sono tante aziende qui intorno che sono arrivate ad un certo punto e poi per contrasti hanno venduto. A me sarebbe dispiaciuto tanto perché abbiamo lavorato tanto. Hai tanti ricordi e vendere solo perché non riesci a metterti d’accordo, è un peccato mortale. Il futuro. Il futuro va ancora scritto. Ci sono le idee. Se ne parla. Ma senza fretta. Senza ansie. Perché quando c’è la passione, l’armonia ed il sorriso, perché preoccuparsi? Il ristorante funziona molto bene. Quindi adesso c’è il passo successivo della degustazione. Abbiamo spazio per le persone. Per le esperienze. In famiglia fai piccoli passi. Pensi a breve. C’è un commerciale nuovo che ci supporta con grande dinamicità. Abbiamo anche un consulente che ci fa una testa tanta purché non sappiamo cosa faremo tra cinque anni. Ma tra cinque anni non so nemmeno io cosa farò! Nuovi vini? L’idea sarebbe di toglierne qualcuno come il Dolcetto. Abbiamo due Dolcetto con le vigne del giovane che stanno diventando vecchie e se ne potrebbe fare uno solo di qualità più alta. Ma poi pensiamo che ci sono clienti affezionati che lo vogliono e lo seguono da tanto. Quando cerchi di togliere un vino è un casino. C’è sempre qualcuno che si lamenta. Sorrido a queste parole. È come se volessi togliere loro un pezzo di storia. Ogni vino ha dietro qualcosa. Un ricordo. Un pezzo di vita. Toglierlo è come quando cancelli dalla posta eliminata i messaggi: sì forse puoi recuperarli, ma non li hai più dinanzi agli occhi ogni giorno. Valentina, Serena, Denise. Sono loro la quarta generazione della famiglia Marrone con le basi per la quinta. Quasi tutta al femminile. Denise ha una figlia femmina. Mia sorella, la seconda, ha un maschio e una femmina. Il maschio è l’unico di famiglia. L’altra, due femmine. Tutti troppo piccoli per entrare in azienda. Mia figlia che ha sedici anni mi ha detto che con me non lavorerà mai. Sta facendo il linguistico che è la mia stessa scuola. Lei si spaventa perché vede tutto quello che facciamo, tutto questo lavoro. Non si rende ancora conto che dietro c’è gente che si diverte. Gente che ritorna. Gente di tutto il mondo. Non hai neanche bisogno di viaggiare perché il mondo viene da te e ti raccontano la qualunque. C’è una apertura mentale che a 16 anni non hai. Denise continua ad essere un fiume in piena e a spiazzarmi con i suoi ricordi che non si fermano. Io ho viaggiato mezza vita. Fino al covid ho considerato di stare una settimana qui e una settimana fuori. Ho visto 4 volte Tokyo prima di vedere il Colosseo. Non lo dire a nessuno. In venti minuti faccio la valigia per star via una settimana. Il tuo vino preferito? Due. Il rosato e il Nebbiolo superiore. Entrambi figli di Nebbiolo. Nebbiolo tutta la vita con un accenno di Pinot Nero. E tuo papà? Lui ama tanto la Barbera superiore. Sarà per le vigne vecchie o perché è stato uno dei primi superiori importante che abbiamo fatto. Ricordo che era il ‘98 e avevo finito quinta superiore e dovevo iniziare l’università. Non avevo da studiare. Avevo le mani talmente nere perché l’ho aiutato tutta l’estate in vigna e cantina a lavare. Ho sempre e solo toccato l’acqua. Ricordo che c’era una premiazione e io non osavo andarci poiché avevo le mani brutte. Quella Barbera superiore era buonissima. Ne abbiamo poco fa trovato una bottiglia ed era buona da buttarsi per terra. Ciò che più mi è piaciuto della chiaccherata con Denise è il suo rimanere con i piedi ben piantati per terra. Quella terra senza la quale la sua famiglia, la sua azienda, la sua passione, non avrebbe neanche avuto vita. Ricordarsi da dove si arriva. Questo serve ogni giorno. Denise lo fa attraverso i ricordi, ricordi che a loro volta non esisterebbero senza la sua famiglia. Terra, famiglia, vita, vino. Non si inventano le storie. Si vivono. Giorno per giorno. Si sentono sulla pelle. Si scolpiscono nella mente. Per poi riaffiorare quando qualcosa scatta. Condividerle con le persone per il piacere di farlo. Per chi sa ascoltare. Per chi capisce che la vita è questa. Semplice. Contadina. Senza snobbismo. Così che la frase più bella che Denise mi ha donato è il giusto finale di questo articolo. Siamo snob perché ci siamo fatti un culo così e abbiamo la possibilità di raccontarlo PS non si può dimenticare i vini ovviamente. Ma la storia mi ha così preso che sono passati in secondo piano. Sono partito nel recensire il Barolo Pichemej, la vetta della produzione (già nel nome che vuol dire “più che meglio”!). Scelta insolita magari, ma volevo capire tutte le potenzialità dell’azienda. La recensione completa sul mio blog Instagram Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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28 Luglio, 2023

Barbara Violati, la terra e l'acqua

Barbara Violati, la terra e l’acqua l grillo disse un giorno alla formica
“Il pane per l’inverno tu ce l’hai
Perché protesti sempre per il vino?
Aspetta la vendemmia e ce l’avrai”
Mi sembra di sentire mio fratello
Che aveva un grattacielo nel Perù
Voleva arrivare fino in cielo e il grattacielo adesso non l’ha più Fin che la barca va lasciala andare
Fin che la barca va tu non remare
Fin che la barca stai a guardare   Si può amare una terra, la propria, in maniera viscerale. Così tanto da comprarla da chi non ne è interessato per preservare l’azienda di famiglia. Quella dei propri genitori. Quella di una vita. Sì, certo, puoi comprarla, per possederla. Come si può possedere un grattacielo nel Perù. Ma se poi il cuore va altrove insieme a tutto te stesso, la terra, comunque, rimane lì. Ad aspettarti. Silente. In attesa di qualcuno che la sappia far rivivere. Come meriterebbe. Come è giusto che sia. Barbara Violati è una donna forte. Almeno all’apparenza. Di certo non te la manda a dire. Determinata, di polso. Ma sempre con un latente velo di malinconia che, ogni tanto, traspare nelle pieghe della voce. Di quei silenzi che sembrano un intercalare. Sarebbe troppo facile pensare che avrebbe voluto che il papà fosse lì ad ammirare quanto realizzato nelle terre di famiglia. Già il papà. Non un papà qualsiasi. Barbara lo definisce così: Era un amante della vela e delle macchine. Quella è stata la sua vita. Ha sempre avuto questo attaccamento a San Gemini e alla terra. Però non ci ha mai creduto e non ci ha mai investito. Due pinze ed una tenaglia. “Amante della vela e delle macchine”. Eppure, Fabrizio Violati, il papà di Barbara, non era solo un “amante della vela e delle macchine. Era considerato il Collezionista di auto. Non auto qualunque, Ferrari. Si divideva tra l’essere Amministratore delegato delle acque di famiglia (Sangemini e Ferrarelle..), la passione per le auto (che collezionava e sulle quali correva) e la vela. Collaborava alla progettazione di barche a vela. Non barche a vela qualunque. Meravigliosi scafi utilizzati per le regate. Gli appassionati di macchine e di vela non potranno non ricordarlo. Insomma, tempo per la terra di famiglia, non credo ne rimanesse molto. L’azienda Violati nasce, anzi, rinasce grazie a Barbara. Alla sua tenacia. Alla voglia di vivere e far rivivere qualcosa che lega lei e la sua famiglia a San Gemini, in Umbria. Un’azienda che arriva dagli anni trenta del secolo scorso quando i nonni la fondarono prima di passarla ai tre figli tra i quali, Fabrizio. A cavallo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, Fabrizio rileva l’intera azienda dal fratello e dalla sorella. C’era di tutto e coltivato in mezzadria. Finanche le mucche c’erano. L’azienda aveva circa 400 ettari con 40 vitati. C’era la cantina, il frantoio e le stalle per allevamento. Arrivarono poi i tempi nei quali si incentivava l’eliminazione dell’attività zoologica, così che si fece a meno delle mucche da latte. I nonni chiusero la cantina ed il frantoio. L’uva veniva dunque conferita alla cooperativa e l’olio venduto più che altro all’ingrosso. All’ingrosso, come gran parte della produzione senza che venisse trasformata. Olio a parte perché questo, almeno in parte, si continuava a fare. Il tutto gestito da un agronomo. Tecnicamente l’azienda era seguita dal papà. Tecnicamente appunto. Le passioni del papà non erano certo compatibili con la stanzialità della gestione della terra. Nel 2000 l’agronomo, dopo più di venti anni di lavoro, decide di andare via e Barbara inizia a metter il naso nell’azienda dopo aver confidato al padre: Vorrei capire come funziona. Trovatasi sola, da donna intelligente quale è, capisce che fare tutto da sola non era cosa. Impossibile per una persona senza esperienza in campo agricolo. Io di agricoltura non ne capivo niente. Zero spaccato. Così capita che le parlano bene di Marco Zannoli, un giovane appena uscito dalla scuola agraria. L’incontro con Marco regala subito affinità. Marco dal suo canto, capisce le potenzialità dell’azienda dunque del suo sviluppo. Servono investimenti che tra il 2000 e il 2010 gli investimenti sono davvero pochi e quando ci sono legati ai contributi per il rinnovo dei vigneti. Esigui per una azienda così grande. Noi avevamo vigne di 40 anni. C’era una vite e dopo 4 metri ce ne era un’altra. La produzione non poteva che essere poca. Stavamo sempre li. L’uva la conferivamo, l’olio non si vendeva. Fino a che non è venuto a mancare mio padre. Anche se nel frattempo avevo cominciato a pensare che, se si voleva andare avanti, serviva una cantina. Ma papà non mi veniva dietro. Già, il papà. Il 2010 segna l’anno, all’inizio del quale Fabrizio viene a mancare. La perdita. Perdere il papà è comunque un trauma. Figura rilevante per tanti motivi. Rilevante e allo stesso tempo anche una sorta di collo vulcanico: una volta tolto, il vulcano può esplodere in tutta la sua potenzialità. Barbara e le sue idee possono venir giù come lava. Papà non ha mai creduto nell’azienda. Ha fatto altre cose. Pazzesche. Non gli ho mai chiesto perché non credesse all’azienda. Ho sempre immaginato fosse troppo impegnato nel suo progetto con le macchine e le barche. Il rapporto tra Barbara ed il papà non deve essere stato facile. Lei stessa lo definisce “difficile”. Penso però sia una questione privata ed è bene rimanga così. Alla morte di Fabrizio, Barbara si ritrova a con i fratelli che desiderano vendere tutto. Mi dicono vendiamo tutto perché non ci interessa niente. Come biasimarli? Altre vite. Altri interessi. Una proprietà di tali dimensioni che non può che spaventare chi di terra non se ne è mai occupato. Barbara ci pensa su anche lei. Si rende conto che ciò che l’aspetta non sarà affatto semplice. Il pensarci su però dura poco. Giusto il tempo di un battito di ciglia. Il vulcano si è svegliato. Rileva così l’azienda nel 2015. La storia del papà si ripete: come lui l’aveva rilevata dai fratelli, anche Barbara trova la forza per farlo. Supportata comunque dalla famiglia. Sempre vicina. Sempre dalla sua parte: si può cedere la propria quota ma l’attaccamento alla terra fa si che ogni cosa si debba fare in armonia. Neanche il tempo di cominciare e capita che l’immobile adibito ad agriturismo presente all’interno della proprietà ma venduto da tempo ad un terzo, va all’asta dopo essere rimasto sette anni invenduto con tutte le aste andate deserte. Insomma, nessuno che voglia investire a San Gemini. Barbara invece vuole, vuole fortemente quella proprietà nella sua interezza. Così nel 2016 acquista l’immobile nel deserto dell’ultima asta. Nel 2015 prendo l’azienda. Nel 2016 prendo l’immobile. Nel 2017 c’è la prima vendemmia in cantina: in un anno e mezzo tutto si è stravolto. L’opera di Barbara e Marco è certosina. Rimettere a posto i venti ettari di vigneto e ripristinare l’oliveto non è cosa da poco. Il progetto, il senso di una azienda, piano piano prende forma. Con la cantina. Con la voglia di creare una filiera corta in regime biologico. Accanto alla vigna e agli olivi anche una parte di seminativi dove si coltivano ceci, lenticchie e farro. L’immobile rilevato non è certo piccolo. Dotato di camere e di un ristorante è la struttura ideale per realizzare un wine resort. Progetto ambizioso ancorché di grande respiro: la piscina con vista sui vigneti, le degustazioni, l’ospitalità. Suggestione e meraviglia di questo territorio. Manca la ristorazione ma anche Barbara sa essere prematura poiché complicata. Arriverà prima o poi. La lava primo o poi arriva. A progetto finito verrà una bella cosa. Vogliamo promuovere il territorio e soprattutto questa zona dell’Umbria che ha potenzialità grandissime. Voglio riportare il nome dei miei nonni che hanno contribuito a creare San Gemini. Riportare il nome della famiglia con qualcosa che crei lavoro e magari una possibilità per mio figlio. (Marco) Portare la gente qui per vedere il vino in maniera diversa. Riusciamo a tramettere a chi viene da noi i nostri valori. Riuscire a trasmettere qualcosa perché vengono fuori gli episodi della nostra vita, la sofferenza che è stata necessaria per arrivare dove siamo ora. Quando guardi banalmente la pagina del sito internet della cantina dedicato ai vini, appare subito evidente una sorta di “anomalia”: spumanti in primo piano con etichette raffiguranti barche a vela. Strano per una azienda umbra. Per niente strano perché sanno tanto di omaggio al papà. Marco ci tiene immediatamente a spiegare. La spumantizzazione nasce dalla volontà di Barbara, appassionata di bollicine. Lei ti racconterà perché si chiamano in un determinato modo. Comunque sia, per noi farsi fare lo spumante ovvero fuori dall’azienda non ha senso. Abbiamo deciso di farli in cantina con i nostri metodi e la nostra uva. Così c’è Vinca è il brut rosato realizzato con ciliegiolo. Vihuela, dosaggio zero con base Grechetto, Sangiovese vinificato in bianco e Malvasia. Entrambi Charmat lunghi con sei mesi di fermentazione. Poi il metodo classico Kheira con 18 mesi almeno sui lieviti. Forse questa avventura è nata anche dalla mia passione per la bollicina e le bollicine le ho volute come dedica a mia madre e mio padre. Barbara parla del suo passato con un misto di allegria e tristezza. Di un tempo di sorrisi e famiglia. Delle estati passate a bordo delle barche create dal papà e che venivano adibite a luogo di convivenza e convivialità. Lì, a bordo, dove gli spazi angusti erano nidi per stare tutti, finalmente, insieme. Quel tempo che trascorreva leggero con la speranza che non finisse mai. Il metodo classico, Kheira, prende il nome dalla barca storica dei miei nonni che hanno trasmesso la passione per la vela a mio padre. Il Kheira non me lo ricordo ma ho ancora le foto dalle quali ho ricavato l’etichetta. Gli Charmat sono le due barche, Vinca e Vihuela, che mio padre ha progettato insieme a Giulio Cesare Carcano un ingegnere di Genova. Due barche da regata al tempo altamente competitive. In estate venivano allestite e si partiva per due/tre mesi con noi ragazzini e gli amici di mio padre. Si facevano queste vacanze pazzesche. Vacanze molto “mangiarecce”. Goliardiche. Sempre, tutti i giorni, la mattina dopo mezzogiorno e il pomeriggio dopo le sei mio papà diceva “diamo un senso alla giornata”. Si tirava fuori una bottiglia di vino frizzante che mio padre comprava a Ponza dove c’era una signora al porto che la vendeva, e la stappava. Così facevamo l’aperitivo e iniziava la festa. Piccola digressione. I ricordi di Barbara sono meravigliosi anche se illuminati da una luce fioca. Come se fossero soggetti ed oggetti messi in secondo piano nelle inquadrature di un film. Eppure, a guardar bene, rovistando tra le sue parole, emerge un pezzo di storia d’Italia. Quella realizzata dal genio di persone speciali, pionieri e innovatori vissuti in periodi di grande fermento sociale che probabilmente non rivedremo più nel loro entusiasmo e forza propulsiva. Giulio Cesare Carcano non è un ingegnere qualunque. È il pioniere delle barche a vela d’altura e progettista della mitica Moto Guzzi. Un genio che ha fatto della “V” il suo credo, realizzando per primo la prua delle barche: a “V” così come il motore della Guzzi. Le barche venivano realizzate non da uno qualunque ma dalla famiglia Gallinari, ad Anzio, maestri d’ascia da sei generazioni. Quelle barche non solcavano il mare, volavano sulle onde. Fabrizio Violati, forse il più grande collezionista di Ferrari al mondo (suo l’idea di un museo a San Marino) e ideatore di barche fantastiche. Gallinari, Carcano, Violati. Geni, innovatori, pionieri. Memorie di un fantastico tempo che fu. La bollicina, la barca, il mare, l’acqua: abbiamo creato tre vini e sono gli unici che hanno un nome. Gli altri no. Quasi come a dire che questi tre, le bolle, solo questi tre meritassero un nome. Una dedica. Una memoria. Il Metodo Classico è arrivato per ultimo. Perché Barbara non è una che si improvvisa. Aveva bisogno, non fosse altro perché si trattava di dediche, di certezze. Lo Charmat, rigorosamente fatto in cantina, offriva la possibilità di sperimentare senza molti rischi. Partendo dal niente avevamo bisogno di capire se li sapevamo fare. Stiamo ora valutando se lasciare gli Charmat per fare solo il Metodo Classico. Andiamo avanti sempre a piccoli passi e dove vediamo che sbagliamo, cambiamo strada. Abbiamo iniziato con il bianco, dosaggio zero. Poi il rosato. Il covid ci ha un po’ fermato. Infine, solo quando i due prodotti sono piaciuti, è partito il metodo classico Per rappresentare al meglio il territorio non possono ovviamente mancare vini fermi prodotti con uve locali. (Marco) I primi anni non abbiamo vinificato tutto ma creato micro vinificazioni con uve provenienti da zone diverse della tenuta. Abbiamo vinificato un po’ tutto per capire come venivano i prodotti. La gamma prevede un Grechetto, un Bianco blend i Malvasia e Grechetto, un Rosso da Sangiovese, il Ciliegiolo, il Merlot. Nessun nome di etichetta. Semplicità pura. (Marco) Vini abbastanza semplici e poco artefatti. Puntiamo sulla qualità dell’uva con la giusta raccolta. Parecchia tecnologia in cantina. Autonomi in tutto. Quello che facciamo deve essere fatto con queste manine. Niente deve venire da fuori. Abbiamo investito nella cura del vigneto. Molti sono lungo la strada e quando passi durante la stagione non puoi non esserne estasiato. (Marco) La raccolta a macchina consente di raccogliere in tempi brevi assicurando la qualità. Quando porto gente in cantina e dico che raccolgo a macchina mi guardano strano. Ma la tempestività nella raccolta dei bianchi supera la poesia della raccolta manuale. Siamo passati in biologico. Per scelta ma anche perché la qualità è migliore. Marco ci crede. Senza essere talebano e semplicemente guardando i risultati. (Marco) Oltre all’omino che fa i trattamenti con il trattore che ha i filtri, ci sono pure quelli che stanno in mezzo alle vigne. Il solo pensiero che le persone potevano respirare chimica mi disturbava. Abbiamo anche un occhio alla tradizione. Una parte di uva la vendiamo in cassetta e la raccogliamo a mano. Così come anche la parte di uve, dedicate al Ciliegiolo, che vanno in appassimento. Una gamma davvero consistente che necessita di un assestamento ma anche di sviluppo. Abbiamo fatto una Malvasia Orange. Forse qualche etichetta dovremmo eliminarla per facilitare la gestione in cantina. Ma non ora. Per adesso rimaniamo fermi. Abbiamo tre spumanti, due blend bianco (Chardonnay e Malvasia) e, a breve, un rosso (Sangiovese e Montepulciano), monovarietali (Merlot, Ciliegiolo, Malvasia, Grechetto), il passito. Per il momento come gamma stiamo bene. (Marco) C’è l’idea di dare un nome al Merlot. È l’unico nostro vino che può permettersi un invecchiamento. Lavoriamo bene con il vino sfuso perché abbiamo fatto uno sfuso alto di qualità. Quello che va in bottiglia ha una attenzione particolare, come ad esempio il passaggio in legno. Assaggio il Ciliegiolo che rappresenta, per molti versi, l’azienda nel territorio umbro: grande attenzione in vigna, mix di raccolta manuale e meccanica, parte di vendemmia tardiva, passaggio in legno. (Marco) Il Ciliegiolo è fresco e di pronta beva con un colore accattivante per via del grande estratto. Per irrobustirlo un pochino abbiamo scelto di far appassire un 10/15% delle uve in pianta per circa 10/15 giorni. Questa parte fa botte grande per qualche mese per poi unirla alla massa che ha fatto acciaio. Così c’è più struttura. Si sente in effetti la struttura che si coniuga alla freschezza. Colpisce al naso la balsamicità. È un naso che si apre completamente grazie a dei sentori quasi di mentuccia. C’è frutta a profusione e non può mancare la ciliegia ovviamente. Tutta croccante, quasi matura. Ci sono e spezie. Nelle degustazioni chi assaggia il Ciliegiolo viene colpito. Anche chi non lo ama particolarmente. La particolarità di questo vino è il connubio tra rotondità e freschezza. Un gioco doppio, quasi ambiguo che non mi dà certezze su cosa berrò. Bellissimo. Intrigante. I sentori freschi, anche d sottobosco, si uniscono a quelli dolci tipici dell’appassimento. Non è complessissimo ma invoglia a mantenere il naso nel bicchiere. Al sorso è bello caldo, corposo, secco. Il tannino è importante e si sente come abbia bisogno di qualche anno per ammorbidirsi. Non è un tannino forte, comunque, poiché la sensazione in bocca è piacevole. Non è particolarmente sapido. Chiude bene in bocca con un retronaso che torna a ricalcare le sensazioni olfattiva. Lineare e coerente; regolare e preciso. Ottimo per una merenda a base di salumi ma lo abbinerei anche con una tagliatella al ragù. Non avendo una lunga persistenza ci sta bene. È uno di quei vini per i quali servono due bottiglie. La prima da assaggiare adesso, l’altra tra due o tre anni allorquando si ammorbidirà maggiormente creando una beva quasi più ruffiana. Ho iniziato questo articolo con una canzone di Orietta Berti, Fin che la barca va. Spero abbiate, ora che siamo giunti alla fine, intuito il perché. Barbara e le sue barche. Quelle che ha nella memoria. Quelle che le hanno ispirato le bollicine. Quelle che ha dedicato ai genitori. Al papà che di esse è stato il creatore. Quella barca che a mio modestissimo modo di vedere rappresenta anche la sua vita che con la morte del papà ha potuto prendere il largo. Capitanata solo da lei, Barbara. Con forza, coraggio e tanta volontà. La canzone di Orietta Berti chiude con queste due righe Quando l’amore viene il campanello suonerà
Quando l’amore viene il campanello suonerà Barbara, l’amore per la terra che era dei suoi nonni, poi di suo papà, ora sua. Per lei il campanello ha veramente suonato. Segno che l’amore è arrivato a compimento.   Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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21 Luglio, 2023

Vitivinicola Iovino: 'o mare, 'o sole, 'o vino

Vitivinicola Iovino: ‘o mare, ‘o sole, ‘o vino Guardando Napoli dall’alto, attraverso il finestrino di un aereo in una giornata limpida, è facile riconoscere la natura vulcanica di tutta la costa. A destra di Napoli il Vesuvio con la ragnatela di case sorte, più o meno lecitamente, alle sue falde e il mare subito appresso. Il paesaggio è così affascinante che spesso si ritira lo sguardo sospirando. Quasi a recuperare il fiato dopo essere rimasti estasiati dal gigante buono che diede vita alla sua ultima eruzione nel 1944 (anche tutti noi ricordiamo solo quella 79 d.c quando distrusse Pompei ed Ercolano. Eppure, se si rimanesse con naso e fronte attaccati al finestrino, appena passato Napoli si potrebbero scorgere ben altri crateri: il lago di Agnano, il Monte Corvara, il Monte Nuovo, il lago d’Averno. In pochi si accorgerebbero della solfatara dei Campi Flegrei che poi è il vero vulcano attivo dell’area. Da ben 80.00 anni con la Caldera a rappresentare ciò che sprofonda per via dei vari bradisismi. Tra mare e vulcani, attivi o spenti, filari di viti da tempo immemore danno vita a Falanghina e il Piedirosso (o come lo chiamano qui, per’e pallummo, piede di piccione), veri gioielli dell’enologia campana. Dal 1994 protetti dalla DOC Campi Flegrei che comprende i comuni di Bacoli, Pozzuoli, Monte di Procida, Quarto, Marano e Procida. Purtroppo, o per fortuna, poche sono le cantine che ne fanno parte. Terreno difficile. Condizioni difficili. Vitigni non immediati. Tutto sembra dannatamente complicato. Eppure, quando ti imbatti in un personaggio come Antonio Iovino della cantina che porta il suo cognome insieme a quello del Monte Spina dove sorge (il nome intero è Azienda Vitivinicola Monte Spina di Iovino Antonio), tutto assume una prospettiva diversa. Quello che sembra complicato diviene non solo facile ma anche “spensierato”. Solo a vedere il suo sorriso non ho potuto esimermi dal cantare (a mente visto che non potevo farlo a voce) il ritornello della canzone Simmo e Napule paisà: Basta ca ce sta ‘o soleCa c’è rimasto ‘o mareNa nénna a core a core na canzone pe’ cantá Chi ha avuto, ha avuto, ha avutoChi ha dato, ha dato, ha datoScurdámmoce ‘o ppassatoSimmo ‘e Napule paisá! La prima volta che l’ho incontrato ero alla manifestazione IoVino a Roma. Dire che ho incontrato Iovino a IoVino mi fa ancora ridere. Comunque sia, la mia attenzione andò subito verso lo stand di Antonio attratto da tre cose principalmente. La prima, di origine affettiva e storica: mia mamma faceva di cognome proprio Iovino e mio cugino di nome Antonio. Dèjà vu. Mai nessuno mi aveva detto in famiglia di un parente viticoltore. E infatti Antonio non è nell’albero genealogico. La seconda, per i nomi dei vini che presentava. In particolare “Vigna Solfatara”: poter assaggiare un vino campano prodotto evidentemente nell’area della solfatara mi allettava molto. La terza, il sorriso di Antonio e di sua moglie Teresa: vedere con quale grazia ma anche felicità accoglievano gli ospiti non poteva che invogliarmi ad una sosta da loro. Il sorriso di Antonio non è che l’aperitivo di una entusiastica esuberanza tutta di stampo partenopeo. Una persona che ti coinvolge quando parla, quando ride, quando racconta gli aneddoti della sua vita. Semplici e veri. Come è lui. Come è la sua famiglia. Che ama in maniera spassionata. Come ama il suo lavoro. La sua vita. Sono tre le componenti essenziali della vita: passione, tenacia e molta ma molta umiltà. Ecco, già ad uno che mi dice così non posso non volergli bene a pelle. Mi piace di Antonio proprio la passione che lo porta a raccontare con ardore le sue esperienze. Mi piace la tenacia nel portare avanti i suoi progetti in un territorio che è tanto meraviglioso quanto difficile. Mi piace l’umiltà nel non dare mai nulla per scontato e non dimenticarsi mai da dove arriva. Passione, tenacia, umiltà. Tutto ciò genera entusiasmo. Contagioso nel tono della sua voce, nel sorriso che ti spiazza anche quando gli parli al telefono. Orgoglioso delle sue origini semplici che lo tengono con i piedi ben piantati per terra. L’azienda ha origine antica. Non come la solfatara ma certamente non comune nel panorama vitivinicolo. 1892. Oltre 130 anni di storia. Mica male! Tradizione antica di fare vino dal 1892 con mio nonno che piantò la prima vite nei Campi Flegrei a Pozzuoli sul Monte Spina. Nel mio terreno ci sono delle vite secolari che lo testimoniano. La tradizione è poi proseguita con mio padre e questa è la terza generazione con me. Poi ci sarà sicuramente la quarta con i miei figli. Altra caratteristica tutta meravigliosamente meridionale. La famiglia e la voglia di far qualcosa per i figli. Già i figli. Antonio ne va così orgoglioso. Gli occhi gli si illuminano quando ne parla. Consiglia, la femmina, che gestisce la parte amministrativa; Giuseppe, lo chef dell’Agriturismo annesso alla tenuta, Il Gruccione. Ma la famiglia sarebbe niente senza Teresa, la sua metà. Mia moglie è il braccio destro e senza di lei non avrei fatto assolutamente niente. Dietro un grande uomo c’è una grande donna. Mia moglie si chiama Teresa Amore: un cognome eccezionale. Ora i più potranno leggere nelle parole di Antonio l’idea di autonominarsi “grande uomo”. Ma non è così. Perché il senso della sua frase era un omaggio a Teresa più che a lui. Umiltà. Antonio rimane umile. Anche nei ricordi di quando era bambino. Di quando tornava a casa dopo aver studiato a scuola. Perché doveva aiutare il papà in campagna. Era il 23 novembre 1980 quando la terra tremò in Irpinia con magnitudo 6.9. Una scossa che sconvolse l’intero Sud. Napoli e l’hinterland ne furono particolarmente colpiti così che le poche scuole rimaste aperte dovettero fare il doppio turno per accogliere gli studenti. Io ho lavorato sempre con mio padre. Ho fatto ragioneria ma la grande scuola è quella del contatto diretto con la terra. Quando venivo dalla scuola dopo che ci fu il terremoto non avevo il tempo per studiare perché dovevo aiutare mio padre in campagna a potare la vite, governare le mucche da latte. Studiavo a scuola. Eccola l’umiltà di Antonio. Quella di una persona che si è rimboccata le maniche. Si è sporcata le mani di terra, fango, sudore. Ha vissuto su di sé, ma non per sé, gioie e dolori. Ora ringrazio mio padre perché mi ha fatto conoscere la realtà della terra. Studiare è una cosa ma la pratica è altra cosa. Se il tuo teorico non lo metti in atto, rimane a sé. Saggezza popolare. Di quella saggezza che gli fa conoscere i propri limiti. Perché un conto è la terra, la vigna, la potatura. In vigna ci sono io. Il sottoscritto. La mia passione predominante. Altro conto la cantina dove ci vuole il mestiere. Che non si improvvisa né si sperimenta. Altrimenti vini buoni non ne escono. In cantina c’è un enologo anche se la maggior parte del lavoro lo faccio io in campagna e nella raccolta. Ciro Verde è molto bravo nella parte enologica. L’avventura dell’imbottigliamento comincia dopo il 1988, quattro anni dopo la fondazione della DOC Campi Flegrei Sono stato il secondo ad avere la DOC. Con mia moglie abbiamo portato avanti questa grande passione perché se non c’è passione non fai nulla. La passione appunto. Quella grande droga che non fa male e che se ti scorre dentro ti consente di avere forze in maniera continuativa. Di non fermarti mai guardando, con ottimismo, avanti. Antonio e Teresa si gettano nell’avventura della vigna trasformando l’azienda da semplice produttrice di uva e vino sfuso a vera azienda vitivinicola. La nostra nasce come azienda che fa il vino del contadino. Poi, grazie al lavoro, arriva la prima bottiglia DOC nel 2003. Guardare avanti abbiamo detto. Ciò vuol dire non tanto avere l’ambizione di crescere e guadagnare di più. Certo, importante, ma non vitale. Vuol dire poter far sì che la famiglia abbia il suo modo di sostenersi, di stare bene, di non avere problemi. È così che Antonio ha l’intuizione. Cosa ha di grande la Campania? Napule tre cose tiene ‘belle, ‘o sole, ‘o mare, ‘o Vesuvio. Così si diceva. Anche se poi si trovava sempre qualcosa da cambiare nel trittico. Si arrivò anche a sostituire il Vesuvio con il Dio Maradona quasi a significare che questi non poteva sostituirsi al mare ed al sole ma in quanto a potenza non era certo secondo al vulcano. Divagazioni a parte, Campania e cibo rappresentano un binomio inscindibile. Materie prime provenienti da un territorio baciato da Dio (non dal Dio Maradona) fanno di tutta la Campania un vero e proprio Eden. L’obiettivo era abbinare al vino la cucina tipica dei Campi Flegrei. Nel 2014 apre così l’agriturismo “Il Gruccione” con il figlio Giuseppe nella delicata funzione di chef. Un ragazzo che raccoglie da papà Antonio la passione, la tenacia, l’umiltà. Ma anche quella meravigliosa intraprendenza giovanile (e un bel pizzico di propensione commerciale il cui mix a Napoli si chiama a’ cazzimma) che lo porta a partecipare ad una serie di trasmissioni culinarie televisive (di quelle che riempiono i palinsesti di ogni rete). Anzi, mi correggo. Non solo partecipare ma anche vincere. Ha vinto varie trasmissioni televisive come la Prova del Cuoco con la Isoardi e “È sempre mezzogiorno” con la Clerici, “Camper – Nella vecchia Trattoria” con Federica De Denaro. Si dà da fare anche lui. Va bene tutto. Ma la vigna? 7 ettari di terreni dislocati intorno all’agriturismo ed al Lago d’Averno. Luoghi meravigliosi e di puro incanto. Se non ci siete mai stati, una gita è d’obbligo. Qui tutto merita. Dal cibo dello chef Giuseppe, ai vini di Antonio, al Tempio di Apollo (che era un complesso termale), al complesso dei Campi Flegrei, alla Solfatara. E se sentite come ne parla Antonio capite quanto amore c’è nei suoi luoghi. Qui è davvero molto bello. Spettacolare direi. Come la collina di Monte Spina a 300 metri sul livello del mare che si affaccia su Procida, Nisida, Ischia, Sorrento, Capri…..Si vede tutto questo ben di Dio di panorama. Quattro etichette per due tipologie di uvaggi. Campani ovviamente. Della DOC Campi Flegrei manco a dirlo. Falanghina e Piedirosso (o per ‘e palummo). Falanghina Grande Farnia e Piedirosso Gruccione. Due vini semplici ma di grande identità vista la matrice del terreno e l’età delle vigne. Vigne che sono in una zona di 120 e nell’altra di 130 anni. La più giovane ha tra i 60 e i 70 anni. Tanto per rimarcare ancora la provenienza dei vini, i nomi stessi sono dedicati a qualcosa di territoriale. La Grande Farnia è la quercia propria del Monte Spina, il Gruccione è l’uccello dai mille colori che qui ama risiedere. Gli altri due vini invece sono delle menzioni speciali “Vigna Solfatara” derivanti sia da Falanghina sia da Piedirosso. 1253 bottiglie per ogni vitigno coltivato all’interno della Solfatara dalle piante più antiche. Coltivo tutto a ridosso del vulcano Softatara. La gran menzione dei Campi Flegrei solo io lo posso fare perché il mio terreno rientra nella Solfatara. Due vini di assoluto rilievo (la Falanghina l’ho già recensita sul mio blog Instagram ) e dire “esplosivi”. La Falanghina mostra la matrice minerale del terreno appare già nell’invitante colore dorato che si accende di luminosità. Il naso nel calice si crogiola delle nocciole, degli agrumi, della mela annurca, del basilico, dello iodio, dell’alloro: un tripudio di odori tipicamente campani. Così, tanto per ricordare dove ci troviamo.
La bocca al sorso è bellissima e buonissima. Gli agrumi e la mela tornano prepotenti esaltati dalla mineralità. Il finale tende ad andare verso la mandorla amara senza mai arrivarci. Un vino che ha mille sfaccettature tali da esaltarne la bevibilità e gli accoppiamenti. Scegliendo, più che su un pesce all’acqua pazza (con il quale ci starebbe benissimo) lo userei per una pizza bufala e pomodorini del piennolo. Per il rosso, non svelo nulla ma lo troverete comunque a breve sul mio blog @ivan_1969. Io, nu poco fatto a vinoPenzo ô mmale e penzo ô bbeneMa ‘sta vocca curallinaCerca ‘a mia pe’ sa vasá!Tarantella, si ‘o munno è na rotaPigliammo ‘o minuto che sta pe’ passá Antonio e Teresa hanno la doppia anima di viticoltori e ambasciatori del loro brand. Girano in lungo e in largo l’Italia per far conoscere i propri prodotti. Mossi dall’orgoglio, dalla voglia, dalla passione. Sempre con il loro sorriso e la positività che li contraddistingue. Senza però alcuna voglia di fermarsi. Io e mia moglie abbiamo un progettino. Lei è di Reggio Calabria. Li ci sono ottimi vini non conosciuti. Vogliamo fare un blend tra i miei campani e i suoi calabresi. Vorrei dedicarlo a mia figlia. Faremo gli assemblaggi e capiremo cosa fare. Non sa ancora bene cosa fare Antonio di questa pazza idea ma io sono certo che un giorno, nemmeno poi così tanto lontano, mi chiamerà per farmi assaggiare la sua nuova creatura. Anzi, la loro nuova creatura. E io non vedo l’ora!!! Basta ca ce sta ‘o soleCa c’è rimasto ‘o mareNa nénna a core a core na canzone pe’ cantá Chi ha avuto, ha avuto, ha avutoChi ha dato, ha dato, ha datoScurdámmoce ‘o ppassatoSimmo ‘e Napule paisá! Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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14 Luglio, 2023

Terre d’Aquesia: Tiziana, Vincenzo e tanta allegria

Terre d’Aquesia, semplicemente Tiziana e Vincenzo Quanti come me hanno passato i quaranta. Riformulo. Quanti come me hanno passato i cinquanta (così va meglio), ricorderanno una delle prime (o forse la prima e sicuramente più longeva) sitcom italiana più longeva in assoluto, Casa Vianello. In onda dal 1988 al 2007 ci ha mostrato le evoluzioni della coppia Sandra Mondaini e Raimondo Vianello. Lui, Raimondo, impeccabile professionista; lei, Sandra, padrona di casa fine ed esplosiva. Una meravigliosa coppia che ha fatto della semplicità, della schiettezza e soprattutto dell’ironia, una ragione di essere. Non so se la coppia Sandra e Raimondo fosse appassionata di vini, ma quella che ho incontrato io, oltre a ricordarmela per medesime caratteristiche, lo è senza dubbio. Vincenzo Adduci è il proprietario di Terre d’Aquesia, Tiziana sua moglie. Terre d’Aquesia sorge ad Acquapendente (VT). Siamo sotto il lago (vulcanico) di Bolsena, nel triangolo che congiunge Lazio, Toscana ed Umbria. Un territorio che, con fatica, cerca di affermarsi per la qualità dei vini e delle persone che hanno deciso di vivere o vinificare qui (o entrambe le cose). Credo oltretutto che queste zona abbiano un che di magico visto che è già la seconda volta che mi imbatto in una coppia che ha scelto questi luoghi per soddisfare la passione vinicola. Vincenzo ed il suo aplomb unita alla pacatezza dell’ingegnere qual è; Tiziana frizzante, schietta, diretta, ironica, pratica (e grande acume) come si addice ad una dirigente scolastica. Vincenzo Adduci non è nato nel mondo del vino. È un ingegnere di quelli precisi e meticolosi che arriva (ma non è che non ci stia ancora) dal settore oil&gas che nulla ha a che vedere con il vino. Un ingegnere con la passione del vino. Di quelle che covi dentro da tempo. Che ti tormenta piacevolmente per esplodere al momento opportuno. Ecco il momento opportuno. Per molti questo è frutto di impulso. Un po’ come gli amori che esplodono al primo sguardo. Per un ingegnere non è così. Ci vuole qualcosa prima. E non parlo di certezze quanto di conoscenza. Ha bisogno di sapere. Sapere di ogni cosa che c’è da fare per produrre vino buono e di qualità. Consapevolezza insomma. È così che Vincenzo, continuando a lavorare, si prende una bella laurea in Viticultura e Enologia a Firenze. Con 110 e lode. Ovviamente. Eh quando c’è la passione Tiziana non si trattiene. Ma è così. Meravigliosamente così. Sostiene la passione di Vincenzo che è diventata anche la sua. È una passione. Purtroppo, o per fortuna. Fare un altro lavoro in più alla cantina serve. Prima di crearci una fetta di mercato.. Una fettina. Non so se riusciamo a pagarci le spese della vigna, della passione.. Io faccio l’ingegnere per pagare le spese della cantina. Mi piace sperimentare. Ogni anno faccio vini nuovi, diversi, con metodi diversi Con tappi diversi. Contenitori diversi. Studia lui Vincenzo si laurea con l’intenzione di “costruire” un vigneto. Si, avete letto bene, “costruire”. Non è che si accontenterebbe di gestirne uno. Poi capita l’azienda con la cantina c’era già. Siamo arrivati e abbiamo usato le stesse vigne per costruire vini diversi. È successo tutto nel 2020. Abbiamo fatto il compromesso a novembre del 2019 facendo la vendemmia. L’atto è stato fatto a giugno durante il covid. Capita così che Vincenzo debba “accontentarsi” di costruire vini e non vigne. Poco male anche perché la proprietà che acquisiscono, con un misto di follia e ragione, consta 12.5 ettari di cui 10.5 vitati. Non proprio pochi per due alle prime armi. Oltre alla vigna, alla cantina e a tutto ciò che gira intorno devono pure gestire il personale che lavora in azienda. Ah già, dimenticavo, il lavoro di Vincenzo e Tiziana è a Roma. Non troppo lontano ma nemmeno tanto vicino. C’è il personale che lavora in vigna. Alle volte siamo in 10/12. Durante la vendemmia, a mano, io sono in cantina perché ricevo le uve e le lavoro. Non ho l’attrezzatura per i bianchi ma uso un metodo artigianale. Metto le uve nel torchio e uso il mosto fiore. Ciò che avanza lo uso come sfuso. Le rese sono dunque molto basse. Chardonnay e Grechetto ci danno grandi soddisfazioni. Il 2021 penso che sarà quello più internazionale e morbido. Il 2019 si sentiva ancora l’amarognolo  Vincenzo è l’ingegnere che studia e studia davvero. Dopo la laurea nel 2017 si mette pure a fare consulenze per la regione Lazio. Ho applicato delle tecniche che avevo studiato ad alcune vigne sui Castelli Romani, a San Vito romano, a Nettuno. In fondo ho fatto la tesi sull’agricoltura nel Lazio. Non è stato ben visto in Toscana La tesi era “Il Bellone e la viticultura nel Lazio”. Ero uno sconosciuto a Firenze. Hanno visto che non parlavo di Chianti del Brunello… Sono stati carini i professori con lui Prima della laurea ho esercitato con gli assaggi Abbiamo girato tutte le cantine del mondo. I nostri viaggi erano tutti a sfondo enologico. Vincenzo mi diceva “Ti andrebbe di andare lì?”. Cosa andiamo a visitare un museo? Rispondevo io. Poi giravamo per cantine e assaggiavamo di tutto Napa Valley, Francia, Germania, tutta l’Italia… Ci siamo esercitati bene. Tiziana lavora a scuola dicevamo. Faccio il lavoro che amo. Per me il vino è in più. Vengo da una famiglia di San Vito Romano e i miei nonni vivevano di vino e olio. Dell’infanzia ricordo la fatica dei vigneti. Mi sono fatta contaminare da questa passione. Attorno al vino c’è tanta passione e ho preso il bello di tutto questo. Dal lunedì al venerdì (o sabato mattina) lavoro a scuola. La sera e il fine settimana, in cantina. Pendoliamo tra Roma e Acquapendente. I pendolari della vigna. La cantina va seguita. Gli operai vanno seguiti. I cantinieri. La gente vuole che sia tu a presentare il prodotto. Il produttore fa la differenza. L’amore per il vino contagia. Vincenzo ha contagiato Tiziana. Tiziana sostiene Vincenzo. Entrambi prendono questo come pura passione ma anche quel minimo di ambizione che non guasta mai. Giusto un minimo perché, adesso, ciò che conta è stare bene. Insieme e con gli altri. La cosa più bella è accogliere le persone in cantina e parlare del vino. Farglielo assaggiare. Parlarne discuterne. Io mi diverto in questo senso. Taaanto Passo ore e ore a parlare Ora ore no. Ci fa però piacere ricevere le persone e siamo felici quando vanno via contenti. Mangiamo qualcosa insieme. Mangiamo il salame il prosciutto. Assaggiamo i vini. Io faccio assaggiare i vini dalle barrique Solo quando sono molto simpatici però Una passione sfrenata che si trasforma in un business? Business è una parola grossa. Un giorno forse. Speriamo una volta in pensione, di ritirarci a vita privata. Tra cinque anni Cosa vedete dinanzi a voi? Taaaanto vino, taaaanta uva. Taaante bottiglie. Taaaante barrique… Ride Tiziana. Ride di quella allegria che solo la spensieratezza nel fare qualcosa che ti dona gioia può dare. Non c’è frenesia. Non c’è voglia di emergere. C’è solo tanta voglia di vivere in armonia con tutto ciò che ti circonda. A riportarla sul lato serio, c’è sempre Vincenzo. A livello commerciale dobbiamo andare verso est. Un progetto internazionalizzazione verso gli USA e l’Europa del nord. Abbiamo un importatore. Nel 2021 abbiamo fatto 22000 bottiglie. Non avendo mercato non le abbiamo prodotte. In un momento in cui il mercato era troppo saturo non volevamo imbottigliare perché quello è il costo più alto. Dopo il covid tutti hanno abbassato avendo i magazzini pieni. Con i suoi 10 ettari vitati, l’azienda ha comunque una elevata potenzialità. Fino a circa 50mila bottiglie. Il che vuol dire una resa decisamente bassa. Ma con uno certosino e meticoloso come Vincenzo, vi sareste aspettati una resa più alta? Dobbiamo trovare una dimensione che coniughi guadagno, divertimento e produzione di qualità. Siamo alla ricerca di questo connubio. Vincenzo è rigoroso in vigna come in cantina: si parte dalla bassa resa in vigna, si passa per il biologico, si arriva in cantina dove non può che esserci tecnologia, acciaio e barrique usate e selezionate. Processi e protocolli perché tutto sia controllabile e controllato. Anche il giudizio dei vini viene affrontato con un rigoroso, ma divertente processo. Siamo un gruppo di enologi che assaggiamo C’è un conclave. È divertentissime perché tornano in ginocchio. Le barrique vengono assaggiate tutte ed etichettate con una sigla che solo loro capiscono: A, AAA, AA++, A-…  Poi vengono miscelate a seconda della valutazione da questo conclave di enologi che mischiano oltre che il vino anche le competenze. Appaiono tutte felici quando vanno a fare queste cose In effetti, ci sono 90 barrique…dopo un po’ sbarelliamo. Procedure su procedure quando fanno queste cose. C’è una selezione che giustifica anche il costo. I ristoratori vogliono il vino a due euro e noi non possiamo fornirli. Vincenzo dirige (avevate dubbi?) le operazioni in vigna. Non può fare tutto da solo in cantina e in vigna: il processo non lo permetterebbe! C’è anche un agronomo. Che è mio fratello. Ma glielo hai imposto? E certo. No scherzo. È una azienda familiare. È sfuggita solo mia sorella ma prima o poi la porto. Per adesso, come me, assaggia. Sandra e Raimondo. Sono loro. Non ditemi di no vi prego! La particolarità di questo territorio è l’essere a pochi km dalla Toscana. I terreni sono gli stessi di quelli della Val d’Orcia: argilla con marne. San Casciano dei Bagni è letteralmente dietro l’angolo. È così che le vigne di Sangiovese non possono che produrre un ottimo risultato. In passato venivano dalla Toscana comprare l’uva. Stiamo implementando anche altri vitigni nuovi C’è una parte della vigna che ha avuto dei problemi di siccità. C’era Montepulciano che non ci piaceva. Abbiamo messo due ettari di Ciliegiolo che arriva dalla Maremma che confina anche con noi. Siamo Lazio ma è come se fossimo in Toscana o in Umbria. Un triangolo. Un po’ da una parte un po’ dall’altra. Vincenzo ha trovato qui vitigni internazionali come lo Chardonnay e il Cabernet Sauvignon. Produrli in purezza avrebbe eliminato quel tratto territoriale, quella identità che ricercava. Così che taglia lo Chardonnay con il Grechetto, il Cabernet Sauvignon con il Sangiovese. Uno stile Supertuscan. Il Cabernet grazie al terroir si esprime bene senza essere pesante. Non irrighiamo Cosa hai portato nei vini? Eleganza e finezza perché erano vini un po’ grossolani. Gli ho tolto un po’ di corpo per renderli più fini. Ho poi inserito il Ciliegiolo che non c’era. Va un po’ di moda certo. Ora io me lo immagino Vincenzo che sperimenta come se fosse il piccolo chimico. Non ci sono alambicchi e pozioni magiche ma tini, botti, torchio, sensori. Mi ritengo sperimentale. Faccio anche naturale senza aggiunta di nulla. Senza additivi. Sto facendo un bianco e un rosso. Lo chiameremo Jazz. Dedicato alla musica. Io suono e adoro il jazz Ogni tanto dorme! Suona il pianoforte. Non dire niente. In fondo gli ingegneri sono poliedrici. Basta che gli dai un manuale, istruzioni precise e l’iniziativa arriva da soli. È vero che a lui piace sperimentare. Però è molto tradizionalista nel modo in cui ad esempio si coltiva. Tutto il personale è di Acquapendente. Le persone sono quelle che fanno questo lavoro da sempre e che vivono nella zona. Questa è sostenibilità del paese. Vengono a vendemmiare perché hanno fatto quello nella vita. C’è rispetto per la vigna perché fa parte del territorio. Rispetto delle persone e della zona. È un modo che si ha di pensare il lavoro e la vita. Noi è che noi dobbiamo diventare ricchi. Ormai siamo vecchi e non dobbiamo diventare ricchi. Ci vogliamo divertire e non vogliamo fare del male al luogo e alle persone. La passione che non può e non deve passare sopra a tutto. Perché vivere in armonia con ciò che si ha intorno vuol dire tante cose. Alcune magari inflazionate ma, in questo caso, reali. Pure. Perché dettate dalla passione. Quando si inizia proprio con il rispetto del luogo che ospita, delle persone che ci vivono, allora il resto ovvero il risultato, non può che essere una conseguenza. Attenzione al territorio, al materiale, ai lieviti. La gente beve e non sta male con la testa. Ieri abbiamo bevuto un sacco di vino. Nessuno ha il mal di testa. Anche persone molto sensibili alla solforosa. Metto il minimo indispensabile. Uso la solforosa molecolare ma solo per evitare i batteri acetici. Ecco, temo che se facessi una domanda tecnica a Vincenzo sulla solforosa molecolare, partirebbe con una disquisizione tecnica e tecnologica. Me la tengo anche perché Tiziana subito rincalza. Quest’anno abbiamo messo il concime delle aziende vicine, il letame insomma. È una scelta. Non ci facciamo vedere con il cavallo. Usiamo il trattore. Però siamo in pace con l’ambiente e le persone che lavorano con noi. Non ci premiano i soldi ma siamo contenti così. Abbiamo due lavori bellissimi quindi questo ci deve dare gioia. È un hobby costoso. Avrei preferito i francobolli. Che pure faccio. Quando ero piccolo Meno male che li abbiamo lasciati Con una coppia così non ci si può non divertire. È un assortimento davvero ben riuscito. Un connubio che guarda al futuro con tanta serenità. Per il futuro ho delle prospettive Ah ne vengo a conoscenza ora Oggi usiamo barrique usate, che compriamo in Francia o in Italia. Secondo o terzo passaggio. Per il futuro vogliamo usare il cemento e la ceramica. Specialmente per il Ciliegiolo. È un progetto per il futuro. Così come la tecnologia 4.0, temperatura controllate. Monitor in cantina Questo un giorno però eh! Una prossima vita. Tutto insieme non lo possiamo fare Starei a sentirli per ore. Anche perché dando loro il là, sono davvero Sandra e Raimondo. Tra di loro, un tenero ping pong. Un modo di gestire il rapporto che sa di solidità e rispetto reciproco. Nelle loro parole c’è tanto della loro vita e del modo di essere. Sanno prendersi in giro e prendere il bello della vita. Che è fatta di stare insieme. Tutti nostri vini hanno una dedica. Il Rosato, ad esempio, Rosa rotondo è dedicato alla nonna di Vincenzo. Aquesia bianco e rosso al paese che ci ospita. Ciliegiolo, Contaluna è un toponimo di Acquapendente. È il mio vino. Sta maturando dicono gli enologi. Santermete è il Santo patrono di Acquapendente. Abbiamo fatto anche disegnare un sigillo sulla etichetta con una “A” stilizzata che è l’inziale del suo cognome: Adduci. I vini dunque. Aquesia bianco è il blend di Chardonnay e Grechetto. Aquesia rosso è il Sangiovese ammorbidito con un po’ di barrique. Aquesia bianco è un vino più internazionale e la territorialità c’è con la pesca e la nocciola del Grechetto. Tutto dipende molto dalla annata. Da come si è evoluto. Vincenzo è molto attento alle annate. Le sfumature che cambiano il vino come se fossero tonalità di colore. Vini diversi che trovi diversi nel bicchiere. Senza standardizzazione. Senza omologazione. Abbiamo preso in affitto una vigna in collina a 700 m di altitudine (qui siamo a 300) con vitigni misti. Sangiovese e Ciliegiolo. Faremo vini con solo acciaio. Una sorta di cru. Usciremo quest’anno con il 2021. È in vasca il vino Dorme…. Abbiamo fatto uno studio sui tappi e adesso siamo contenti Ci credo, costano il doppio. Per la prima vendemmia abbiamo usato i tappi Nomacorc con il passaggio di ossigeno controllato. Per alcune bottiglie ho invece usato i Diam: 3 per rosato e bianchi, 10 per i rossi. Poi, con le degustazioni comparative ha vinto il Diam. Me lo ha fatto assaggiare chiedendo quale fosse il più buono. Provo qualche vino partendo dall’Aquesia bianco, curioso del blend Grechetto e Chardonnay. Colore paglierino vivace e sentori semplici di note erbacee e frutta bianca quasi mallo di noce. Si sentono gli agrumi, la pesca bianca, la nocciola. Le tipiche note dello Chardonnay molto evidenti insieme ad una evidente sapidità. In bocca è fresco, caldo, secco e con la sapidità già percepita al naso che adesso si evidenzia in tutta la sua forza. Un vino bilanciato con la freschezza che predomina anche se alla fine risulta un vino semplice e lineare. La persistenza buona e il finale tende ad andare verso l’amarognolo. Un vino che fornisce a pieno la potenzialità di abbinamento tra questi due vitigni. Lo abbino in maniera facile e sincera ad un pesce di mare al forno. Vado al Grechetto 2021. La colorazione qui è più vivace del precedente e i riflessi diventano dorati. Le note agrumate e la sapidità risultano ancore più evidenti. Un vino che esprime in tutta la sua semplicità con sentori di fiori e frutta bianca (con la pesca che spicca insieme ai fiori di iris). Appare leggermente più complesso del precedente con la semplicità comunque che prevale. Il gusto è comunque più pieno e avvolgente. La sapidità rimane spinta. Fresco, moderatamente caldo, secco. Finale pulito che va verso l’ammandorlato. Persistenza buona. Un vino che si presenta si verticale ma che fa della semplicità e avvolgenza le due caratteristiche (insieme alla sapidità) che ho più apprezzato. Qui abbino però una pasta con il pesce (senza pomodoro!). Passo ad un Aquesia rosso 2020. Sangiovese in purezza con 6 in barrique e 8 acciaio. Colore rosso rubino e riflesso porpora dotato di bella limpidezza. Si sente la violetta e l’arancia rossa sanguinella. Un leggero sottobosco si evidenzia insieme a leggere note speziate. Sentori dunque puliti e semplici per un Sangiovese domato! Ottima freschezza in bocca insieme ad un tannino non particolarmente aggressivo. Buona la sapidità e l’invitante retro olfatto invitante. Finale leggermente amaricante ancorché coinvolgente. Ne risulta un vino semplice e schietto: tipico Sangiovese quasi da Chianti. Proseguo con il Cantaluna 2019. Ciliegiolo in purezza che si divide i 20 mesi di affinamento tra acciaio e barrique rigorosamente usata. Nel calice rubino con riflessi porpora. Al naso la ciliegia matura non può che prevalere sulla restante frutta (prugna e arancia sanguinella). Tabacco, noce moscata, pepe verde e un tocco di balsamico chiudono l’olfazione. Secco, caldo, fresco, sapido. I tannini sono già maturi e arrotondati. La persistenza è buona e il finale lievemente amaricante. Un bel vino davvero che rappresenta a pieno il territorio. Finisco con il Santermete 2020, blend di Cabernet Sauvignon e Sangiovese. 8 mesi in acciaio e 20 in barrique servono per arrotondarlo un pochino. Colorazione rubino senza particolari riflessi. Naso interessante per una immediata balsamicità, la ciliegia MonChery, la prugna, la mela cotogna. Ricorda una macedonia di frutti di bosco con limone. Poi la violetta, la foglia di pomodoro, il peperone, pellami, tabacco, pepe, chiodi di garofano, sottobosco. Insomma, un bel corredo olfattivo che offre una complessità interessante tale da rendere invitante questo vino. Un invito reso ancora più interessante da contemporanea sensazione nasale di dolcezza e freschezza. In bocca si conferma una bella e fresca espressione. I tannini sono già setosi e avvolgenti anche se un po’ ruvidi ancorché non particolarmente aggressivi. Sento la sapidità e un retrogusto che parte con la frutta volta a spegnersi per riprendersi verso un amaricante che continua senza mai essere fastidioso: è come se la ciliegia si trasformasse in visciola (cosa che mi invoglia a provare questo vino con una crostata). Buona la persistenza non particolarmente lunga e finale bello e pulito. Con un ragù lo vedo perfetto ma anche con una bella amatriciana. Lo lascerei un altro anno in bottiglia perché merita un maggior riposo. Ciò che ho provato mi ha convinto molto. La capacità di produrre qualcosa di qualitativamente valido in così poco tempo è senza dubbio notevole. Così notevole che sarà difficile migliorare. Anche se sono certo che Vincenzo e Tiziana sapranno ancora stupirmi. Alla fine di questa spumeggiante chiaccherata posso dire di aver avuto il piacere di incontrare due persone che sono loro stessi un blend di vita. Passione, precisione, meticolosità, voglia di sperimentare per Vincenzo; spumeggiante allegria, coinvolgimento, ironia, preparazione per Tiziana. Ciò che ne risulta è Terre d’Aquesia che non è solo una azienda agricola, una cantina, un produttore di vini. È un luogo, una speranza, un progetto di vita. Insieme. Tiziana e Vincenzo e gli amici che li circondano. Un angolo di mondo e di vita che si sono ritagliati. Non tanto per fare soldi quanto per continuare a divertirsi coltivando la passione prima della terra. Rispettando le persone, il territorio, il vino, loro stessi. Niente improvvisazione ma tanto studio, tanta preparazione. Che con l’allegria viene meglio. O no? Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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7 Luglio, 2023

Società Agricola Capriotti e la semplicità del Verdicchio

Società Agricola Capriotti e la semplicità del Verdicchio Quando mi capita di parlare con una persona ho spesso la tendenza a posizionarla all’interno di una cornice ben precisa: un film, un libro, una canzone. Una sorta di raffigurazione schematica per inquadrarla in un contesto più ampio. Come se qualcuno prima di me abbia avuto la genialità di rendere “personaggio”, protagonista o meno, quella persona. Spesso rido perché il ricordo va ad un personaggio comico. Altre volte rimango intrigato. Qualche volta mi rattristo. Può succedere poi di non avere un appiglio sicuro e rassicurante. Di non riuscire capire dove e come incasellare l’interlocutore. Forse capisco di non aver letto il libro o guardato il film o ascoltato la canzone con quel personaggio. Incontrando Mirko Capriotti della Società Agricola Capriotti la sensazione è di avere dinanzi qualcuno che ancora non ha trovato spazio nell’opera di un autore. Non fosse altro perché, quando pensi di inquadrarlo in un contesto, ti spiazza facendoti andare da tutt’altra parte. Schietto, verace, diretto, ironico, perspicace, pragmatico. C’è una frase che emerge dalla conversazione con Mirko che dà il senso del prologo. Qui tutti dicono che sono viticultori alla terza generazione. Potevo dirlo anche io perché nonno era viticultore, mio papà, anche se per un periodo breve, lo è stato. Ma vogliamo dare, anche continuando quello che faceva nonno, una impronta diversa con vini di facile bevuta senza che siano anonimi. Con un nostro vino se sei in tre, una bottiglia te la finisci bene. Ecco. Ecco Mirko. Siamo a Castelplanio in provincia di Ancona, poco sopra Jesi, nel mezzo di quella Strada Statale 76 che collega il mare di Falconara Marittima a Jesi e Fabriano. Nelle Marche  il Verdicchio la fa da padrone incontrastato dividendo equamente le gioie e i dolori dei produttori (gioie dal successo che sta avendo, dolori dal prezzo non certo elevato). L’idea di costruire una azienda vinicola viene a Mirko e alla sorella Monia nel 2015. Mirko che lavora in una industria di mobili e Monia a girare il mondo lavorando nella ristorazione. Monia che si ferma per metter su famiglia e poi alla ricerca di un lavoro che non arriva. Ci sono i terreni del nonno però. Tre ettari coltivati come poteva coltivarli il nonno e non coltivarli il papà. Dal vigneto al seminativo. Un po’ di confusione. Ma se non è quella la tua attività, ci sta. Non dovrebbe starci ma ci sta. Puoi startene con le mani in mano. Puoi continuare ad andare in giro cercando qualcosa che, forse, prima o poi arriverà. Oppure. Oppure puoi scegliere di avventurarti in qualcosa di complicato, difficile, faticoso. L’agricoltura e la vigna in particolare viene raccontata come qualcosa di meraviglioso. Solo chi la vive sa quanta fatica c’è dietro una singola bottiglia. Con il tempo che passa. La vita che ti passa dinanzi agli occhi. Un ticchettio che è nelle orecchie e ti fa capire che se hai una idea, non devi aspettare. Devi tirarti su le maniche e fare. Monia e Mirko decidono di tirarsi su le maniche e fare. Investendo i pochi soldi che hanno, il tempo e il sudore. La perdita in poco tempo di persone che avevano tanti progetti ci ha fatto capire che se hai una idea in testa devi portarla avanti. Non aspettare chissà quale occasione o quale evento favorevole. Se ce l’hai e ci credi devi andare. Nel giro di sei mesi abbiamo iniziato tutto. Piantando anche i vigneti. Era il gennaio 2015. Prendi i tre ettari del nonno. Li lavori bene con le poche e malconce attrezzature. Pianti le barbatelle. Una per una. Con la voglia di fare qualcosa. Con la speranza di ottenere qualcosa. Con la necessità di produrre qualcosa. Siamo partiti da zero impiantando le barbatelle che abbiamo messo noi e gli amici. I pali da una ditta e noi che aiutavamo. Il nonno essendo agricoltore aveva qualche mezzo. Qualche ferro vecchio che ho usato per le lavorazioni. Messe le barbatelle, inizia il lavoro. Insieme all’attesa. Generalmente se si hanno i fondi a disposizione, il tempo di almeno due anni necessario alle barbatelle per produrre i primi grappoli accettabili, viene impiegato per realizzare la cantina. Se non li hai invece, oltre a non fare la cantina devi sbarcare il lunario. Pianti le barbatelle e poi vediamo. Occorre dunque aspettare il 2017 per la prima vendemmia. Vendemmia che non può prevedere la vinificazione perché la cantina non c’è. Unica strada è farselo produrre da terzi. In molti di quelli che parlano da profeti, e non è critica o invidia, hanno le spalle coperte. Noi no. Non potevamo fare l’investimento della cantina. Abbiamo fatto il vigneto con gli aiuti regionali e il 40% dei lavori in economia. 3000 bottiglie e qualcosa di sfuso. Null’altro si poteva ottenere in fin dei conti. Nel 2017 così come nel 2018 magari con un po’ di sfuso in più. “Il nonno era produttore di vino ma la storia del vino del contadino che era buono è una stronzata pazzesca. Da noi si dice “non si strozzavano”. Se non aggiungevi acqua, era imbevibile. Schiettezza. Mirko è così. Dice ciò che pensa. Dice quelle cose che tutti sanno e pensano ma si vergognano di dire. Gli anni del covid portano a produrre le stesse quantità. L’aumento dello sfuso, la consegna a domicilio e soprattutto i bassi investimenti li aiutano a superare la bufera. Ma proprio nella bufera capitano le cose. E quando capitano puoi prendere o lasciare quello che il destino ti offre. Ogni cosa ha un prezzo. Economico o di impegno. Il prezzo comunque c’è. Capita così che nel 2020 c’è l’occasione di prendere due ettari di un vigneto di Verdicchio impiantato negli anni 80. L’occasione è ghiotta ancorché impegnativa. Sempre in due, Monia e Mirko, sono. Pochi soldi e tanta voglia. Monica a tempo pieno, Mirko a metà. Nel 2020 abbiamo ampliato l’azienda con un vigneto di due ettari dei primi anni 80. Ci siamo avvicinati ad un enologo emergente della zona che ci ha supportato nella gestione del vigneto. Il vigneto acquisito ci ha consentito di ottenere un discreto prodotto. Migliorando con enologo e cantina è uscita la seconda bottiglia. Con il vigneto del 2015 facciamo il Classico, con il vigneto acquisito, il Superiore. La semplicità. Un vigneto, un vino. Niente di più, niente di meno. Nessuna lavorazione in cantina (solo acciaio a temperatura controllata, riposo sulle fecce fini e a febbraio imbottigliamento). Nessuna “costruzione” del vino: non se lo possono permettere e non piacerebbe a Mirko. Io sono una persona che prima di produrre vini ne ho consumato tanto al bar, alle cene, con gli amici. Per me il vino è convivialità: aprire una bottiglia, tagliare una fetta di salame. Questi sono vini ideale per queste occasioni. Fatti bene nella loro semplicità. Non dico che sono unici ma non sono confondibili. Se non è questa la vera semplicità e schiettezza non so cosa sia. Mirko è uno di quelli che pensa che riesci a vedere qualcosa in cui credi. Nel caso del vino meglio se pure consumato. Stiamo iniziando ad impiantare le nuove barbatelle con cloni di vecchie piante. Quelle che stanno scomparendo. In zona stanno appiattendo il vino perché acquistano le barbatelle dallo stesso vivaista, hanno stesse esposizioni, le stesse tecniche in cantina. Iniziare a fare il vignaiolo dal nulla fa capire quello che gira intorno al mondo del vino. Soprattutto ciò che serve per sostenere l’azienda, garantire la sopravvivenza. Partendo dalle dimensioni che non possono non prescindere dal territorio e da ciò che si produce. Su questo Mirko ha le idee chiare. Il nostro obiettivo è arrivare a 7 ettari di vigneto rispetto ai 5 attuali. Produrre non cinque etichette perché è difficilissimo ma magari una bollicina e basta. Per ora, con la conoscenza del vino, e in cinque anni non sei nessuno, non so ancora bene cosa fare. Di certo non gradisco i vini passati in cemento. Su dieci vini che assaggio gradisco solo quelli che fanno acciaio. Perché non aggiunge ne toglie nulla. Cemento e legno tolgono territorio. Non è sbagliato farlo ma per una azienda di 6 ettari con 55/60000 bottiglie vorrei qualcosa di territorio. E le idee chiare anche sul tipo di vino. Adesso tutti ricercano i vini naturali. Ma i vini naturali fatti bene quanti sono? Alla fine, il vino è un passaggio temporale tra l’uva e l’aceto. L’uomo con le prove e lo studio ha allungato questo arco temporale. Molti sul mondo del vino raccontano la storiella strappalacrime o la favoletta. Alla fine, qui si combatte con le riba a fine mese, le buste paga dei collaboratori. Vendere il Verdicchio sopra i 10€ non è facile. La fascia media dei prezzi del classico è da 5 ai 7€. Il Superiore dagli 8.50 agli 11€. Non ci si può permettere di giocare. Ti raccontano quanto è bella la vita in campagna ma a Pasqua pensavo di stare a casa invece ero nel vigneto perché aveva grandinato. Quanta verità in queste parole. Le storie inventate per dare un tono alla cantina sono frutto della ricerca di una qualsiasi narrazione con lo scopo di fornire spessore ai vini, blasone alla cantina. Darsi un tono e cercare nel passato la propria ragion d’essere. Vedere e comprendere invece il lavoro, il lavoro vero fatto di fatica e sudore, per necessità, passione o entrambe le cose, è bellissimo. Puoi raccontare la storia più bella del mondo ma poi, alla fine, il vino lo si beve. Se è buono. Se fornisce gioia attraverso sensazioni e convivialità. Ma quando capisci da dove viene, quanto lavoro c’è dietro, quante gocce di sudore oltre che di uva ci sono nella bottiglia, allora, il vino ha più gusto. Mirko e Monia hanno iniziato questa avventura per un mix di necessità e passione. Al quale forse io aggiungerei la voglia di libertà di Mirko. Ma questa la lasciamo a latere. Anche perché poi Mirko, a parte alcune lavorazioni con i mezzi si occupa di amministrazione, vendita e quant’altro di burocratico c’è da fare. In vigna le lavorazioni le fa esclusivamente mia sorella e non vuole che io ci entro. Potatura e legatura insieme a due baby pensionati. Anche la gestione del vigneto evidenzia a pieno la filosofia di Mirko che deve essere anche quella di Monia Per il vigneto, non siamo in biologico ma facciamo la lotta integrata. Non facciamo uso di erbicidi ma di concimazione organico e sovescio. La poesia è bella ma la realtà è altra. Non possiamo permetterci di perdere il 30% del prodotto o portare l’uva non sana in cantina. Utilizzando prodotti giusti al momento giusto, nel vino non riporto nulla. La solforosa è sotto il limite del biologico perché se l’uva è sana non me ne serve tanto. E questo ce lo dicono le analisi. Fino al 2019 i migliori clienti della cantina Capriotti erano gli stessi Capriotti. Pragmatismo puro. Dettato certo dalla necessità di sostenibilità, ambientale, del prodotto, dell’azienda, ma anche dal carattere di Mirko (e Monia). Senza favolette. Senza prese in giro. Con convinzione e razionalità. Unico vero scopo, unica modalità per non fallire è portare l’uva bella e sana in cantina. Perché poi, non si può fare più nulla. Una filosofia meravigliosa che rende i vini semplici ma veri. Due i figli di Monia, uno di Mirko. Il futuro sarà loro se lo vorranno. Di certo adesso occorre portare avanti l’azienda e ad una eventuale cantina, non ci si pensa. Tutte le cantine che funzionano hanno due/tre generazioni all’interno. Tutte le altre o chiudono o fanno una vita grama. Siamo in due e se faccio una cantina devo mettere un operaio: non ce lo possiamo permettere. Per adesso dunque il piano è pensare al turismo del vino che la Statale 76 in qualche modo agevola. Un agriturismo, la vendita al bicchiere, la vendita diretta. L’imperativo è bilanciare i minori margini derivanti dalla distribuzione. Molti hanno fatto la cantina e poi hanno pensato a vendere. Io penso prima a vendere. Mirko è simpaticissimo ed esplosivo. Con il suo intercalare marchigiano, il sorriso sempre pronto, le battute, gli aneddoti. È uno che vive e ha vissuto. Ma è pratico. Senza fronzoli. Essenziale. Sente il peso delle vendite. La responsabilità del suo ruolo per le entrate della cantina. Lo fa con il sorriso e la leggerezza di chi ha confidenza del prodotto che offre. Qui il barista guarda il prezzo ma io gli dico di non fossilizzarsi sui 30 centesimi in più rispetto alla concorrenza. “Vedi quanti ti chiedono il secondo bicchiere” gli dico. Perché chi inizia a provare il mio vino, se ne innamora. Territorio nelle bottiglie e territorio nella distribuzione. Prima vengono le Marche poi il resto. Che comunque c’è. Sono sempre convinto che se non sono padrone a casa mia non posso andare fuori. Andrò all’estero quando sarò ben conosciuto qui in zona. Stiamo coprendo bene le Marche. Facciamo qualcosina a Roma con un distributore e quest’anno mi devo mettere di impegno per trovare altre strade. Partiti da 3000 bottiglie si è arrivati alle 11.000 bottiglie del 2022 puntando alle 16.000 del 2023.  Tutte con due etichette: La Pietra, un Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico e Kàlamos, il superiore. Niente rossi in lista perché come dice Mirko Il territorio non è vocato per il rosso. Non lo voglio fare a meno che il mercato non me lo chieda ma rischio di non farlo con uve mie. Le bollicine se le faccio, le faccio con le mie. Sto assaggiando tante bottiglie per capire in che fascia di prezzo potrò venderle. Occorre capire l’investimento. Quest’anno sicuramente una base la facciamo. Sto assaggiando anche qualcosina in anfora perché se esco col metodo classico esco tra 3 anni. L’anfora ha poca concorrenza. Ho avuto modo di assaggiare entrambe i vini di Mirko e Monia: rappresentano a pieno il territorio, l’azienda, il carattere. Semplici e non ruffiani. Genuini e non edulcorati. La Pietra, Verdicchio Classico, è un vino che offre una ottima pulizia di bocca grazie al retrogusto agrumato. Retrogusto pericoloso per il finale amarognolo che si accentua se lasciato scaldare. Munirsi dunque del secchiello per il ghiaccio nelle calde sere d’estate è d’obbligo anche se, confermando quanto diceva Mirko, il vino lo si finisce subito. Semplice e ottimo proprio per questa semplicità. Paglierino dai riflessi verdognoli con pochi sentori ma invitanti: agrumi, fiori di campo, fieno e un mango che inizia a percepirsi. Secco, caldo, fresco e soprattutto sapido, offre una persistenza buona ma non eccessiva insieme ad una bella chiusura di bocca. Perfetto anche per un aperitivo. Kàlamos, è Superiore già dalla luminosità di quel color paglierino che rende evidente la provenienza dalle vigne più mature. I sentori diventano articolati con il cedro, il pompelmo, l’ananas, la banana, il lieve vegetale, i fiori di girasole, iodio, pietra focaia. Bella freschezza, secco e un calore non particolarmente evidente. Spicca invece ancora la sapidità. Un sorso molto armonico e persistente con ritorno di agrumi dovuto ad un bellissimo bilanciamento. Uno di quei vini per i quale un sorso invoglia l’altro, sia perché è buono sia perché la bocca viene lasciata in uno stato davvero interessante. Abbinamento direi con una pasta con zucchine o un pesce tipo scorfano. Quanto al nome, Kàlamos, sarebbe stato facile imbastire una storia tipo: il nome Kàlamos è un omaggio ai miei genitori che ogni anno ci portavano in barca proprio a Kàlamos, l’isola greca dello Ionio tra la costa e Cefalonia. Li era la base delle nostre estati. Ecco sarebbe stato facile e bello. Ma i genitori di Mirko e Monia non penso avessero le possibilità di farsi una barca. Kàlamos è il calamo, la sottile canna usata per scrivere. Sottile come la strada, via Canneggie, che collega i due vigneti. Canneggiare poi vuol dire misurare. Anticamente lo si faceva con una canna. Da qui il nome, pratico, legato al territorio, senza fronzoli. Niente di più lontano da una favola. Come lo è Mirko. Niente favole dunque per la Società Agricola Capriotti. Niente favole per Mirko e Monia. Solo cose concrete. Solo fatica, voglia, passione. Da questo nascono vini che sanno di tutto ciò. Difficile emergere in un mondo così complesso ma io glielo auguro di cuore.   Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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30 Giugno, 2023

Diana e Giacomo: due cuori e una vigna

Diana e Giacomo: due cuori e una vigna Ed è per questo che ti sto chiedendo Di cercare sempre quelle cose vere Che ci fanno stare bene …. Superando quegli ostacoli Che la vita non ci insegna Solo per cercare di essere più veri Per guardare ancora fuori Per non sentirci soli Quando parlo con Diana e Giacomo e li vedo insieme mi torna in mente la canzone “Due Destini” dei Tiromancino. Iniziamo il nostro incontro e gli dico di getto “Sembrate una coppia ben affiatata” Dobbiamo esserlo. Per forza. Tra figli e lavoro insieme dobbiamo per forza andar d’accordo. Una bimba di 4 anni e un bimbo di 1 anno. Giacomo si occupa dell’azienda dal punto di vista fisico. Io della burocrazia. Io ne sono ben felice. Una coppia unita e solida. Con compiti divisi e una unione che non teme lo stress. Anche se di stress in queste zone non ce ne è traccia. Siamo a Brentonico, 4000 anime circa della provincia di Trento. Il monte Baldo e il Nago alle spalle e il lago di Garda dinanzi,con l’Ora, il vento che spira dal lago, a mitigarne il clima pur sempre alpino. Una zona tranquilla ed assolata dove il tempo scorre lento e le stagioni si susseguono senza particolari scossoni. Tutto sembra al proprio posto. Lo scenario che si presenta è incantato. Non c’è un granché da fare qui, eppure Diana e Giacomo scelgono di vivere proprio qui, a Brentonico ad occuparsi di poco più di tre ettari che furono del bisnonno di Giacomo. In realtà era il mio trisnonno. Avevano iniziato avendo le viti, tabacco, poi classici campi per il sostentamento della famiglia. Bisnonno e nonno di Giacomo iniziarono dopo la seconda guerra mondiale a produrre e vendere vino. Ma non solo, perché in quel periodo l’arte di arrangiarsi li condusse a produrre anche distillati di contrabbando. Adesso si può dire Diana sorride guardando teneramente Giacomo. Siamo in una zona di confine in fondo. Qui passavano in tanti lasciando sul territorio i segni e una estrema povertà. Le notti di luna piena, mio nonno, insieme alla sorella Ester, partivano con zaino in spalla portando grappa e vino rosso. Partivano, scendevano in valle, arrivavano ad Ala e proseguivano per la Lessinia dove c’erano le Malghe. Qui scambiavano vino e grappa con formaggi e mortadella e altro per poi tornare indietro. Un percorso non proprio agevole ma necessario. Per la sopravvivenza. Ho sposato Diana che era della Lessinia. In qualche modo è tutto collegato Magari i nostri nonni erano insieme a fare business Il nonno di Giacomo vinificava, come di consueto da queste parti, per conferire le uve alla cantina sociale. Quello che rimaneva era per il consumo della famiglia. Poi con il papà si perse la passione della vinificazione e le uve si conferivano tutte alla cantina sociale. Ci tengo a precisare che mio suocero è astemio. È un grandissimo viticultore perché se non ci fosse lui avremmo tanti problemi. Nel territorio del monte Baldo quasi tutti conferiscono alla cantina sociale. Nessuno ha avuto il coraggio, il genio, la pazzia di dire “inizio a vinificare” per valorizzare il territorio. Gran parte dell’uva qui va a finire a Ferrari per lo spumante In fondo come si fa a non comprendere le persone di questa zona. Qui la viticultura è eroica. Le terrazze sono ripide e le lavorazioni non possono che essere manuali. Terrazze belle a vedersi e a visitare con gli estasianti paesaggi da offrire alla vista. Ma gestire le lavorazioni, qui è altra cosa. Penso che tanti hanno fatto la scelta lasciar perdere la vinificazione perché dopo l’impegno in vigna non avevano voglia e soldi per la cantina. Giacomo, con il bisnonno (anzi tris nonno), nonno e papà che si ritrova non può non aver sempre lavorato in campagna. Oltre che fare il consulente agronomo. Adesso ho ancora qualche cliente che seguo in maniera tecnica però principalmente mi occupo dell’azienda agricola. L’incontro con Diana segna la vita di entrambi. La nostra scelta è nata dal momento in cui ci siamo conosciuti. Lei viveva più in città, io in campagna. Cosa facciamo? Vieni tu da me? Io da te? Abbiamo scelto di restare con tutte le difficoltà del caso ma con lo scopo di portare vita in un territorio che rischia l’abbandono. Siamo in montagna, ci sono i vigneti ma prevale il bosco e le spine. La scelta di valorizzare il territorio è lodevole. Pochi gli ardimentosi impegnati a produrre vino in queste zone. Eppure il territorio è bellissimo e vocato. Mancano forse le possibilità. O la voglia di valorizzarlo fino in fondo. Per Diana la scelta di passare dalla vita che scorre velocemente della città a quella di un luogo dove tutto scorre più lentamente non è stata difficile. L’amore? Per Giacomo sicuramente ma anche per questi paesaggi incantati dove si vive al passo delle stagioni, del canto degli uccellini. Fino all’altro giorno non c’era nulla ora ti svegli al mattino e cantano tutti. Diana e Giacomo con i loro figli, iniziano la loro avventura pochi anni fa con l’azienda unica fonte di sostentamento. Siamo partiti nel 2020. Maggio 2020. Dopo diversi anni di prove per raggiungere il prodotto che volevamo avere e vendere. L’azienda esiste come vitigni dal bisnonno di Giacomo. C’era un’ottima base ma volevamo dare una identità all’azienda attraverso i prodotti. Prove e controprove. Le classiche micro vinificazioni fatte in maniera casalinga. Gli amici che provano, qualche esperto e tanta allegria mista a passione. La sfortuna di essere pronti proprio nel 2020, anno nefasto. Ma quando parli con loro sembra non essere stato così. Anche perché non è che qui si stesse proprio “chiusi” in casa. In ogni modo il periodo è stato utile per pensare, provare, stare ancora più insieme. Noi ci mettiamo la sera e facciamo tutto noi. Anche le etichette. Questo è merito del Giacomo. Qualche merito devo pure riconoscerlo. Giacomo si occupa della vinificazione coadiuvato da un consulente esterno. L’azienda è piccola e i soldi sono pochi. La cantina non può che essere in affitto con tutta l’intenzione di ristrutturare parte della casa per dedicarla al vino. E dire che il nonno di Giacomo la cantina l’aveva. Solo che non era a norma Bisnonno contrabbandiere. Nonno con la cantina non a norma. Che miti! Ogni tanto io aiuto lei nelle pratiche e allo stesso tempo lei mi aiuta in vigna nella potatura verde, la potatura normale in inverno e autunno e durante la vendemmia quando c’è la massima agitazione Da quando ho sposato lui le unghie non sono più quelle di una volta. Io vengo da un ambito diverso, il marmo, e stare in campagna, nonostante la difficoltà, le emozioni che hai con il panorama, è impagabile Quando chiedo loro il perché di un nome come Sondelaite, Diana dimostra la sua, condivisa con Giacomo, passione per la storia. La storia di questi luoghi, degli avvenimenti, della gente. È un fiume in piena ogni volta che c’è un riferimento da cogliere, da approfondire e studiare di più. Sondelaite è una crasi di parole tedesche modificate nel tempo. Tano per non dimenticare che questa è zona di confine con l’influenza, presente e passata (nonché futura) dell’Austria. Sondelaite identifica i delaite, terrazzamenti, esposti costantemente al sole Una parte del territorio si chiamava una volta Sondelaite e abbiamo deciso di usarlo per l’azienda. Anche la contrada della Lessinia dalla quale io provengo si chiamava Sondelaite. Coincidenze? Casualità. Come non credere che due destini si possano in qualche modo unire. In questo che sembra un paradiso, la vita è difficile e al tempo stesso meravigliosa. C’è grande attenzione perché l’azienda rimane pur sempre l’unica fonte di sostentamento della famiglia. E la partenza per via della pandemia non è stata delle più fortunate. Ma adesso che i magazzini si svuotano, i sorrisi diventano più aperti. Tre vitigni e due vini in portafoglio più alcune idee per il futuro. Anzitutto lo Chardonnay per la presenza di terreni calcarei. Ma anche perché c’era già. Come i rossi Lagrein e Rossara. Quest’ultimo in particolare grazie ad un terreno preso in affitto da un signore anziano dove ve ne erano alcuni filari. Non c’è Rossara al monte Baldo e in Trentino è presente su pochi ettari. Abbiamo pensato di valorizzarla per valorizzare la zona. Solo che non potevano vinificare in purezza per le poche piante così che abbiamo usato il Lagrein realizzando un prodotto meno pieno e di facile beva con attenzione alla freschezza ed ai profumi. Due soli vini abbiamo detto. Il primo è il Kronil da uve Chardonnay. Ecco, fermi tutti. Se provate a chiedere a Diana del perché del nome, parte in quarta (preparatevi anche per il rosso) con una spiegazione che è una favola sensuale. Diana ha un modo semplice di raccontare le cose che sembra essere quello del racconto di una avventura per i suoi figli. La sua voce riesce a portarti indietro nel tempo. Quello che abbiamo voluto fare è produrre prodotti artigianali e di qualità ma soprattutto (perché siamo innamorati del territorio) raccontare la storia del territorio. Siamo appassionati di storia e delle nostre radici. Della popolazione di Brentonico. Ci siamo prefissati con ogni prodotto di raccontare una storia del vitigno e del paese. Cronil è una parete rocciosa a strapiombo sopra l’abitacolo di Santa Cecilia. Prossimo ai vigneti da dove proviene l’uva. Questo posto è stato molto importante perché nel 1703 vi si rifugiarono gli abitanti del borgo di Crosano per sfuggire dell’esercito francese del generale Vendôme (l’invasione del Trentino si inserisce nella Guerra di Secessione spagnola ndr). Cronil è l’unico posto dove nasce e cresce spontaneamente il prezzemolo. Forse per via delle sementi che portarono quelle persone. L’ultima volta che l’abbiamo visitato, abbiamo deciso di mettere in etichetta la tria (il tris, ndr) perché incisa sulla roccia che da sullo strapiombo: le persone passavano le giornate a giocare alla tria. Ci è venuto in mente il periodo trascorso in casa nel 2020 e l’unico nostro svago era buttarsi sull’azienda agricola. Il collegamento con loro che erano in questo angusto spazio non avendo altro della tria per passare le giornate è stato immediato. Insomma, la tria come auspicio di ritorno alla libertà! Sono dei geni. Davvero bravi. Se il lockdown ha generato queste idee, è servito a qualcosa! La vendemmia, manco a dirla, manuale con rese sui 70 quintali. Due vigneti di 7 anni e 40 anni. Pre-vendemmia per base spumante (la novità in arrivo…). Poi massima maturazione e blend tra i due vigneti. Pressatura soffice. 70% in acciaio resto in barrique di secondo passaggio di media tostatura. Utilizzamo un tappo di Nomacorc. Nuova tecnologia con barbabietola da zucchero. L’azienda non emette co2. Ha una microossigenazione controllata. Non saprà mai di tappo. Nessuna alterazione. L’animo ambientalista anche nelle piccole cose. Il risultato è un vino che recepisce la freschezza dal vigneto giovane e la complessità e struttura dal più vecchio. Al naso ci sono certo frutta e fiori, ma ciò che piace di più è la sapidità. Una spiccatissima mineralità che si lega ai sentori di camomilla viranti verso il miele. Viene fuori la pera, la mela, la nota di pompelmo nonché la pietra focaia che emerge prepotente. Una grande finezza ancorché non particolarmente complesso, cosa questa che rende il prodotto estremamente bevibile. Volevamo fare prodotti adatti a momenti conviviali. Bella beva, estivo, fresco. Come per il rosso. La semplicità fa la differenza. Non è un vino né estremamente fresco né particolarmente verticale. È caldo e morbido, di quella morbidezza che solo le vecchie viti sanno dare. Ha un ritorno retro olfattivo tenue. Persistenza buona. Spicca anche in bocca la sapidità. Bocca che chiude decisamente bene. Risulta alla fine un vino facilmente abbinabile che si lascia bere anche da solo per la sua estrema piacevolezza. Il finale, che tende ad andare verso l’amaro senza mai arrivarci, lo rende ben abbinabile con un semplice pesce (di mare). Schietto, diretto. Bel prodotto. Bella immediatezza. Proviamo il rosso 2021, Galee. Anche questa è una storia straordinaria del nostro territorio raccontata attraverso l’ancora di galea veneziana in etichetta ritrovata al largo del Lago di Garda. È la storia della “Gales per montes”, una impresa compiuta da persone ed animali del territorio nel 1439 e voluta dalla Serenissima Venezia, con l’obiettivo di liberare Brescia dal dominio milanese: l’unica strada libera da Venezia per arrivare a Brescia era l’Adige!! Percorsero l’Adige per Verona risalendo fino all’abitato di Marco vicino Rovereto. Qui si fermarono per creare una strada che li conducesse aldilà dei monti fino al Garda. Abbatterono case e alberi per realizzare una via sulla quale far scivolare, su grossi tronchi, le imbarcazioni trainandole con tutto ciò che era possibile. Raggiunsero il Lago di Loppio (prosciugato negli anni 50), rimisero le imbarcazioni in acqua fino ad Nago. Da qui le Galee vennero trainate su per il monte per poi farle scendere verso il Lago di Garda spiegando le vele e usando l’Ora (il vento che spira da sud verso nord e che tanto bene fa alle vigne, ndr). Da Torbole salparono per Desenzano riuscendo a rifornire Brescia che riuscì così a resistere un altro anno. L’anno seguente, la Serenissima volle ripetere l’impresa smontando però stavolta le navi a Venezia per rimontarle nel porto di Torbole. Le successive battaglie condussero alla vittoria sul Ducato di Milano. C’è un dipinto (di Tintoretto, ndr) che raffigura questa battaglia all’interno di Palazzo Ducale a Venezia. Una impresa alla pari di quella di Annibale! Bella la storia e bella l’idea di realizzare un “vino da sete” ovvero un prodotto che potesse in qualche modo somigliare al vino che bevevano le persone che trainarono le navi, il nettare per darsi forza. Insomma qualcosa di meno raffinato e “pesante” di un Lagrein. Loro non potevano bere un vino pesante. Dovevano bere qualcosa di fresco che desse energia. 80% Lagrein, 20% Rossara. Blend in acciaio per il 60% ed il restante barrique di secondo/terzo passaggio per 9 mesi. Lagrein coltivato a 350metri di altitudine; la Rossara, che maturerebbe prima, a 470metri così da bilanciare le maturazioni. Terreni, profondi, calcaree con depositi sabbiosi. In bottiglia per almeno 4 mesi. Nel calice i sentori appaiono vivi e schietti. Fiori e frutta la fanno da protagonisti esprimendo a pieno il territorio. La frutta nera ancora non matura come mora, ribes, prugna lo rendono quasi civettuolo. Non mi aspetto una estrema morbidezza al sorso. C’è una interessante nota mentolata e di liquirizia che fa capolino insieme a del balsamico, al sottobosco, alle spezie dolci e al pepe: complessità non eccessiva ma tanta immediatezza. Il colore rubino con riflesso porpora indica la possibilità di maggiore affinamento (in fondo è solo un 2021). Al sorso è fresco, secco, non particolarmente caldo, sapido. Decisamente sapido! I tannini non sono aggressivi. Leggera punta di amaro verso la fine che aiuta l’abbinamento con piatti tipici tipo polenta e capriolo o una merenda con speck e formaggi. È stato tutto studiato perché facciamo anche una piccola quantità di farina per la polenta. Farina super integrale. Molto saporita con sementi di mais antichi dei quali non sappiamo nemmeno la provenienza. Ce li ha tramandati il nonno. Li abbiamo sempre utilizzati per autoconsumo. Coltivati a dieci metri da qui Qui tutto è artigianale. Poche bottiglie prodotte (1500 bottiglie di bianco e 2000 di rosso) con lo Chardonnay prodotto tramite lieviti selezionati, il rosso senza alcuna aggiunta. Miracoli in cantina non si possono fare ma c’è cura nella vigna da parte di mio marito e mio suocero. Diana e Giacomo non sono due persone che se ne stanno ferme. Dinamiche, molto attive. Hanno sempre qualcosa su cui ragionare. Piano piano siamo cresciuti. Prossimi alla quarta vendemmia, vediamo che il magazzino si svuota. I feedback sono positivi. Adesso c’è una piccola novità Adesso sembra che sono incinta Il prossimo anno usciremo con il primo metodo classico. Abbiamo terminato da poco il luogo dove fa l’affinamento: una grotta in campagna che ha umidità e temperatura sempre costante. Farà tre anni di affinamento sui lieviti. Uve chardonnay In questi luoghi dove camminando tra i vigneti si vedono paesaggi degni di un film, dove si trovano fossili resti di epoche geologiche passate, dove il terreno cambia metro dopo metro, Diana e Giacomo hanno trovato il loro luogo ideale. Un luogo che custodisce la loro vita e quella dei loro figli. Un luogo che vogliono e devono preservare e valorizzare. Per noi l’agricoltura non può che essere sostenibile. Fa parte di noi. Basta venire per vedere il numero di coccinelle che ci sono qui. Continuereste a far vivere i figli qui? Siamo contenti che i figli crescano qui perché qui abbiamo tutto. Qui è più difficile dunque danno più importanza alle cose. Domani vorremmo solo che diventino cittadini del mondo. Qui le radici poi chi lo sa. Due destini che si sono uniti. Due destini diventati oggi quattro. Una famiglia. Il loro sogno. La voglia di emergere. La passione per il territorio. L’amore per le cose. Il senso di appartenenza. La necessità di fare bene. La ricerca della serenità. Lo sguardo sempre rivolto al futuro. Il sorriso. La positività. Due meravigliosi vini (che presto cresceranno come numero). Ecco, questo è Sondelaite. Questo Diana, Giacomo e i loro figli. Una famiglia. Un grande, immenso, in bocca al lupo. Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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23 Giugno, 2023

Pomario, la nobiltà per il vino

Pomario, la nobiltà per il vino La nobiltà e il vino. Antico connubio poi nemmeno tanto diffuso. Sarà che un tempo i nobili non prestavano tanto attenzione a queste cose. Il vino era uno dei tanti prodotti delle proprie terre. Uno di più, uno di meno, faceva poca differenza. Abituati a tutt’altro piuttosto che andar per campi a lavorare o a trasformare i prodotti della terra. C’era chi si occupava di questo. Le cose, mondane, da fare erano altre. La terra? Si certo c’era perché dalla terra nasce tutto e il valore di un nobile si calcolava anche in funzione della vastità delle sue proprietà. Ma se quel nobile producesse un vino buono o meno, forse, all’epoca, non interessava a nessuno. Contava il titolo, le proprietà, la rendita. Solo da relativamente pochi anni (quando si parla di nobiltà il “poco” ha una accezione di parecchie decine di anni) alcune casate nobiliari hanno prestato il proprio nome all’etichetta di un vino. C’è chi l’ha fatto per necessità (anche i ricchi piangono mi verrebbe da dire), chi per estro, chi per noia. Tutti, comunque, accomunati da un comune denominatore: le terre di proprietà. Vigne vecchie, tramandate di generazione in generazione. Nessun problema di disponibilità economica (anche se non sempre è così) utile per far decollare il business. Tanto marketing utile a scrivere storie, piò o meno vere, sull’interesse nel vino dei propri avi. Insomma, pochi, davvero pochi, i nobili che hanno inoculato nel vino un po’ di passione e cuore (interessante l’articolo della celebre rivista Forbes). Certo, a dissertar di vino e nobiltà non può non venirmi in mente Alberto Sordi ne “Il Marchese del Grillo” e le sue vigne del Mascherone. Tralascio ovviamente una delle battute, da nobile, che ha reso celebre quel film ma ne cito solo l’inizio “Mi dispiace, ma io so io….”. Comunque sia, si può nascere nobili così come si può esserlo di animo. Difficilmente si posseggono entrambe le doti (e qui la battuta di Alberto Sordi ci starebbe tutta). Quando però, in rarissimi casi, vi è una convivenza di nobiltà di sangue e d’animo, anzi quando quest’ultima prevale nettamente sulla prima, allora il risultato è senza pari. Il titolo nobiliare è importante. Non fosse altro perché se un merito va dato alla nobiltà è la storia “trasportata” tra i secoli anche attraverso le proprie dimore e quanto in esse contenuto. La nobiltà d’animo include la classe (non quella sociale) e le buone maniere, spesso proprie di quelle persone che non solo sorridono, ma lo fanno con naturalezza. Senza ostentare. Senza far pesare la storia, il casato, il titolo. Le buone maniere delle quali si circondano e a volte, non sempre, si trasmettono anche ai propri figli. Incontro Giangiacomo Spalletti Trivelli ed il figlio Andrea. Ci conosciamo per caso ad una degustazione. Di entrambi mi conquista il sorriso e la loro sfrenata passione per il vino. Giangiacomo ha un volto sorridente, non certo austero né tantomeno annoiato. Ha il sorriso e l’animo di un ragazzo che vede il suo futuro ancora da essere scritto e costruito. L’entusiasmo nel suo sguardo, nel tono di voce, nelle movenze, nei modi di fare. Solare lo definirei. Sarà che la sua azienda, la Pomario, non è solo il suo e della sua famiglia, angolo di mondo lontano dal mondo, ma rappresenta una creazione nata senza volerlo. Non solo da lui ma anche dalla moglie Susanna e dai figli Andrea e Raimonda. L’attività principale di Giangiacomo e della famiglia intera è sempre stata all’insegna della ospitalità esercitata anche attraverso Villa Spalletti Trivelli, un gioiello dei primi del novecento, a due passi dal Quirinale, oggi annoverata tra le Dimore Storiche Italiane: un boutique hotel, un angolo nascosto di Roma, che vale la pena di visitare. L’ospitalità si fa anche nei modi con cui ci si pone. Nell’atteggiamento. Nelle movenze. Come quelle di Giangiacomo ed Andrea: si capisce immediatamente l’inclinazione verso la sacralità dell’ospite. Comunque sia, la storia di Pomario, dunque della azienda vinicola, nasce per puro caso nel 2004. Vivere al centro di Roma può sembrare fantastico ma per certi versi devastante vista la caoticità che porta con sé. È per questo che Giangiacomo e sua moglie Susanna cercano uno sfogo in campagna ad una distanza da Roma accettabile: non più di un’ora e mezza. Cercano qualcosa che sia loro. Niente di preconfezionato. Hanno bisogno di una casa in campagna. Magari da rimettere a posto. Le agenzie immobiliari fanno varie proposte ma nessuna di queste soddisfa le loro esigenze. Bei posti ma tutte case restaurate non proprio con buon gusto. Da rimetterci mano insomma. Ma un bel rudere da rimettere a posto?” L’agenzia propone una cosa vicino a Monteleone di Orvieto. Ecco, prima di andare avanti vado direttamente alla fine ovvero ad un aneddoto che Giangiacomo, in chiusura della nostra chiaccherata ha ricordato. Parto dalla fine perché quell’aneddoto esprime esattamente tutta la storia di Pomario. Dell’amore e della passione di persone che, pur non avendo mai avuto a che fare con la campagna, dunque con la vite ed il vino, hanno profuso per oltre 17 anni. Senza la benché minima intenzione di smettere. Anzi. Susanna ed io siamo andati una domenica ospiti da un amico di vecchia data che aveva acquistato una proprietà vicino Todi. Abbiamo mangiato e poi ci ha fatto visitare la proprietà. Era così bella che con mia moglie ci siamo guardati e lei ha detto “se quel giorno Fabio (l’agente immobiliare), ci avesse fatto vedere questa cosa, Pomario non sarebbe nata. Eh già. Sarebbe stato difficile acquistare una proprietà come quella di Pomario che di bello, all’apparenza, non aveva nulla per un’altra pronta e vivibile. Quello che infatti trovano Giangiacomo e Susanna è il nulla. Già, il nulla. Abbandonato da tempo. Lasciato alla mercè del tempo Siamo arrivati qui in una giornata orrenda. Nebbia spaventosa. Non si vedeva nulla. Siamo entrati in un bosco avvolto nel surreale silenzio. Si vedeva solo una vigna e degli olivi fino a quando è emersa la casa che sembrava un po’ la casa che si disegna da bambini. Insomma, non una bella impressione. Come la racconta, sembra una scena di un film horror. Fabio, l’agente immobiliare non sembrava avesse avuto una buona idea a portarli lì, in quel giorno. O forse no. Perché Giangiacomo e Susanna decidono di tornarci. Con il sole. Chissà, forse una scintilla era già scoccata senza saperlo. Vai a capire se il cuore riesce a vedere più degli occhi e oltre la nebbia. Fatto sta che il compromesso viene firmato subito dopo essere ritornati. Con il sole. Al cuor non si comanda. Anche se poi si arriva a comprendere come i lavori necessari per rendere abitabile una casa, senza neanche acqua e luce, con tutto da rifare, con le terre incolte, non siano proprio banali. Ma al cuor non si comanda. Punto. Abbiamo anche conosciuto una persona che ha vissuto qui per pochi anni e fino agli anni 50. Dopo di che c’è stato l’abbandono. Il proprietario non curava né gli olivi né la vigna. Quando la abbiamo acquistata era in vendita da alcuni anni. Aveva anche il problema di far rivivere il posto poiché mancava l’acqua, la luce. Casa a parte, che a chiunque darebbe dei grattacapi non dà sottovalutare, occorreva anche dar conto di una bella pertinenza di 50 ettari: quaranta di bosco (quello fitto dal quale emerse la casa disegnata) e il resto diviso tra ulivi, terreno seminativo e un misero ettaro di vigna vecchia. Trebbiano, Sangiovese, l’uva era tutta mischiata come erano quelle dei contadini di un tempo. Insomma, qui non può non intervenire il Marchese Onofrio del Grillo quando porta il francese Blanchard nella sua tenuta e questo gli chiede “Sono tue queste terre?”. “E qui è tutto mio” fa il Marchese. “Fino a dove?” rincalza Branchard. “Ma non lo so. Fino al mare”. 50 ettari sono tanti. Specialmente se non hai in mente nessuna intenzione di fare qualcosa di agricolo e l’idea di metter su una azienda. Il rischio è lasciarli incolti. La terra c’era. Era bella così. Già ristrutturare la casa era cosa difficile. Così che l’uva raccolta si conferiva alla cantina sociale. Giangiacomo non è uno che se ne sta con le mani in mano. Sogna. Perché il suo animo lo porta a questo. Immaginare il futuro come gli piacerebbe che fosse. Un giorno dissi all’agronoma Federica De Santis “Ma se provassimo a fare una vinificazione qui con la vecchia vigna”? DCIM101MEDIADJI_0143.JPG È qui che si apre l’atto enoico (non eroico!) di Pomario con attori che entrano in scena a costituire, da qui in poi, una parte fondamentale della storia. Una qualunque struttura, grande o piccola che sia, si basa sulle persone. Persone che, certo, lavorano e devono percepire il loro stipendio. Ma che quando riescono a costituire l’anima dell’azienda, diventano di questa parte integrante. Federica non può che rivolgersi alla sua amica enologa Mery Ferrara, la quale coglie immediatamente le potenzialità del terreno, dell’esposizione, dell’influenza del bosco. Un unicum al quale non può non dedicare la sua attenzione. Compriamo una pigiaderaspatrice usata, una pompa (entrambe stanno ancora lavorando), una barrique, un tonneau e partiamo. Siamo nel 2009 e l’unica vigna è quella trovata e rimessa a posto col poco tempo a disposizione. Si ricava a malapena il quantitativo di uva atta a riempire un tonneau di rosso e una barrique di bianco. È venuto un vino che ha risentito del tonneau e della barrique nuova. Già l’anno dopo era meglio. Ogni tanto apriamo una bottiglia ed ancora strepitoso. È buona norma offrire del vino ai propri ospiti. Anche perché se lo produci a qualcuno lo devi pur far bere. Fatto sta che qualche ospite suggerisce a Giangiacomo di mandare alla rivista Decanter a Londra una bottiglia di Satriano, il rosso da Sangiovese in purezza. Abbiamo vinto la medaglia d’argento! Così che abbiamo subito clonato le vecchie varietà di Sangiovese, Trebbiano e Malvasia coprendo le fallanze della vecchia vigna. Fortuna del principiante? Ottime vigne? Brave enologa e agronoma? Sarà un mix magari, ma a fronte del risultato non si può non impiantare le nuove vigne. Il progetto del vino è ufficialmente avviato. Eh già direte voi. Facile partire con un progetto del vino quando sei nobile e disponi di finanze necessarie all’opera. Calcoli e business plan, non sono stati fatti all’inizio. Era solo passione e cuore. I calcoli cominciamo a farli adesso perché siamo alla conclusione del progetto. Ci stiamo arrivando. Tutto è stato fatto senza calcoli e con i mezzi per poterli fare. Un consulente ci ha fatto avere i fondi europei per fare le cose al meglio. Il 40% a fondo perduto ha aiutato. Giangiacomo non si nasconde perché non ne ha bisogno. Ciò che traspare è il vero amore per questa avventura. Amore e passione che vanno aldilà dell’aspetto economico. In fondo, l’avventura, senza l’anima, il sorriso e l’amore per queste terre, avrebbe portato solo alla rovina. O neanche sarebbe iniziata. E poi abbiamo, per colpa o per fortuna, mia moglie chiese a Mery: “ma un vino come il Calcaia, potremmo farlo qui”? Sarà una coincidenza ma la cantina Barberani che produce il Calcaia, vino muffato da Grechetto e Trebbiano toscano, era (ed è) seguita da Maurizio Castelli con il quale Mery collaborava. Si individua subito un terrazzamento che degradava verso il bosco, lì dove le nebbioline possono consentire all’uva di vivere in simbiosi con i ceppi di Botrytis Cinerea. Solo 8000 mq sui quali vengono impiantati Sauvignon Blanc e Riesling. Et voilà il “Muffato delle streghe” è servito. È un nome che ho voluto dare perché derivato dalle donne di Pomario. Lo ha voluto mia moglie, con una enologa, una agronoma, una cantiniera. E dire che mia moglie disse a Maurizio “Io non bevo vino perché sono astemia”. Maurizio le rispose “Signora lei è una potenziale alcolista”! Sicuramente una scommessa vinta per un vino che ha dato grandi soddisfazioni all’azienda e che la connota in maniera identitaria nel panorama vinicolo. Ho avuto modo di assaggiarlo e non posso che dirne bene. Completate e rimesse a posto le vigne con 4 ettari in totale, nel 2015 viene inaugurata la cantina per le degustazioni e l’enoturismo. Attività cardine per la famiglia vista la sua vocazione alla ospitalità. In zona l’enoturismo sta crescendo molto e cantine come la nostra non ce ne sono. Nel 2016 si coglie l’opportunità di rilevare dalle banche l’azienda vicina dell’allora Presidente della AS Roma Sensi. 170 ettari di cui 25 coltivabili. Lì abbiamo piantato 5 ettari di vigna ed oliveto. Ma a quel punto la cantina non bastava più e di nuovo giù a lavorare per l’ampliamento aggiungendo anche barricaia e bottaia. Pensare a come sia nato tutto questo riporta Giangiacomo al passato. La filosofia che guida i vini, il perché siano nati in un certo modo. Cosa ha contraddistinto i prodotti di Pomario. L’input credo di averlo dato io perché quando nemmeno si pensava che questa attività commerciale potesse diventare di un certo rilievo dissi a Mery Ferrara durante il primo incontro “a me interessa fare un vino di questo posto non qualcosa è più facile da vendere”. Il legame con questo posto è viscerale ed è tangibile parlando con Giangiacomo ed Andrea. Sembra strano quando qualcosa la si acquista. Le impressioni che mi hanno trasmesso parlano invece di un luogo ricostruito mantenendone l’atmosfera primordiale. Come quando si lucida l’argenteria ormai ossidata. Oggi è quasi difficile trovare un vino cattivo però si somigliano quasi tutti senza avere una identità precisa. L’identità invece rende un vino speciale. I nostri hanno una personalità che può piacere o meno ma ce l’hanno. Mery Ferrara ha sicuramente dato gli indirizzi enologici ma poi solo il tempo e la sperimentazione hanno dato il corso giusto ai vini. Sperimentando si è capito ad esempio sul Sariano quale potesse essere la botte migliore così che oggi ce le facciamo fare in Francia. Per l’Arale prima si faceva la fermentazione in acciaio, ora in barrique con le macerazioni in funzione dell’annata. Da un punto di vista di gamma delle etichette? Una lo abbiamo aggiunta da poco: il Ciliegiolo. Piccola produzione sperimentale. Ma penso che possa essere un buon prodotto perché proprio del territorio. Proviene da un nuovo vigneto. 900 bottiglie. Nel 2022 saranno 1500. Poi c’è un cru che vorremmo fare da una nuova vigna di due ettari e mezzo da un clone di Sangiovese, poi la Malvasia Nera, la Fogliatonda, l’Aleatico (Gamay). L’enologa ha decretato che è un vino da ceramica e abbiamo comprato un’anfora da dieci ettolitri. Il prossimo anno imbottiglieremo la prima annata. Da vendere prevalentemente in cantina. Probabilmente ad un prezzo più elevato. Gli altri vini sono abbastanza collaudati. Batticoda che è il bianco di ingresso da uve Grechetto. Sta avendo tanto successo e migliora di anno in anno Rubicola, un rosso che non fa legno realizzato con 70% Sangiovese e 30% Merlot. L’annata 2021 ha fatto un altro bel salto di qualità Rondirose, Sangiovese, Ciliegiolo e Merlot Il rosé piace e ha un suo spazio Arale, blend di Trebbiano e Malvasia in macerazione e affinamento in barrique. Sariano, il meraviglioso Sangiovese in purezza realizzato con lieviti autoctoni ed affinamento in botte. Sariano e Arale hanno il loro pubblico che si divide come accade tra tifosi. Chi ama Arale non ama Sariano e viceversa Infine il Muffato delle Streghe da Riesliing e Sauvignon Blanc. Non siamo partiti dall’idea che i nostri vini fossero i migliori al mondo e potevano dunque essere venduti ad un prezzo più alto. Abbiamo sempre cercato di essere onesti. La differenza di prezzo del muffato è dovuta alla lavorazione in biologico veramente difficile. Vendevamo una bottiglia di muffato ogni sei di Sariano. Ne avevamo davvero poche. Adesso abbiamo liberalizzato la vendita E una Bollicina? Il dibattito c’è. Le bollicine è bene farle nei posti più vocati anche se potremmo fare bollicine buonissime. Ma non credo ne valga la pena Andrea sembra avere idee diverse. Almeno riguardo la bollicina. Sa però riconoscere i meriti. Del papà. Dal punto di vista tecnico non mi posso ancora lanciare più di tanto perché il limite di gestire Villa Spalletti a Roma è non poter gestire la quotidianità della cantina. Magari con il tempo potrò presenziare quantomeno alle fasi più importanti della cantina. Creare una azienda come Pomario dove il vino non si era mai fatto, in una regione dove il vino si fa ma non ad altissimi livelli, e vedere i risultati raggiunti in 17 anni che per il vino sono niente, è fantastico. Pomario ha certamente qualcosa su cui si può lavorare. Come le etichette che mi piacciono da morire ma andrebbero aggiornate. La bollicina è uno degli argomenti dibattuti. Sono un appassionato di bollicine e come mamma per il muffato mi piacerebbe avere la nostra. Rischierei l’alcolismo con la bollicina a casa perché sarebbe difficile non berla. A livello commerciale avrebbe una cassa di risonanza e visibilità alla cantina. È comunque una moda che non passerà, dunque abbiamo il tempo di realizzarla. Insomma, onore al merito da parte di Andrea. Grande passione per il vino ma poco tempo per fare il vignaiolo. Per il momento! Mi è molto piaciuta l’idea della riserva/cru che servirà a far conoscere la cantina che oggi piace per il numero limitato di bottiglia e una famiglia che ci lavora. Si vede che non siamo vignaioli di tradizione ma una famiglia vocata all’ospitalità alla quale piace far sentire chi viene a visitare Pomario come parte di Pomario. Su questo credo di aver dato un mio minimo contributo e su questa linea vorrei continuare. Insomma, che dire, purtroppo so stati bravi! Ecco che mi torna alla mente ancora li marchese Onofrio Del Grillo dinanzi al quale si presenta Aronne Piperno per essere pagato. “Aronne, tu lavori bene, bello l’armadio, bella ‘a cassapanca, bello tutto, bravo! grazie, adesso te ne poi annà!”. Non è questo il caso di Andrea. Sa riconoscere il merito e non saprebbe nemmeno cosa cambiare. Onestamente non saprei cosa cambiare. Per la conoscenza che ho di questo mondo, si sono mossi bene. Abbiamo un team veramente speciale. Ad esempio, Stefania che nulla aveva a che fare con il vino, a sentirla parlare oggi sembra sia nata in mezzo alle vigne. È impressionante in un mondo dove “l’attaccamento alla maglia” sta sparendo, il senso di appartenenza del team. A Pomario, dall’ultimo arrivato a chi ci sta dal 2006, c’è un grande attaccamento. La settimana scorsa ho portato quattro albergatori per vedere il posto. È bastata una mezzora di Stefania per fargli acquistare 14 cartoni di vino. La squadra è fantastica. Unica. Da tutte le parti del mondo mi dicono che abbiamo delle persone incredibili che lavorano per voi. È proprio vero che sono le persone a fare la differenza. Senza il tocco umano, possono essere posti bellissimi ma rimangono cose. Scatole vuote. .Ho vissuto la storia di Pomario da ragazzino prima e vedendola a distanza, perché vivevo a Singapore, poi. Solo la passione può portare a creare una cosa così dal nulla nonostante non si avesse esperienza. Ricordo la preoccupazione di mia sorella per le finanze familiari. Andrea sembra avere tutta la voglia di essere parte dell’evoluzione di Pomario. Quasi come se volesse essere li invece che a Roma. Non lo nasconde poi nemmeno più di tanto. (Andrea) La mamma ha preteso per fortuna il muffato.. (Giangiacomo) Se fosse stato per me il muffato non ci sarebbe stato. Magari ci sarà la firma di Andrea sulle bollicine (Andrea) 100 mesi sui lieviti perché o si fa bene o non si fa Manca all’appello Raimonda in tutta questa storia. Mia figlia ha un marito che ha un naso e un palato notevole. Assaggiare i vini con il marito è una esperienza notevole (Andrea) Faceva i complimenti anche quando erano imbevibili. Ma lo faceva bene. Raimonda ha meno passione di Andrea per il vino per quanto la diverta e le piaccia venire a Pomario. A modo suo con amici, conoscenti, ecc, qualche mano nelle vendite ce l’ha data. Avendo avuto tre figli in tre anni e dovendosi occupare anche della Villa ha meno possibilità di incidere. Magari in futuro troverà un ruolo in Pomario. Cosa contraddistingue la Pomario? Andrea risponde di impulso “la genuinità”. In un mondo dove la qualità sta scomparendo Giangiacomo gli fa eco con la naturalità dei prodotti. Utilizzando anche un termine del quale non se ne può più, sostenibilità. Siamo partiti con l’idea che questo vino ce lo saremmo bevuti solo noi. L’idea della certificazione biologica è venuta dopo. Dovevamo fare il vino senza usare niente che potesse farci male. È stata molto importante la presenza di Federica, agronoma molto brava e incline. Pomario non poteva non trasformarsi per Giangiacomo e Susanna, da residenza di campagna a casa. Lasciate le redini di Villa Spalletti Trivelli ad Andrea e Raimonda (mi sa che non vedevano l’ora di lasciale…), che fai, ti fai scappare l’opportunità di vivere lontano da Roma, in campagna, in una stupenda tenuta come quella di Pomario? Mia moglie ed io siamo più a Pomario che a Roma perché Andrea e Raimonda hanno preso le redini della villa. Federica De Santis dirige le attività della terra e della cantina interfacciandosi con Mery. Abbiamo poi un gruppo di ragazzi fantastici. I ragazzi hanno sposato la filosofia di Pomario e il nostro amore per questo posto. Ciò che apprezzo di più è la loro versatilità. Chi preferirebbe stare al posto dell’altro? Io sto bene dove sto (Giangiacomo) (Andrea) Io ho un piede e mezzo a Villa Spalletti e mezzo a Pomario. Non mi dispiacerebbe stare più là. L’idea di starmene in campagna non mi dispiace anche se per adesso sono felice di promuovere e far crescere Villa Spalletti. Il mondo del vino sta passando da passione sfrenata a lavoro. Già la passione. Come si fa a non vedere la passione che, nobiltà e disponibilità economiche a parte, c’è in Giangiacomo ed Andrea. Non so francamente quanti anni abbia Giangiacomo. L’età non conta e, chiederla, mi sembra sempre scortese. Mi affascina però il suo animo che è proprio di chi guarda sempre al futuro in maniera positiva e costruttiva. Poi, di un tratto, dice una cosa, che spiega tutto. Questo lavoro nasce da una passione. Che mi piace fare anche vista l’età raggiunta. Mi piace pensare che i prossimi anni potrò dedicarli al vino. Più si va avanti con l’età e più il tempo passa velocemente. Pensiamo sempre più al passato più che al futuro che ci sembra corto. Viviamo di ricordi. Questo però aumenta la velocità del tempo che passa. Un’attività come questa comporta che stai sempre ad aspettare qualcosa: il nuovo vino da mettere in bottiglia, la nuova vigna che finalmente produrrà, cosa ci riserverà la nuova annata. È un modo per essere, a qualsiasi età, proiettati verso il futuro. Come fai a non essere d’accordo? Chiudo citando ancora il Marchese Del Grillo quando, sempre parlando con Banchard, parla dell’essere nobile. “Blanchard te credi che è facile nascere da ‘na famiglia come la mia, aho a Roma, col Papa i Cardinali. Da bambino sognavo de fa lo scienziato, l’esploratore, ma a chi le dicevo ‘ste cose? mi padre era un omo zitto, non me diceva mai gnente, studia e prega, mi madre me diceva: prega! così quanno è morto mi padre, mamma m’ha messo un precettore che m’ensegnava il catechismo, me dava certe bacchettate sul culo c’avevo due chiappe rosse come ‘n cocomero. Adesso faccio solo scherzi!…..perchè…. a Roma che voi fa? Che c’è? Chiese, Cupole, tetti, gatti mendicanti e…streghe…..” Ecco, Giangiacomo è riuscito a dare sfogo alla sua passione. Trovando finanche le streghe. Con il Muffato.   Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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16 Giugno, 2023

Cesidio Di Ciacca, uno scozzese in Ciociaria

Cesidio Di Ciacca, uno scozzese in Ciociaria La vita è fatta di speranza e sofferenza. Di gioie, di dolori. Di lavoro, di fatica. Di litigi e riappacificazioni. DI viaggi, di scoperte. Di luoghi. Di ambizioni e sperimentazioni. Di figli, nipoti. Di nonni e genitori. Di famiglia. Di ricordi. Ogni pezzo della nostra vita produce ricordi. Che poi, prima o poi, riaffiorano. Possono esserci ricordi di vita vissuta o di narrazioni. Se così e se la curiosità è in noi, se c’è la voglia di capire le proprie origini, allora, si scava. Non solo dentro la propria memoria per trovare agganci, ma nelle carte, nei documenti, nelle foto. Perché? Perché le proprie origini sono le fondamenta della propria vita. Si può fuggire a tutto ma non alle origini. Da dove nasce tutto e dove tutto ha una spiegazione. Picinisco e Cockenzie. Picinisco è un piccolo paese in provincia di Frosinone: una terra di mezzo tra Lazio, Abruzzo e Molise. Immerso nel verde del Parco Nazionale d’Abruzzo. Oggi conta circa 1200 abitanti che erano tre volte tanto nel 1921. Fermiamoci ora proprio qui e cerchiamo di ritornare a quei tempi. Siamo alla fine della Grande Guerra. L’Italia ne usciva devastata e la povertà imperversava ovunque. Figuriamoci in un piccolo paesino del frusinate dove l’unica fonte di reddito poteva essere l’agricoltura e la pastorizia. Di uomini ne erano rimasti pochi. Decimati dalla Grande Guerra prima, dalla Spagnola poi. A Picinisco così come nei paesi limitrofi. Unico possibile modo di sopravvivere era andare via, emigrare verso lidi migliori. Verso luoghi mai sentiti ma che potevano offrire speranza. Fu così qualcuno prese l’iniziativa andando in luoghi più o meno lontani e, si sa come è nel paese, parte uno, poi parte la famiglia, poi qualche parente si accoda, poi qualche amico. Si creano le cordate di persone che da quel paese vanno nello stesso stato, paesino lontano di chi ha avuto il coraggio di partire per prima. Alle volte si perde anche la cognizione di chi sia stato il primo. Da Atina partirono alla volta della Francia; da Casalvieri per l’Irlanda; da Alvito e San Donato per l’America; da Settefrati per il Canada; da San Biagio per la Svezia. Da Picinisco partirono invece per la Scozia. Ecco, così iniziano i ricordi di Cesidio Di Ciacca. Un omone che è tanto alto quanto tenero (ed è molto alto Cesidio!) che ti conquista con quel suo accento misto tra britannico e italiano. Cesidio non è nato in Italia ma a Cokenzie, in Scozia. Nella vita è stato un importante avvocato, consulente e consigliere per varie società private impegnate in ambito alberghiero, finanziario, commerciale. Un personaggio che sembrerebbe lontano anni luce dal mondo del vino. Ma non dalle sue origini. Siamo tornati a Picisnisco per le vacanze ogni anno. I miei genitori dopo il matrimonio non sono tornati spesso perché avevano 8 figli e una gelateria. In Italia non c’era nessuno. I nonni materni nati a Picinisco, il nonno paterno in un paesino vicino, la nonna paterna nata a Londra e poi riportata a Picinisco a 6 anni. Dopo sposati, entrambe le famiglie seguirono la cordata di Picinisco verso la Scozia. Tante delle famiglie di Picinisco sono andate in Scozia. Quasi tutti i paesi della valle sono emigrati. La catena è iniziata con qualche persona. I ricordi di Cesidio sono come un fiume in piena. Ricordi frutto della memoria certo ma anche dell’attento studio della propria storia tramite l’analisi delle carte, delle foto, dei documenti. Così come della narrazione dei parenti. Quando ne parla c’è un misto tra orgoglio e tristezza: i fatti possono essere tragici ma rappresentano comunque il passato. Che non si può cambiare. All’inizio della seconda guerra mondiale, il 10 giugno 1940 l’Italia entra in guerra. Lo stesso giorno ogni maschio civile italiano presente sul territorio della Gran Bretagna viene arrestato. Nonno Cesidio è tra questi. Arrestato e deportato tramite una nave, l’Arandora Star, verso il Canada. È il primo luglio 1940. Il due luglio, dopo un solo giorno di navigazione, la nave affonda. Muoiono 800 persone, 446 dei quali, italiani. Circa 100 provenivano dalle valli del frusinate. 23 da Picinisco. Una tragedia come questa, per quanto grave, potrebbe non avere influenze sui flussi della storia. Li ha su un paesino piccolo come Picinisco. Decimato dalle guerre e dai flussi migratori, 23 persone, con tutti i parenti che si sono portati dietro, fanno un discreto numero. Un numero tale da comportare il mancato ritorno di tutti a Picinisco. Anche perché la guerra qui fu veramente dura. La linea Gustav a difesa di Cassino passava proprio per queste parti così che i bombardamenti non fecero altro che alimentare la fuga di chi poteva. Eppure, prima delle tragedie, qui si tornava ogni tanto. Alle origini si torna sempre. Dalle foto che ho trovato, quasi ogni anno, i miei nonni Di Ciacca tornavano per la vendemmia. Non venivano tutti ma a turno. I Di Ciacca abitavano a Picinisco, in un piccolo borgo chiamato proprio “I Ciacca”. Li c’era la casa di famiglia dove la nonna di Cesidio, continuava a venire ogni tanto con qualche nipote. Prima che il borgo si svuotasse. Era il 1969 quando l’ultima abitante del borgo, una prozia di Cesidio, morì. Anche gli ultimi cugini di Picinisco da lì a pochi anni morirono portando così il borgo alla desolazione. Un borgo lasciato all’abbandono, disabitato e senza nessuno che se ne prendesse cura. Così stupisce che il comune di Picinisco, a seguito del terremoto del 1984, ricostruì parte del borgo in cemento. Il comune rifece i tetti in cemento rovinando tutto. Le case del borgo non erano danneggiate perché costruite sulla roccia che a sua volta poggiava su terreno argilloso. Le radici di Cesidio sembrano cancellarsi da una vita che scorre in direzioni diverse. Proprio quella apparente cancellazione indica a Cesidio la necessità di ritrovarle. Ritornando lì dove tutto era iniziato. Dove lui andava l’estate con la nonna. Dove i Di Ciacca avevano il proprio borgo oramai devastato. Disabitato. Inesistente. Ogni anno tornavamo in Italia per le vacanze. Quando la casa di nonna era in vendita, verso il 2000, decisi di non acquistarla per via di litigi in famiglia. Comprammo invece casa ad Ischia per dimostrare che non avevamo interessi a Picinisco. Tornammo a Picinisco in occasione di un matrimonio e chiesi a mia moglie di poter comprare una casa al borgo. Volevo fare un bed and breakfast di livello. Non solo per noi ma anche per permettere alla famiglia di utilizzarlo. Nessuno vuole andare in vacanza per stare peggio. Abbiamo così creato piccoli appartamenti per noi e per affittarli. Da lì l’idea di recuperare il borgo con l’albergo che sarebbe servito per accogliere e dimostrare al territorio che siamo una famiglia seria con l’interesse del paese. Nelle parole di Cesidio c’è tanto rispetto per la sua terra. Per Picinisco, per la Ciociaria, per il borgo dove i suoi nonni nacquero. Rispetto ma anche sensibilità per non essere visto come colui che arriva dalla Scozia per comprarsi tutto. Lo fa in punta di piedi, quasi sussurrando. Perché le persone in queste zone ci sono rimaste invece di partire. Qui hanno trascorso la loro esistenza e vedere qualcuno che arriva da lontano per comprare credendo di poter risollevare le sorti del paese, di rimettere tutto a posto in poco tempo e solo grazie ai soldi, non può che generare critiche. Quello che Cesidio non vuole. Per rispetto. Quando ho venduto le quote delle società con le quali ho lavorato, decisi di dividere gli investimenti in Gran Bretagna e in Italia. Ho lavorato con le borse e con il found management e capii che sarebbe stato meglio gestire i nostri fondi direttamente trovando qualcosa in Italia economicamente sostenibile. Fare il vino sembrava una buona opportunità. Anche se trovare il mercato si è rivelato più difficile di quanto mi aspettassi. Cesidio che porta il nome del nonno paterno. Di quel nonno mai conosciuto e tragicamente morto per colpe che non aveva. Cesidio che decider di trascorrere qui i suoi giorni dopo aver lavorato tanto tempo in Scozia. Cesidio che torna alle origini. Cesidio che vuole qualcosa da lasciare ai suoi figli. Come il vino che rappresenta le radici di questa terra. Ho bevuto vino. Ho sempre bevuto vino. Forse per conoscere mio nonno e la sua vita. Non sono riuscito a conoscerlo perché morto 15 anni prima della mia nascita. Mamma decise di battezzarmi con il nome di nonno. In Gran Bretagna gli italiani erano battezzati con i nomi inglesi. Per integrarsi o forse per confondersi. Infatti il mio secondo nome è Martin. Mamma però, all’ultimo momento e per rispetto del padre mi battezzò con il nome di Cesidio. Insolito per la Gran Bretagna (anche per l’Italia). Sono andato a scuola negli anni 60 e c’era risentimento verso gli italiani ma ero alto e abbastanza grande così da difendermi. Posso però dire che il nome ha avuto un impatto nella decisione di fare vino. Finito il bed and breakfast generando un vero albero diffuso, Cesidio inizia a comprare i terreni attorno al borgo ormai parcellizzati dalle eredità, diffusi tra parenti litigiosi. Tutti intorno al borgo Di Ciacca, dove la sua famiglia ha avuto origine. In punta di piedi e senza voler arrecare danno alla comunità. Anzi dimostrando che l’albergo diffuso potesse essere di aiuto all’economia locale e che le terre potevano dare qualcosa utile a valorizzare il territorio. C’erano 140 persone che avevano le loro particelle. Pezzi di terra abbandonati da persone emigrate. Una casa, un pezzo di pascolo, un pezzo di bosco, divisi per dividere l’eredità della famiglia. Un puzzle di proprietà e tanti litigi. Era tutto abbandonato. Un deserto. Cosa impiantare? Vitigni internazionali come fanno in molti da queste parti? Perché no? Buona resa, guadagno meno complicato. Già. Ma non identitario. Cesidio studia e dallo studio apprende come in queste zone si sia celebrato dall’antichità il vitigno Maturano. Un vitigno della collettività. Non c’era nulla. Il borgo non c’era. Le vigne non c’erano. Ho preso tralci dai contadini a un km da qui. La scelta del vitigno Maturano fu semplice perché volevo riprodurre ciò che c’era prima. Se le cose stanno bene prima deve esserci un motivo per cambiarle. Volevo fare Cabernet o Sangiovese come tutti gli altri. Il Sangiovese mi piace perché il Chianti Rufina era l’unico vino che si poteva comprare in Scozia. Mio cognato che aveva un negozio di vino, mi disse che era meglio qualcosa di autoctono. Il Maturano era un vitigno celebrato in paese come vino di una certa importanza con un legame forte con il territorio. C’erano in giro piccoli vigneti con filari di Maturano e ho fatto una ricerca per identificarli. C’erano in ogni parte del paese mentre fuori c’erano produttori ad Alvito, Pescosolido, Arce. I Presi i tralci dai vicini per evitare chiacchere e chiesi al vivaio del paese i consigli su come utilizzarli. “Il paese è piccolo e la gente mormora” diceva Giorgio Faletti a “Drive in”. Come dargli torto. Dover fare le cose, per il paese, ma senza attirarsi le di queste malelingue. Lo “straniero” che arriva chissà che vuole Acquistare i terreni può sembrare un’opera di speculazione. Ma qui, a Picinisco, le terre che acquista Cesidio, sono lembi di terra incolti da anni. Luoghi dove neanche un pascolo verrebbe bene. Eppure deve stare attento. Le acquista e le rimette a posto. Come si deve. Pezzo dopo pezzo. Centimetro dopo centimetro. Facendo i drenaggi. Estirpando l’erba che aveva ormai invaso tutto. Cesidio ha il sogno di impiantare le viti di Maturano, solo quelle. Perché quelle rappresentano il territorio. Solo quelle. Niente altro. Ma non ha esperienza per quanto sia uno che studia e si documenta. Allora non gli rimane altro da fare che rivolgersi ad un enologo. Ma viene dalla Scozia e non ha armi se non quelle date dalle sue capacità di documentarsi, chiedere. Lo scozzese cerca e trova Alberto Antonini. Uno di quelli che si è guadagnato la stima di grandi brand e che lavora con i più importanti produttori. Un personaggio celebrato. Ciò nonostante non sa nulla del Lazio. Figuriamoci del Maturana. Ha assaggiato il suolo e mi ha detto che era pulitissimo e riposato. Ci ha consigliato di non fare irrigazione. Bisognava sistemare tutte le fosse. Abbiamo impiantato tutto a mano perché le piccole radici con terra friabile potevano entrare bene e vivere di più nel tempo. Volevamo replicare i sistemi di una volta mettendo i pali di castagno invece che di cemento. Dopo anni di fatiche il 2016 sembra l’anno buono per far sì che il vigneto desse i primi frutti. Siamo nel bel mezzo di un parco e i cinghiali entrano rovinando tutto. Era necessaria una recinsione. Ho trovato un fornitore in Gran Bretagna che faceva recinsioni per gli zoo e l’ho chiamato per chiedere consiglio sull’altezza della recinsione ecc. Mi ha risposto “Cosa c’è in quella zona? Cinghiali, lupi, istrici, cervi, camosci, orsi. Orsi? Ma dove vivi in uno zoo? Messa la recinsione il 2017 è l’anno della prima vendemmia. Finalmente. L’anno comunque si è sfruttato per imparare dell’altro. Come sulla muffa nera presente in cantina. Si capisce che non è muffa ma i batteri amici, lieviti. Vivono sulla pietra. Quella pietra che è la montagna. Non certo sull’acciaio o sul legno. Magari sulla terracotta ma questa non è tradizione di questi luoghi. Il cemento allora sembra la soluzione ideale ma per fare ciò che ha in mente Cesidio serve qualcosa di particolare: delle vasche ovali. Anche qui ricerca e studio (ricordiamoci che Cesidio è sempre uno scozzese in Italia) per approdare alla Nico Velo di Padova specializzata nella produzione innovativa di tini. Abbiamo comprato varie tipologie di botti perché nessuno sapeva il protocollo per realizzare il Maturano. Dovevamo sperimentare. Il primo anno 2017 la cantina non era pronta. Abbiamo fatto la fermentazione nella cantina di un’altra persona nella valle. Metà solo pressatura, metà macerato per quattro giorni. La fermentazione si bloccò a dicembre per poi riprendere a marzo. Decidemmo di non aggiungere nulla per capire l’evoluzione. I due vini che preparammo non erano piacevole. Ma decidemmo di fare un blend nominato “Matrimonio” servito al matrimonio di mia figlia. Nessuno era molto convinto del vino durante il matrimonio dove c’erano anche produttori di vino. L’anno scorso tutti cambiarono idea perché il vino si è arrotondato e ammorbidito. Evoluzione. Questa è la parola chiave. C’è l’evoluzione di una storia. Quella della vita. Quella di tante altre cose. Anche quella del vino, materia viva. Il Maturano è uno di quei vitigni che evolve, si trasforma, assume forme e significati diversi grazie al tempo e alla conservazione. Quando lo si mette nel calice si capisce il perché venisse celebrato almeno in queste zone (forse anche così custodito da non essere portato fuori): il colore è d’oro! Oggi Cesidio produce tre tipologie di vini (in realtà c’è anche un Cabernet di Atina, Riserva) oltre ad un passito. Sempre ed esclusivamente da Maturano. Ho trovato alcune ricette di nonna che usava l’uva passa e ho pensato che un passito ci stesse bene! Nostalgia, con macerazione dei grappoli interi per tre giorni. Poi, senza lieviti, fermentazione del mosto pressato a temperatura controllata (18°) per 20 giorni. Sulle fecce fini per 9 mesi in cemento e in bottiglia per 12. Matrimonio, due masse diverse unite poi in matrimonio. La prima pigiata sofficemente a bassa temperatura, la seconda diraspate e lasciate a macerare sulle bucce. Affinamento in cemento e infine in bottiglia per 24 mesi. Sotto le stelle, prima macerazione a grappoli interi a 3° per 3 giorni. Pressatura soffice con stabilizzazione per 3 giorni, fermentazione per 25 giorni senza lieviti aggiunti. 12 mesi sulle fecce e 36 mesi in bottiglia. Preparazioni complicate. Tanto per non farsi mancare nulla ma utili a raggiungere le 30.000 bottiglie. Qualche ragionamento per il futuro con il nuovo enologo Andrea Barbato che dovrà vedersela con Cesidio se vorrà innovare e utilizzare il legno. Non sono convinto porti il sapore giusto per ricordare il passato” Anche perché Cesidio sa che ora deve iniziare a vendere con continuità prodotti meravigliosi ma poco noti. Ora abbiamo la possibilità di distribuzione in Scozia, Canada, Cina, india. In Italia è più difficile perché dicono che il prezzo è troppo alto: non c’è l’esperienza di pagare per la qualità. Cesidio non è solo in questa avventura. A casa, la moglie Selina. Anche lei di origini italiane. Poi i due figli Giovanni e Sofia (per ora in Scozia con la sua famiglia, gestendo a distanza già molte cose, ma presto in Italia a supportare fattivamente Cesidio). Una famiglia, quella dei Di Ciacca, che grazie all’impegno di Cesidio ha trovato le proprie origini costruendo da queste una vera ripartenza. Cercata, voluta, agognata. Soprattutto realizzata con un progetto ampio e ben delineato che richiede ora lo slancio finale. C’è tutto per avere successo. Vai Cesidio! Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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9 Giugno, 2023

I Chicchi, dove l’amore c’è

  La Pontina, Strada Statale 148, collega Roma a Latina e prosegue poi per le località balneari di Sabaudia, San Felice Circeo, Terracina. Ogni mattina è percorsa dai pendolari che dalla pianura pontina vanno a Roma e dai romani che fanno il percorso contrario. L’avrò percorsa centinaia di volte in entrambe le direzioni, spesso, per evitare il tremendo traffico mattutino e del fine settimana, costretto ad uscire in quel di Ardea, piccolo paesino a pochi km da Roma. Questo per dire che non ho mai nutrito una grande stima per Ardea. Almeno fino a quando il caso non mi ha portato ad incontrare Enrico e Federica dell’azienda I Chicchi. Di Ardea appunto. È proprio vero che “l’essenziale è invisibile agli occhi”. Pur percorrendo quella strada così tante volte non mi sono mai spinto un pelo più in là, quel tanto che sarebbe bastato per incontrare non solo due splendide persone ma anche per comprendere come qualcosa di buono, di tremendamente buono si possa fare anche in un luogo inaspettato. Ardea dunque. La leggenda dice che venne fondata da Ardeas, figlio di Odisseo e Circe. La certezza invece è che da essa prese il nome la mitica vettura Lancia. Va beh sto divagando. Qui il suolo è un incontro di argille marine e materiali eruttivi: siamo proprio a metà strada dal mare e dai vulcani spenti dei colli albani oggi laghi (Albano e Nemi). Colline non troppo impervie ed esposizioni giuste. Ecco, allora c’è da chiedersi: cosa c’è di meglio per produrre vino? Enrico e Federica sono una di quelle coppie che quando le vedi capisci subito la sintonia che c’è tra loro. Sono due persone miti, di animo meraviglioso che quando li incontro la sensazione immediata è quella di conoscerli da sempre. Ci sono anche due cani che sembrano usciti da un cartone animato della Warner Bros chiamato “Pappy’s Puppy” dove Ettore, cane mastodontico, riceve dalla cicogna un piccolino che non fa altro che gironzolargli intorno. Qui tutto è semplice e all’insegna della semplicità e della schiettezza. Ogni cosa è realizzata senza fronzoli, con la essenzialità di chi non ama sovrastrutture e artificiosità. Guardi Federica, guardi Enrico e capisci che hanno tutto ciò che serve. Amore incluso. La loro è una storia non semplice. Enrico è nato qui vicino. Con i nonni che e la passione per la terra come per il vino. Nonno Umberto aveva una sensibilità particolare per la terra e le piante. Possedeva un pescheto e coltivava la terra per vendere i suoi prodotti. Principalmente frutta. Ricordo che quando ero piccolo aveva la vigna rossa ma lasciò solo un filaro di Malvasia e Cacchione per fasse il vino per casa. Nonno Fausto aveva pure una bella cantina ma gli mancava la sensibilità di Umberto. Stava sempre a smucinare il vino. Nonna gli diceva “che stai a fa co sto vino? Lo stai sempre a toccà. Così se snerva”. “Ma non me rompe li cojoni” rispondeva Fausto. Il vino comunque diventava imbevibile. Nonno Umberto invece, con la sensibilità che si ritrovava faceva poco più di 300 litri di vino. Ed erano buoni nonostante li tenesse nello scantinato in mezzo all’olio del trattore e alle cose che gli servivano per lavorare Veniva il vino perché lui era dolce. Come il suo vino. Federica invece viene da una famiglia del nord trasferitasi qui in zona negli anni 70. Il papà che lavorava nelle acciaierie financo in Germania dove lei ha imparato il tedesco. Persone semplici. Vere. Di quelle che sanno cosa voglia dire sacrificio e lavoro. La loro avventura enoica inizia nel 2011 quando comprano il terreno che impiantano nel 2013. Immediatamente biodinamico. Ecco, biodinamico. Chi pensa che quello del biodinamico sia un mondo di persone esaltate, sbaglia di grosso. Tantomeno chi dice che si diventa biodinamici per scelta commerciale. Quando conoscerete Enrico e Federica vi renderete conto che non è così. Si può essere biodinamici per il semplice pensare che la terra ci dà già tutto per produrre qualcosa di magico come il vino. Senza aggiungere null’altro. Così come non si ricercano certificazioni. Perché i timbri e la burocrazia servono per chi li vuole vendere non per chi ha la coscienza a posto. Enrico ha fatto la scuola agraria. Non con tanta convinzione. Al terzo e quarto mi hanno dato due materie. Forse perché quando si cominciava a parlare di concimi e veleni mi sono storto. In terzo iniziano le materie tecniche con i concimi, gli insetti e come ammazzarli. Mi sono disturbato e disamorato. Al quinto mi hanno dato sto 39, mi sono diplomato e poi mi sono laureato in scienze antropologiche. “Mettece ‘na pezza” come dicono a Roma. Enrico, pur da laureato, deve sbarcare il lunario. Lavora come giardiniere e anche così prova disturbo nel dare il veleno per le piante. Nel 2006 poi, l’illuminazione. Sulla rivista Porthos n.26 c’era una intervista a Carlo Noro e lì mi si è accesa la lampadina. L’articolo mi fece nascere l’idea che qualcosa mi avevano nascosto durante gli studi. Ciò che balena per la testa di Enrico è per lui dirompente. Come se nel corso degli studi gli avessero raccontato solo una parte della storia. Nel 2009/2010 segue i corsi di Carlo Noro e diventano amici. È l’inizio dell’avventura. Faccio biodinamico da 13 anni. Non certifico nulla perché mi sono rotto le scatole della burocrazia. Ispettori biologici e Demeter. Non c’è bisogno di certificare. Venite a fare le analisi al terreno e all’uva. Federica è sempre presente. Con il suo sorriso. La sua semplicità. Supporta Enrico in tutto. Si vede che non è solo una spalla. Gli sguardi sono quelli di due persone che sono una cosa sola. Mandano avanti loro l’azienda anche se Federica ha un lavoro. Perché le spese sono tante e non riescono altrimenti. Si percepisce un’aria meravigliosa come se ci fosse in giro tanto amore. Amici e parenti che li supportano nella vendemmia come se fosse una grande famiglia. In cantina poi li supporta Michele Lorenzetti della scuola di Carlo. Assaggiamo i vini. Siamo noi tre e i due cani. Il più piccolo mi salta continuamente sulla gamba. Vuole giocare e giocare ancora. È tutto così meraviglioso. Partiamo da Dimà, un bianco da Malvasia di Candia per un 95% e Trebbiano Toscano. Serviva una etichetta di uve bianche per generare un po’ di cash. Ma qui le uve devono essere quelle giuste e di giusta provenienza. Enrico ci tiene ed è inflessibile in questa. 23 giorni di fermentazione in cemento con le bucce più il 15% di grappoli interi. Torchiato e messo in vasca per tre/quattro travasi. Imbottigliato a metà giugno. I sentori sono davvero interessanti tanto che appena si scalda un po’ il vino nel bicchiere, virano sul miele. Un vino tranquillo e semplice con fiori e frutta e sentori iodati che si beve bene anche senza aspettare che si raffreddi bene in frigo (anche perché tenderebbe ad appiattirsi). Secco, fresco, pulito. Con una bella pulizia di bocca e un finale lievemente ammandorlato. Da aperitivo con i suoi 11.5 gradi ma anche da “carbonara”: si sposa benissimo. Proviamo Maros un rosato di Grenache che fa solo acciaio così da mantenere inalterati i sentori delle fragoline croccanti e delle ciliegie. C’è la rosa e la mineralità del suolo ma anche dell’influenza marina. Il sorso non può che rappresentare a pieno i sentori: c’è la freschezza, c’è la sapidità. È secco e caldo quanto basta ma soprattutto è avvolgente e pieno. Mi piace e già lo vedo per un aperitivo o per accompagnare un piatto di crostacei. Enrico e Federica amano i rossi. Quando ne parlano gli occhi sono ancora più brillanti del solito. Due etichette con lo stesso uvaggio: Cabernet Franc e Sauvignon. Come in Borgogna. Anche per le rese visto che qui al massimo si arriva a 60 quintali per ettaro. Quando va bene. Altrimenti si è intorno ai 40! Il primo dei due è l’Incastro 2021. Fermentazione in cemento con il 20% di grappoli interi: con il raspo insomma. Non ricorda la Borgona? Un vino giovane già dal colore e dai semplici e croccanti sentori vinosi così da essere piacevole anche in estate. Non è impegnativo neanche alla beva ancorché da abbinare per la presenza di tannini maturi ma decisi. Secco, caldo, sapido e dalla persistenza non elevatissima. Enrico e Federica producono anche l’olio. Biodinamico ovviamente. Con delle bruschette i vini si accompagnano meglio. I vini cambiano con l’annata. Ogni anno è diverso dall’altro e non sai come debba essere interpretata. Il bagaglio ci serve per interpretare le annate. Piano piano riusciremo ad andare da soli. Con questa premessa non possiamo non assaggiare due annate del gioiello di casa: il Torrebruna. Quando hai a che fare con una viticultura biodinamica che non ti permette alcun “aggiustamento”, le annate sono quelle che sono. La meraviglia è proprio questa: il vino rispecchia la natura e le caratteristiche che il tempo (meteorologico) dona. Le uniche licenze che ci si può permettere sono delle macerazioni più o meno lunghe o l’utilizzo di raspi. Poco altro. Nel 2018 la fermentazione in cemento è durata 17/18 giorni con bucce e raspi. Poi dopo essere stato torchiato e ripulito è stato rimesso in cemento per dieci mesi e sei tra tonneau e barrique di secondo passaggio. Avevo tonneau e barrique e li ho messi li. Il colore è rubino impenetrabile e al naso si affaccia un ampio bouquet che fornisce una sensazione di morbidezza. Ed è strano visto che non l’annata non calda. La ciliegia che viene fuori prepotente, sembra quella che si sente quando si apre il vasetto della confettura: avvolgente. Sentori dolci come tabacco, vaniglia, chiodi di garofano arrivano puntuali. La bocca è coerente con l’olfatto. Secco, caldo, sapido con i tannini maturi e quasi eleganti. Si può quasi bersi senza accompagnamento poiché morbido ma non troppo. Un gran vino nonostante che si abbina bene anche con una pasta. Il pubblico alle fiere si divide a metà tra la 17 e la 18. Nel 18 le piante erano inchiodate perché la peronospora bruciava i getti verdi e non si riuscivano a sintetizzare gli zuccheri. Abbiamo fatto la pre-vendemmia e ci abbiamo fatto un rosato Assaggiamo quindi il Torrebruna 2017. L’annata calda, otto mesi di cemento e dieci di legno hanno donato a questo vino una profondità ed una intensità pazzesche. Al naso i sentori sono scuri e penetranti come se nel calice ci fosse tutta l’immensità del mare. Le differenze climatiche risultano particolarmente evidenti anche ai meno esperti. Vengono fuori le spezie, e le tostature, la macchia mediterranea, la frutta in confettura, i fiori in potpurri. Tutti i sentori sono corposi, masticabili. Anche al sorso c’è avvolgenza e armonicità con un tannino presente ma non aggressivo, particolare. La persistenza è lunga. Secco e caldo ovviamente. Fresco il giusto. Un vino che è viscerale, da camino e meditazione. Veramente interessante. Lo mangi con una carne arrosto, magari con prugne, ciliegie, castagne. Andiamo in cantina ad assaggiare l’annata 2020 direttamente dalla botte: promette bene e va tenuta d’occhio. I vini del Lazio sono stati a lungo derisi e bistrattati per motivi storici ma anche per una qualità oggettivamente non eccelsa. Tanta quantità, poca qualità. Tranne rari casi nel passato, più frequenti oggi. Realtà come I Chicchi rappresentano esempi da seguire per l’utilizzo di tecniche volte al rispetto dell’ecosistema nonché di vitigni nobili e complicati ma esemplificativi di come si possano produrre grandi vini in zone considerate non vocate. Tutto questo però non sarebbe assolutamente possibile senza l’amore di persone come Enrico e Federica che vedono tutto ciò che è loro intorno con il cuore. Perché “Si vede bene solo con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”. Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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