Suggestioni di Vino

Suggestioni di Vino è la rubrica che racconta le persone del vino. Della loro storia, dell’amore, della passione che inoculano nel vino. Perché il vino è materia viva e le persone ne sono il nutrimento.

Le incursioni enoiche di Ivan Vellucci, ingegnere e manager per dovere, ma soprattutto Sommelier raccontano con passione e trasporto, territori e produttori d’eccezione.
Ivan ci porta a conoscere realtà prima di tutto umane, dove il sorriso e l’ospitalità dei vignaioli sono lo specchio dei vini che producono. La rubrica Suggestioni di Vino propone ogni settimana  suggestive esplorazioni e scoperte enologiche, narrate con trasporto e partecipazione. Al lettore parrà di accompagnare Ivan in queste visite speciali e sarà stimolato a fare lo stesso: vivere il mondo del vino come un bambino, con lo stupore negli occhi e la magia nel bicchiere.

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24 Febbraio, 2023

Cantina Andrian e la prospettiva del vino

Cantina Andrian e la prospettiva del vino Ricordate il film “L’attimo fuggente” quando il professor John Keating interpretato da Robin Williams sale sulla cattedra? Ecco, spiegava la prospettiva così: “Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un’altra prospettiva. La prospettiva insegna che a seconda da dove si guarda qualcosa, si ottengono visioni diverse. Prospettive diverse. Ecco, l’Alto Adige è proprio una regione in prospettiva. Già, perché in Italia la chiamiamo Alto Adige in quanto regione più a nord. In Austria invece Süd Tirol, perché la regione più a sud. Dell’Austria. Così che per noi è una regione votata ai vini bianchi, per gli austriaci ai vini rossi. Il gioco della prospettiva. Mettetela come vi pare ma, alla fine, questa regione è così particolare da rendersi idonea sia ai bianchi sia ai rossi. Anche se con un problemino mica da ridere: circa 5600 ettari vitati per 5000 produttori. Il contadino qui può fare il suo vino ma non può vivere dal vino Già, perché qui, in Alto Adige (Süd Tirol) non è che chi lavora la terra faccia solo quello. E visto che qui ci sono tutte persone dotate di grande intelligenza c’è voluto un attimo per capire che solo insieme si vince. Come? Semplicemente associandosi nelle così tanto bistrattate cantine sociali. Mica quelle che pensiamo noi dunque. Qui si parla di luoghi meravigliosi, strutture imponenti, persone competenti. Tutte vocate allo sviluppo. Cantina (Kellerei) Andriano (Andrian) è la cantina cooperativa più storica dell’Alto Adige (Süd Tirol) fondata 25 aprile 1893 da 31 contadini nell’omonimo paesino di Andrian a pochi passi da Bolzano (Bozen) sulla riva sinistra dall’Adige (Etsch). Ne parlo con Alexandra Erlacher, che nella cantina cooperativa si occupa di Sales e Marketing. La cosa che più mi colpisce di Alexandra è la sua dolcezza unita alla forza. Non solo parla della cantina e dei vini con competenza e ammirevole passione, ma usa una dolcezza che, alla fine, non può che fartene innamorare. Della cantina eh! In Alto Adige il sistema delle cooperative funziona molto bene.  La cantina Andrian era molto conosciuta soprattutto per i vini rossi. Partecipava a tutte le fiere. In Austria dicevano che stavano al sud del Brennero Tempi d’oro quelli. Anche se tempi nei quali la cantina era apprezzata più all’estero che in Italia. principalmente per i vini rossi. Poi si sono accorti che era anche terra di vini bianchi Anche in Alto Adige (Süd Tirol) le cose non è che vadano sempre per il verso giusto. Investimenti sbagliati. Decisioni sbagliate. Così che la prima cooperativa dell’Alto Adige (Süd Tirol) è entrata in difficoltà. Ma proprio perché siamo in Alto Adige (Süd Tirol) le persone non si piangono addosso e cercano la soluzione. Non dando la colpa alla cooperativa. Ha avuto bisogno di un’altra cantina per lavorare Per trovare una cantina con la quale lavorare non è che poi si sia dovuto andare tanto lontano. Il paese di Andrian è proprio difronte a quello di Terlano, giusto aldilà dell’Adige (Etsch) ovvero sulla sponda destra. I due paesi si stanno guardando A Terlano sorge l’omonima cantina. Sociale. Nel 2008 avviene la fusione tra le due con la decisione di salvaguardare le diverse identità: una unica azienda con due marchi separati. La cantina che ne scaturisce unisce i 60 soci di Andrian ai 143 di Terlano; gli 80 ettari di Andrian ai 190 di Terlano. Ma guai a unirli come identità. Certo, grandi sinergie. Come l’unico enologo Rudi Kofler e unico agronomo. Ma sempre e comunque due identità Una azienda con due anime sotto un tetto Alexandra è romantica. Conia questa definizione perché lei è innamorata della Andrian e dei suoi vini. La voglia di mantenere una identità, anzi due, è forte. Per preservare il terroir diverso e perché ogni marchio uno stile diverso Quanta è strana e meravigliosa la natura. Pochi metri di distanza. Un fiume, nemmeno tanto grande, a separare e i terreni diventano profondamente diversi. Terlano con porfido quarzifero (origine vulcanico): pochi nutrienti ma molto minerale. Andrian con roccia calcarea. Ad Andrian il sole c’è la mattina fino a quando non sparisce dietro il monte Gant: 2000 metri di roccia calcarea, argilla e pietre di dolomia. A Terlano il sole rimane fino a sera riscaldando il terreno così che durante la notte il calore possa essere rilasciato. Ad Andrian lo sviluppo delle piante è dietro di 10/15 giorni rispetto a Terlano Per mantenere due identità però serve tanto lavoro e soprattutto tanto supporto. Non tutti i contadini sono contadini. Lavorano in altri settori. Dai 2000 metri agli 11 ettari. I nostri contadini hanno bisogno di aiuto Eccola la grandezza e il pragmatismo. La squadra vera. Supporto ai contadini per tutto ciò che concerne la vigna. Ma anche poi premio al merito. Perché il lavoro, quello buono, non solo va premiato ma anche retribuito. Così che c’è un voto ovvero un punteggio al lavoro svolto in vigna e c’è il voto all’uva. Utile per determinare un prezzo diverso per contadino. Voto alto, ovvero impegno e investimento, retribuzione dell’uva alta. Con questo sistema riusciamo a portare qualità nella bottiglia E che vini! Ci sono interpretazioni del territorio con il Lagrein e la Schiava, il Gewurztraminer e il Muller Turgau; internazionali (ma manco tanto per queste zone) Merlot, Pinot Noir, Sauvignon Blanc, Chardonnay e Pinot Blanc. Pinot Noir, Merlot, Lagrein, Sauvignon Blanc e Chardonnay anche in versione “selezione” per grandi affinamenti in legno. Il comune di Andrian non potrebbe contenere le vigne di tutti i soci così che risultano sparse nel territorio. Non poprio a distanza breve. La vinificazione però, avviene insieme, a Terlano. Per entrambe le cantine. Sinergie. Intelligenza. Per chi ama il vino sa che l’Alto Adige (Süd Tirol) è sì famosa (in Italia) per i vini bianchi ma anche per i rossi come il Pinot Noir che qui, ha raggiunto livelli altissimi. Allora sfido Alexandra chiedendole proprio del loro Pinot Noir e di come in Alto Adige (Süd Tirol) la zona di Mazzon sia diventata un punto di riferimento per questo vitigno. Abbiamo una vigna singola vicino Mazzon, un ettaro di un socio storico dal quale produciamo (sole 4500 bottiglie) Anrar che nel 2022 ha vinto il concorso come miglior Pinot Noir d’Italia Toh, Alexandra ha messo a segno un altro punto. Dovrebbe far riflettere questa cosa quando si pensa che le cantine sociali, le cooperative, non custodiscano in sé eccellenze. Chi ha una vigna a Mazzon avrebbe da che mettersi in proprio o venderla guadagnando cifre per garantirsi la pensione. Invece no. Conferisce le uve alla cantina sociale. Lealtà, attaccamento, qualità. Tra le due cantine unite in cooperativa, non c’è competizione (io già me le immaginavo in una disfida a remi tipo Oxford e Cambridge sulle acque dell’Adige) semmai completamento. Come ad esempio sui Sauvignon Blanc. Quello di Terlano è sempre esaurito ma quello di Andrian è un’altra stilistica che va complemento: più pronto per Andrian, più complesso per Terlano Ho avuto modo di assaggiare e recensire sia il Gant 2019 di Andrian, fantastico Merlot 2019 sia il Vorberg Riserva 2020 di Terlano raffinato Pinot Bianco. Entrambi superlativi. Entrambi con una precisa identità. Come le due cantine. Le due recensioni sono cliccando qui: Gant e Vorberg. La chiaccherata volge al termine e Alexandra mi stupisce ancora quando le chiedo come si senta a lavorare qui. Posso dare un contributo alla crescita di questo marchio del quale io personalmente sono molto convinta. Ciò che mi piace di più è andare in giro ed incontrare le persone. Anche se io posso raccontare tante cose sul vino ma alla fine è il vino stesso che sa raccontare di più La prospettiva di crescita. Che poi altro non è che vedere le cose in maniera diversa rispetto agli altri. Guardare lontano con la voglia di essere partecipi di ciò che si è intravisto. È proprio vero che dietro ogni vino c’è una storia. Ma è altrettanto vero che dietro ogni vino ci sono tante persone speciali. Come Alexandra.   Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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17 Febbraio, 2023

I Fenicotteri e l'aerale del futuro

I Fenicotteri e l’aerale del futuro Nel 2009 l’allora ministro dell’economia Tommaso Padoa-Schioppa, definì “bamboccioni” una generazione di giovani pigri che non volevano fare nulla. Figuriamoci lavorare e staccarsi dalla propria famiglia. Oggi invece si parla di reddito di cittadinanza e di chi, pur potendolo, non vuole lavorare puntando al sussidio. Il concetto non cambia. 31 anni possono essere tanti o pochi. Ma è l’età giusta per essere definiti “bamboccione”. Ecco, ora prendete tutto quello che ha rappresentato il preambolo dell’articolo e pensate all’esatto opposto. Anthony Poli è l’esatto opposto di un bamboccione. Non so quale sia il termine giusto per definirlo, ma Anthony potrebbe esserne il prototipo. Di questo opposto. La sua, in fondo, è la storia semplice di un ragazzo con una passione: la terra. È anche vero che per coltivarla la terra devi avercela. Altrimenti sei un semplice contadino. Ma Anthony è anche un contadino. Uno di quelli che non si stanca nel fare le cose. Lavoro tanto ma quello che faccio mi piace. Se devo scegliere tra andare in giro o andare a potare, scelgo di andare a potare Anthony viene da una famiglia che lo ha fatto crescere a pane e piante. Con il papà giardiniere, agricoltore insomma: le mani bene immerse nella terra. Una passione già presente da piccolo Quando sarò grande avrò almeno 100 ettari di terra Così diceva Anthony in tenera età Proprio grazie al papà che Anthony conosce Claudio, la di lui moglie Giovanna, i figli Andrea e Flavia da poco in quel di Monte Castello di Vibio. Viene accolto in casa come se fosse un figlio. Il terzo figlio. Fa parte della famiglia e come tale viene trattato. Guarda, visto che hai questa passione e per me sei come un terzo figlio, vai in giro, cerca terra e facciamo una azienda agricola Forse, questa è stata la vera unica fortuna di Anthony. Tutto il resto, è solo determinazione, passione, romanticismo. Senza dimenticare però il sostegno. Quello del papà, di Claudio, di Giovanna. Persone capaci di sostenere e alimentare il sogno di Anthony. Alimentarlo senza mai interrompere il flusso di positività. Romanticismo dicevamo. Perché quando un ragazzo intraprende gli studi, capisce di aver sbagliato strada sentendo forte il richiamo della terra e ha la forza di cambiare facoltà e ricominciare, allora siamo in presenza di qualcosa di più di un amore. Questo è romanticismo. Anthony è così. Torna indietro, studia agraria e inizia a lavorare. Con le sue mani. Con la sua forza. Senza fermarsi un attimo. Faccio tutto io. Papà mi dà una grossissima mano La manodopera solo per la raccolta. Dell’uva e delle olive. Fa pure da consulente ad altre aziende come agronomo e ha una ditta di giardinaggio.   Metodo. Forza. Fatica. Dentro e fuori la cantina. Dentro e fuori i terreni. Serve metodo e organizzazione. Il lunedi cantina. La vendemmia? Esiste solo quello. Una agenda ben definita. Senza sgarrare. In tanti dicono che non c’è lavoro. Ma ce ne è in avanzo. Occorre avere solo la forza e la voglia. Bamboccione? Proprio no. Claudio gli lascia corda libera su tutto. Partecipa come persona molto modesta. “facciamo insieme” dice. È un investitore spettatore. Non chiede numeri. Non vuole il risultato. Gli piace il progetto e si fida di Anthony. Già il progetto. Anthony è ambizioso ma di quella ambizione sana. Senza spocchia. Fatta solo di duro lavoro. Di rinunce. Di fatica. Animata dalla passione per ciò che si fa. Voglia di vivere a contatto con la terra sentendone il ritmo, accarezzando i cicli vitali, osservando la bellezza del crescere qualcosa che hai impiantato. Il romanticismo. Nel 2014 Claudio fonda l’azienda I Fenicotteri dove lavora un po’ tutta la famiglia: Andrea si occupa delle consegne e della parte amministrativa, Flavia della comunicazione, Giovanna delle etichette e della accoglienza. 160 ettari con 10 ettari di vigna e oltre 2500 olivi non sono pochi da gestire. Specialmente per un ragazzo come Anthony. Ma ci si butta anima e soprattutto corpo. Lavoro, lavoro, lavoro. Nel 2017 mi sono sentito abbastanza grande per produrre vino Bamboccione? No, consapevolezza. Così, grazie anche al supporto tecnico di Roberto, enologo, con pochi attrezzi e tanta passione sono nati i primi vini. Consapevolezza. Consapevolezza di essere in una zona con ottimo potenziale in grado di produrre prodotti di alto livello. In effetti siamo in Umbria, a Monte Castello di Vibio, poco lontani dalla più rinomata Monfefalco. Una zona dove vitigni autoctoni ma anche alloctoni stanno contribuendo a rendere grande una regione così piccola. Qui, già nel 2002 Claudio aveva impiantato Merlot e Sagrantino, Trebbiano spoletino nel 2011. Altre vigne acquisite da poco. Proprio parlando di queste ultime Anthony mi stupisce. La gente vede un masso da tirare. Io vedo tanto potenziale. È vero che è vecchia e produce poco ma può fare la differenza. Bamboccione? No, visione. C’è nelle parole di Anthony la schiettezza di un ragazzo, la maturità di un uomo, la visione di saggio. Quando parla delle piante, dei trattamenti, dei cicli vitali, della raccolta, non parla di “cose”. Parla di esseri viventi che hanno bisogno di attenzione, cura. Una attività maniacale che lui fa da solo aiutato solo dal papà. Senza usare la chimica. “Essere tecnicamente più avanzati e non far fare alla chimica. Perché se ti affidi alla chimica, questa fa da sola” Poi, come se la giornata fosse fatta da più di ventiquattro ore, si occupa anche degli ulivi. Che tratta al pari della vigna. Non se la prende con le persone che gli danno del matto. Ha rispetto degli altri. Ma nel tempo ha visto che il suo lavoro ha dato frutti e che chi lo denigrava, adesso, viene ad interessarsi dei suoi metodi. Una bella rivincita. Ama il suo lavoro. Ama la sua terra. Ma ancor di più ama Monte Castello di Vibio. La sua casa. Nei suoi sogni è far diventare Montecastello di Vivio un areale famoso come Montalcino. Ci crede. Ci crede davvero. Bamboccione? No, romantico. Per quello che ho in testa non abbiamo ancora fatto nulla E con i piedi ben piantati per terra. Non vuole superare le 20000 bottiglie Assaggiamo un paio di vini con la convinzione di Anthony che Il vino buono lo fanno in tanti. La storia è solo la mia Bamboccione? No, saggezza. Il primo è il Vibio (onore al paesino) da Trebbiano Spoletino coltivato in circa due ettari e mezzo per sole 2000 bottiglie (il resto dell’uva venduto a privati e alle cantine sociali). È un 2020. Ancora giovane. Semplice e ben centrato. Tanti fiori al naso insieme a bella frutta non matura. Poi fieno, Sentori semplici e puliti che tornano al sorso che si presenta secco, fresco, caldo, leggermente sapido. Buona la persistenza. Lo immagino perfetto per un aperitivo o un bel pesce al sale. Convincente per la sua linearità. Verticale ma con tendenza ad allargarsi sul finale che comunque è pulito senza virare sull’amarognolo. Poi il Sagramerlo 2019, blend di Sagrantino e Merlot (recensito su @ivan_1969, qui il link) Bel colore rubino di grande limpidezza. 12 mesi di botte al sesto passaggio (parte in barrique parte in tonneau). Subito evidenti i fiori, la frutta, il sottobosco. Tutti sentori non propriamente dolci anzi, ancora acerbi. In fondo c’è l’anima del Sagrantino che, essendo del 2019, è ancora un lattante. Infatti il tannino risulta ancora aggressivo ma con una rotondità sottesa che c’è tutta. Tra un anno e mezzo sarà spettacolare ma funziona benissimo anche così. Un vino da bere subito la prima bottiglia; conservare la seconda per almeno due anni. I vini mi hanno convinto. Porto con me il Merlot e il Crasi, un Pinot Bianco che è maturato in botte per dieci mesi. Così come porto con me la certezza che questo ragazzo, e l’azienda intera, farà strada. L’augurio è che riesca, insieme a tutta la sua famiglia (allargata) a realizzare il sogno per Monte Castello di Vibio e il suo areale. Ora, dopo tutto questo, uno si chiederà: ma che diavolo c’entrano i fenicotteri? Giovanna, la moglie di Claudio amava i fenicotteri che vedeva sempre nel giardino di una villa vicino Milano. Cosi, quando hanno comprato l’azienda agricola non potendo metterci i fenicotteri, Claudio ha deciso di chiamarla così. Se non è amore questo!   Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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10 Febbraio, 2023

Cantina Gualtieri e l'uva Fogarina

Cantina Gualtieri e l’uva Fogarina O com’è bella l’uva fogarina!
O com’è bello saperla vendemmiar
E far l’amor con la mia bella!
E far l’amore in mezzo ai prà! Diridin din din!
Diridin din din! Ora non mi prendete per matto, ma per leggere questo articolo bisognerebbe avere in mente la canzone che parla dell’uva Fogarina. Perché? Semplicemente perché se si vuole capire l’Emilia Romagna, quella della cultura gastronomica legata ai prodotti della tradizione, quella dove si mangia e si balla al ritmo delle fisarmoniche; quella dove il vino deve essere genuino, sincero, brioso e che accompagna tutto il pasto, allora quella canzone fa proprio al caso nostro. Ma nono solo per quello. Siamo a Gualtieri. Piccolo paesino in provincia di Reggio Emilia dalla quale dista poco più di 30 km. Ma dista 30 km pure da Parma. Poco più di 30 da Modena. E stessa distanza da Mantova. Insomma, siamo nel bel mezzo del Lambrusco. È qui che nasce, nel 1958, la Cantina Sociale di Gualtieri. 160 soci, 50.000 quintali di uva prodotta, circa 250 ettari vitati (due terzi a Reggio Emilia, un terzo a Mantova). Meraviglioso esempio di cantina sociale che ha resistito al tempo e alla politica.     La nostra sociale è una sociale dove la politica non si è mai toccata. Nasce come una sociale della Democrazia Cristiana in una zona dove erano tutti comunisti. Non si attaccava con nessuno. Questo uno dei motivi per cui è crescita per conto suo Chi mi parla è Giacomo Formigoni, Responsabile commerciale della cantina. Uno che ha sposato la causa del Lambrusco. Una persona che parla con pacatezza di un prodotto che meriterebbe di uscire dai luoghi comuni e spostarsi su palcoscenici diversi. Perché qui, in Emilia, i terreni sono fertili con matrice di argilla e sabbia e producono tanto. Ma produrre tanto non vuol dire e non deve dire meno qualità. Qui le persone vivono per rendere eccellenti i prodotti che hanno a disposizione. Vivono, studiano, si impegnano. Così tanto che sono anche disposte a scommetterci. Perché una cantina sociale si basa sulla scommessa di tutti. Sul lavoro di ogni singolo socio che viene pagato in funzione della qualità che produce. Questa è la filosofia della Cantina Gualtieri. C’è poco da scherzare. Anche se poi il Lambrusco invita all’allegria. Per produrlo, metodo, qualità, rigore. Quando poi a tirare le fila c’è una donna, Laura, allora tutti devono filare diritti. È un generale che tira le orecchie anche a me che faccio il commerciale La loda perché è brava Laura. Enologa. 38 anni, due figli. Unica donna che gestisce la cantina nel panorama delle cantine sociali. Ha una attenzione particolare. Ma soprattutto ordine e disciplina. Mica semplice per una cantina che è a filiera interna che produce 3 milioni di bottiglie l’anno. Una vera industria che si basa sul lavoro di tanti piccoli agricoltori tutti legati dalla maniacalità della ricerca di qualità. Da portare in bottiglia. Da portare sulle tavole. In fondo, sono loro i primi che consumano! Fare vino senza difetti è alla portata di molte cantine. Farlo invece salubre, sano e con una filiera intera, in modo corretto e migliore, è difficile Insomma, oltre a voler vendere un prodotto eccellente come lo sono tutti i prodotti emiliani deve pure essere salubre visto che le quantità che si bevono solo belle elevate! Il lambrusco è uno dei vini più venduti in Italia ma credo che una buona parte si fermi qui. Sarà perché si sposa perfettamente con i piatti di queste zone o perché gli stereotipi sono molti. O com’è bella l’uva fogarina! Certo, mettere d’accordo 160 soci non deve essere affatto semplice. Anche in questo ordine, disciplina, processi. E Laura. Se Laura dice una cosa da un punto di vista tecnico, il socio deve fare un passo indietro Ognuno ha i suoi compiti insomma e con l’obiettivo di portare valore in bottiglia lavorando accuratamente dal grappolo alla bottiglia. Prima la vendemmia dove si fa la divisione per uvaggio. Poi, da gennaio la produzione in cantina. Serve una produzione fresca perché il lambrusco deve essere così, immediato Chi l’ha detto poi che il lambrusco è dolce? Non lo deve essere per niente. Secco. Perché solo così si abbina alla tradizione emiliana. Il modo migliore per capirlo è assaggiarlo. Così inizia un vero e proprio viaggio tra i prodotti della Cantina Gualtieri. O com’è bella l’uva fogarina!
O com’è bello saperla vendemmiar
E far l’amor con la mia bella!
E far l’amore in mezzo ai prà! Diridin din din!
Diridin din din! Ecco, qui riparte la canzone. Perché da questo punto in poi inizio ad inebriarmi di ben sei prodotti che meriterebbero di essere bevuti per intero (a quel punto avrei cantato io a squarciagola però). Sei tipologie di lambrusco che sono un emblema del bere bene e sano. In compagnia. Il vino è convivialità, è allegria. È mangiare con le persone cui si vuole bene ridendo e scherzando. Cantando e ballando senza aver paura di sbagliare le parole. Non sempre un vino deve essere da meditazione. Non sempre dobbiamo far ricorso alle doti divinatorie e alle conoscenze enologiche. Alle volte, è bene lasciarsi andare e cantare l’uva fogarina. Il viaggio inizia con il Lia. Un vino che nasce da un nostro socio che eredita la vigna dal nonno e porta tutto in biologico con uvaggio Oliva al 100%. Bassa produzione per ettaro e poco colore. Per questo è un vitigno che si stava perdendo. L’etichetta poi, come tutte le altre, è tratta da un quadro di Antonio Ligabue perché era di Gualtieri Sicuramente non ha il colore impenetrabile del lambrusco poiché è rosa antico che da sull’aranciato. Luminoso. Bel calice a vedersi e che, soprattutto, non ti aspetti. Al naso ha un sentore che mi ricorda tanto il siero di mozzarella di bufala e il pane cafone che andavo a comprare con mio nonno. Poi emerge la pesca e la ciliegia. In bocca è secco, con giusta freschezza. Scorre benissimo grazie ad una verticalità che tende quindi ad aprirsi. In bocca ritrovo frutta, stavolta bella albicocca. Bassa persistenza ma va bene così. Sembra una visione femminile del lambrusco: è più fine. C’è lo zampino di Laura suppongo. Me lo immagino abbinarsi perfettamente con un antipasto emiliano a base di salumi, parmigiano e gnocco fritto. Il secondo assaggio è una Fogarina frizzante. È un semi secco per contrastare la sua devastante acidità. Importantissima la temperatura di servizio tra 8 e 10 gradi per evitare di far propendere il grado zuccherino. In etichetta la torre dell’orologio di Gualtieri a ricordare che è qui e solo qui che si fa. Dal 2017, quando è stata ripresa dopo un periodo di abbandono per via della sua indomabile acidità. Nel bicchiere c’è un bel colore rosato che vira ogni tanto verso il rubino. La fragolina emerge piacevolissima al naso. Una vera chicca da 9000 bottiglie all’anno Secco, diretto, piacione ma non ruffiano. Stupisce e stupisce molto. Uno di quei vini che una volta assaggiato berresti a taniche. Il frizzante di Fogarina è un bastardo. Perché apri la bottiglia e la finisci È proprio vero. Mi immagino questo vino in estate. Può fare solo danni vista la sua estrema bevibilità. Soprattutto, una volta che lo bevi, te lo ricordi. Mi esalta. Anche qui a mano di Laura. La recensione sul mio blog Instagram @ivan_1969. Come si fa a non cantare la canzoncina qui??? O com’è bella l’uva fogarina!
O com’è bello saperla vendemmiar
E far l’amor con la mia bella!
E far l’amore in mezzo ai prà! Andiamo oltre ma rimaniamo sulla Fogarina. Stavolta Spumante brut con metodo Martinotti lungo di 4 mesi in autoclave. C’è il rosato di Fogarina ed è bello accesso. C’è la luminosità e si sente che ha fatto maggiore affinamento. C’è la fragolina ma risulta meno ruffiano del frizzante. Si alza certamente il livello ed è bello vedere come il prodotto cambi totalmente a parità di uvaggio. Questo è più aristocratico ed elegante del precedente che risulta invece molto più immediato. Questo va capito. È il vestito bello della Fogarina. Ora ci attendono tre lambruschi di quelli scuri e Giacomo si lancia prima in un bel preambolo su quella che è la filosofia del Lambrusco. Lo ascolto con grande interesse perché sa portare per mano. Mi sembra di essere un bambino che assiste ad una spiegazione in un museo. A Reggio Emilia il lambrusco è rubino con una spuma rosea; a Parma è molto scuro e morbido; a Modena è molto secco; a Mantova colori scurissimi e gusti decisi, importanti Il primo è il Lambrusco Reggiano Il Ligabue. Mix di uve di Reggio Emilia Salamino e Maestri. Nel calice trovo una bolla fine con bella spuma. Rubino profondo. Rispettano il frizzante tipico nostro perché le persone a tavola bevono molto. Dall’antipasto al primo al secondo due tre calici li fai. Non deve essere invadente Ecco, quando metti nel calice un Lambrusco come questo che emana odori a profusione: non puoi non tuffartici dentro. Non puoi non berlo subito. Il sorso restituisce una bella pulizia di bocca. C’è un equilibrio perfetto e la persistenza diventa più ampia dei precedenti. Il retrogusto non può che essere della visciola non ancora matura. È secco e fresco e del dolciastro che c’è nell’immaginario collettivo, qui non ve ne è nemmeno l’ombra. Lo bevi senza soluzione di continuità. Sono sicuro che con il parmigiano va da Dio. L’obiettivo che ha il lambrusco sulla tavola è che deve finire la bottiglia. Deve sposare il pasto Me lo finirei io questo altrochè. Andiamo sul Lambrusco Reggiano Bucciamara. È un lambrusco che non è un lambrusco 40% Maestri, 60% Ancellotta. Una uva questa dalla polpa rossa che si usava e si usa per dare colore agli altri vini. È proprio una macchia di colore. Di quelle che se ti va sulla camicia la puoi anche buttare. La camicia intendo. C’è nel calice il profumo della mora, dei frutti di bosco, della polvere da sparo e un piccolo sentore di selvatico. Un vino che mastichi. È ampio, profondo con una persistenza che si incrementa e di molto. Qui c’è anche un tocco di sapidità. Chiudiamo con Lambrusco Mantovano Il Ferrante. Le uve mantovane come Ancellotta, Viadanese, Oliva e Maestri danno molto colore. Un colore meraviglioso che rende la spuma più ampia del Bucciamara. I sentori sono ancora più definiti con il selvatico che rimane. L’acidità è più marcata. La bolla fine senza essere invadente. Secco e duro. Deciso e determinato così da sposarsi perfettamente con cucina mantovana che è a base dolce (tortello di zucca). Insomma non posso che ringraziare Giacomo per avermi guidato per questo superlativo viaggio in Emilia. È stato un crescendo di emozioni e sensazioni. Uniche. Finalmente ho dato un volto ad una canzone ma per quanto ho bevuto, non mi resta che cantarla! O com’è bella l’uva fogarina!
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3 Febbraio, 2023

Coos, raccontare la famiglia mettendoci la faccia

Coos, raccontare la famiglia mettendoci la faccia Quando si produce vino, quando si deve gestire una azienda e se ne deve promuovere lo sviluppo, può capitare che proprio lo sviluppo non rientri più nelle filosofie che ne hanno dettato la nascita. Capita. Lo sviluppo è un po’ come far crescere una pianta. Serve cura. Serve amore. In un mondo come il nostro servono anche i mezzi economici. Tutto fila liscio fino a quando proprio quella filosofia che ne ha dettato la nascita, viene meno. Almeno nell’animo di chi l’ha fondata. Coos. Coos è una delle famiglie storiche del Ramandolo, vino storico dei Colli Orientali del Friuli. Una famiglia che da sei generazione produce vino in quel di Nimis (Udine). Dario è la quinta generazione. Alessandro la sesta. Padre e figlio dal 2018 sono ripartiti con la loro nuova azienda: AD Coos. Un acronimo che ha le iniziali dei nomi che rappresentano le ultime due generazioni. Perché “ripartire” se si è alla sesta generazione? Dario Coos è figura importante per il Ramandolo. È lui che nel 1982 fu artefice, insieme alla cooperativa di Ramandolo (fondata dal bisnonno), del primo disciplinare. È lui che 1990 va a Roma per la creazione della DOC. Ed è sempre Dario a perorare la nascita della DOCG. Una famiglia che si trasferisce a Nimis nell’800 e inizia a produrre vino. Poi capita. Capita che l’azienda che prende il nome dalla quinta generazione dei Coos ha uno sviluppo non più compatibile con la filosofia di artigianalità che era la base del fare il vino e non c’è altra scelta che lasciar tutto. E ricominciare. Ricominciare per voler raccontare la storia della propria famiglia. Mettendoci la faccia. AD Coos dunque. Un nuovo inizio. Nell’anno domini 2018. AD. Anno domini. In fondo mio papà ed io abbiamo fatto il liceo classico. Volevamo scollegare le singole persone e raccontare la storia di famiglia. Alessandro parla dell’esperienza passata come una ferita aperta. Ancora troppo aperta per poterne parlare in maniera distaccata. Forse perché il papà ne ha risentito davvero. Ma è un friulano. Di quelli testardi e pragmatici. Di quelli che non guardano al passato per piangersi addosso ma solo al futuro verso cui andare. Avendo vissuto guerre, terremoti, perdite di figli l’insegnamento che abbiamo ricevuto è sempre stato quello di non piangersi addosso ma di guardare alle cose che portano la passione. Quanta verità in questa frase. Ma qui siamo in Friuli. Terra pesantemente devastata dalla Grande Guerra prima, dalla Seconda Guerra Mondiale poi, dal terremoto del 1976 infine. Eppure sempre risorto. Sempre con lo sguardo al futuro senza mai perdersi d’animo. Perché il domani sia sempre meglio del passato. Grazie al lavoro. Certo che c’è amarezza verso una avventura che deve aver causato al papà in primis e a lui di riflesso, tanti dispiaceri. Il nome della propria famiglia che non è più rappresentativo della propria famiglia. Ma dove non c’è tradizione, non c’è passione. Non c’è famiglia. Passione, cuore. Ci metti la faccia. Tutti gli aspetti economici passano in secondo piano. Come non credere ad Alessandro che parla con il cuore in mano. Tutto per soddisfare l’esigenza di ra ccontare la storia della sua famiglia. Di interpretarla attraverso i propri vini. Le radici che affondano nel passato non possono non essere evidenziate. Parla con tristezza del nonno Albino che non c’è più, terza generazione dei Coos. Memoria storica e ultimo vero assaggiatore di famiglia. Ora c’è solo lui, sesta generazione e il papà, quinta. Ecco perché la voglia di continuare. Pragmatismo friulano. Sincerità friulana. Onestà friulana. Umiltà friulana. Ci si sente ospiti nel vigneto e non proprietari. Alessandro ricorda sempre di più il nonno e i suoi insegnamenti: mai intervenire in vigna se questa non ne ha bisogno; le viti vecchie vanno curate e seguite; piuttosto si fanno riposare ma occorre dare continuità ai vigneti. Una filosofia che porta a sentirsi gestori della materia prima intervenendo il meno possibile al fine di mantenere gli aspetti varietali dei singoli vitigni caratterizzando l’annata. Anche prendendosi il diritto di rinunciare ad una vendemmia. La passione è quella cosa che ti fa dire a fine giornata che nonostante tutto è andata bene. Divertirsi ed essere appagati. Quanta dolcezza nelle parole di Alessandro. Due ettari e mezzo di pura passione. Una dimensione che consente di avere il controllo diretto dando continuità alla qualità e ciò che proponi. Una gestione in famiglia con l’obiettivo di non ricommettere più gli errori del passato. È bello notare che la gente assaggiando i vini si ricorda della famiglia. Vuol dire che il nome dei Coos vale ancora qualcosa. Vale la memoria. Vale il futuro. Pochi vini ma pienamente identitari del territorio. Anche se con qualche eccezione tipo il Sauvignon Blanc e il Pinot Grigio. Assaggiamo proprio il Sauvignon. Prodotto per ricercare eleganza rispetto alla ruvidità friulana. Mi piace perché al naso ritrovo semplicità ed eleganza. Semplice nei sentori di frutta e fiori. Ben definito e vino. Il sorso è coerente con il naso. Grande equilibrio e pochi contrasti. Lineare, preciso, finanche civettuolo. Fresco, sapido con finale lievemente ammandorlato a perfetto contrasto la una sensazione di morbidezza iniziale. È un vino con persistenza non elevata che abbini facilmente finendo con altrettanto facilità la bottiglia. Ci sono ovviamente gli bianchi friulani come il Friulano (che non si può ma si chiama qui Tocai) e la Ribolla Gialla e Pinot Nero. Poi ovviamente il Ramandolo e Refosco. Proprio quest’ultimo è da sempre il cavallo di battaglia di papà Dario che ne intuì il potenziale girando in lungo e largo l’Italia per capire come gestirlo al meglio. Il Refosco in queste zone matura un mese dopo arrivando dunque a surmaturazione naturale. Veniva pestato con i piedi in grandi tini chiusi poi con la ponca per la macerazione. Macerazione piuttosto lunga. È rappresentativo ripartendo dalla tradizione diventando un marchio di fabbrica. Surmaturazione in pianta con vendemmia a fine ottobre e un 20% appassito in cassettine. Struttura e corpo senza fare legno per mantenere l’acidità fondamentale per il refosco. Nonché per le tradizioni friulane. Si sente subito la frutta matura, la marasca tipica della surmaturazione. La mancanza di barrique fa emergere proprio il vitigno. Al sorso è evidente la parte surmatura che si sposa con il tannino e la freschezza rendendolo simile ad un Ripasso. Ma comunque differente. Identitario del territorio. La nota amabile utile proprio per evitare che sia troppo vegetale e spinto come i vecchi vini friulani. Ruvidità viene alleviata dalla morbidezza. Un vino che puoi bere tutti i giorni abbinandolo con facilità. Lo sorseggerei tutto. Bella continuità con la bevibilità del bianco.   Il Ramandolo (ottenuto con vendemmia tardiva che permette di contrastare perfettamente la freschezza e il tannino del Verduzzo) lo assaggio a casa seguendo il consiglio di Alessandro: ci vuole un formaggio vicino. Qualcosa di consistente. Decido di sperimentare un estremo nord contro estremo sud con un caciocavallo podolico. Dico solo che ciò che ottengo è un tripudio di sapori. Non posso che dire: stupendo. Con un tonnarello cacio&pepe? La recensione completa cliccando qui @ivan_1969. Quando il cibo e vino unisce! Parlare con Alessandro è rilassante. Lo ascolto con passione ed attenzione perché mi narra a cuore aperto della sua famiglia. Colgo una serenità di animo e una passione che raramente ho trovato. Non c’è voglia di riscatto, acredine, risentimento. L’unica forza motrice è la passione e la voglia di raccontare la storia di una famiglia. La sua. Mettendoci la faccia come continua a dire. Bellissimo davvero.   Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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27 Gennaio, 2023

Cantina De Vita, crescerò e solo per il mondo andrò

Cantina De Vita, crescerò e solo per il mondo andrò Vi ricordate la pubblicità dei biscotti Plasmon? Si i biscotti Plasmon quelli che mangiavamo da bambini e che, per chi ha avuto fratelli o sorelle, rubavamo di nascosto (c’è pure chi ha continuato a mangiarli da adulto tanto che la stessa Plasmon ne ha prodotto una versione per adulti). Ecco, un jingle della pubblicità faceva
Crescerò, e solo per il mondo andrò Mò che c’entrano i biscotti con il vino? Un momento no? C’entrano con la storia che sto per raccontare. Quella di una persona che sa di dover crescere ma ha già le idee chiare. Per il vino non per i biscotti. Per puro caso mio padre mi fa sapere che avevamo reimpiantato il vigneto della masseria di famiglia ed erano dunque pronte le uve per essere vendute. Alla fine mi sono chiesto: ma perché dobbiamo vendere le uve? Ferma tutto! Vorrei provare ad iniziare la strada da produttore Così inizia Roberto De Vita il suo racconto e così inizia la sua storia di vignaiolo. Di professione? No, di amore. Roberto è un broker farmaceutico come lui stesso ama definirsi che si avvicina al vino per puro caso. Un po’ per sfidare sé stesso un po’ per creare e vivere quelle emozioni che solo il vino sa dare. Non è certo uno sprovveduto né uno che fa le cose per caso. Studia. Si informa. Si confronta con tutti perché vuole creare qualcosa di concreto. Oltre alle emozioni. Sperimenta soprattutto. Anche se questo vuol dire confrontarsi, anzi scontrarsi con il proprio enologo. Che spesso ci azzecca come direbbero da queste parti. Ah ecco, dimenticavo di dirvi quali parti. Siamo vicino Salerno con soli due ettari nemmeno vicini. Un pezzo negli Alburni a circa 50 km da Salerno; l’altro alle porte del capoluogo- La vigna è in mezzo ad una vallata e difronte a me ho la regina indiscussa dei vini dei colli di Salerno che è Montevetrano. Praticamente ci guardiamo. In effetti dove sorgono le vigne e la masseria di famiglia, si è dentro un canalone che porta fino a gettarsi nel golfo di Salerno. Esposizione fantastica e soprattutto posta in una posizione che riesce a godere delle brezze marine. La masseria di famiglia c’è da metà 800 e fino agli anni 30 del secolo scorso produceva vino. Per la famiglia mica per venderlo. Poi quando uno fa il farmacista, broker farmaceutico scusate, non è che ha molto tempo per la vigna. Almeno fino a quando non capisce che tesoro si ritrova tra le mani. Serviva un enologo e una cantina per vinificare. In attesa di ristrutturare la masseria. Pragmatico ed attento Roberto. Come un farmacista appunto. Perché sa che questo è un modo che prima di dare emozioni richiede sacrificio. Investimenti e sacrifici. L’idea comunque è un vino che potesse rappresentare il territorio. Il suo territorio. E quando senti parlare Roberto lo capisci che quello è un attaccamento viscerale. Quando parla dei suoi vini e delle differenze con quelli cilentani, irpini, beneventani. Ci tiene a tenerli nell’alveo di Salerno. Ecco che per creare un vino rappresentativo prende i due vitigni che sono la Campania: la Falanghina e il Fiano. Creare un blend per rendere il Fiano meno opulento e la Falanghina meno impegnata. Ne ricava il Saltalavia (recensito su @ivan_1969)con un 80% di Fiano e un 20% di Falanghina. Un ettaro di vigneto diviso con le stesse identiche proporzioni del blend: così è la vigna, così è il vino. Perché impegnarsi a fare le quote quando le puoi ottenere già dalla vigna? Ecco appunto la vigna. 4 anni, un po’ troppo giovane per poter ottenere un vino interessante. Eppure Roberto ci si butta a capofitto (dopo aver fatto le analisi ovviamente) in maniera semplice e diretto! Come il vino che ne deriva dopo solo sei mesi di acciaio.       Pane, burro e alici dinanzi ad un tramonto. Questa l’idea che vorrei comunicare con Saltalavia. Quello che assaggio, un 2021, è davvero interessante. I sentori del Fiano ci sono tutti. Quelli della Falanghina pure. Ci sono i frutti i frutti a pasta bianca come la pesca, c’è il mandarino e soprattutto la nocciola. Vivida, intensa che mi ricorda le mozzarelle di bufala di Battipaglia. C’è macchia mediterranea segno che le brezze del mare arrivano, sì che arrivano. Profumi floreali e fruttati della Falanghina che spezzano l’opulenza del Fiano. Anche in bocca dove è Fresco, sapido, secco. Un vino verticale, pulito, equilibrato con sentori e sapori che si evidenziano uno dietro l’altro. La giovinezza prevale e si evidenzia dal finale che va verso l’amarognolo ma non ci arriva. L’uva deve essere già di qualità in vigna per poi dare un prodotto interessante. Roberto sa della giovinezza delle sue vigne e sa anche che anno dopo anno i suoi vini saranno sempre meglio. L’ottavo anno è quello a cui punta per avere una pianta matura. Calcoli da vero farmacista. Non certo da broker farmaceutico. Assaggiamo poi il Capofilaro. Aglianico del mio territorio. Tanto per ribadire il concetto. Piante di 8 anni poste ad una altitudine di circa 600 metri. Vendemmia 2020 con un anno di acciaio e 8 mesi di botte piccola secondo/terzo passaggio. L’idea è ammorbidire il rognoso Aglianico. “Un vino che dovrebbe rimanere in bottiglia ancora sette/otto mesi”. Lo assaggiamo comunque per capirne le potenzialità. Rosso rubino con riflessi porpora. Emerge molto la terrosità, il sottobosco. Insomma il vegetale che arriva prima dei frutti, prima delle spezie, prima delle tostature. Segno che il vino deve ancora riposare. L’impetuosità, o rognosità che dir si voglia, ha bisogno di tempo. Serve domarla questa forza dirompente dell’Aglianico. Ma che potenzialità! La freschezza è forte, così forte da far venir meno l’equilibrio. La spalla è forte. Il tannino potente ma non invadente, non aggressivo. Questo mi fa capire quanto sia un vino di prospettiva che deve evolversi in bottiglia. Non più in botte per evitare di acquisire altri sentori. La differenza tra naso e sorso è evidente. Così come lo squilibrio e quel finale che tende ad essere ammandorlato. Ma è un vino che acquisterei per tenermelo in cantina per berlo a più riprese apprezzandone l’evoluzione. Piccole produzioni da queste parti. Meno di 3000 bottiglie per l’Aglianico Capofilaro e circa 4700 bottiglie per il blend Falanghina/Fiano Saltalavia. Ne ha di tempo Roberto per crescere. E sono certo che crescerà bene perché quello che ho assaggiato ha mostrato, a pieno, le sue potenzialità. Certo anche Roberto sa che deve aspettare e sa anche che dovrà continuare a scontrarsi (o confrontarsi) con il suo enologo.     Sono un po’ testadura e dico all’enologo: facciamo così. Poi però quando sbaglio gli dico che aveva ragione. Sa che deve provare. Deve sperimentare proprio perché è all’inizio e di vino ne sa poco. E già ha in serbo un bel rosato che recepirà una base di Cabernet e Merlot. Piano piano crescerò. Lo sa. Lo vuole. Ci crede. Vedete che il jingle della Plasmon ci stava bene? Bravo Roberto. Continua. Continua a crederci fino in fondo. Perché la terra, la tua terra, saprà regalarti (e regalarci) davvero belle cose.   Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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20 Gennaio, 2023

Agricola Le Querce e la determinazione della nuova generazione

Agricola Le Querce e la determinazione della nuova generazione. Partirono in due ed erano abbastanza. Un pianoforte, una chitarra e molta fantasia. Più o meno così è stato per Federico e Valentina. Solo che al posto del pianoforte e della chitarra c’erano 40 ettari di terra. La fantasia si, tanta ma più ancora poté la determinazione. Federico 30 anni, Valentina 29. Parte integrante dello studio paterno lui, consulente lei. Ma cosa diavolo ci fanno in Toscana, a Campiglia Marittima tra Venturina e Piombino? La cosa che più mi colpisce di Federico è la sincerità. Non è uno sprovveduto né uno che non sa il fatto suo. Ma è “quadrato” nonostante la sua età. E Valentina che gli sta al fianco, non è da meno. Quando si presenta, così come fa sul sito internet dice che la loro è una “piccola” azienda. 40 ettari di cui 20 vitati che diventeranno 25 in poco tempo. Lo dice con sincerità senza, spavalderia. Anzi, noto decisione e determinazione. Quella che ha preso il posto della fantasia. Federico e Valentina sanno che quella che hanno per le mani è una vera azienda. Non una semplice cantina. E se vuoi far fruttare una azienda, hai bisogno di volume. È quello che ti insegnano e che professi quando fai il consulente. Così come quando ti devi occupare dei lati fiscali, contrattuali e tributari delle aziende. Insomma, il lavoro di Valentina e Federico. Tanta, tanta responsabilità. Che si sentono addosso ma con quella leggerezza tipica dei giovani. Belli tosti questi ragazzi. Magari ad avercene. Idee chiare. Progetti concreti. Piani da applicare. Per fare tutto questo non ci si può improvvisare. E loro non si improvvisano. Ovvero non si improvvisano vignaioli. Certo, hanno le loro idee. Hanno i loro gusti. Ma lasciano fare a chi sa avendo, sempre, sotto controllo i processi, le procedure, i metodi. Mantenendo comunque un imprinting. Il loro. Biologico? Certamente. Meccanizzato? No! Selezione a mano con cassette da 20kg. Macerazioni? Ovvio. Controllo della temperatura? Nemmeno a chiederlo. Barrique? Certo ma a di quelle a tiratura limitata. Anfore? Perché no. Bianco in barrique? Senza pensarci su. Il wine bar in vigna? Obbligatorio. Se guardi questi due ragazzi, se parli con loro, se li ascolti, capisci la loro forza, la loro passione, la loro capacità. Che non è spocchia. Non è arroganza. È solo capacità. Determinazione. Non è voglia di arrivare. È voglia di esserci. Di affermarsi in un mondo così difficile come quello del vino. Non guardano ai mostri sacri che hanno intorno o più lontani. Guardano alla loro azienda. Guardano alle persone che lavorano. Giovani. Siamo un’azienda di giovani. Tanti giovani che affiancano a persone più esperenziate creando quel mix che serve. Tanto coinvolgimento. Continui brainstorming. Tutto deve girare per il meglio. Processi, tempi, metodi. Ci impegniamo perché ogni piccola cosa non passi inosservata. Federico si ritrova con questa azienda da circa sette anni quando il padre decide di acquistarla. Lui se ne innamora. Quando ho visto l’azienda per la prima volta, è stato amore a prima vista. Anche perché da buon pugliese, con tanto di nonno che lo scorrazzava per le vigne di famiglia, sa il valore della terra. Se ne innamora ma sa anche non può lasciare così, da un momento all’altro, lo studio di famiglia. Quindi fa il pendolare tra Milano e Campiglia Marittima. 382 km. Mica pochi per un pendolare. Vallo a spiegare a chi non vuole spostarsi dalla propria città. Si certo, l’azienda è sua. Ma potrebbe fare come molti facendola gestire da altri e usandola solo per il fine settimana. No, lui no. Lui deve esserci. Deve e vuole essere presente. Per organizzare, per gestire ma, soprattutto, per fare squadra con tutte le persone che lavorano nell’azienda. Anche questo ti insegnano quando lavori in una grande azienda o per le aziende. Il team. L’importanza del team. Valentina non è da meno. Uniti non solo per i sentimenti ma anche dagli obiettivi e dalla determinazione. Si, sempre quella che ha preso il posto della fantasia. Quando fai la consulente devi mettere mano ai processi e magari cambiarli. Poche volte tocchi con mano le cose. Spesso un consulente “fa le slide” e indica cosa fare. Qui invece Valentina pensa ma subito agisce. In simbiosi ma anche in indipendenza con Federico. Due parti di un medesimo ingranaggio. Sincroni quando serve. Altrimenti asincroni. Sono così Federico e Valentina. Una coppia che sa il fatto proprio. Fanno avanti e indietro da Milano insieme. Si alternano, si completano. Federico in vigna, Valentina in cantina. Bello vedere come le origini tornino. Come la frenesia della città lasci il passo alla campagna. Come due ragazzi si gettino in qualcosa che sanno poter essere loro. Valentina ci tiene sempre a dire che l’azienda è di Federico. Ma lei è parte integrante. Ogni mattina mi sveglio presto e faccio un giro nelle vigne. Come se fosse un giardino. Mi piace guardarla dall’inizio fino alla vendemmia. Questa è la meraviglia che Federico si trova dinanzi. Che fa sua e non vuole delegare. Abbiamo iniziato a studiare qualcosa di nuovo come studi all’università. Valentina da buon (ex) consulente non si ferma mai di studiare. L’organizzazione è qualcosa che ti porti dietro. Organizzare con un calendario settimanale tutte le lavorazioni, gli assaggi, la cantina. Così come per Federico l’esperienza nello studio del padre ha pagato. Sentendoli parlare ci si rende conto di come abbiano i processi in mano. Eppure sono posati. Fanno le cose con ponderazione. Prendendo in esame le proprie potenzialità, cercando di superarsi. Ma senza strafare. Assaggiamo due vini, entrambi espressione della loro azienda. Il primo è Dodicilune, un Vigogner in purezza che matura in barrique per 6 mesi e sei mesi in anfora (bella scelta questa, non affatto banale e studiato per esaltare i sapori). Un vino semplice, non immediato, non banale. Già dai sentori ti conquista per la sua iodicità (siamo e meno di tre km dal mare) che si unisce alla frutta e ai fiori. Trovi il miele nel bicchiere. Al sorso non può che conquistarti per la grande coerenza tra olfatto e gusto. Persistenza lunga che richiede un abbinamento studiato. Finale lievemente mandorlato. Il secondo, Vinalia 2020 è un blend di Cabernet Sauvignon e Merlot con 18 mesi di barrique. Bello e intenso il colore rubino che trovi nel bicchiere. Alla prima olfazione regala tante spezie dolci e sentori caramellosi di aceto balsamico. Poi arrivano frutti e fiori rossi. Sarei curioso di averlo nel bicchiere tra dieci anni perché secondo me l’evoluzione porterà sentori eterei a completare il bouquet. Al sorso c’è tutto e c’è tutta la sua giovinezza. Dall’olfazione ti aspetteresti una rotondità che non ritrovi a pieno nel bicchiere. Ma è giovane e deve riposare ancora un po’. I tannini sono comunque poco aggressivi. Insomma un grande vino. Questi due vini dimostrano a pieno come siano già riusciti a far girare le cose per il meglio. Come ci sia la mano giusta in vigna, come l’enologo e i processi di cantina siano ben gestiti. Come, soprattutto, abbiano saputo dare una vera identità, loro, al prodotto finale. Bravi ragazzi. Programmi per il futuro tanti. Altri vitigni, altri procedimenti. Altre sperimentazioni. Senza la voglia di rappresentare a pieno il territorio toscano che li ospita. Certo, rispetto totale ma utilizzo sapiente delle terre per coniugare al meglio i vitigni. Idee davvero chiare. Stupiscono ancora. Stupiscono per non omologarsi a ciò che sta loro intorno. Scegliendo forse la strada più complicata. Ma anche quella con maggiore potenzialità. Hanno tanto entusiasmo Federico e Valentina. Non posso che augurare loro tante e tante vendemmie piene di successo. Magari con ancora più fantasia. Perché in fondo, bomba o non bomba noi arriveremo a Roma, malgrado voi!   Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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13 Gennaio, 2023

Mustilli, quando gli antenati ti guardano

Mustilli quando gli antenati ti guardano palazzo Mustilli a Sant’Agata dei Goti Passeggiando per le stanze delle antiche dimore, alle volte ci si imbatte nei ritratti di personaggi vissuti in epoche lontane. Pochi hanno la fortuna di avere sparsi per casa ritratti di antenati propri. In ogni caso, ci si sente scrutati, osservati. Financo giudicati. Spesso incutono timore perché ti guardano altezzosi dall’alto verso il basso. Ricordo bene questa sensazione quando andavo a casa dei miei nonni! Ora, con una simile premessa, a chi verrebbe in mente di mettere i ritratti degli antenati sull’etichetta delle proprie bottiglie di vino? Non basta essere scrutati mentre si attraversano le stanze del proprio palazzo? Serve pure qualcuno che ti scruti e ti giudichi mentre bevi il vino che hai prodotto? Solo persone animate da sana follia potevano pensare a questo. Siamo a Sant’Agata dei Goti, un meraviglioso paese nel cuore del Sannio. E nel mondo enologico, il Sannio richiama l’eccellenza dei vini campani: la Falanghina. Qui, Paola e Anna Chiara dirigono l’azienda di famiglia: Mustilli Leonardo Mustili, papà di Paola e Anna Chiara era uno di quei pionieri artefici della riscoperta prima, del successo poi, della Falanghina. Tempi difficili quelli degli anni 70 per un vino campano. Ma pure ora non è che le cose vadano a gonfie vele con la enorme concorrenza che c’è. Eppure, Paola e Anna Chiara sono li, a sostenere, con la determinazione che solo due donne così, in un mondo maschilista, il loro prodotto. I loro prodotti. Il fattore, quando mia sorella disse che della azienda se ne sarebbe occupata lei rispose che non aveva fiducia nelle donne. Insomma, l’inizio difficile. Ma pure il proseguo non è che sia stato semplice per due donne. Il testimone lasciato da un papà, forte ma non ingombrante, con l’obiettivo di portare avanti e far evolvere quanto di buono era stato fatto. Un terreno particolare quello del Sannio. Matrice vulcanica e tanto tufo. Tanta finezza, complessità e mineralità da portare nel bicchiere con semplicità e nel rispetto della natura. Senza badare alle convenzioni. Non solo Falanghina ma anche il Piedirosso (Per’ e Palumm) “che noi vinifichiamo in maniera leggiadra senza usare lunghe macerazioni perché tanto non ci tiri niente fuori anche se lo lasci a macerare per lungo tempo”. Le vigne di Mustilli 15 ettari vitati con 50% Falanghina. Poi Greco, Aglianico e Piedirosso. Oltre che piccole zonazioni per creare le eccellenze della casa: Cesco di Noce da Aglianico, Artus da Piedirosso, Vigna Segreta da Falanghina. Non ci sono vini piacioni dice Paola. La strada è quella della tradizione ovvero vinificando ciò che arriva dalla campagna. Una scelta che in tempi non recenti ha portato a soffrire per un mercato che tendeva ad altro. Ma ora c’è spazio. Determinazione. Costanza. Coerenza. Due sorelle che riescono a cavarsela. Con allegria. A Napoli la definirebbero “A’Cazzimma”. Un imprinting che è DNA della famiglia. Caratterialmente siamo tremende. Siamo molto sincere. Molto empatiche e diciamo sempre quello che pensiamo. O chi odi o ci ami. A’Cazzimma appunto Camminiamo per la nostra strada. Siamo liberi e la libertà per noi è molto importante. Idee chiare. Barra dritta. Determinazione. Volontà. etica. Le decisioni prese in due. Trovando un accordo. Anna Chiara si occupa della parte agricola e di cantina. Paola non scende nel suo mondo. Perché quando lo fa diventa un operaio. Mi ha costretto durante la pandemia a impiantare tre ettari di vigna a mano. Piantato a mano con il teorema di pitagora… Paola si occupa della parte commerciali e amministrativa. La prima bottiglia di Falanghina Mustilli Sono loro l’azienda. Si appoggiano a pochi collaboratori. Anna Chiara pretende che le cose siano loro a farle. Perché così può avere tutto sotto controllo. Perché così si è artefici del proprio destino. Paola magari se la prende. Ma pure lei è della stessa filosofia. In fondo. Bellissimo il rapporto tra le sorelle. Entrambe agronome ma Io è come se non avessi fatto agraria perché su certe cose decide solo lei. Paola lo sa e lascia fare. Perché è tranquilla e serafica nelle decisioni così come nel dividersi i compiti. Amore e odio. Ma soprattutto amore. Durante la vendemmia cerco di scomparire, mentre con i rapporti con il pubblico ci sono io perché lei è un po’, come dire, ostica Ascoltare Paola che parla del rapporto tra le sorelle è una esperienza unica. Sembra di assistere ad una commedia di Scarpetta. Non lo conoscete? Allora non siete proprio partenopei o amanti di quella cultura. Io, per fortuna, avevo i nonni e i genitori che mi hanno fatto scoprire quelle commedie riprese da Eduardo De Filippo. Eduardo, Scarpetta però era quello che iniziò il filone della commedia napoletana. Se citassi “Miseria e nobiltà” sarebbe più noto? Ora, senza divagare, io immagino davvero Paola e Anna Chiara come parte di una commedia di Scarpetta. Parte di una famiglia che è unita sotto tutti i punti di vista e che, come è giusto che sia, si infervora, si scalda, litiga. Ma poi il rispetto per la famiglia, anzi la Famiglia e per i ruoli, riconducono, sempre, la discussione sulla retta via. Le scene che Paola mi racconta mi fanno ridere e non poco. Lei che viene (bonariamente) vessata per gli impianti della vigna. Lei che si nasconde durante la vendemmia per non incombere nelle rigide disposizioni di Anna Chiara. Anna Chiara che viene tenuta lontana dai clienti per evitare atteggiamenti poco consoni. Ma sono due sorelle. Parte diverse di una stessa medaglia. Che si integrano perfettamente come gli ingranaggi di un orologio, di una azienda che opera al femminile. Quasi in maniera matriarcale. E si sa che le donne sono precise, tremende, senza pietà.
Il quadro che ho dinanzi è divertente ma reale. Crudo e preciso. Due sorelle che hanno raccolto l’eredità dal padre che, si vede, le ha davvero instradate nel migliore dei modi. Determinate e ostinate. Pronte a non cedere il passo pur di rimanere (a ragione) attaccati alle proprie idee. Alle tradizioni. Al rispetto delle cose concrete e non certo delle chiacchere. I personaggi della commedia appaiono sul palco della Mustilli uno per volta, non tutti nello stesso atto. Si definiscono nelle parole di Paola. Se ne delinea il loro ruolo nell’azienda. Il carattere. Le peculiarità. Sempre a contorno dei due personaggi principali: Paola e Anna Chiara. C’è la mamma. Che è presenza costante ancorchè defilata. Un grappolo di Falanghina C’è il marito di Paola che lei definisce musicista e che insegna musica a Lecce. Ci sono i figli di Paola. Ben quattro. Uno che fa il piazzaiolo in Svizzera. Una femmina di 21 anni che studia mediazione linguistica ed aiuta nelle visite in cantina. Due gemelle di 18 anni: “una ha deciso che vuole fare la ballerina dunque balla tutto il giorno. L’altra che ancora non ha deciso ma si vuole iscrivere a giurisprudenza e si è presa un anno sabbatico” C’è Antonella, la figlia della signora Maria (cuoca di famiglia) che è come se fosse la terza sorella. In amministrazione, persona di fiducia. Comanda a bacchetta le sorelle per tutto ciò che riguarda i conti. Poi ci sono le persone che aiutano in vigna e in cantina nonché gli stagionali. Personaggi che sembrano a contorno ma fondamentali per la narrazione e la vita della cantina. Entrano ed escono nei racconti rendendoli unici, frizzanti, veri. Gli aneddoti si rincorrono e si uniscono in una grande rappresentazione teatrale. Sullo sfondo c’è la dimora di famiglia. Un palazzo storico che ha ospitato gli antenati. Ci sono le diverse stanze. La vigna. La cantina. Ecco, adesso immaginatevi tutti questi personaggi che entrano ed escono di scena in un alternarsi di dialoghi e battute. Stupendo! Chiedo a Paola cosa ne sarà della azienda dopo. La continuità con i figli che oggi sembrano impegnati in altro. L’eventuale problema futuro. Quale problema. Ci vendiamo l’azienda. Noi siamo ben felici perché non siamo attaccati alle cose materiali Pragmatismo. Determinazione. Forza. Caparbietà. A’ Cazzimma. E i vini? Come fanno a essere da meno. Da due sorelle così caratteriali. Da un teatro così verace come possono non uscire vini di carattere? Vini per i quali non serve struttura ma identità. Vini che rappresentano il territorio poiché espressione della famiglia. Vini che nascono per essere bevuti, non contemplati. Assaggiamo tre vini che sono espressione di tre particolari zonazioni. Il primo è Vigna Segreta, 2019. Una Falanghina del Sannio che fa solo acciaio. Un vino delicato che si presenta nel bicchiere con sentori floreali che donano delicatezza ed eleganza. C’è la nocciola ed il balsamico. Giusti, puliti, meravigliosi. Sa di Falanghina! Il terreno è vulcanico così che il sorso non può che essere sapido e minerale; secco e moderatamente caldo. Un sorso assolutamente coerente con gli odori. Finale ottimo e pulito. Bella persistenza. Convincente. Continui a berlo abbinandolo facilmente anche con una mozzarella di bufala. Poi arriva il turno di Artus 2018 da uve Piedirosso. Fermentazione e affinamento in anfora (10 mesi). Perché il Piedirosso ha bisogno di aria. Pochi tannini. Pochi antociani. Necessita di micro ossigenazione per evitare fenomeni di ossidazione e l’anfora è l’ideale. Che non faceva papà Leonardo. Io penso che ne sarebbe soddisfatto del risultato. Ha sempre dato molta fiducia a noi. Bel colore rubino che sta per virare sul granato. Molto fresco anche al naso. Ci sono i frutti rossi non ancora maturi. Ha un buonissimo sentore di tabacco, noce moscata, chiodi di garofano. C’è una prugna matura che emerge. C’è il floreale e il minerale. Bouquet completo. Andrebbe servito intorno ai 13 gradi per apprezzarne meglio i sentori e i sapori. C’è così complessità al naso sembra abbia fatto botte. Ma nemmeno l’ha vista! In bocca è fresco. Piacevolmente fresco con bella coerenza con olfatto. Sapido ma non eccessivamente. Non estremamente caldo. Lo puoi abbinare a carni non corpose ma sta bene anche con la mozzarella. Chiusura di bocca precisa. Un altro vino che non smetti di bere. Infine, Cesco di Nece 2017. Un aglianico diverso dai soliti. Non è un vino palestrato. È diretto. Ha un bellissimo bouquet che si arricchisce fino ad essere complesso continuando a restare nel bicchiere: prugna, fiori rossi, spezie, pietra focaia.  In bocca è molto fresco per un Aglianico. È un vino certo più difficile nell’abbinamento per via del tannino aggressivo che lo fa però resistere al tempo. Bella la chiusura di bocca. Strutturato e convincente. Un crescendo di sensazioni grazie a vini splendidamente connessi tra di loro. La mano è la stessa: Anna Chiara L’occhio non può che cadere sulle bellissime etichette. Gli antenati. Dai quadri sono scesi sulle etichette. In una forma meno austera però. L’idea è stata di mia madre. Siamo appassionati di musica di quei tempi. Poi per caso mio marito è musicista. Abbiamo detto agli antenati scendete da lì e metteteci la faccia anche voi. Antenati con un tocco di modernità grazie a piccole aggiunte di particolari “contemporanei”: gli occhiali di Lennon, la mascherina di Annie Lennox, il fulmine di David Bowie. Ma ci sono altri antenati? Uhh ce ne abbiamo un sacco! Insomma per le etichette c’è ancora tanto futuro. Con la speranza che Paola e Anna Chiara non vendano. Perché una azienda come questa dovrebbe essere annoverata nel patrimonio dell’umanità!   Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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5 Gennaio, 2023

Giuseppe Floridia, il vino tra poesia e tecnologia

Il vino è poesia. Il vino è amore. Il vino è passione, sudore, preoccupazione, forza, tenacia. Il vino è vita. E se fosse anche “tecnologia”? Non ho detto chimica. Ho detto “tecnologia”. Giuseppe Floridia è un ingegnere elettronico e la Cantina Tuscania è sua. Cosa diavolo ci fa un ingegnere elettronico a produrre vino? Beh che c’entra, pure io che scrivo di vino sono ingegnere (aeronautico)! Avvicinare la tecnologia al vino fa paura. È come evocare un conciliabolo di streghe che girano la pozione magica dentro calderone. Eppure, eppure, se ci si approccia al vino in maniera laica si può capire come la tecnologia abbia lo scopo di aiutare l’uomo. Non sostituirlo. Non prevaricarlo ma “solo” rendendo evidente ciò che avviene nel processo enologico. Per poi intervenire. Prima che sorga il problema. Una volta, in una cantina di San Gimignano, chiesi ad un produttore che aveva adottato la mia tecnologia se il vino era venuto più buono. Lui mi rispose: no, è venuto uguale. Ma ho dormito la notte Ecco, sta tutta qui la filosofia di Giuseppe. La tecnologia non serve e non deve servire per fare il vino più buono ma ad aiutare i vignaioli a prevenire il problema. Perché altrimenti gli investimenti vanno in fumo. Giuseppe intuisce da giovane che qualcosa di tecnologico si può avere nel vino per supportare i produttori. Lo capisce già dagli anni 90 allorquando da giovane laureato inizia a lavorare nel settore. Vinicolo? No, biomedicale. Come biomedicale? Che c’entra ora il biomedicale con il vino? Nulla, proprio nulla ma questa era la prima vera passione di Giuseppe. Solo che appassionarsi al settore del vino diventa abbastanza facile per un toscano doc che vive in toscana e che comincia a fare dei lavoretti nel settore, così, tanto per arrotondare un po’. Avevo a che fare con i medici che per natura e professione devono essere distaccati. Lavorando nell’enologia vedevo un mondo fatto di passione. Un mondo contadino per il quale facevo attrezzature, le facevo pagare e diventavamo comunque amici. Mi regalavano bottiglie Spero non lo scrivi, ma c’era pure il tema delle ragazze Mi dice sottovoce ma con quella risata che ti coinvolge. Quando da giovani ci si presentava ad una ragazza la domanda che sempre usciva fuori era: di che ti occupi? Se le dicevi che eri nel biomedicale le facce diventavano interrogative. Con la risposta “nel settore del vino”, facevi subito colpo Insomma, facile essere stregato dal vino, dai luoghi unici dove sorgono le cantine, dalle persone del vino. Meno facile far svanire l’ingegnere che è in lui. Cosa questa che Giuseppe non vuole. Anzi, essere appassionato di tecnologia lo mantiene e lo esalta con la convinzione che la tecnologia può essere al servizio del vino. Una missione! Giuseppe ha sempre cercato un modo per fare il vino in maniera naturale. Semplice. Senza aggiungere nulla ma solo “controllando”, “gestendo” ciò che accade in cantina. “Un altro modo di essere naturale insomma”. Come il motto della sua Parsec ovvero l’azienda che si occupa di supportare le cantine di mezzo mondo nella gestione del processo enologico di cantina. Parsec? E ora cosa è questa? Non si era detto che Giuseppe gestisce la Cantina Tuscania? Facciamo un po’ di chiarezza. Giuseppe è metodico ma anche vulcanico. Perché quando parla del vino si esalta. L’ingegnere che è in lui lascia il passo all’uomo tanto preso dal vino da fargli cambiare vita: da ingegnere elettronico biomedicale a tecnologo al servizio dell’enologia a vignaiolo. Torna poi ad essere l’ingegnere che non può e non vuole nascondere quando parla con i grafici alla mano. Quando cita termini come “cinetica fermentativa” che farebbero strabuzzare gli occhi a tutti i sommelier del mondo. Due sono le realtà delle quali Giuseppe si occupa: la Parsec, società leader nel mondo per la produzione di sistemi di gestione del processo enologico; Cantina Tuscania per la produzione del vino (e mettere in pratica le sue soluzioni) nata come sperimentazione della zonazione del Chianti con le grandi cantine toscane. Quando parla Giuseppe non mi perdo. Forse perché pure io sono ingegnere. I suoi grafici sono abbastanza chiari (almeno per me). Le sue descrizioni sono da perfetto ingegnere che sembra eccitarsi quando spiega le dinamiche fermentative (“l’ossigeno gestito correttamente mi permette una regolarità di cinetica fermentativa”), il controllo della temperatura, la sua stratificazione. Non posso però che sorridere perché la mia mente già immagina la faccia del vignaiolo che guarda questo toscano gentile che parla una lingua di altro pianeta. La mia mente vaga ancora pensando a quante persone “non laiche” possano far storcere il naso le parole di Giuseppe. Specialmente quando parla di controllo degli aromi attraverso i sensori “perché devi far avvenire l’estrazione quando serve controllando le temperature”. Oppure “evito che il lievito vada in sofferenza non ammazzando gli aromi per via della riduzione ovvero della produzione di composti solforati”. Cantina Tuscania nasce dalla voglia di mettere in pratica le tecniche enologiche, di capire quali sono i vitigni migliori nelle differenti zone. È il 2008 e Giuseppe offre le tue tecnologie ai grandi del vino italiano e non solo. Che non se ne separano più. Giuseppe e le sue tecnologie sono nascoste, insite nei contenitori in acciaio e anche nelle barrique. Ma ci sono. Non sostituiscono l’uomo ma ci sono. Giuseppe rileva la Cantina nel 2015 con l’obiettivo di ottenere il miglior vino possibile dai vitigni che ha a disposizione. Lo fa con grande umiltà adesso che si è superato il concetto che il vino si fa, solo, con la poesia. “Però la poesia ci vuole perché senza poesia il tutto diventa più complicato”. 3500 bottiglie (“non ne vogliamo fare di più”) e la riscoperta di vitigni dimenticati come Fogliatonda e Pugnitello. Grande attenzione alla pulizia e alla qualità dei processi. L’ingegnere…. Una sola grande, unica convinzione: ancora c’è tanto da scoprire e forse non si scoprirà mai. Questo è il bello. Chiudo la chiaccherata con una domanda provocatoria che però non riesce a creare il minimo turbamento in Giuseppe a dimostrare ancor di più la sua solidità ma soprattutto l’orgoglio di aver creato qualcosa che rende una azienda italiana leader nel mondo. “Saresti in grado di migliorare vini fantastici come ad esempio un Romanée Conti o un Petrus?” Sono nostri clienti per l’ossigenazione. Penso che abbiamo contribuito a migliorare il prodotto Come si fa a non ammirare e voler bene ad una persona così ed ad essere orgogliosi di averla conosciuta? Ah dimenticavo. I suoi vini. Tre produzioni. Un Chianti, un Chianti Riserva e un Rosso. Già dalle etichette mi affascinano (“Sono appassionato di Tecnologia, vino e arte” mi confessa Giuseppe). Sono vere opere d’arte. Appena le assaggio, le pubblico sulla mia pagina Instagram. Stay tuned.   Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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30 Dicembre, 2022

Bastian Cuntrari, due ragazzi e la loro passione

Il territorio è questo. La Valtellina è muro È la prima cosa che mi dice Michele facendomi vedere i terreni sui quali sorgono i suoi vigneti. Quando li guardi da sotto capisci perché si definisca “eroica” questo tipo di viticoltura. Siamo alle pendici delle Alpi che si affacciano sull’Adda. Qui sorgono i vigneti. Relegati da tempo, lontano dal fiume. Perché i terreni prossimi alle rive dovevano servire per le coltivazioni di prima necessità così che gli unici luoghi possibili per il vino diventavano i terrazzamenti. Difficili, impervi ma allo stesso tempo generosi grazie all’esposizione, alla composizione dei terreni, ai salti di temperatura tra giorno e notte. Terrazzamenti che diventavano veri e propri orti, utili per produrre qualcosa per la famiglia: ortaggi e vino. Piccoli pezzi di terreno ad uso personale rimasti tali fino a quando ce ne è stato bisogno. Da lì in poi, la vite e il Nebbiolo della Valtellina, la Chiavennasca. Michele 33 anni, Patrick 36. Michele che già lavora in vigna e Patrick che scopre una realtà della quale rimane affascinato. Due amici che si ritrovano a condividere la stessa passione e che gettano il cuore oltre l’ostacolo. Coraggio e incoscienza di due ragazzini (era il 2015!) che senza soldi e con molti sogni vanno in cerca di terreni, terrazze, sulle quali iniziare la loro personale avventura. Bastian Cuntrari. “I so stuf”. Questo si sentivano dire da qualche vecchio vignaiolo, stufo di lavorare, stufo di andare su e giù per le terrazze. Facendo tutto a mano, senza macchinari, senza sosta. Logora, sì che logora questa vita. Ma proprio quelli erano i terreni che facevano al caso loro. In fondo di forza e volontà, Michele e Patrick ne hanno da vendere. Michele ha la testa sulle spalle. Posato, calmo, umile. Sa quello che vuole ma sa che ci vuole tempo per averlo. Non ha paura di lavorare, di sporcarsi le mani. Mette in file le cose come se fossero tanti mattoncini. I pensieri, le preoccupazioni. Le ansie, le gioie. Sempre uno dietro l’altro. Con pacatezza. Non ha bisogno di niente altro che non sia la terra e la vite. Nel cuore del Grumello e un pezzettino di Sassella, nel 2016 nasce il primo vino, Valtellina Superiore. Non c’era tanta vigna per fare i vini e l’unico modo per uscire era un blend al 50% delle due vigne Costretti a vendere l’uva per racimolare un po’ di soldi utili per l’acquisto delle attrezzature. Così si comincia. Senza soldi, senza aiuti esterni. Possono contare solo su loro stessi. Sulle loro braccia. Sul loro entusiasmo. Il vino puoi farlo con tutto e con niente Ma le attrezzature servono per elevare la qualità e questi due ragazzi lo sanno. Ci credono e preferiscono investire piuttosto che portare a casa i soldi. Rispetto per la terra. Rispetto per la natura. Perché la terra è il loro sostentamento e va rispettata. La concimazione la facciamo con le stalle. Cerchiamo quelle che hanno il letame. Poi, ti arrangi, con la carriola e la forca Come fai a non voler bene a questi due ragazzi? A due persone così semplici, senza grilli per la testa? Adesso abbiamo tre ettari e mezzo di vigne: un ettaro e mezzo di Grumello, uno di Sassella, uno di Inferno Due soli vini. Perché questo riescono a fare. Senza enologo. Senza cooperative. Potendo contare solo della loro forza. Solo delle loro braccia. 6000 bottiglie e il sogno di arrivare a 15000. Questo è il numero che Michele e Patrick sanno di poter gestire. Da soli. Sì, da soli. Perché sono solo loro due e solo loro due vogliono rimanere. È una questione di orgoglio, di controllo dei processi. Ma anche e soprattutto di grande realismo e pragmatismo. Due ragazzi con la testa sulle spalle davvero. Se non riesci a vendere quelle quantità è meglio che chiudi perché vuol dire che non sei capace di lavorare Cosa vuoi dirgli? I vini dunque. Un Valtellina Superiore con 100% Sassella da vigneti a 500metri di altezza. Due anni di legno e uno di bottiglia. Importante e carico come serve in queste zone. Con il freddo. Con il formaggio o la cacciagione. Click qu per la mia recensione. Siamo andati a cercare (quante prove abbiamo fatto e quanti fallimenti) legno con zero tostatura per far emergere il territorio. Solo legno, senza materiali non naturali Un Grumello, Rosso di Valtellina. Non DOCG per avere un prodotto fresco e beverino ma con un solo anno di affinamento. Nasce dal lavorare loro stessi la vigna e dal conoscere il terreno. Non vogliono un vino pesante e decidono di raccogliere anticipatamente per dare freschezza e beva. Quando lo assaggio non posso che dargli ragione. Senti tutto il frutto croccante della valle. Un vino che puoi bere tutti i giorni. Che abbini facile non senza ricordare (e trovare nel bicchiere) quella magia che il lavoro di questi due ragazzi ti stanno offrendo nel bicchiere. Non hanno paura di produrre vini diversi per le annate diverse. Amano così tanto il proprio lavoro che non vogliono essere standard. Vogliono qualcosa che rappresenti il territorio, l’anno, le condizioni diverse. Ogni anno un vino diverso. Ogni stagione un vino che esprime ciò che è successo. Hanno capito che questa è la loro forza. Michele è pratico, attento. Ha sotto controllo tutti i costi. Li snocciola come se fossero granelli di un rosario. Il costo della bottiglia, quello dell’imbottigliamento, dell’etichetta. Non gli scappa nulla e questo fa capire quanto siano costretti a tener conto di ogni singolo aspetto. Per rimanere in piedi. Per sopravvivere. Siamo un discorso a parte. Siamo un po’ come essere sulla luna. Siamo l’unico pezzo di terra al mondo dove due scappati di casa riescono ad aprire una azienda da zero Ma perché il nome Bastian Cuntrari? Siamo l’unica azienda in Valtellina che coltiva tutto sulla sponda Retica ma la cantina sta sull’altra sponda. È l’unica cosa che ci siamo già trovati: la cantina di casa della mia bisnonna dove si tenevano salumi e formaggi. Avevamo prima la cantina che la vigna Ripeto ancora una volta: come si fa non voler bene a questi due ragazzi? Non voglio fare il moralista. Mi piacerebbe solo che mio figlio capisca quanto sia davvero difficile, ma anche possibile la vita. Quanto si possa partire da zero per poi trovare il proprio spazio nel mondo. Serve però fatica. Sudore. Forza di volontà. Anche nel “cercare” il letame e gestirlo accuratamente. Michele e Patrick, non solo vi auguro un gran bene, ma vorrei poteste essere di esempio. Per chi vuole emergere. Per chi vuole vivere del suo lavoro. Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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