Suggestioni di Vino

Suggestioni di Vino è la rubrica che racconta le persone del vino. Della loro storia, dell’amore, della passione che inoculano nel vino. Perché il vino è materia viva e le persone ne sono il nutrimento.

Le incursioni enoiche di Ivan Vellucci, ingegnere e manager per dovere, ma soprattutto Sommelier raccontano con passione e trasporto, territori e produttori d’eccezione.
Ivan ci porta a conoscere realtà prima di tutto umane, dove il sorriso e l’ospitalità dei vignaioli sono lo specchio dei vini che producono. La rubrica Suggestioni di Vino propone ogni settimana  suggestive esplorazioni e scoperte enologiche, narrate con trasporto e partecipazione. Al lettore parrà di accompagnare Ivan in queste visite speciali e sarà stimolato a fare lo stesso: vivere il mondo del vino come un bambino, con lo stupore negli occhi e la magia nel bicchiere.

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25 Novembre, 2022

Il Poggio degli Stenti: aldiquà il Montecucco, aldilà il Brunello.

Brunello? Sua Maestà il Brunello di Montalcino: ma perché c’è dell’altro? Voglio vedere chi, una volta arrivato a Montalcino patria del sacro Brunello sceglie di proseguire verso Grosseto. Giammai! Quando si è provato il Brunello o il meno impegnativo Rosso di Montalcino, li si sta. Eppure…. Eppure…. L’Orcia è il fiume che scorre in mezzo alla valle che da esso prende il nome. Dolci colline che da Montalcino scendono verso il fiume per poi risalire. Quelle colline che ogni essere umano ha imparato ad amare grazie a qualche foto o per una visita in queste zone. Verdi in primavera, gialle in estate, marroni in inverno. Per il vino però ci si ferma a Montalcino dove il Sangiovese ha trovato la sua patria di adozione. Chi invece, animato da spirito di avventura, attraverserà l’Orcia risalendo la collina, si troverà nella zona del Montecucco DOCG assaggiato il quale il mondo sembrerà differente. In questa zona la vita è sempre stata difficile. Pochi paesini, mai rinomati come Montalcino. Piccoli borghi con la loro storia certo ma poco blasone. Il terreno è buono per l’allevamento dei bovini e per il foraggio ad essi dedicati. La difficoltà della vita in queste zone era tale che una fattoria ha scelto di chiamarsi Poggio Stenti: invece del cognome dei proprietari, un nome evocativo della miseria che regnava. Perché ricordare la fame, le sofferenze, gli stenti, aiuta a tenere viva la propria storia. L’azienda è di papà Carlo Pieri che l’ha ereditata dal suo di papà. Dedito all’allevamento dei bovini tanto che la macelleria poco distante è sempre piena per via della ottima qualità della carne. Vigna? Mah, poca, giusto quella che serviva per produrre il vino di casa, per casa. Poi ad un certo punto l’illuminazione. Del papà di Carlo? No, della mamma. Erano i tempi nei quali lavorare i campi non bastava. Troppe incertezze ma anche tanto lavoro per poi nemmeno sbarcare il lunario. Eppure, aldilà dell’Orcia gli americani avevano iniziato ad investire nel Brunello determinandone il grande successo. Come i fratelli Mariani dell’azienda Banfi che decisero di costruire la propria cantina alla stazione di Sant’Angelo Cinigiano, poco dopo l’Orcia, poco distante dal poggio e proprio a pochi passi dalla bottega di macelleria della famiglia. Ecco che non ci si può far scappare l’occasione di uno stipendio fisso. Così che la mamma di Carlo va a lavorare dai Mariani e lì, proprio lì capisce che il futuro è, anche, nel vino. Perché da lì a poco sarebbero arrivati gli americani e vedere la Toscana e a bere il buon Sangiovese. Ah la saggezza delle donne di un tempo! Quelle che spingevano i mariti ad andare oltreoceano in cerca di fortuna e quelle che la fortuna avevano intuito si potesse trovare sotto casa. Non trasformando l’azienda. Perché in fondo bisognava sempre campare delle bestie. Ma ampliandola nel suo raggio di azione con il vino. Ma non un Brunello perché di quello non c’era verso stando aldiquà dell’Orcia. Qualcosa di diverso.   Fare vino e farlo bene. Un imperativo per i Pieri ma anche per tutte le aziende adliquà dell’Orcia. Tanta fatica per diventare DOCG solo nel 2011. A Poggio Stenti ci accoglie Eleonora. Figlia di Carlo (dal quale sono stato già per prendermi una bella fiorentina!). È lei che si prende cura del vino adesso. Sta finendo una degustazione con una coppia americana: “delicious”. Così si esprime la turista americana che scopro essere californiana. Le chiedo come ha saputo del Montecucco e mi risponde “surfing on the web”. Potenza del web dico io. Non credo che molti italiani ne sappiano dell’esistenza (del Montecucco non del web…). Eleonora è toscana e si sente. Ma non di quelle con la puzza sotto il naso. No, lei è affabile e gentile come una persona che sa il valore delle cose che fa la sua terra, sa il valore del lavoro, sa la fatica che deve fare una azienda come Poggio Stenti stando aldiquà del fiume Orcia quando aldilà c’è sua Maestà Brunello. “Non c’è un paesino qui. Non ci sono posti da visitare. Un turista qui arriva solo per il vino. Di passaggio.” È un bel passaggio penso io. Dalla terrazza dove ci accomodiamo si vede tutta la valle. Poche vigne è vero ma il paesaggio merita.   “Ora si dovrà pure bere” fa lei. Abbiamo visto la cantina dove ho apprezzato la perfezione, la pulizia. Le botti, quelle grandi. Hanno ancora qualche tonneau piccolo ma sono passati a quelli grandi. Perché così il Sangiovese ha tutto il tempo per riposarsi e fare il suo lavoro di affinamento. Qui, sul poggio e sulle vigne intorno, il sole batte forte. Adesso, in una domenica di fine ottobre quando il caldo è anomalo. Figuriamoci in estate. Certo, c’è il fiume Orcia a mitigare. Ci sono i venti dell’Amiata. Tutto sembra far presagire vini di un certo livello, identitari Partiamo con un bianco. Perché non è che non si possa avere un bianco in Toscana. Cosa se non un Vermentino? “è un po’ caldo” mi dice Eleonora. Mica tanto penso io. E poi, così vengono fuori i sentori, quelli veri. Quelli di pera, quelli della salvia. Quelli del minerale regalo dell’Amiata. Bella rotondità penso io. C’è una piscina con delle sdraio. MI immagino già li sdraiato in una sera d’estate. È poi il turno del rosso di ingresso, il Rosso Poggio Stenti, blend di Sangiovese e Cabernet Sauvignon. Molto diretto, molto verticale. Tanta frutta matura. Un vino che è da tutti i giorni ma di quelli che lasciano presagire come i fratelli maggiori siano di altra pasta. Infatti il Tribulo e il Pian di Staffa, i due vini storici dell’azienda, quelli che li rappresentano perché DOCG (il secondo è una riserva) sono un vero spettacolo. Abbiamo fatto tanta strada per arrivare qui e ne è valsa la pena. Nel Tribulo le note speziate e balsamiche ci sono tutte. Le spezie sono quelle dolci, tali da rendere tutto rotondo, pieno, voluttuoso, sensuale. I tannini sono morbidi e avvolgenti come una sciarpa di cachemire. Il Pian di Staffa ha anche dell’etereo e la persistenza si fa più lunga mantenendo una gradevolezza impressionante. Nessuna asperità, nessuna ruvidità. È tutto un abbraccio avvolgente che sa di sessuale. Lo guardo nel bellissimo calice che Eleonora mi ha messo a disposizione e non posso che rimanere estasiato. Punto il calice verso l’altra parte dell’Orcia e vi viene da pensare al Brunello, a come chi si ferma da quella parte non riesca a godere in questo modo. Peccato che un vino così memorabile sia per pochi. Ricordo quando sono stato alla presentazione dei Tre bicchieri Gambero Rosso allorquando i due Montecucco erano affogati tra i 98 vini toscani 16 dei quali Brunello. Io ero lì tra la folla che degustava i vini toscani, quasi isolato dinanzi ai Montecucco pensando a quanto si stavano perdendo. Assaggiando i due maschi adulti di Poggio Stenti, guardando i colli del Brunello, ho avuto la medesima sensazione. Non so se sia meglio tenersi nascosto un tesoro del genere oppure farlo conoscere…. Ivan Vellucci @ivan_1969     CANDIDA QUI LA TUA CANTINA ALLA PRIMA EDIZIONE DI WINE IN VENICE!
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18 Novembre, 2022

L’Etna all’improvviso

L’Etna all’improvviso.  Può capitare nella vita che qualcosa, qualcosa del quale non sai, non percepisci il valore, si materializzi così, all’improvviso. Cosa farne davvero non lo sai. È sempre stata li, l’hai vista da quando eri piccolo. Ma mai avresti pensato che un giorno potesse diventare tua. Chi è stato sull’Etna, sulla Montagna che domina la Sicilia, su quel Dio che è placido e dormiente ma quando si sveglia sa farsi sentire, ecco, chi vi è stato ed è salito fino in cima, sa quanto il terreno sia brullo. Difficile. Impervio. Le colate laviche sono ovunque. Il paesaggio che si osserva, respira, tocca con mano, è lunare. La terra non esiste oltre una certa altitudine. C’è “petra lavica”. Nera come la pece. Dura come solo la pietra lavica sa essere.  Eppure qui, la vita c’è.  Giacomo Foti ha ereditato una vecchia vigna di famiglia. Poco più di un ettaro a Nicolosi, sul versante sud dell’Etna. 900 metri di altezza. Un versante che si affaccia direttamente sul golfo di Catania. Un pezzo di terra brullo. Coperto di sabbia lavica dal quale si può vedere il mare. Caldissimo durante il giorno per via del sole cocente ancorché mitigato dalle brezze marine che risalendo il “canalone” (frutto di una antichissima eruzione) arrivano fin qui; freddissimo la notte quando le correnti di aria gelida scendono dalla vetta della Montagna.   Un pezzo di terra sul quale Giacomo ha trovato le piante che i suoi nonni avevano piantato. Un ciliegio che produce materie prime per una ottima confettura. Un pero. Un castagno. Un albero di noci. Alberi di pistacchi. E anche una vigna di Nerello Mascalese vecchia di oltre 80 anni.  Ecco, quando ti trovi qualcosa del genere non puoi non chiederti cosa farne.  L’Etna si sa è posto difficile. La vita che Idda dona può riprendersela quando vuole. Lavorare la terra qui non è semplice. Devi farlo con le tue mani, “carricarti” tutto sulle spalle e lasciare che la Montagna ne decida il destino. Giacomo decide di valorizzare la vigna dando vita a una piccola realtà, Tenute Foti Randazzese, con tre etichette per appena 10.000 bottiglie: un rosso da Nerello Mascalese in purezza; un rosato sempre da Nerello; un bianco da Carricante in purezza.  “Conduciamo tutto in famiglia” mi dice Giacomo. “è una passione diventata secondo lavoro”.    Si, perché Giacomo ha un altro lavoro. Non è che con la cantina ci si guadagni ancora. Poche bottiglie e tanta fatica. Ma si diverte e il suo sorriso la dice lunga quanto. Ma anche su quanto lo appassioni. Perché ciò che ha ricevuto sa essere una responsabilità, una sfida, un onore. Ecco, il suo sorriso e la sua voglia racchiudono proprio l’onore. Quello di un siciliano vero che dal basso, da un piccolo pezzo di terra brullo, sa di poter ottenere prodotti fantastici. h “io non sono biologico ma può venire oggi stesso un controllo…noi qui usiamo rame e zolfo quando serve (ma solo quando serve ah!) e la zappa. Anche perché sulla sabbia lavica come ci vai!” Parlare con Giacomo ti fa sorridere perché usa la sua schiettezza siciliana con una seraficità che ti lascia senza parole. Decidiamo di assaggiare due vini: il rosato e il bianco. “Ho solo tre etichette ma stiamo già lavorando alla quarta”.  Il 2022 è stata l’annata che ha voluto dire siccità per quasi tutti i viticoltori italiani. Non per quelli etnei. Perché nel pomeriggio, come fosse un appuntamento fisso, arrivava la pioggia. Così che i raccolti sono stati più generosi pur mantenendo la qualità dell’Etna. “Grazie alle condizioni che l’Etna ci ha offerto abbiamo fatto maturare di più le uve Carricante creando acini surmaturi. Da qui poi in barrique per realizzare 500 bottiglie di un nuovo prodotto”. Ecco l’Etna penso io. Idda, ha creato qualcosa di diverso quest’anno. Come si fa a non amare un posto che “cangia” così da un giorno all’altro. L’assaggio dicevamo. Partiamo dal rosato Aita. Quando lo guardi nel bicchiere non puoi neanche immaginare che hai per le mani un vino che non ha avuto un passaggio sulle bucce. Eppure è così. Altro miracolo dell’Etna. La carica polifenolica degli acini è stata così forte che non è servita. “ho dovuto fare un video per far vedere che non facevo nulla che spremere” mi dice Giacomo. Quando ho messo il naso nel bicchiere mi è venuto in mente mio papà che amava tagliare la pesca e metterla a mollo nel vino rosso della cantina sociale. Ecco, lo stesso odore lo trovo in questo vino. Solo che la pesca è la tabacchera. Quella brutta e schiacciata che, dopo averla sbucciata con fatica, restituisce solo piccoli pezzi di polpa. Ma che buoni! Poi i frutti virano sull’arancia sanguinella. Da un rosato? Eh sì. Ecco poi che arriva lo iodio del mare. In bocca è fresco, secco, caldo e tanto minerale come solo i vini dell’Etna sanno essere. C’è tanta rotondità con anche un piccolo accenno di tannini. Me lo immagino con una parmigiana di melanzane ma soprattutto con una bella pizza napoletana con bufala e pomodorini pachino. Spettacolo!  Gagà, il bianco da Carricante non è da meno. Al naso sento un incontro del mare con i fiori di ginestra dell’Etna. È come se mi trovassi in un giardino di sabbia lavica con i fiori di ginestra intorno e la brezza salina del mare a rinfrescare. Si certo ci sono i frutti esotici come il mango, poi la pera, la mela verde. Ma c’è anche una scorsa di limone candito. Ma quella ginestra e la brezza del mare…. In bocca sempre la sapidità mi colpisce. Con un retrogusto di frutta importante e la capacità di scaldare quasi più del rosato. Il rosso ancora non è pronto dunque mi toccherà aspettare per assaggiarlo. Ma già da questi due vini e dalla chiaccherata con Giacomo ho capito molto di una azienda a cui voglio augurare tutto il bene del mondo. Perché per fare qualcosa in Sicilia ci vuole coraggio. Per farlo sull’Etna occorre essere eroi. È vero che poi i frutti sono meravigliosi, ma provate voi a sgobbare per tanto tempo e poi vedere tutto distrutto da Idda. Il sorriso di Giacomo la dice lunga sulla capacità della gente dell’Etna di convivere con la Montagna. Rispetto prima di tutto ma poi tanto duro lavoro. Manuale e di famiglia. Ora che Giacomo sa davvero cosa ha per le mani, sono certo che niente potrà abbatterlo. Nemmeno Idda. Ivan Vellucci @ivan_1969
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11 Novembre, 2022

Pazzi per le bolle. Pazzi con le bolle

Pazzi per le bolle. Pazzi con le bolle Cosa è il Genio? È fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità d’esecuzione. E la Pazzia allora? Cosa se non un genio che va anche oltre? Si deve essere giovani per essere geni e pensare al futuro? Oppure si può sempre coronare il proprio sogno? Rosa è astigiana. Antonio pugliese. Una vita a lavorare, una vita a parlare di vino. Già solo parlare, assaggiare, divertirsi con il vino e tutto ciò che gli gira intorno. Un hobby meraviglioso. Ma niente di più.  Però la vita ti riserva sempre una sorpresa. Anche se non te la vai a cercare. Antonio e Rosa cercavano un oliveto vicino Roma dove vivono. Quello di Antonio, nella sua Puglia è troppo lontano. Troppo faticoso. Ne volevano uno vicino. Tanto per ammazzare il tempo e farsi un po’ di olio che a casa fa sempre comodo. Rosa in pensione e Antonio tra un po’. Non è che le agenzie immobiliari siano proprio esperte di oliveti e quelli che fanno vedere a Rosa e Antonio non fanno scattare nulla. Poi, un giorno, in quel di Farnese (meraviglioso paesino nel viterbese) vedono un bel terreno con olivi e una vigna malconcia. Ecco, li arriva la fantasia, l’intuizione, il colpo di fulmine. Ma anche la vera pazzia. Rosa guarda Antonio e Antonio guarda Rosa: la scintilla scoppia. Ci mettono un attimo a pensare al futuro e a vedere lì un vigneto. Su quel terreno vulcanico non può essere un vigneto qualsiasi. Se poi vogliono un vigneto di Pinot nero e Chardonnay che possa produrre bollicine con il metodo classico, allora siamo in presenza di pura, semplice, totale pazzia? O forse di più. Molto di più.  A chi può venire in mente se non a due pazzi di produrre un metodo classico da Pinot Nero e Chardonnay a Farnese? Eppure a guardare Rosa e Antonio tutto diresti tranne che sono due persone animate da lucida follia.   Arrivare alla loro cantina, Vigne del Patrimonio in fondo è facile anche perché Rosa mi ha mandato le coordinate. La struttura sembra quella di un consorzio agrario. E infatti era quello di Farnese. Già Farnese. Siamo a pochi km dal lago di Bolsena ovvero su un terreno di matrice vulcanica e fondo tufaceo. Come non innamorarsi di un posto del genere per fare vini? Quando entro mi sembra di entrare nella casa di mia nonna al paese. Un grande tavolo con le sedie intorno. La cristalliera con piatti e bicchieri. Poi una grande credenza con il piano in marmo.  Mi accoglie Antonio che nonostante la calda giornata ha un piumino smanicato e la camicia a maniche lunghe a scacchi. Poi Rosa che ti ammalia subito con quel suo sorriso gentile e i capelli bianchi candidi. Mi ricorda la zia Tina, slanciata, sorridente, affabile.   Sei a casa. Senti l’odore e il calore di casa. Senti che chi ti parla non è un estraneo ma due persone che ti parlano come se fossi uno di famiglia.  Non sono due esperti di vigna. Lo sono diventati piano piano. Perché partire da zero, letteralmente da zero, non è semplice se non sei umile. Per realizzare il proprio sogno sono andati a rompere le scatole anche all’università della Tuscia. Avevano bisogno di un enologo e chi meglio del professore in quella università? Dubito che abbia avuto modo di dire di no alla gentilezza di Rosa e alla determinazione di Antonio. Sono molto diversi i due. Anche in fatto di gusti e di vini. Se li senti parlare ti sembrano quasi George e Mildred che discutono. Ma poi si guardano e la scintilla scatta ancora.   Pochi ettari da coltivare (2.5) con tanto amore, tanta determinazione. Quando andiamo all’interno della struttura vediamo tutte le pupitre colme di bottiglie. “In fondo per girare 3000 bottiglie ci metto 45 minuti. Dunque non mi serve un macchinario”. Così mi dice Rosa. Assisto ad una bella discussione tra loro due. Da una parte Rosa che sostiene che girare le bottiglie a mano sia non solo poetico ma anche importante perché l’energia dell’essere si tramette alle bottiglie. Dall’altra Antonio che dice che sarebbe meglio un macchinario che tanto è la stessa cosa. Devono fare i conti con le finanze e non è possibile investire. Già le finanze. Perché mica è semplice fare metodo classico a Farnese ed avere successo. Eppure a loro due non interessa. Va bene così. Girano le bottiglie sulle pupitre a mano. Etichettano a mano. Va bene così.   Non si può non assaggiare nulla.  Ecco allora le loro creazioni: Alarosa Rosè brut (Pinot Nero e Chardonnay), Aladoro Brut (Chardonnay), Alanera Brut (Pinot Nero). Tutte con almeno 40 mesi di lieviti (il che la dice lunga sulla voglia di Rosa e Antonio di produrre qualcosa di unico). È un crescendo di sensazioni. Un crescendo di sentori e sapori. Nonostante il lungo periodo di affinamento sono ancora giovani. Quando li annuso, quando li degusto ci guardiamo negli occhi e vedo nei loro felicità, appagamento. Non posso che esserne ammirato perché ciò che sento nel bicchiere, dal bicchiere mi entusiasma. Mi conquista.  Il rosato è morbido, confettoso, sinuoso, ricco di quelle fragoline e frutti di bosco tipici del Pinot nero. Fresco, deciso e soprattutto sapido come un vulcano sa donare. Insieme alla persistenza che è importante. Il brut è più deciso grazie ad uno Chardonnay che dona la vena pasticcera di una crostata di agrumi. Lo definirei croccantissimo, fresco di cedro e pompelmo. Verticalissimo, persistente, minerale. Infine sua maestà il Pinot Nero con l’Alanera. Sembra un cardinale nero con il suo perlage ancora più fine e intrigante dei precedenti. La crosta di pane, la piccola pasticceria, la frutta secca, la grafite, il gesso. In bocca è una esplosione di sapidità e di eleganza. Non ci credo ma è così. Antonio ci tiene poi a farmi assaggiare il Vepre un rosso da Cabernet Franc che fa due anni di barrique. Apre un 2016 che è dir poco nobile. Lo apprezzo molto per la sua morbidezza e freschezza. Ma non si accontenta, vuole che assaggi il 2015 dicendo che l’anno è stato mitico. Ha ragione, mi stupisce ancor di più. La nobiltà è ancor più presente. Ancor più viva anche se più complicato del precedente. Più aristocratico.   Ma come si fa a non voler bene a questi due pazzi? Hanno una certa età. Quella età che non li fa anziani ma certamente idonei a prendersi cura del loro e solo del loro tempo. E invece cosa fanno? Si mettono a produrre vino da un difficilissimo Cabernet Franc e spumante metodo classico da Chardonnay e Pinot Nero. Vini che vanno aspettati per anni e anni. Pazzi. Adorabili pazzi. Meravigliosi pazzi.  Parlare con loro non solo mi riempie il cuore di gioia ma mi fa capire come i sogni son desideri e prima o poi, quando meno te lo aspetti, si realizzano. E che, soprattutto, non hanno età. Grazie per questa splendida lezione di vita.   Ps spero di fare cosa gradita ad Antonio riportando ciò che è presente sulle loro bottiglie tratto dal “Sonetto al vino” di Jorge Luis Borges (Antonio sostiene che tutti dovrebbero leggere e non posso che dargli ragione) In quale regno o secolo e sotto quale tacita
congiunzione di astri, in che giorno segreto
non segnato dal marmo, nacque la fortunata
e singolare idea di inventare l’allegria? Ivan Vellucci @ivan_1969
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4 Novembre, 2022

Lu Colbu, la Gallura, la Sardegna: il Cannonau di mare.

Lu Colbu, la Gallura, la Sardegna: il Cannonau di mare. Cosa è una favola se non una proiezione dei nostri desideri? Ce le leggevano i genitori da piccoli. Le ascoltavamo dai nostri nonni. E noi li a sognare e a sperare che prima o poi, qualcosa del genere ci sarebbe capitato.  Così, quando da adulti ci capita di andare in vacanza in posti meravigliosi, angoli paradisiaci del pianeta, ce ne innamoriamo perdutamente. È lì che sogniamo di ritirarci a vita privata fosse anche per una fuga di pochi giorni. Anche se poi però si torna alla realtà e tutto si dimentica.  Ecco, questo capita alle persone normali. Non ai visionari. A quelle persone che vedono il futuro e hanno la pazienza di aspettare.   Dieci anni fa in Costa Paradiso, un luogo incantato a pochi km da Sassari, due brianzoli si innamorano non solo del mare ma di questa meravigliosa terra con i vigneti che si affacciano sul mare. Sanno poco di come si fa il vino ma decidono comunque di comprare un po’ di terra per produrre Cannonau e Vermentino, i mostri sacri della Gallura. Un hobby certo, perché la vita è altrove mentre qui, in Sardegna, ci si viene solo in estate. È una scommessa, un gioco. O forse una vera visione.    Devono affidarsi a qualcuno e trovano, quasi per caso, Alessandro Oggiano. Non è che pure lui ne sappia tanto di vigne, di tecniche di cantina e di tutto ciò che serve per produrre vini di qualità. Certo, lavora nel campo dell’agricoltura perché vende prodotti ad essa dedicati con particolare attenzione alla vigna, ma di esperienza, poca. Alessandro ha in sé una dote, spesso tipica dei sardi: la determinazione.  Alessandro sa che la sua missione non è solo quella di produrre vino. Vuole, deve produrre qualcosa di speciale. Eccellente. Sa, Alessandro lo sa, che per arrivare ad ottenere qualcosa di eccezionale, deve faticare e tanto. Lu Colbu è l’azienda e Alessandro il suo interprete.   Ha dalla sua un terreno magnifico con l’esposizione verso il mare. Il sole qui c’è e si fa sentire, ma quello che più rende unica la Gallura è il vento e la terra. Il vento, le brezze, arrivano dal mare carichi di sale e donano alle piante non solo mineralità ma anche salubrità. Un suolo granitico con la sabbia in superficie. Insomma c’è tutto per produrre ottimi vini. Anzi, eccellenti. Cosa si può produrre se non Vermentino di Gallura e Cannonau? Già, ma, come dice Alessandro, il Vermentino è facile. Lo è perché siamo in Gallura e qui il Vermentino rappresenta la unica DOCG della Sardegna. È facile perché in estate tutti i ristoranti della zona se lo contendono. E il Cannonau? Ecco, quello è difficile perché particolare, che sa di terra e chi viene qui in estate vuole solo mare.    Non ci dorme la notte Alessandro e il vigneto diventa la sua missione. Lo cura come fosse un essere vivente sapendo che può contare solo sull’aiuto del mare. Proprio grazie al mare riesce a portare in vigna pochi trattamenti (nessuno chimico) e tanto amore. Con Alessandro parliamo del suo Cannonau Ruju e decidiamo di assaggiarne due di due annate diverse: 2019 e 2021. E il 2020? No, quello non lo abbiamo prodotto mi dice Alessandro. Non mi piaceva.   Io sono fatto così continua. Quando una cosa non mi piace glielo dico e meno male che mi stanno a sentire. Pensa che una volta sono venuti in vigna i proprietari e hanno trovato a terra i grappoli che avevo reciso per donare più qualità in pianta. Sono rimasti sbalorditi e allora ho detto: dobbiamo decidere se fare dieci kg di uva che valgono dieci euro o un kg di uva che vale dieci euro. Mi hanno detto di fare come credessi. La testardaggine e la determinazione di Alessandro sta tutta qui. Tutta nel suo modo sardo di dire, vedere, fare le cose. Perché in fondo la vigna l’ha impiantata lui dieci anni fa e da dieci anni se la cura. Quasi le parla. Dicevamo del Cannonau. Voglio assaggiare prima il 2021. Mi piace anche se è giovane ma lo sapevamo. Ha gli odori di frutta nera e rossa non ancora matura. Ha la macchia mediterranea di un mattino di primavera. Ha i tannini presenti e ampi ma non aggressivi anche se si sente che deve evolversi ancora. Non fa barrique ed è giusto che sia così. Solo in questo modo la macchia mediterranea, i frutti neri e rossi, la mineralità si esaltano. È un vino da aspettare anche se puoi berlo già così.    Poi arriva il 2019 ed è un’altra musica. Qui i tannini cominciano ad arrotondarsi, il gusto, così come gli odori, diventano più rotondi. Mai banali. Mai civettuoli. Sempre mantenendo l’impronta sarda, dura ma carezzevole. Qui la frutta è più matura e la macchia mediterranea ricorda quella dei pomeriggi estivi. La persistenza è importante e ci piace che sia così perché in bocca è poesia. Tutta la Sardegna è in questi vini. La cosa che più rilassa Alessandro è quando gli dico che in questi due vini vedo una sola cantina. Vedo, sento, tocco con mano il lavoro, l’attesa, la determinazione, la caparbietà di una azienda che lui, in questo momento, rappresenta con me. C’è una impronta. Lo vedo sorridere e rilassarsi come un bambino che ha appena passato un esame. Questo gli interessava sentire. L’ho colto e l’ho detto ma non certo perché voleva sentirselo dire. È bellissimo, entusiasmante, unico quando in vini diversi, di diverse annate trovi una impronta. Trovi il dna di una azienda negli odori e soprattutto nel gusto. Una evoluzione di un lavoro.    Le vigne hanno solo dieci anni. Giovani, troppo giovani. Se questo è l’inizio allora ciò che ho bevuto è un miracolo. O solo frutto di amore e duro lavoro. Sono certo che sentiremo parlare di Lu Colbu. Fino ad allora dovremo solo sentirne parlare perché se si vogliono bere i loro vini, sia esso il Vermentino, sia esso il Cannonau, occorre farlo in Sardegna (o nella brianza…) perché la distribuzione è limitata. Alla Sardegna. Quasi come se si trattasse di vini di lusso la cui introvabilità diventa vanto, ragione di essere. Alessandro sorride. È rilassato. Lo sa in cuor suo di aver fatto un buon lavoro. Ma non si accontenta né si rilassa. La strada è lunga e lui vuole percorrerla tutta.  Vai Alessandro. Non ti fermare! Ivan Vellucci @ivan_1969 https://youtu.be/RakajXgmc-E
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Maria Vignanica Arrow Right Top Bg

29 Ottobre, 2022

Vignanica: piccoli piccoli, grandi grandi.

Vignanica: piccoli piccoli, grandi grandi. Ca fari cu ‘na vigna accussì nica. Mancu u vino pi casa to. Immagino proprio così abbiano detto a Maria quando disse a casa che avrebbe voluto usare quel pezzetto di terra del nonno per produrre vino.  Eppoi, chi ni sai tu ri vinu? Maria, Maria, Maria.  Maria Genovese da Barcellona Pozzo di Gotto. Una laurea in Scienze della Comunicazione in tasca insieme a tante belle speranze di conquistare il mondo. Papà architetto impegnato a Barcellona (Pozzo di Gotto eh!), nonno che si è fatto da solo andando a vendere i suoi limoni fino in Germania. Famiglia bene di Barcellona (sempre Pozzo di Gotto!). Troppo stretto per Maria e le sue belle speranze. Speranze di trovare una sua sistemazione nel mondo. Perché il mondo è tanto grande e la Sicilia troppo stretta per una come lei. È facile dire di volersene andare. È facile dire di voler lasciare quella terra baciata dal sole. Facile a dirsi ma non a farsi.  Maria, Maria, Maria.  Maria non è che non riesce nel suo intento. È che non resite a stare lontano e al ritornare alla sua terra di origine. Si ma a fare cosa? Cosa può fare una ragazza intelligente, capace, dinamica, determinata. Viva? Le origini. Si ricorda delle sue origini e di suo nonno che amava la terra perché è “la nostra vera ricchezza” le diceva. Già ma la terra è piccola, nica. Nica e incolta. Con solo quel piccolo vigneto che nonno utilizzava per produrre il vino di casa.
Ecco allora l’illuminazione. Maria decide senza pensarci due volte di voler produrre vino. Ma non un vino qualunque. Un vino che possa essere rappresentativo della terra, della sua terra. E non in una maniera qualunque né “semplicemente” in biologico. Lei lo vuole in biodinamico perché la terra è cosa seria e non può certo deludere il nonno così come non può e non vuole alterare i sapori della sua terra. Certo, qui non siamo come sull’Etna dove ogni cosa che si tocca diventa oro.  Vero, Maria non ha la fortuna di stare su quella montagna baciata da Dio. Difficile ma generosa. Eppure le terre di Barcellona (Pozzo di Gotto) è come si trovassero nel mezzo di due fuochi, i due vulcani attivi della Sicilia: Idda, la montagna, l’Enta; Iddu, Stromboli il vulcano delle Eolie. Simili nei nomi, con la speranza che nessuno dei due “Idda” se la prenda.   Tra due Iddu la terra non può che essere ancora generosa. Come in ogni parte della Sicilia in fondo.  La Sicilia è infatti terra magica e ovunque si pianti qualcosa, li, cresce rigoglioso il frutto. Ricordo ancora quando la nonna di Sebastiano, un mio caro amico, ci offrì dell’anguria fresca dicendo: questo è frutto del mio orto. E Sebastiano: ma nonna, tu non hai mai avuto angurie. Lei, seraficamente rispose: figghiu miu, tuo fratello Roberto sputò i semi nell’orto e ora ci sono le angurie! Ecco, così è la Sicilia. Generosa.   La terra di Maria affaccia sulle Eolie, a nord dell’Isola. All’ombra serale di Idda, quello grande, dietro il quale il sole tramonta. Di sole appunto ne prende tanto così come di vento che arriva dal mare carico di sale e iodio. E questo non può che far bene all’uva! Ma mer ti no. Sillabandolo si capisce meglio quanto è bello questo nome. Nome che Maria fa subito suo. Mamertini erano gli antichi abitanti della provincia di Messina. Antichi greci qui insediatisi. Cultori di Marte, Dio della terra. Qui iniziarono, come nelle migliori delle tradizioni greche, a produrre vino arrivato fino a noi passando finanche per Giulio Cesare. Oddio, fino a noi proprio no perché se non fosse stato per una manciata di produttori locali sarebbe andato perso nei tempi. Eppure Ma mer ti no è oggi una DOC piccola ma significativa che grazie all’utilizzo di Nero d’Avola (che qui, anche perché siamo veramente vicino, viene chiamato ancora Calabrese), Nocera (simile a Nerello Mascalese e Cappuccio) per i rossi; Ansonica e Catarratto (normale e lucido) per i bianchi, sta cercando una difficile rinascita.   Si va bene tutto. Va bene la terra generosa. Va bene il clima. Vanno bene i Mamertini. Ma sempre su un fazzoletto di terra Maria può disporre. Tanto che la prima vendemmia, quasi dieci anni fa, le concede a malapena due ettolitri. Niente. Ma non abbiamo a che fare con una qualsiasi. Maria è caparbia e determinata. Maria non si ferma. Lei studia, osserva, impara. E agisce.  Usa il biodinamico come propulsione. Investe in qualità cercando le rese giuste in vigna. Usa la natura per contrastare i problemi che il tempo le pone dinanzi. Come questa estate dove per contrastare il grande caldo cosparge le piante di zeolite e riduce la produzione per far arrivare nutrimento ai grappoli più resistenti. Chi facisti? Ogni rappa tagliato, ‘na buttigghi ri vinu pirduto. Maria sa però che è l’unico modo per far funzionare le cose in una terra come questa. È l’unico modo per realizzare qualcosa di unico e speciale come devono essere i suoi vini. Il disciplinare consente 75 quintali per ettaro? E lei ne fa 45. Perché la qualità non può essere compromessa.  Gli ettari intanto sono cresciuti così come la produzione. Da quei due ettolitri che le hanno regalato meno di 300 bottiglie il primo anno è passata ad averne ora 11.000. Niente male per una ragazza partita da zero. Maria, Maria, Maria. Che cuore. Un cuore che troviamo nei suoi vini. Ho avuto il piacere e l’onore di assaggiare il suo Mamertino del 2018 (qui il mi post), blend di Nero D’avola, Nocella e Nerello Mascalese. Un vino che fa solo acciaio e per 24 mesi così da ricordare la sua terra, i suoi odori, i suoi sapori. Nel bicchiere il vino è ancora giovane e lo si vede dal colore sì rubino ma con riflessi porpora. Non è un vino carico e profondo come ci si aspetterebbe da un vino del sud. Ma così fine da essere addirittura trasparente. Degli effluvi mi colpisce l’immediatezza, la balsamicità e lo iodio. Il gusto poi è fresco segno di ancor giovinezza con tannini che non infastidiscono. Non è impetuoso come Iddu (grande o nico) ma deciso senza essere civettuolo.  Ora capisco perché Giulio Cesare lo ha voluto bere.   Non ti fermare ora. Anche se sei nica. Ah già nica. Dalla debolezza, dalla inesperienza, dalla esiguità dei mezzi, la sua grande forza. Nica, vigna, Vignanica. Piccola vigna ma grande cuore. Il suo, quello di Maria. Ivan Vellucci @ivan_1969
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21 Ottobre, 2022

Bocale. Un soprannome, una storia di famiglia.

Papà posso andare a giocare a pallone nel pomeriggio? No Vittorio, oggi c’è la vendemmia. Lo sai. Papà Valentino lo dice con tono dolce ma deciso e Vittorio sa che non può ribattere: la vendemmia è il momento più importante per la sua famiglia. Non si può non esserci e dare una mano. Anche lui. Ecco, la famiglia. Unita. Siamo a Montefalco, in Umbria. La patria di quel gioiello che è il Sagrantino. È qui che trovo l’intera famiglia Valentini dell’azienda Bocale intenta a lavorare l’uva Trebbiano appena raccolta.  È una domenica mattina e la giornata è già iniziata da un pezzo. Mi accoglie Valentino, colui che quindici anni fa ha deciso di dare una svolta alla vecchia azienda di papà Ennio che amava produrre e vendere il vino fatto con le sue mani. Ovviamente nelle damigiane come aveva sempre fatto. Valentino no. Lui capì come quel territorio fosse vocato al Sagrantino. Oltre che al Sangiovese, al Colorino e al Merlot di papà Ennio.   Valentino sembra più che una pila, una biglia di un flipper. Dopo avermi salutato comincia infatti ad andare da tutte parti. Ma non senza senso. Ogni movimento, ogni gesto, ha un preciso scopo e vuole ottenere un preciso risultato. Come un meccanismo che per funzionare ha bisogno di un impulso. Che lui ha il dovere di fornire.  Faccio amicizia anche con Achille, uno splendido cagnolino che mi saltella intorno.  Hanno appena passato nella deraspatrice il primo carico di uve Trebbiano Spoletino e il secondo sta per arrivare. Mentre Valentino va alla pesa poco lontano da lì io rimango con papà Ennio e zio Claudio a chiaccherare di quanto sia difficile oggi produrre vino. Trovare chi vendemmia, quando lo dice l’enologo (perché questo ti dice che devi farlo oggi e mica puoi ritardare), non è semplice. E meno male che ci sono i pakistani. Brava gente che arriva anche di domenica e con rapidità e professionalità fanno tutto. A mano eh! Qui non si usano macchinari.    Eh difficile trovare ragazzi che vogliono lavorare. Specialmente nei campi. Mio padre (è Ennio che parla), diceva che nei campi ci sono solo tre giorni di festa: Natale, Pasqua e quando piove.  Saggezza popolare. Ennio e Claudio sono uniti e si vede. Lavorano insieme in sintonia. Si, magari avranno pure qualche screzio, ma quando c’è da fare il vino, non è il caso. Il carico di Trebbiano (bello nei sui grappoli e nei colori vivi) arriva con il trattore e la pigiaderaspatrice viene messa di nuovo in funzione. C’è un’altra montagna di uva da lavorare. La squadra deve scendere in campo con una formazione collaudata. Valentino è sulla scala a smuovere il carico (anche se l’effetto biglia non si placa perché scende, sale, prende il badile, aziona i macchinari come da fantasista di centrocampo). Zio Claudio è al ghiaccio secco e a controllare che tutti fili per il verso giusto. Papà Ennio ai macchinari e quando tenta di salire sulla scatola il regista Valentino lo riporta al suo posto: mica vorrai farti male papà. Vittorio, con tanto di forca in mano, a eliminare i raspi. Cinzia, la moglie di Valentino, a pulire il pulibile e badare che Vittorio non faccia nulla di strano. Antonello, fratello, è a manovrare il trattore e svuotare i cestoni dell’uva nella deraspatrice. Manca all’appello solo mamma Luciana che sarà sicuramente in cucina a preparare il pranzo.   Formazione vincente, non si cambia.  È una squadra che non si ferma. Non molla. Attenta e precisa. Soprattutto, ogni membro della stessa mostra il sorriso e la gioia di star facendo qualcosa di bello. Per loro. Per la famiglia. Perché la terra è la loro vita e si vede in ogni gesto. Bella l’armonia. Bello lo spirito di squadra. Bella ciò che vedo e leggo nei loro occhi. Non sono né mi sento un estraneo perché per loro sono come un amico venuto a vedere la vendemmia. Per me è un onore e un piacere vedere quello che sembra un bel quadro in movimento. Anzi, sono anche io parte del quadro. Con Valentino scendiamo giù nella cantina a vedere come il tino si riempie. Mi giro e me lo ritrovo sulla scala prima, appollaiato sul tino dopo. Una biglia impazzita insomma.  In cantina apprezzo la pulizia e la precisione di tutto ciò che vedo. Poche attrezzature ma essenziali: le grandi botti di affinamento, le barrique, i tini. Tutto in perfetto ordine. La biglia arriva anche qui penso. L’azienda non è grande. Poco meno di sei ettari per quasi 40.000 bottiglie prodotte, molte delle quali vanno all’estero. Valentino cita di slancio e con orgoglio tutti i paesi dove esporta. “Posso definirmi Export manager?”. Non solo Export manager dico io. Anche Marketing, CFO, CEO. Perché davvero Valentino è l’anima di questa azienda e, come la biglia, lui fa un po’ tutto. Anche se quando si tratta di vendemmiare, diventa uno della squadra.  Il vanto è ovviamente il Sagrantino che qui c’è in due versioni. Una DOCG e la Ennio, ovviamente dedicata al papà. Poi il Montefalco Rosso come blend di Sangiovese, Colorino e Merlot. Non può mancare il Passito e una grappa (fatta in una distilleria locale così sono sicuro che le faccia con le mie vinacce, si affretta a dire Valentino). Ah, ovviamente il Trebbiano Spoletino!  Tutti prodotti con lieviti locali ad eccezione di Ennio che di lieviti non ne usa proprio. Perché papà Ennio non ha bisogno di nulla che non sia lui stesso!   Valentino non ha giustamente il tempo per farmi provare i vini ed è dispiaciuto. Non ce la fa fisicamente dovendo star dietro a tutto. A me francamente importa poco perché quello che ho visto mi basta per apprezzare ciò che viene prodotto dal lavoro della squadra. I vini che porto con me non potranno che essere fantastici perché nati dalla passione che vedo non solo in Valentino ma in tutta la sua famiglia. Quando Valentino me li descrive ha gli occhi che gli brillano. È come se, fermandosi un attimo e tenendo per le mani quelle bottiglie, capisse dove è arrivato e quanta strada ha ancora da fare. Quando prende in mano Ennio, il Sagrantino dedicato al papà e chiuso in una scatola di legno, gli occhi sono ancora più luccicanti. La famiglia Valentini, questo il loro cognome, è una bella famiglia che ha capitalizzato il lavoro di papà Ennio. Dopo quindici anni di ulteriore duro lavoro, i frutti si vedono. Una famiglia e una squadra. Vincente!  Magari tra qualche settimana Vittorio potrà andare a giocare a calcio. Non oggi, né nei prossimi giorni perché sarà tempo di vendemmiare il Sagrantino. Ma non mollare Vittorio! Ovviamente non ho resistito e la sera ho aperto sua maestà il Sagrantino appena arrivato a casa: bottiglia 1301 di 5420 prodotte nel 2017 (Valentino ci tiene così tanto alle bottiglie che non può fare a meno di numerarle). Avevo solo una costata bella alta e ho provato a capire il paring. Qui il link della prova.  Un vino regale, sontuoso, già da quel colore rubino intenso che quando inclini il calice mostra una lama violacea quasi a rivelare la sua natura cardinalizia. Bella luminosità anche nella sua compattezza.   Il bouquet al naso non è particolarmente ampio e la frutta nera ancora da maturare c’è tutta. Cosi come le note dolci di vaniglia, noce moscata, tabacco, fori di campo. Una leggera nota ematica e di sottobosco completano il quadro. In bocca è unico. Immediatamente secco. Immediatamente caldo. Immediatamente fresco e soprattutto tannico. Di quella freschezza che indica quanto ancora sia giovane. Un tannino che è aggressivo sì ma che degrada dolcemente lasciando che la frutta, adesso matura, rimanga a chiudere in maniera precisa, quasi elegante, la bocca. La sapidità aiuta ulteriormente. Mai come per questo vino, questo in particolare, vale il proverbio “Amico e vino vogliono essere vecchi”: il Sagrantino di Valentino devi aspettarlo. Ah, con la costata si è rivelato ottimo! Ps per chi si stesse chiedendo il perché del nome Bocale, sappiate che era il soprannome usato per indicare la famiglia Valentini. In dialetto umbro è il boccale da due litri usato per servire il vino. Meglio di così! Ivan Vellucci @ivan_1969
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14 Ottobre, 2022

Il Podere dell’Etna segreta

Il Podere dell’Etna segreta.  È proprio vero, mai credere agli stereotipi, mai credere che ciò che si pensa non possa mai accadere. Perché alle volte, invece, accade. L’Etna, Iddu, la Montagna, sovrasta tutta la Sicilia. È il luogo da dove tutto nasce e tutto può finire. Può donare la vita come può toglierla. Sulle sue pendici nascono paesi, vivono persone. La terra è nera per le continue colate. Il cielo da sereno può diventare cupo perché il vulcano emette fumo, lapilli, cenere. Custodisce in sé i minerali che dalle viscere della terra emergono e la rendono unica, speciale. Coltivare qui qualunque cosa è unico. Ma difficile. Difficile per le piogge di cenere che devastano ciò che incontrano. Difficile per i pendii scoscesi e poco riparati. Unico perché che la terra dona è ricco di qualcosa che solo qui si trova. I venti del mare poi portano il sale, quelli della montagna la freschezza.  Ma ciò che la montagna dona, la montagna si prende. Senza avvisare. Senza chiedere permesso. Senza poi scusarsi. Se non restituendo la quiete fino alla prossima eruzione. Su questi terreni scoscesi e impervi, nascono vini meravigliosi, minerali, ricchi, complessi. Unici. Questa è la terra del Carricante così chiamato perché generoso così da consentire di “caricare” gli asini. È la terra del Nerello Mascalese e del Nerello Cappuccio che solo qui trovano la loro essenza, la vera e unicità siciliana. Bere questi vini vuol dire trovare la mineralità, la salinità, la verticalità, il corpo. Esperienza. Pura esperienza che ritrovi nel bicchiere anche lontano da qui. Quando sei sull’Etna, al Rifugio Sapienza e fin su ai crateri attraverso la funivia, senti il vulcano sotto di te. Senti la potenza di Iddu, della Montagna. Vedi e tocchi con mano ciò che un gigante può fare senza che l’umo possa opporsi. Quella stessa potenza che trovi nei vini dell’Etna. Mai però ti aspetteresti di trovare qualcosa di altrettanto unico. Così, davvero per caso, trovo un ristorante che mi attrae per il nome: Il Podere dell’Etna segreta. Trovarlo non è semplice. Le strade che da Ragalna dobbiamo percorrere non sono per nulla banali. È quasi notte, perché la notte qui arriva presto. Il tramonto è già alle spalle goduto fino in fondo guardando il mare dalla Montagna. Strette trazzere larghe a malapena per una macchina. Poi il navigatore dice che siamo arrivati. Ma c’è solo un cancello chiuso. Un campanello da suonare e nient’altro. Suono e il cancello si apre. Una strada sterrata (ne sentivamo il bisogno) in completa discesa mette a dura prova l’auto (meno male che è un fuoristrada e al diavolo quelli che dicono che i fuoristrada sono inutili). Alla fine uno spiazzo anticipa una costruzione bassa che sembra un dammuso. L’entrata è stretta e si percorrono con timore piccole stanze che si aprono, alla fine, su un patio. Veniamo accolti in maniera gentile e condotti al tavolo che affaccia su un meraviglioso giardino, una vigna di alberelli che con le luci della notte assume una suggestività incredibile. È davvero un giardino segreto, un sogno che si materializza. Cenare con un tavolo direttamente sulle vigne è un sogno.  Scegliamo il menù degustazione e per il vino aspetto che mi si proponga qualcosa. Producono loro il vino ma non è quello che ti aspetti sull’Etna, dall’Etna.    Le Cùcchie ha una etichetta che svela il significato di questa parola sicula: due volti di donna con i menti in bella vista. Cùcchia vuol dire mento. L’illuminazione minimale del tavolo e la luce della luna che splende esaltano un colore rubino profondo come se arrivasse dalla gola del vulcano. I riflessi granata confermano che il vino ha anni sulle spalle (è del 2018). Il naso è ampio di frutti rossi, ciliegie, fragoline di bosco. Il tarocco siciliano non può mancare in questa terra. C’è il sottobosco, il tabacco e le spezie. Tante spezie La nota ematica chiude il bouquet. Bello, caldo, intenso. Così come il sorso che evidenza il calore del vulcano e la sua mineralità. Morbido, secco, con tannini delicati, quasi eleganti. Una persistenza financo lunga senza mai essere stucchevole, invadente. Insomma un vino che mi conquista specialmente quando lo degusto con il percorso gastronomico che unisce l’estrosità e l’innovatività dello chef ai prodotti dell’orto e di questa meravigliosa terra. Non riesco ad abbinarlo perfettamente con tutti i piatti del menù degustativo. Ma non importa. Non serve. Sorseggiarlo è un piacere. Dinanzi a questo spettacolo, una esperienza. Cosa ha di tanto particolare questo vino?  Il blend. Un blend che non ti aspetti fatto da vitigni piemontesi che mai ti saresti aspettato fossero stati costretti a solcare i mari per essere impiantati sulla terra vulcanica: Barbera e Grignolino in una versione che solo l’ingegno e la follia dell’uomo potevano generare. L’austerità sabauda che si fonde con la Sicilia. Un terreno vulcanico e un impianto ad alberello che mai questi due vitigni avrebbero mai sognato di trovare. Non certo in Piemonte. Eppure da oltre cinquanta anni sono qui. Si sono adattate, fuse tanto da consentire di trovare nel bicchiere i tratti caratteristici dell’Etna.  Un piemontese trapiantato in Sicilia non è più un piemontese specialmente se Iddu, la Montagna, lo accetta come figlio suo e lo trasporta nelle sue viscere. Così le radici della vite scavano nel profondo dove vengono accolte, coccolate, curate da Iddu. Che le nutre fino a che del Piemonte non sentono più la mancanza. Il segreto di un giardino, di un podere, di una cultura, di un vino. Ivan Vellucci @ivan_1969
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7 Ottobre, 2022

Inama: identità e sperimentazione. La nuova faccia del Soave

Sono reduce da una serata in una cantina sfarzosa del Soave. Di quelle molto sbrilluccicanti con il caveu fatto da barrique esposte in bella vista. C’è stata la visita guidata (ero ad una riunione di lavoro) e mi è sembrato di essere in un documentario. Ogni cosa a suo posto. Così troppo a posto tanto che quando ho assaggiato il vino ho capito. Meglio non aver capito mi dico.
Ecco, con questo spirito la mattina mi reco in una cantina di Soave trovata per caso. Inama. “Se mi portano a fare un giro nel caveau, giuro che me ne vado” dico a me stesso. Per fortuna, quando arrivo con la mia auto, capisco subito che sono in un posto diverso. Vero.  Mi accoglie Luca Inama, terzo figlio della terza generazione di vignaioli in quel di Soave. È un po’ diffidente o semplicemente è veneto e per sciogliersi deve sapere chi ha dinanzi. Comprensibile. Ciò che mi piace è che è in abiti da lavoro. Sono nel posto giusto! La prima cosa che fa è prendere una specie di opuscolo della cantina: non il solito opuscolo con i vini e le loro caratteristiche, ma una cartina geografica dove ci sono tutte le vigne Inama dislocate nel territorio. Davvero interessante e particolare. Ciò che balza più agli occhi è che Soave non è il centro del loro mondo. Si, certo, Luca ci tiene a ricordare che tutto è partito da li. Da quei colli di natura vulcanica che videro suo nonno Giuseppe, partito dalla Val di Non con una specializzazione in enologia, impegnarsi nelle cantine della zona fino poi a mettersi in proprio. Prima il nonno, poi il papà Stefano, poi il fratello Matteo, infine lui e il fratello Alessio. Luca è orgoglioso della sua famiglia. È orgoglioso della sua terra. È orgoglioso di ciò che fa. E di come lo fa. Di come la cantina, che un po’ è anche sua, lavora e interpreta i vini. Ecco, interpreta. Perché se c’è una cosa che contraddistingue Inama è proprio il modo di interpretare e sperimentare. Un modo che non accetta compromessi. Ne sconti. Rigore e capacità. Con un po’ di sana testardaggine tipica dei veneti. La cartina che Luca mi mostra reca macchie rossiccie. Sono le vigne che lavorano. Certo c’è il Soave con il monte Foscarino. Ma ci soprattutto i monti Berici dove Carmenere e Merlot la fanno da padrone. Per Inama ovviamente perché i colli Berici hanno radici antiche e sono patria del Tai (anche se nella DOC è comunque previsto il Carmenere e il Merlot). Noto come Luca abbia più propensione per i colli Berici. Mi racconta di come suo nonno sia rimasto stupito proprio dal Carmenere che sui colli Berici ha trovato il modo per sprigionare le note speziate. Un vitigno generalmente comprimario, mai solitario che però, se trattato bene e se ben impiantato, riesce a stupire. In fondo, penso io, il Carmenere ha dovuto difendersi dall’estinzione visto che i francesi di Bordeaux decisero di abbandonarlo per la sua scarsa produttività. Certo, forse Bordeaux non era il l’ideale. Bastava saperlo. O bastava portarlo sui colli Berici. Luca e tutta la cantina credono molto in questo vitigno e non posso certo dargli torto!  Facciamo il giro di rito. Non vedo, perché non ci sono strutture architettoniche predominanti: meno male! C’è sostanza e la si vede da ogni macchinario presente. Da come il processo viene seguito passo dopo passo. Da come le rigide regole dettate dall’amore per la vite e dal rispetto di chi dovrà poi bere il vino sono applicate. La manualità si unisce alla meccanizzazione in un mix ponderato, ricercato, utile. Mai banale. Luca ne parla con consapevolezza. Non sta recitando una parte. È lui stesso la parte. Ha solo trenta anni ma è come se stesse lì da sempre. Come se quella fosse stata la sua stanza dei giochi. Conosce ogni minimo dettaglio e vuole trasmetterlo. La passione si vede da come tocca i macchinari, le botti, i tini. Gli occhi gli brillano e il sorriso, ogni tanto, fa capolino. Quello è il suo di mondo. Finiamo il giro e ci tiene a farmi assaggiare quelli che secondo lui sono i vini rappresentativi della cantina: Carbonare, Foscarino, Vulcaia, Bradisismo. Bei nomi penso.      I primi tre sono bianchi: Carbonare e Foscarino da uve Garganega, Vulcaia da Sauvignon blanc. Prodotti sulle colline del Foscarino, sono davvero delle meravigliose interpretazioni del Soave: si va dalla semplicità del Carbonare al Foscarino che passa in botte; sperimentazione anticonvenzionale (per queste zone) del Sauvignon per il Vulcaia.   Ciò che mi piace di più del Carbonare è la freschezza e sapidità non banale. Molto verticale, diretto. Una lama che ti conquista. Foscarino invece è più ampio, complesso, aristocratico con la frutta tropicale e i fior con il finale mandorlato ma mai invasivo e fastidioso. Occorre aspettarlo ed abbinarlo bene perché impegnativo. Vulcaia ti conquista ancor di più per la sapidità spinta e la complessità dei sentori tropicali, la lunga persistenza. La mineralità dei colli del Soave c’è tutta, esaltata, spinta.  Bel biglietto da visita davvero. Bradisismo è il finale. Un rosso da Carmenere e Cabernet Franc coltivato in quel di Lonigo, sui colli Berici. Intenso, profumato di spezie. Croccante e voluminoso senza stancare. Ampio e di gran respiro. Ma diretto. Preciso. Un gran vino che deriva da vera sperimentazione del territorio con le contaminazioni bordolesi tanto amate dalla cantina. Identitario ma soprattutto pieno di voglia di innovare.  Penso sia ora di prendere del vino per portarlo con me ma Luca mi dice che dobbiamo necessariamente andare alla botte. Ormai è lanciatissimo e ci tiene farmi assaggiare quello che sarà il futuro dell’azienda. Non è un vino ancora pronto ma quando lo spilliamo ne capisco tutta la potenzialità. Il Carmenere qui si sente tutto. Gli aromi escono ancor di più e la verticalità di questo vino mi conquista. Non è piacione. Non è civettuolo. È sostanza. Quella sostanza che i veneti sanno dare senza vantarsene. Almeno con noi! Mi è piaciuta Inama. Mi sono piaciuti i vini e la maniacalità delle scelte che parte dall’esposizione dei terreni, dagli impianti, dalle barbatelle per poi continuare in cantina. Nel rispetto del singolo acino. C’è amore qui e c’è tanta consapevolezza. Quasi arroganza tutta tipica dei veneti. Ma una arroganza positiva perché mai ostentata, mai portata sugli scudi. C’è sostanza in questa arroganza. C’è consapevolezza di quanto e di come si fa. C’è la voglia di confrontarsi con la modernità, con le migliori esperienza francesi. Me lo conferma Luca quando ci tiene a dirmi che non gli interessano le denominazioni, le etichette. Ma ciò che riescono a produrre. Inama sperimenta e realizza prodotti che hanno una fisionomia ben precisa. Una identità che non rinnega le origini ma porta la sperimentazione e la contaminazione bordolese a distinguersi in un territorio che, spesso, non ha avuto la capacità di rendersi visibile al mondo. In un territorio dove i sacri mostri limitrofi in termini di qualità e storia (Amarone) e quantità (Prosecco) schiacciano tutto ciò che incontrano, distinguersi e sperimentare in maniera identitaria, forse, è davvero l’unica possibilità di crescere.  Bravi! Ivan Vellucci @ivan_1969
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30 Settembre, 2022

Ah le cantine sociali di una volta: la Cantina Sociale di Nardò

Ah le cantine sociali di una volta. Che meraviglia. Quanto lavoro, quanta passione c’era in questi luoghi. Persone, agricoltori, che conferivano l’uva alla loro cantina, alla cantina sociale per produrre vino sincero, vero. Un luogo di aggregazione dove il vino era la ragione di unione, di sopravvivenza, di vita. Già nel 1891 a Oleggio (NO) si crea la prima struttura che viene seguita nel tempo da molte altre che svolgono anche funzione sociale. Nel dopoguerra sono spesso le artefici del mantenimento della cultura enologica e a loro si dive il risorgimento di alcuni distretti vinicoli d’Italia.  Quello di Nardò è uno di questi grazie alla Cantina Sociale di Nardò fondata nel 1937 Per trovarla ho dovuto chiedere una grande mano al navigatore. Anche se poi bastava trovare la stazione ferroviaria. Perché qui al sud, i trasporti sono complicati e costruire la cantina sociale proprio nei pressi della stazione poteva rivelarsi una mossa vincente.  Siamo a Nardò, nel profondo Salento. Dove il mare incontra la terra rossa carica di ferro e alluminio che il sole non fa fatica a scaldare. Tra muretti a secco e olivi secolari trovano posto, pochi davvero pochi, filari di uva. Così come pochi sono i produttori, dunque le cantine. Da qui la necessità di qualcosa di “sociale”. Non ci sono fronzoli ad attendermi ma una semplice costruzione tipica delle cantine sociali: un ampio cortile utile per la manovra dei mezzi, una piccola porta per gli uffici, un magazzino. Semplice e funzionale perché una cantina sociale deve avere solo l’essenziale: costi ridotti all’osso. Deve essere un luogo dove si produce vino lasciando le emozioni all’effimero.    Eppure nel vedere questa struttura mi emoziono davvero perché i ricordi corrono a quando papà mi portava con lui a comprare il vino. Non certo in bottiglie ma nelle classiche damigiane che dovevano essere riutilizzate. Le bottiglie erano cose per ricchi. Dopo le damigiane in vetro sono arrivate quelle in plastica ma sempre per poterle riempire direttamente spillando la grande botte. Si è persa un po’ di magia che magari ritorna. Papà fino all’ultimo sempre quelle ha voluto. Gli portavo qualche bottiglia di quelle buone ma lui, niente, voleva solo il vino della sua damigiana. Così dovevo andare a prendergli quella. Alla cantina sociale.  Chi mi accoglie è Carmen. Piccola, minuta, dalla pelle olivastra come una donna del sud deve avere. Energica e fiera. Come una donna del sud deve essere. Con un sorriso che ti mette subito a tuo agio. Come solo una donna del sud sa fare.    Mi guida all’interno della cantina tra le barrique (non si fa dunque solo vinello qui!), i contenitori in acciaio per la temperatura controllata e le grandi vasche in cemento. Sono sconfinate e ce ne sono altrettante anche al piano interrato mi dice Carmen, quasi a sottolineare come nel passato “quando ancora non ero nata” si affetta a sottolineare, la cantina era molto più importante. Oggi ci sono circa 25 conferitori per un totale di 48 ettari. Non molti ma di qualità.    Saliamo delle scale dove fanno bella mostra le immagini di una vita. Una ritrae perfino il Presidente Cossiga in visita alla cantina. In cima c’è la “sala del consiglio” ennesimo testimone di un fasto che fu. Carmen prova quasi invidia per quei tempi così diversi segno di grande ricchezza. Ma non si lamenta e non lo dà certo a vedere. Dal terrazzo la vista è ancora più suggestiva con la grande presa per l’uva, il cortile immenso, la stazione ferroviaria. Sembra vedere una di quelle foto degli anni a cavallo della guerra, un fotogramma che sembra aver resistito al tempo.  È tempo di provare qualche vino.     Nel piccolo ufficietto che accoglie i clienti le bottiglie sono messe su semplici scaffali in legno. Anche qui, niente fronzoli. Però c’è una specie di bancone da bar con i calici per la degustazione. Essenziale. Che bello penso: qui c’è il vino. Qui c’è la passione e la vita delle persone. Scorro gli scaffali e non posso che pensare come sia bella la loro produzione di tipico stampo salentino con solo tre, meravigliosi, vitigni: il Fiano per i bianchi; Negroamaro e Primitivo per Rossi e rosati. 8 tipologie di vino incluse anche linee di low cost per la Coop. Perfetto stile da cantina sociale.    Carmen è da sola a gestire i clienti oggi. Non entrano in molti e quelli che entrano sono spesso per la mescita, per riempire le damigiane. Ci tiene a farmi assaggiare qualcosa. Opto per il rosato Ambré. Bel corpo, odori deciso del Negroamaro, arancia sanguinella, fragoline. Bella freschezza e sapidità. Un ottimo equilibrio. Mi piace.  Prende dei taralli perché non è che si può bere il vino senza taralli. Pugliesi.  Scelgo le bottiglie da acquistare. Tutte tranne il bianco. Forse perché mi dico che il Fiano che ho da poco assaggiato in Irpinia non si batte.  Carmen però ci tiene, e lo dimostra con tutta la sua dolcezza, a farmi assaggiare il loro Fiano. Fa bene perché ne sono rapito. Fresco e profumato di frutta e fiori bianchi da farmi ricordare le serate al mare. Bell’equilibrio e spiccata sapidità. Mi chiede su cosa lo abbinerei e nella mente mi ritorna immediata la mozzarella di bufala. Sorridiamo del fatto che in una recente discussione qualcuno ha suggerito l’abbinamento con un cannolo con ricotta poco dolce. A trovarlo penso io!  Ridiamo ma è giunto il momento di andare via. È stata una bellissima chiaccherata che mi ha fatto scoprire una bella realtà del sud e una ragazza davvero in gamba come Carmen. Ma ha fatto anche riaffiorare alla memoria mio papà. Non posso che esserne contento.   La Cantina Sociale di Nardò è una di quelle realtà che dovrebbero essere tutelate per Regio Decreto ovvero quelle leggi così antiche che quando ci sono, da tempo immemore, pochi ne conoscono l’esistenza e nessuno si azzarda a cambiarle. Con il risultato che non è permesso il cambiamento. Ecco, questa cantina dovrebbe essere protetta da un Regio Decreto nonché lo stabile dalle Belle Arti per evitare che a qualche buontempone venga in mente di rinnovarlo.  Ivan Vellucci @ivan_1969 PS ovviamente non ho resistito a testare in maniera completa un vino della Cantina Sociale e non potevo non cominciare dal Fiano che mi aveva tanto sorpreso. La recensione completa a questo link!    https://youtu.be/RakajXgmc-E
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