Suggestioni di Vino

Suggestioni di Vino è la rubrica che racconta le persone del vino. Della loro storia, dell’amore, della passione che inoculano nel vino. Perché il vino è materia viva e le persone ne sono il nutrimento.

Le incursioni enoiche di Ivan Vellucci, ingegnere e manager per dovere, ma soprattutto Sommelier raccontano con passione e trasporto, territori e produttori d’eccezione.
Ivan ci porta a conoscere realtà prima di tutto umane, dove il sorriso e l’ospitalità dei vignaioli sono lo specchio dei vini che producono. La rubrica Suggestioni di Vino propone ogni settimana  suggestive esplorazioni e scoperte enologiche, narrate con trasporto e partecipazione. Al lettore parrà di accompagnare Ivan in queste visite speciali e sarà stimolato a fare lo stesso: vivere il mondo del vino come un bambino, con lo stupore negli occhi e la magia nel bicchiere.

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5 Maggio, 2023

Tenuta Agricola Pesolillo e l’ospitalità abruzzese

Tenuta Agricola Pesolillo e l’ospitalità abruzzese Cosa porta a produrre vino? Passione? Amore? Calcolo? Si dice spesso che per ottenere risultati economici interessanti il vino debba avere grandi quantità. Volumi e volumi in grado di generare margini sufficienti per essere definiti azienda. Anche se ancor più spesso le aziende sono famiglie, con la loro storia, la tradizione, la continuità. C’è chi è nato vinicoltore. Chi ci è diventato convertendo la coltivazione. C’è chi ha scoperto l’ospitalità per legarla alla cantina. Un po’ per arrotondare, un po’ per darsi un tono. Raramente mi è capitato qualcuno che abbia iniziato a produrre vino grazie all’ospitalità. Nel caso della Tenuta Agricola Pesolillo forse si è trattato proprio di assecondare l’agriturismo. Siamo in Abruzzo, a Chieti. Le colline scendono dolcemente verso il mare separando questo dagli Appennini. Dal mare arrivano i venti salini che rendono le estati meno calde. Così come gli inverni meno rigidi. I terreni, di matrice sabbiosa, sono da sempre vocati alle grandi produzioni di uva. È questa terra di pastori e di agricoltori. Persone ospitali e schiette che non vanno tanto per il sottile quando si tratta di mangiare. Figuriamoci di bere. Incontro Lorenzo Pesolillo, terza generazione della azienda. Un ragazzo che si sta facendo strada e che ora, dopo aver preso una laurea in economia, fatto esperienze all’estero e in Italia per una importante azienda che produce e commercializza la bevanda gassata più famosa al mondo (va beh lo scrivo che è la CocaCola), si dedica anima e corpo alla azienda di famiglia. È Lorenzo che si occupa della promozione e vendita dei vini di famiglia. Ci siamo divisi i ruoli. Un mio fratello fa la sala nell’agriturismo; l’altro sta in cucina. Uno fa più la parte burocratica; uno più cantina vera e propria. A me dicono: con questo vino cosa facciamo? Marco, Luca, Lorenzo. Loro sono i figli di Giuseppe Pesolillo, diretto discendente di Domenico, fondatore dell’azienda nel lontano 1961. 12 gli ettari di terra. Non tantissimi per una azienda agricola. Ma se sai cavalcare il momento, puoi trovarne di che vivere. Ai primi degli anni 90 papà Giuseppe coltiva le pesche per poi venderle all’ingrosso. Alla fine degli stessi anni, vedendo che qualcosa stava cambiando, inizia la coltivazione fuori suolo e in serra. I tempi cambiano ancora e Giuseppe capisce che qualcos’altro su quella terra si può fare. Mette così su l’agriturismo con la ristorazione e le stanze per gli ospiti. La ristorazione, con la schiettezza dei cibi abruzzesi, necessita di vino. Sincero e senza fronzoli. Così come sono gli stessi abruzzesi. In azienda il vino si è sempre fatto perché le vigne fanno parte di questo territorio. Montepulciano (d’Abbruzzo ovviamente) e Pecorino. Si fa il vino dall’uva che rimane dopo il conferimento alla cooperativa. Si faceva per la famiglia e si fa ora per l’agriturismo. Eh già l’agriturismo. Quello ne chiede di vino. Così come di ortaggi e tutto ciò che la terra può dare. Turisti, turisti, turisti. Bella intuizione in una terra che ha tanto da offrire ma ancora poco sfruttata. Avevamo la cantina in versione light. Vinificavamo 5/6000 litri tra bianco e rosso. Per l’agriturismo. Agriturismo vuol dire ospitalità. Vuol dire aver rispetto degli ospiti, dei clienti. Offrire loro prodotti a km zero non avrebbe senso se non biologici: sani e coltivati nel rispetto della terra. Oltre che del territorio. Se inizi a produrre ortaggi a km zero, diventa una filosofia che la vigna non può che recepire. È così che il rapporto con la cooperativa alla quale si conferisce l’uva, si incrina. Non tutti sono infatti disponibili a seguirli nel biologico (forse non riuscivano a vedere lontano). Non tutti limitano le produzioni in vigna badando più alla qualità. L’unica soluzione possibile è coltivare e trasformare l’uva in proprio: un progetto di lungo periodo. Tutta l’uva però. Cosa questa che non potrebbe più essere assorbita dal solo agriturismo. Anche diminuendo le rese, le bottiglie rimangono tante. Occorre pensare a produrre vino e a venderlo. Il passo successivo è dunque una conseguenza: investimenti per le attrezzature di cantina, per la cantina stessa, per le persone, per la commercializzazione. Non è la cantina che ti fa dire wow ma è funzionale e c’è tutto di quello di cui hai bisogno. Un percorso necessario che porta l’azienda a concentrarsi, anche, sul vino. Lorenzo è un ragazzo diretto e con il sorriso sempre pronto. Ha dalla sua l’anima commerciale che lo porta a raccontare con leggerezza e maestria la sua azienda ma anche a fuggire dai lavori in vigna o in cantina. Conosce le sue capacità e riconosce le sue conoscenze. Così come i limiti. Non sono un enologo ma mi fido del nostro. Non puoi saper far tutto per cui ti servi di un tecnico bravo. Soprattutto, quando verso il vino nel bicchiere sento la differenza. Per iniziare a produrre vino, vino che sia rappresentativo del territorio, che non sia opulento ma schietto, pronto e fresco, serve lavorarci sopra. Non sono passati tanti anni. Eravamo pronti per il 2020 ma il covid ci ha bloccato. Siamo usciti nel 2021. Serviva un tecnico ed è stato preso. Serviva l’attrezzatura ed è stata acquistata. Serviva un buon packaging e l’hanno creato. Tutto in un bel piano sequenziale. Merito dell’intuito ma anche di tanta preparazione. Abbiamo ricreato daccapo tutte le etichette. Abbiamo fatto alcune accortezze in cantina sia da un punto di vista tecnico sia di presentazione. Devo essere contento anche se tutti i commerciali vorrebbero sempre di più. È un inizio. Il prodotto piace dunque va bene. I 12 ettari di vigneto diventeranno 15 a breve. Le rese per ettaro sono basse per un territorio che ha fatto (nella maggior parte dei casi) la quantità come focus: 150 quintali per ettaro per il Montepulciano; 100 per il Pecorino. Raccolta manuale su tutti gli ettari. Per come abbiamo i vigneti noi si farebbe anche fatica con la macchina. Ma serve perché con le piccole dimensioni si gestisce bene la tempistica vigna-cantina. Una azienda giovane dunque. Governata da giovani con idee chiare e una filosofia che si ritrova tutta nel bicchiere. La voglia, manco a dirlo, è quella di offrire prodotti genuini, identitari, semplici. Schietti. Come gli abruzzesi. Iniziamo ad assaggiare i vini partendo dal Pecorino superiore. È un 2021. Uva raccolta nella seconda metà di agosto per mantenere freschezza e immediatezza. Il colore verdolino scarico evidenzia la giovinezza. Le note erbacee di fieno appena tagliato, la confermano appieno. I fiori sono bianchi e c’è un sentore vinoso che lo rende già così schietto e diretto. La mela verde Granny Smith è croccante. Le note semplici e dirette non deludono le aspettative. Il sorso non è da meno. Già mi piace il retro olfatto che richiama fortemente i sentori apprezzati all’olfazione. Torna la mela verde donando la sensazione di grande freschezza: non serve gustarlo particolarmente freddo (8/10 gradi). È sapido. Molto diretto, non opulento. Molto verticale. È un vino che ha una freschezza e secchezza così importante da renderlo quasi tannico. Serve abbinarlo ad un piatto di pesce dolce tipo salmone o gustarlo durante un aperitivo accompagnandolo con un formaggio non stagionato. La bocca chiude bene e la persistenza è giusta. Lorenzo è davvero commerciale. Parla a raffica della bottiglia. Del prezzo. Del fatto che deve essere un prezzo abbordabile per il consumatore per portarlo a bere anche due bottiglie. Sa il fatto suo! Passiamo al Rosato IGT. In una terra dove il Cerasuolo è monumento, sembra quasi un controsenso non chiamarlo così. Eppure, anche in questa scelta, noto lungimiranza, determinazione, serietà. Nella bottiglia non c’è il solo Montepulciano ma anche della Malvasia Rossa. Il colore che ne deriva è più chiaro di un classico Cerasuolo. Territorio, vitigno, tradizione. Non aveva senso proporre un Cerasuolo così chiaro. C’è qualcosa di diverso per via della Malvasia che da dolcezza ma no n residuo zuccherino. Quasi aromaticità. Al naso la cerasa è quella bianca, una ciliegia dolce e croccante: dolcezza della Malvasia, croccantezza del Montepulciano. Oltre la cerasa, un po’ di melograno, della pera Smith, un po’ di mela e dei fiorellini di campo, non c’è molto altro. Ancora semplicità dunque. Schiettezza, immediatezza. Come si conviene ad una serata di campagna in estate. Volevamo un prodotto più moderno, internazionale. Questo Rosato si dimostra amabile. Quasi piacione. Lo senti e dici “ah però”. In bocca emerge la parte fresca che al naso veniva coperta dalla Malvasia. La ciliegia scompare quasi per dare spazio ad una fragolina che non smette di essere presente. Molto secco. Sapidità più spinta del Pecorino. In finale molto più convincente di alcuni Cerasuoli. Rimane un senso di agrume in bocca che sembra una arancia. Si può bere da solo! Saltiamo nel mondo dei rossi partendo dal Montepulciano biologico. 2021. L’uva è raccolta in base agli anni tra l’ultima di settembre e la prima di ottobre. Imbottigliato a marzo 2022 dopo 4 mesi di acciaio per ricercare una beva estiva. Un obiettivo che fa capire il perché del vino: l’agriturismo! È nato da quello che ci dicevano i nostri clienti in agriturismo quando gli si proponeva il Montepulciano. Abbiamo voluto fare una versione più beverina. Colore rubino con riflessi porpora dice che nel calice c’è un Montepulciano giovane e non impegnato (né impegnativo). Al naso si intuisce la giovinezza: è come se fosse stato spremuto un grappolo direttamente nel bicchiere. Ricorda, per la frutta che si evidenzia al naso e per la freschezza, un vino novello. Freschezza e accessibilità. Se non ami particolarmente i rossi, questo potresti apprezzarlo. In bocca il tannino non è per nulla irruento. Molto secco. Caldo. La frutta in bocca mi ricorda, positivamente, un novello. D’estate con 30 gradi fuori e il vino a 16 si apprezza. Una bella scelta commerciale pensato per l’agriturismo. Per le serate estive e le cene all’aperto al chiaro di luna. È un vino “infame” (nel senso buono ovviamente!) perché te lo bevi tutto e i suoi 14 gradi rischi di sentirli dopo (ma tanto hai la stanza a due passi e ci può stare). Saliamo di livello e apriamo un Montepulciano “Filari in costa”. Coltivato in un appezzamento di circa due ettari (“in costa” vuol dire in pendenza) con esposizione sud sud est. Maturazione protratta in avanti Il colore ricorda il precedente ma senza la porpora come riflesso. I sentori di mora e ciliegia si sentono più maturi. Un po’ di sottobosco c’è. Il passaggio in botte (su circa il 25% della massa) è breve (sei mesi) e di basso impatto (terzo passaggio delle barrique) lo rendono diretto anche se c’è una maggiore e ovvia rotondità rispetto al precedente. Non mi aspetto tanta freschezza in bocca ma rotondità in evoluzione. Il tannino che si apprezza al sorso è infatti più vellutato. La rotondità c’è pur con un finale leggermente amaricante. Secco e non particolarmente sapido. Un vino non impegnato che ordini nuovamente poiché di facile abbinamento e di beva non impegnata. Ciò che mi piace è la continuità con il precedente rosso. Non so se è un caso o meno. Lo scoprirò assaggiando il prossimo. La Riserva 2019. Sempre di Montepulciano ovviamente. 3800 bottiglie. Etichetta numerata, ceralacca, cartavelina e cartone dedicato. Qui ci si dà un tono. Raccolto ancora più tardi del Filari in Costa, fa un anno di acciaio e un anno in barrique. Poi in bottiglia per un ulteriore anno. L’aumento della complessità olfattiva evidenzia l’evoluzione del vino. La frutta è quasi cotta. I fiori sono vicini al potpurry. Spezie dolci di cardamomo, chiodi di garofano, tabacco, pellame. Poi pepe. La secchezza è la stessa dei precedenti. I tannini sono levigati. La persistenza si allunga e la bocca si chiude precisa con una importante ciliegia. Il maggiore affinamento ha tolto anche il finale amaricante del precedente. La spalla garantisce una sicura evoluzione non tanto per i sentori quanto invece per i tannini che continueranno ad ammorbidirsi. Lo trovo splendidamente abbinabile con la brace (un arrosticino di pecora, manco a dirlo!).  È comunque una bottiglia che non necessita di particolari occasioni per essere bevuta. Anche questo ultimo assaggio mi conferma che c’è un filo conduttore tra i diversi vini a dimostrare che quando si attua un progetto, non necessariamente si deve venire da lontano. Basta essere coerenti e consistenti. La coerenza rende particolarmente evidente l’evoluzione sensoriale dei i vini. Pesolillo è uno dei produttori dove ho maggiormente trovato, nella semplicità, il legame dunque la costante impronta tra i vari prodotti. È bellissimo infatti constatare come da uno stesso vitigno si possano avere sensazioni olfattive e gustative completamente diverse ma legate tra esse. La scelta di produrre vino per l’agriturismo è senza dubbio una scelta intelligente e soprattutto vincente. Cosa ricerchiamo quando andiamo in un luogo del genere? Piacere, relax, convivialità. Proprio come il vino. Cosa è il vino se non sensazioni, ricordi? Ecco allora che aprendo certe bottiglie non possono che tornarci alla memoria le sensazioni vissute. O che vorremmo vivere. Non so quali e quanti clienti dell’agriturismo dovrò ringraziare per aver ispirato questa evoluzione aziendale, ma davvero grazie. Grazie anche alla famiglia Pesolillo che con lungimiranza e capacità è riuscita a realizzare qualcosa che spero, sia solo l’inizio di una storia.   Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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28 Aprile, 2023

Barabara Gatti il Moscato ha trovato il suo sorriso

Barabara Gatti il Moscato ha trovato il suo sorriso Quindic’anni, quindic’anni, quindic’anni Poesia di un’età che non ritorna Sulla bicicletta in due senza mani Matti come due cavalli io e te Era il 1976 quando il gruppo “I Vicini di casa” cantavano la canzone “Quindic’anni” garantendosi un successo discografico per poi scomparire nel dimenticatoio subito dopo. Già, è facile cantare una canzone così e poi scomparire. Più difficile è quando, proprio a quindici anni, non puoi scomparire perché inchiodato a responsabilità che non hai chiesto, non hai voluto. A quindi anni sei nel pieno della adolescenza. Vuoi andare in giro in bicicletta senza mani (nel 1976) o scorrazzando con una di quelle dannate macchinette ai giorni nostri. Ti batte il cuore se un ragazzo ti scrive o ti guarda. Pensi al mondo come non dovesse mai finire. Quando però a finire è la vita del faro della tua vita, di colui che ha rappresentato l’esempio, allora il mondo ti casca addosso. Anche una quindicenne ha un’anima e una sensibilità nel capire che quando il papà muore e rimani sola con tua madre, lì, non solo inizia il vuoto, ma il macigno che ti grava sulla testa è qualcosa che non sei sicura di poter sopportare. Barbara Gatti perde il papà quando ha quindici anni. Non c’è solo il vuoto lasciato, il macigno del dolore, la consapevolezza che da ora in poi sarà solo lei con la madre. No, c’è anche una azienda da portare avanti. A quindici anni? Già. Purtroppo. Per fortuna. Chissà. Siamo a Santo Stefano Belbo (Cuneo), luogo noto ai più per aver visto la nascita di Cesare Pavese; ai meno (purtroppo) perché centro nevralgico del Moscato d’Asti. Qui, sulla collina di Moncucco, sorge l’Azienda Agricola Piero Gatti che dagli anni 80 produce il nettare che ha reso famoso questo territorio nel mondo. Piero era il papà di Barbara. Piero insieme a Rita, la mamma di Barbara, fondarono l’azienda nel 1988. Due soli ettari di terra fino a quel momento utilizzati, anche dai loro genitori, solo per produrre uva da conferire. Il grande passo che papà Piero si sentiva nelle corde, forse anche nel dovere, di fare. Barbara era piccola. Così piccola che i ricordi di quei tempi affiorano con difficoltà. Non i momenti felici, le sensazioni che solo la vigna, la vendemmia, la cantina, i viaggi per portare il vino in giro possono imprimerti nella memoria. Gli odori e i sapori del vino sono nella sua memoria. Come un tatuaggio mnemonico. Ricordi sensoriali. Poi arriva quel momento. Quello che non ti aspetteresti mai. Che rifuggi perché non nella testa di un adolescente. Papà Piero che non c’è più. Si fa anche difficoltà a proferire la parola “morte”. Troppo dura. Troppo difficile ancora da digerire. Si dice “è venuto a mancare”. Ma manca. Manca davvero tanto. Come manca il terreno da sotto i piedi. Un terreno che però rimane li. Con tutta la azienda. Con la decisione di cosa fare Scegli tu cosa fare. Se andare avanti con l’azienda o meno. Mamma Rita è questo che dice a Barbara. A soli quindi anni ti viene voglia di scappare. Altro che rispondere. Sai in cuor tuo che se decidi di dire sì, prendi la tua giovinezza e la getti nel cesso. Se dici no, a finire nel cesso è l’azienda di tuo papà. La risposta che Barbara dà alla mamma è racchiusa nel suo sorriso. Sorriso disarmante. Tenero ma duro allo stesso tempo. Di quei sorrisi che ti fanno brillare gli occhi perché riesci a vedere dentro e capire quanto si dimeni tra felicità e tristezza. Felicità per ciò che fa, ciò che le circonda, ciò che è riuscita a portare avanti; tristezza per aver perso una parte importante della sua vita. Sono cresciuta un po’ in fretta. Ho dovuto prendere delle responsabilità che a quindici anni non si prendono. Non ho vissuto a pieno l’adolescenza Forza, tenacia, volontà. E tanto buon umore. Come puoi non aver rispetto per una donna come Barbara? Caso strano ci parliamo nel giorno della festa della donna. Dopo la morte di papà Piero c’è voluta la forza di mamma Rita unita a quella di Barbara per mandare avanti tutto. La mamma è stata un pilastro portante. Si è sobbarcata l’azienda per tanti anni in un periodo dove in queste zone una donna era guardata come una extra terrestre. Era l’unica donna che andava a comprare i prodotti per la vigna. Oggi, per fortuna, ci sono donne che lavorano la terra e guidano pure il trattore. Fino a quando anche mamma Rita non decide che sia arrivato il momento di raggiungere Piero. Così che Barbara è davvero sola. La guardi negli occhi e il sorriso quasi scompare. Troppo facile leggerle dentro una fragilità che però non dà a vedere. Quasi rifugge e sfugge ai pensieri con il sorriso a farle da schermo. Una azienda, che nel frattempo è diventata più grande, da portare avanti non è cosa da poco. Quando poi produci un prodotto identitario ma difficile come il Moscato, devi farlo bene. Devi necessariamente produrre un prodotto di eccellenza. Sì, certo, per i clienti. Ma anche, forse soprattutto, per papà Piero e mamma Rita. Perché loro da lassù guardano, osservano e non possono essere delusi. Barbara lo sa. Sa che il suo di compito non è semplice. È sola. Ma non demorde. Una spera che attraverso il lavoro, l’azienda e i loro insegnamenti di tenerli vivi. Le tocca davvero ripartire da zero. Per una che ha fatto il classico e poi si è iscritta a lingue all’università dover fare tutto da sola perché nemmeno mamma Rita c’è a condividere la conduzione, vuol dire ricominciare. Da zero. Grande umiltà. Grande spirito di adattamento. Grande forza. Occorre chiedere consiglio. Occorre sperimentare. E tanto. Barbara lo fa. Sono andata al Vinitaly da quando avevo quattordici anni Non lo dite in giro che facevano entrare minorenni altrimenti sono problemi!o Barbara ha ampliato i mercati verso l’estero arrivando a vendere il 50% fuori Italia. Papà faceva solo il moscato. Hanno aggiunto poi il Brachetto e i due rossi. Lei ha creato altri vini, il passito e il bianco “Due Gatti”. Cerchiamo di fare vini vegani. Ho fatto esperimenti sui passiti con appassimenti in vigna e graticci. Preferirei però fare vini in tradizione pura. È nato così ed è buono così. Talebana! Ho fatto solo esperienza con persone che mi hanno insegnato i trucchi del mestiere mentre con il vino tanti assaggi. Che ne penserebbe papà dei due vini? Io spero ne sia fiero. La filosofia che abbiamo sposato è sempre la stessa: fare vini di qualità, farli bene, rispettando la terra, le tradizioni. Spero possa esserne fiero. Barbara. È lei che gestisce l’azienda. Lei che crea vini e mantiene la tradizione. Frutto di passione e tanto amore. Una sfida continua con sé stessa. Perché papà Piero e mamma Rita possano essere soddisfatti di lei. Sembra quasi un peso questo. Che lei porta con allegria e fierezza. Ma anche con fermezza. Pretendendo da tutti il massimo, controllando che tutto sia a posto. Non può deludere papà Piero e mamma Rita. Mi spiacerebbe per tutti i sacrifici fatti da mio papà e da mia mamma che qualcosa andasse male. Non può permetterselo. In fondo ora c’è Agata, tre anni. Il futuro di questa azienda. Agata che porta il cognome di Barbara perché la continuità si fa anche così. Se le piace l’aiuto ma se non le dovesse piacere non voglio forzarla. Difficile comunque portare avanti l’azienda con una bambina di tre anni. Difficile, duro ma non da farle perdere il sorriso. Tempo libero non ce ne è dunque cerco di fare i lavori quando dorme o è all’asilo” Sorride mentre lo dice. Sorride di quella tenerezza che Barbara sa “diffondere” nell’ambiente che la circonda. Non si abbatte. Non si scoraggia. Sorride alla vita. E tuo marito? Lui fa l’agronomo. Ci siamo conosciuti per lavoro. Gli chiedo ovviamente di aiutarmi come in vendemmia: si prende le ferie! Se potessi scegliere di tornare indietro ai tuoi 15 anni? Io sono contentissima. Mi piace questo lavoro. Veder bere alle persone una cosa che hai fatto tu è una soddisfazione incredibile. L’idea di Barbara è di aumentare la produzione per via di qualche ettaro in più da far fruttare. Ma senza esagerare.   Poi vediamo quando cresce la mia bimba. Barbara Gatti e la sua spontaneità, la freschezza, la voglia di non mollare. Per papà Piero. Per mamma Rita. Per Agata. Per sé stessa. Ti auguro tante, tante meravigliose vendemmie con la speranza di vedere quanto prima la piccola Agata seguire le tue orme. Ve lo meritate.   PS ho assaggiato il Moscato e che dire se non “wow”? Un vino che per i suoi pochi gradi di alcol e la dolcezza non stucchevole, può essere bevuto da tutti. Un naso ricco di dolcezza con la pesca, la mandorla dolce, l’uva, gli agrumi dolci e i fiori di camomilla. In bocca esplode la dolcezza avvolgente senza essere stucchevole. C’è una base fresca e la sapidità che lo rende non opulento. La chiusura di bocca è gradevolissima, quasi elegante. L’ho degustato con la pastiera: eccellente!   Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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21 Aprile, 2023

Virna Borgogno la Signora delle Langhe

Virna Borgogno la Signora delle Langhe Ricordo di aver conosciuto Virna Borgogno durante una serata di presentazione di vini rimanendo colpito non dalle bottiglie di Barolo che aveva sul suo tavolo quanto dal nome di un bianco “Sto fuori”. Così quando mi presento e le chiedo di questo vino lei mi risponde candidamente che la voglia di evasione l’aveva portata a creare il Timorasso. Così Virna mi ha conquistato per rimanere poi estasiato dall’assaggio dei suoi Barolo. Virna Borgogno. Una donna che ti conquista con la sua schiettezza e con quei modi pragmatici, per certi versi fatalisti. Fiera di essere donna. Fiera di essere davvero la signora delle Langhe. Non è lei che si definisce così ma, dal mio punto di vista, è la definizione migliore che le si possa attribuire. L’azienda che Virna gestisce insieme alla sorella Ivana ha storia non tanto remota. Il nonno e il papà scomparso da pochissimo, iniziano l’attività nel primo dopoguerra. Erano gli anni nei quali occorreva sbarcare il lunario dopo che la guerra aveva distrutto tutto. La prima necessità era guadagnarsi da vivere. Ha iniziato come sapeva. Era più una questione di necessità economica per guadagnarsi da vivere. Bisognava produrre e vendere. Uva e vino. Senza badare tanto alla qualità perché non era quella la priorità. Poi, il papà trova la strada e inizia ad acquistare qualche terreno costruendo la cantina e la nuova casa dove si trasferiscono. 12 ettari di proprietà più circa 8 tra affitto e co-conduzione insieme ad altri agricoltori Si fa così nelle Langhe dove acquistare un terreno è diventato impegnativo. Forme di questo tipo sono l’ideale. 80.000 bottiglie l’anno. Per una azienda di Barolo non sono poche. Una parte dei nostri Barolo vanno in vendita ad imbottigliatori classici. È anche una questione di scelta. Per fare delle cose buone in bottiglia bisogna anche scartare. Vogliamo fare delle selezioni che prevedono uno scarto. Fin qui sembra tutto nella norma. Una famiglia. Le vigne. Il salto generazionale. Una zona baciata da Dio. Sembra tutto facile no? Ehm, non proprio. occorre fare un salto indietro nel tempo per capire bene. Immaginatevi di essere negli anni 80. Siamo sempre a Barolo, nel pieno centro delle Langhe. Li, in quel tempo, se sei figlio di un produttore poteva essere facile farsi strada. Figlio appunto. Essere “figlia” era altra cosa. Le donne al massimo partecipavano alla vendemmia. Ma per il resto, l’essere relegate in casa era la normalità. Lodovico Borgogno aveva solo due figlie femmine, Ivana e Virna. Siamo due femmine e papà ha avuto sempre un po’ di tristezza nel non avere avuto un maschio. Era il principio dei produttori. Occorreva comunque pensare all’azienda e alla sua successione. Non che ci fossero problemi ma papà Lodovico aveva capito che c’era bisogno di un cambio di passo. Lui che aveva iniziato a fare vino senza tante esperienze. Lui che sapeva come trattare la vigna e l’uva ma meno il vino. Lui che faceva il vino secondo la tradizione aveva capito che serviva altro per andare avanti. Così che tra le due figlie sceglie Virna. Si è poi accontentato puntando su di me perché avevo le caratteristiche del produttore. Virna non è una che si improvvisa. Sa che per affermarsi, per farsi valere, per far capire come una donna sappia fare come, anzi meglio di un uomo, serva studiare. Serva essere preparati e solidi. Non basta l’esperienza che ancora non ha. Non basta essere la figlia del produttore. Lei sa che deve sentirsi solida. Non le interessa tanto dimostrare. Lei, Virna, vuole essere consapevole. Così studia alla scuola di Enologia. Ma non basta. Si iscrive, unica donna, alla facoltà di Enologia a Torino e diventa la prima donna in Italia a conseguire la laurea. Siamo nel 91. Sembra un secolo fa e per certi versi, per la mentalità che fortunatamente c’è oggi, lo è. Bellissimo che sia cambiato tutto in trenta anni. Peccato ci sia voluto così tanto. Ma nel 91 faceva clamore la cosa. Anche se a Virna interessava poco. Per lei era solo l’inizio. Anzi, continuare ciò che stava facendo. Perché non è che da studentessa non si occupava dell’azienda. Sono arrivata a casa un po’ più carrozzata. In quei tempi lì la presenza femminile nel campo non era sviluppata come oggi. Allora come adesso. Poche anche oggi fanno scelte enologiche di cantine. Dopo la laurea non è che Virna ha subito la strada spianata. Il passaggio del testimone richiede tempo. Ci sono voluti dieci anni anche se è avvenuto passo passo. Papà aveva un carattere forte ma era generoso e soprattutto pensava al futuro. Aveva già messo in pista tutti gli aspetti per avere continuità. Non si è tenuto tutto fino all’ultimo. Dal punto di vista delle scelte produttive voleva toccare con mano. Ho insistito per fare delle scelte e man mano che i vini venivano meglio, che venivano apprezzati deve aver pensato che si poteva dare spazio. Un marito può essere di supporto ma può anche essere ingombrante. Soprattutto se è un produttore di Barbaresco. Pure bravo. Ogni tanto papà mi diceva di farlo parlare con tuo marito. Condividere progetti con una parte maschile forte aiuta ma allo stesso tempo relega un po’ nelle retrovie. È come se non prendessi totalmente possesso delle proprie capacità. Forse è qualcosa che arriva dalla tradizione, dalla realtà rurale. Forse noi donne non abbiamo la consapevolezza di non poterlo fare. C’è qualcosa che arriva dalla tradizione. Vedo che c’è questo sentimento che viene da lontano che noi stesse coltiviamo. Alla fine serve la mancanza. Perché fino a quando hai l’appoggio non decollerai mai. Ed è così, quando la vita porta ad intraprendere strade diverse, quando la separazione dal marito avviene, che Virna spicca il volo. Con il papà che iniziò a darle fiducia. Papà non aveva studiato. Veniva da una famiglia povera e il primo aspetto era portare a casa la pagnotta. Quando si è accorto che la qualità diventava sempre più importante ha lasciato spazio. Pensare ad un diradamento in fase di produzione andava oltre l’immaginazione. In fondo venivano da un mondo diverso. Dopo la guerra. Nel 2005, dopo circa dieci anni che ero in azienda, Virna ne prende le redini. Fiera Virna. Veramente fiera. Di essere donna e di lavorare in questo settore. Ma senza vantarsi. Lo dice con la leggerezza e la pragmaticità che la contraddistingue. Virna che si occupa della parte tecnica. È lei che fa le scelte enologiche. È lei che si occupa del lato commerciale. La parte tecnica la faccio io. Non faccio più i lavori pratici come i travasi ma le scelte le faccio io. Ho due collaboratori che mi seguono per la parte pratica. Ho un appoggio esterno di un collega che viene ogni tanto. Mia sorella che si occupa della parte burocratica. Le lascio fare la roba grama. Riconosciuto anche dal papà che diceva agli altri che i vini li faceva Virna perché lui li aveva sempre fatti come gli era stato detto di farli. La scelta delle nuove etichette con il suo nome, Virna, impresso e che diventa un brand. Una scelta per sdoganare un cognome, Borgogno, forse troppo impegnativo. I nomi dei vini. Scelti in maniera identitaria con la voglia di essere sé stessi. Virna consapevole che in questo campo non si abbia mai abbastanza esperienza: ogni annata è diversa, le basi di partenza sono diverse. Io mi ritengo sempre abbastanza ignorante perché ci sono situazioni che stupiscono sia in vigna. Sono una che pensa che i vini vadano seguiti ma non cambiati. Non mi piace l’abbandono perché noi abbiamo una funzione importante. Se lo lascio lì e fa una strada sua non va bene. Serve seguirlo perché poi dopo chiediamo dei soldi. Grande merito di Virna è aver capito le diversità che il territorio delle Langhe può offrire e come questo si identifica nel vino. Caratterizzare le singole vigne per creare qualcosa di riconoscibile. Di partenza abbiamo dei prodotti diversi dunque puoi valutare se appiattire oppure se seguire le differenze. Abbiamo scelto di seguire le differenze perché ci sono. È molto più stimolante e stressante. Altrimenti ci si annoia. In Virna c’è la vera voglia di far crescere il territorio. Ognuno con le sue identità. Differenti. Senza fare classifiche ma lasciando al mercato e ai produttori la valorizzazione delle zone con carattere più spiccato. Anche con sperimentazioni come quella del Timorasso, non per dimostrare qualcosa a qualcuno ma come scelta. Scegliere di essere unici e di farsi apprezzare per questo. Sono una che non se ne frega tanto di cosa dicono gli altri. Facciamo le nostre cose. Tante vendemmie alle spalle per Virna e tante ancora dinanzi a sé. Un futuro tutto da scrivere magari con Lorenzo, il figlio di Ivana. Il fatto di essere zia è un bellissimo vantaggio. Lorenzo è un ragazzo in gamba con grande capacità di parlare con la gente. Perfetto da un punto di vista commerciale. I miei figli uno è piccolo e uno si sta laureando in legge. Loro dicono che devo fare almeno altre dieci/quindici vendemmie. Papà ha lavorato fino a 87 anni. Tutti i giorni a far qualcosa. Quindi non è che mi spavento tanto. Se non ho dei problemi continuo a lavorare. È un impegno ma riempi la giornata facendo cose belle. Una donna forte. Una di quelle con la schiena dritta che ha come unico vanto non i suoi vini ma di aver fatto gli studi di enologia, prima donna in Italia. Il fatto di essermi preparata mi aiutata tantissimo ad affermarmi. Un po’ di preparazione ci va. Questo vorrei capissero i miei figli. Condurre insieme alla sorella una azienda totalmente al femminile non è da sottovalutare. Affermarsi in un mondo maschilista superando i pregiudizi non deve essere stato facile per nulla. Anche sfidando tutto e tutti. Sono una persona molto pratica. Mi fanno arrabbiare i concetti puritani sulla produzione e sulla cantina. Nella vita e nella produzione ci vanno i compromessi. Non posso fare l’uva buona senza fare i trattamenti. Bisogna raccontare le cose come stanno perché la realtà è diversa. I vini sono come lei. Caratteriali. Forti. Unici. Vini che lasciano il segno. Che vanno aspettati, ascoltati, compresi. Ma che poi restituiscono, generosamente, tutta la loro unicità. Spessimo mi dicono che sono vini eleganti e spesso dico che tutta l’eleganza che non ho è nei vini. L’ho messa tutta li. Invece Virna è elegante. Di quella eleganza che è nella schiettezza, nei modi di porsi, di esaltare la propria azienda, di essere identitaria. Questo la rende una vera signora. Anzi, la Signora delle Langhe.   Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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14 Aprile, 2023

Pian delle vette e l’orgoglio delle Alpi Bellunesi

Pian delle vette e l’orgoglio delle Alpi Bellunesi Anche se ho vaghi ricordi della geografia studiata alle scuole medie, delle Alpi Bellunesi non ho proprio memoria. Eppure se qualcuno mi chiedesse di Cortina, non esiterei a definirla la perla delle Dolomiti. Cortina, Dolomiti, Alpi Bellunesi. Tutto qui? No, ovviamente. Le Alpi Bellunesi sono un unicum del nostro variopinto territorio tanto da dedicarci un Parco Nazionale. Meriterebbero dunque maggiore notorietà. Analogamente per il vino. Alzi la mano chi pensando, per il vino, alle Alpi, pensa a Belluno. Facile dire Trentino, facile dire Alto Adige. Meno Belluno. A meno che non si parli di Prosecco (e anche qui sfido ad associarlo alle Alpi). Eppure le Alpi Bellunesi hanno tutto. Ci sono le esposizioni, il suolo, i vitigni. C’è il clima, i venti, l’umidità, l’influsso del mare. Allora è solo una questione di notorietà. Proprio questo deve aver pensato Egidio quando, in quel di Rivergaro (Piacenza) dove lavorava, si trovava a parlare con i colleghi e nessuno conosceva le sue terre di origine. Per il vino ovviamente! Non serve essere orgogliosi per pensare che qualcosa in più si possa fare. Impegnarsi in prima persona perché la terra dove si è nati possa avere un ruolo. Siamo a Feltre, proprio ai piedi delle Alpi Bellunesi, nell’omonimo Parco Nazionale. 600 metri sul livello del mare. Prima della Grande Guerra qui si produceva vino per l’impero austro ungarico. Emigrazione, fillossera e indirizzo lattiero caseario delle terre generarono anni di oblio fino a quando, alla fine del secolo scorso, la Regione Veneto pensò che si dovesse rigenerare la viticultura di queste zone. Con questi presupposti, anzi su queste basi nasce Pian Delle Vette. Una delle poche aziende nate dall’impulso della Regione Veneto verso la cultura del vino in queste aree. Non basta un impulso però per far funzionare le cose però. Ci vuole una idea. Ci vuole imprenditorialità. Ci vuole dedizione. Oltre che tanto altro. L’azienda Pian delle Vette non gode di buona salute. Tanta produzione, qualche scelta di vitigni non proprio azzeccata. Insomma c’è da rimetterci mano. Così, per caso, come spesso capita in queste cose, Egidio D’Incà capisce che questa che gli si presenta è l’occasione per fare veramente qualcosa per la sua terra. Da solo sarebbe impossibile. Il suo lavoro è un altro e non può certo abbandonarlo. Ha bisogno di un socio e lo trova nel modo più semplice: Walter il promotore finanziario, amico di lunga data.   Io sono un suo cliente da quando ha iniziato la sua attività negli anni 80. Poi lui ha vissuto nel paese di Mugnai dove ho vissuto anche io. Paese storico della viticultura bellunese. È il 2016 quando Egidio e Walter si buttano letteralmente in questa iniziativa rilevando l’azienda dalla coppia trevigiana che l’aveva fondata. Ero rientrato dall’esperienza di Rivergaro aiutando i soci nel veneto. Avevi del tempo. La passione per coltivare la terra c’era ed è venuta questa occasione e abbiamo deciso di fare il salto. Qui c’era una situazione talmente ideale per fare una buona cosa che lo stimolo è venuto fuori. Ai due si aggiunge nel 2020 Alessandro che di mestiere fa l’istruttore sportivo e fisioterapista e che si innamora delle vigne nel periodo del Covid quando la sua attività è ferma. Sono quelle casualità che capitano e che si possono prendere oppure no. Non avevo grandi conoscenze specifiche. Durante il lockdown era tutto chiuso e ho iniziato a dare una mano ad Egidio. Mi è piaciuto quello che si faceva qui e dalla passione è diventato un progetto, un lavoro. È il mio lavoro e un po’ alla volta ho imparato la gestione agronomica dall’agronomo e la cantina. Egidio mi sta dando nozioni sulla parte amministrativa. Egidio, Walter, Alessandro. Tre persone prestate alla viticultura da altri ambiti. Tre persone con una idea ben precisa. Con un progetto imprenditoriale che è proprio ciò che serve perché una azienda possa funzionare davvero. Tre persone animate dall’impegno verso un territorio. Dal senso di appartenenza verso un territorio che sentono proprio. Lo stimolo è stato il fatto che noi siamo una provincia un po’ bistrattata e quando ero in quel di Rivergaro si parlava solo di Trentino e Alto dige. Quando rientro in patria devo fare qualcosa. Egidio sa bene come ci si debba sentire quando si vive lontano dalla propria terra natia. Quando, un po’ come a scuola, nessuno sa cosa siano le Alpi Bellunesi. Ma soprattutto nessuno le conosce quando si parla di vino. La regione aveva fatto uno studio ampelografico dove andava a dichiarare i risultati la nostra zona era propensa per la coltivazione di vini bianchi fermi e spumanti e vini rossi dell’arco alpino. Su questa scorta sono stati piantati 8 tipologia di vitigni dell’arco alpino. L’azienda che rilevano è piccola. Due soli ettari (poi diventati tre) coltivati con vitigni internazionali come Chardonnay, Muller Thurgau, Pinot Nero ma anche locali come Bianchetta e Teroldego Il Teroldego viene considerato come vitigno trentino però il primo impianto è stato fatto nell’800 a Tese Valsugana Il grosso delle vigne lo abbiamo trovato così. C’era l’impostazione del vigneto e una importante quantità di vino perché il precedente titolare non aveva uno sfogo commerciale. Siamo dovuti partire in maniera veloce. I primi due mesi abbiamo dovuto affrontare tutto. Come l’imbottigliamento. Per il vigneto abbiamo dato la svolta in funzione della nostra visione. Infatti la svolta è nell’utilizzo anche di vitigni svizzeri come Gamaret (incrocio di Gamay e Reichensteiner), Diolinor (incrocio tra Pinot Nero e Rouge de Diolly) resistenti e di struttura: grande segno di imprenditorialità nell’utilizzare vitigni resistenti eliminando quelli poco versatili come il Traminer. Dalla passione all’entusiasmo per portare avanti un progetto. Con ampi margini di miglioramento. Ruoli ben definiti con Alessandro che si occupa del vigneto e della vinificazione; Egidio della parte strategica, commerciale e amministrativa; Walter che fa da jolly della situazione con focus sulla parte agronomica. Ciò che manca sono i supporti agronomici. A Feltre abbiamo una scuola agraria che si occupa di lattiero-caseario; a Conegliano fanno solo prosecco. Dunque dobbiamo andare a cercarlo in Trentino Idee chiare, strategia altrettanto chiara, programmi per il futuro. Chiari. Il terzetto insomma ha dato una vera svolta imprenditoriale a Pian delle Vette. Due linee di prodotto per due diverse tipologie di vini. La prima fascia costituita da selezioni di uve Pinot Nero, Teroldego, Gamaret, Diolinor, Chardonnay (questa anche in metodo classico con il Pinot Nero) e una seconda fascia di ingresso. Abbiamo iniziato un progetto con un vicino creando una linea di entrata: frizzante, rifermentato, rosso e bianco fermo, un rosso base. Tutti base Teroldego, Merlot e Muller Thurgau. In totale la produzione non supera le 15 mila bottiglie anche perché le rese arrivano al massimo a 50 quintali ettaro. Da noi se vuoi fare qualità devi fare queste quantità. Bhè con vigneti a circa 600 metri di altitudine, terreno morenico e pendenza a 35/45% di più non si può proprio fare nonostante operazioni in vigna in parte meccanizzata. Non possiamo fare il diserbo meccanico perché ci sono terrazzamenti. Abbiamo inserito una macchina che ci fa questo lavoro ma non dovunque. Dove ci sono le scarpate più alte occorre farlo a mano. Obiettivo manco a dirlo è diventare una azienda che sia riconosciuta per la qualità dei vini. La qualità appunto. Ho personalmente provato il Pinot Nero 2017 (la recensione completa su @ivan_1969) e ne sono rimasto molto colpito dai coinvolgenti e complessi sentori: i frutti rossi e neri e gli aghi di pino a ricordare che siamo ai piedi delle Alpi. Poi la prugna non ancora matura, la violetta in potpurri, il pepe, la cannella, la noce moscata e l’alloro. Tanto per dimostrare di aver riposato per due anni in botte. Non può mancare il balsamico perché siamo in quota. Al sorso me ne sono innamorato. Fresco, secco, caldo, minerale con tannini quasi eleganti perché si possa bere, senza problemi, l’intero calice. Bella persistenza e chiusura di bocca elegante con la prugna che torna. Un vino mai banale, complesso e avvolgente, non morbido ma deciso. Determinato e imponente senza darsi arie. L’ho abbinato ad una tagliatella al ragù ed è stato sublime. Qui attorno sono nate poche realtà e ancor meno fanno vinificazione. Dunque ci sarà nel futuro possibilità di ampliamento. Per la linea principale molte viti devono arrivare alla maturazione giusta. E anche la visione del futuro sembra decisamente chiara! Se parliamo e non facciamo niente, l’esempio per i giovani non c’è. Questo può essere un esempio per far capire che le cose si possono fare. Egidio, Walter, Alessandro. Sono le Alpi Bellunesi ad essere orgogliosi di voi. Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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7 Aprile, 2023

Azienda Agricola Mattè. Semplicemente Bruno e Michele

Azienda Agricola Mattè Semplicemente Bruno e Michele Nella favola di Lev Tolstoj “i due fratelli”, il fratello maggiore è quello che si pone obiettivi ambiziosi, sfidanti e rischiosi; il fratello minore colui che tende a non perdere di vista i piccoli piaceri della vita e rimanere attaccato alle tradizioni. Bruno e Michele di cognome fanno Mattè. Hanno 36 e 33 anni. Una famiglia alle spalle che ha sempre lavorato la terra in quel di Volano a poco più di 20 km da Trento. Quando si ritrovano a dover gestire i pochi ettari che papà Marco aveva ricevuto dal nonno (pochi perché quando hai dieci figli devi dare un po’ ciascuno) e che non erano sufficienti per produrre vino in quantità utile per campare (negli anni 80 la quantità era l’unica unità di misura disponibile per il vino) si comportano come non ti aspetteresti da due ragazzi. Nelle tante storie di cantine che si tramandano di padre in figlio (o figli) infatti si vede spesso uno stanco proseguire dell’attività in un mercato sempre più difficile. Invece no. In questa storia, tutto è profondamente diverso. Siamo dinanzi a due ragazzi, Bruno e Michele che non solo sanno il fatto loro, ma hanno bene in testa il loro futuro. La lunga chiaccherata con Bruno e Michele la sintetizzo così: Il fondo coltivato consta di quattro ettari di proprietà e sei in affitto; Sul fondo gravitano tre aziende tutte riconducibili a loro e sui quali si lavora insieme; Un solo ettaro, composto dalle particelle migliori, è vitato per la cantina; Vitigni coltivati: Marzemino, Carbernet Sauvignon, Carmenere, Nosiola per le linee base (anche se di base non si può parlare); Pinot Nero, Grigio e Chardonnay per le linee top che dovranno uscire (maggiori affinamenti ed anni alterni) Metodi di vinificazione ricercati e non banali Sì certo, raccontarla in questo modo è facile. Due ragazzi nati nei campi, tra le vigne del trentino che non avevano mai visto una cantina prima di entrarci da soli. Per necessità o forse solo per poter credere nelle loro idee, nel progetto, nel sogno. La voglia di creare qualcosa di diverso. Negli anni impari, assorbi e cerchi di riportarlo nella nostra realtà. Abbiam cercato in questi tre anni di trovare una identità aziendale. Bruno e Michele non è che non abbiano faticato per arrivare sin qui (e sin qui per loro stessa ammissione è solo l’inizio perché di strada da fare ce ne è e molta). Anzitutto lo studio. L’istituto Agrario di San Michele all’Adige non è tanto lontano ed entrambi diventano periti agrari per poi darsi dei compiti in azienda: Bruno in vigna, Michele in cantina. Poi la sperimentazione.  È il 2007 quando iniziano a fare micro vinificazioni. Piccoli esperimenti su come si può produrre del vino in modalità diverse dal solito. Con le diverse particelle. Con diverse tecniche in cantina che vanno ad imparare curiosando in giro. Quindi l’intuizione, il pensare che se vogliono differenziarsi in quel del Trentino ma ancor più in Italia devono offrire qualcosa di diverso. In queste terre, nelle terre che furono del nonno prima e del padre poi ci sono varietà che rappresentano il territorio, il Trentino. C’è la Nosiola e il Marzemino ad esempio. Due vitigni complicati ma unici. Poco conosciuti ma proprio per questo ancor più difficili. Occorre qualcosa di diverso sia per vincere le ostilità dei vitigni sia per farli affermare. Andare controcorrente. Quando siam partiti ci prendevano per pazzi perché volevamo lavorare con Marzemino, Carmenere e Nosiola Infine investono. Puoi avere anche le migliori idee del mondo ma devi investire se vuoi emergere. Abbiamo ristrutturata la cantina, le attrezzature, la barricaia, la sala degustazione. Il 14 di agosto sono arrivati i serbatori e al 21 abbiamo iniziato la vinificazione. Come nella favola di Tolstoj, Bruno è il fratello maggiore e forse è quello che si pone obiettivi ambiziosi. È anche l’anima commerciale dell’azienda. Michele, da fratello minore è forse quello più pacato. Che pensa a come fare il vino in una maniera innovativa. Ma sono una bella coppia e soprattutto una vera squadra. Bruno ci tiene a dirmi che loro sono una azienda artigianale Siamo una azienda artigiana dall’inizio alla fine. Un artigiano puro. Tutta la gestione aziendale. Non abbiamo nemmeno un agente perché giriamo noi con la macchina. Abbiamo una etichettatrice semi automatica e una imbottigliatrice manuale. Che la famiglia Mattè sappia vinificare in zona era cosa nota. Già il papà Marco produceva bollicine con metodo classico che poi conservava in un rifugio anti areo ma, arrivare ai livelli di Bruno e Michele, proprio no! Quando Michele mi spiega le tecniche di vinificazione (perché è lui l’enologo al quale piace lavorare da solo in cantina!) rimango esterrefatto. Celle frigorifere per la vendemmi per preservare le ossidazioni. Vasche refrigerata. Saturazione azotata e argon. Fermentazione dei rossi in tini aperti. Bianchi con fine fermentazione parte in legno e acciaio. Acini interi. Macerazioni carboniche. Tre anni di barrique. Tostature lievi. Affiniamo tutta la nostra massa in legno. Anche la Nosiola e il rosato da Cabernet. Ogni anno fanno prove come se la cantina fosse un laboratorio. Ogni anno è diverso e occorre provare. Perdonate il francesismo ma l’unica parola che mi viene da dire è: minchia! L’impressione che ho parlando con Bruno e Michele è che questi due ragazzi non solo sono preparati ma abbiano talmente bene in mente il loro percorso, sappiano perfettamente i loro punti di forza e le debolezze che quasi quasi penso mi stiano facendo una candid camera: non starò parlando con qualcuno che mi mette alla prova? Scavando nelle persone si coglie davvero il loro spirito. La voglia di vivere la terra e la famiglia Una famiglia che lavora. Io e mio fratello. Mia madre, mio padre. Alla vendemmia si parte al mattino. Una bella colazione alle 9. Un aperitivo prima di pranzo. Una merenda nel pomeriggio. Una vendemmia tutta manuale ovviamente. Perché qui si crede ancora al valore dell’uomo e all’apporto che può dare alla terra. Ma anche perché il terreno è tutto marne e calcare. Se poi piove è ancora peggio. Però poi te lo ritrovi nel prodotto finale. Il grappolo di uva che lo prendi con le mani e fai la cernita così da trovartelo in cantina sano. Questo dà ai vini grande pulizia. Preparazione. Visione. Idee. Famiglia. Ma piedi ben piantati nel terreno dal quale nasce la vite. Siam partiti con l’aspettativa di aumentare le bottiglie. Sono poi arrivati due anni di Covid e la vendita è iniziata nel 2022. Passi piccoli, graduali con l’idea di arrivare al massimo a 15.000 bottiglie con nicchie di produzione. Produzioni calate per migliorare la produzione. Numeri piccoli per ricercare la qualità. Consci delle proprie possibilità, delle attrezzature, delle proprie forze utili solo per raggiungere la qualità. Il Covid è stato per loro quasi una fortuna perché con i vini in bottiglia hanno potuto osservarne l’evoluzione e il loro miglioramento. Ora siamo fuori con la line giusta. Quasi non vogliono venderli per l’evoluzione. Ma anche su questo sanno quanto sia importante farsi conoscere e avere il giusto riconoscimento. Abbiamo anche un Trento doc con il quale potevamo già essere fuori ma vorremmo portarlo a 60/120 mesi. Come se non bastasse! Cominciamo ad assaggiare e partiamo da una vera chicca. Stoll, la Nosiola metodo Classico stabulata in legno. Il nome, un omaggio al rifugio anti areo dove papà Marco metteva il suo di metodo classico “Sono anni difficili, bisogna tener duro. Ogni anno impariamo per migliorare. La Nosiola spumante metodo classico siamo solo noi a farla. Cerchiamo strade diverse per evitare la concorrenza. 15 mesi di lievito: non si deve eccedere perché la Nosiola può diventare semi aromatico e loro sanno che non troverebbe mercato. È una bolla che esula completamente da qualsiasi altra bolla trentina. Gli odori sono quelli freschissimi di nocciola caratteristica della Nosiola. Una nocciola i cui aromi partono dal verde della buccia (come faccio a spiegare a mio figlio l’odore della buccia della nocciola adesso? È tanto che la vede con il guscio. Lasciamo perdere che è meglio) per poi evolversi e diventare frutto. C’è una bella freschezza data dagli agrumi che spiccano. Una mineralità da pietra focaia ma, soprattutto un meraviglioso sentore di che mi ricorda la “torta della nonna” nella versione con la crema al limone. Quando assaggio noto subito una bolla molto fine e la delicata spalla acida per nulla invasiva ottenuta grazie all’affinamento in legno e al controllo delle temperature in post fermentazione. Va quasi a chiudere sull’amarognolo. La persistenza è buona con ottimo retro olfatto che fa riemergere la frutta e, soprattutto la voglia di un altro calice. Insomma, si lascia bere volentieri. Lo abbinerei ad una pizza base mozzarella di bufala bianca o a del riso zucca e speck. Bolla convincente La Nosiola è un vitigno molto esile da un punto di vista strutturale. Si mantiene di più nel tempo. Assaggiamo delle Nosiole di venti anni fa. Facciamo due vendemmie sulla stessa superficie. I grappoli più verdi per la spumantizzazione; i più spargoli per la surmaturazione in vigna (almeno 15 giorni in più). Già questo lascia intravedere una lavorazione in più per un vino bianco da Nosiola. Quella che assaggiamo è la Nosiola Avel 2019 con un 30% di appassimento unita a fine fermentazione. Questo procedimento le dona un bel colore carico di oro. La surmaturazione si sente dai fiori di camomilla che virano verso il miele di acacia. C’è il balsamico e si sente la mentuccia. La particolarità di questo vino è data dalla frutta che qui vira sul tropicale o a pasta gialla. In bocca c’è una secchezza importante. La spalla non è eccessiva grazie all’affinamento in legno per un 40% cosa questa che regala anche una certa rotondità e un accenno di tannino. Il finale è ancora verso l’amarognolo, caratteristica varietale che si mantiene. Bel vino anche se l’abbinamento risulta un po’ complesso. C’è bisogno di un pesce grasso come scorfano o rana pescatrice. Una anguilla, un capitone. Vino non banale non è facile. Bravi È un vino che da quando lo abbiamo imbottigliato ad oggi è in continua evoluzione. Siam partiti con note di gelsomino esagerato e ci siamo accorti che per caratteristiche genetiche, tende a complessarsi. A distanza di sei mesi il vino è completamente diverso. Siamo usciti dopo due anni di bottiglia Questo denota sempre di più una grande visione. Apriamo il Rosato Fiorir de Soreie da uve Cabernet 2020. Qui abbiamo azzardato. È un cabernet vinificato in bianco dove abbiamo una macerazione in cella frigo per una settimana con estrazione del colore. Poi in vasca per una settimana di stabulazione per far emergere i sentori e una fermentazione lunga anche due settimane. Poi in legno per 8 mesi per poi andare in bottiglia. Scusate se è poco! Si sentono le note semi ossidative che richiamano uno champagne anche di un certo affinamento. È un rosato fresco e complesso. Qui abbiamo rischiato con un metodo provenzale avendo degli amici che vinificano li. Seguito la Grenache provenzale con un Cabernet proveniente da vigne esposte a nord est Quando metto il naso nel bicchiere, mi piace molto per i sentori freschi e vivi. C’è del mirtillo, del fico, del melograno. Ricorda le caramelle balsamiche fatte con le erbe. Complessità interessante di composti di mele cotte, vaniglia. C’è la mela annurca che mia nonna ci tagliava a fettine in estate. Sono fermo all’olfazione perché è i sentori mi suscitano ricordi meravigliosi. La dimensione è così dolce e rotonda che quasi non ce la faccio a berlo. In bocca le note ossidative emergono preponderanti. Il sentore di mela annurca me lo ritrovo in bocca ancorché molto sapido. La rotondità arriva comunque aprendosi completamente in bocca. Si sente il legno e torna quella caramella balsamica colta dal naso. La scelta di legni poco o per nulla tostati sono utili per non rendere stucchevole quello che risulta un grande vino. Poi è il turno dei rossi. Krea, il Marzemino. Vitigno particolarmente difficile perché germoglia precocemente e con le gelate tardive è soggetto a perdite di produzione. In cantina, se non trattato bene, tende ad andare in riduzione. I sentori molto chiusi lo rendono di difficile impatto commerciale. Con uno studio certosino abbiamo deciso di stravolgere il marzemino. Nasce da un vigneto di 63 anni nella zona classica dello Ziresi. Bruno ne parla con un po’ di delusione. Ce lo hanno declassato dalla doc perché non rispetta il disciplinare. Per aspetti legati al prodotto perché non richiama la tipicità. Già, perché quando vuoi fare qualcosa di diverso, di significativo ed unico, c’è sempre da combattere. È un 2019, prima vendemmia. Porta in sé un 30% di uva appassita in arellario. Lavorata ad acini interi con una macerazione quasi carbonica in tini aperti. Fermentazione sulla prima massa di 15/20 giorni poi in acciaio. Dopo 45 giorni di appassimento delle altre uve si diraspano ad acini interi e fermentati. Poi tutta la massa viene ripassato sulla massa appassita lasciando il cappello sommerso. Va poi in botti extra fine di rovere leggermente tostato per avere una struttura più importante ed evitare che abbia un finale vero l’amarognolo. Va spesso travasato per evitare che vada in riduzione. Vanno anche tolti tutti i vinaccioli per evitare la nota amara. Già così si può capire la complessità che questi due ragazzi portano in un vino. Quanto studio, quanta passione, quanto tempo ci vuole per creare qualcosa del genere. La recensione sul mio blog @ivan_1969 Colore rubino estremamente compatto. Lievi riflessi viranti verso il granato. La dolcezza si sente già al naso con note di amarena sotto spirito, fiori in potpurri. La viola è molto evidente e si amalgama molto con nel potpurri. C’è tabacco, vaniglia, chiodi di garofano. Tutte note piacevolmente dolci. La complessità olfattiva non è elevata perché il vitigno quello può offrire ma se lo si tenesse in bottiglia potrebbe esprimere ancora di più. In bocca tannino e freschezza prevalgono. La sapidità è presente. Ti aspetteresti una maggiore rotondità che ci sarà solo tra qualche tempo. È un vino che offre una diversità tra naso e bocca meravigliando per la freschezza. Il finale ha ancora un pelino di amarognolo comunque levigatissima. Persistenza non lung. Il retro olfatto richiama gli odori del calice. Un vino con cui pasteggiare. Non è un Marzemino croccante ma quasi masticabile che si abbina bene con carni o una tagliatella al ragù. Io lo proporrei con un pizzocchero. Posso dire che hanno preso un marzemino e ne hanno fatto un grande vino. Finiamo con i Cabernet Mener. Stesso vigneto del rosato vendemmiato 15 giorni dopo. 65% di Cabernet Sauvignon, 5% di Cabernet Franc e 30% di Carmenere appassito con lo stesso procedimento del Marzemino. Insomma, la lavorazione è la stessa del Krea cambiando solo un po’ la tostatura delle botti per il Carmenere. Nel bicchiere bel rubino con colore similare al Marzemino. I sentori cambiano poiché non propriamente morbidi. Semmai più ruvidi. Volevamo un taglio bordolese come si facevano prima in trentino senza il merlot. Sono evidenti le note di liquirizia e cacao. Il Carmenere in surmaturazione porta il pepe verde. C’è la balsamicità che è come un marchio di fabbrica dell’azienda. Sento sottobosco e aghi di pino che richiamano le foreste. La complessità è simile al Marzemino. Interessante per la sua freschezza. Nonostante procedimenti analoghi i sentori passano dalla rotondità alla freschezza. Il sorso evidenza coerenza tra olfatto e gusto. Grande freschezza e sapidità. Secco e caldo. Meno masticabile del Marzemino. Persistenza che si allunga rendendo l’abbinamento necessario con qualcosa di consistente tipo capriolo e cervo. Lo vedo benissimo con una polenta funghi e formaggio fuso. Abbiamo cercato di stare in linea con il nostro territorio offrendo bassa alcolicità. Più sulla freschezza e sapidità che sul corpo. Ecco, siamo alla fine ma vorrei non finisse mai. Perché parlare con Bruno e Michele fa solo capire quanta preparazione ci sia in persone come loro. Quanto studio. Quanta passiona. Quanta voglia di emergere. Bravi! Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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31 Marzo, 2023

Stefano Porro e la vigna da tre milioni di euro

Stefano Porro e la vigna da tre milioni di euro “Pensateci bene… l’amore può durare solo una notte, un milione di dollari dura tutta la vita!” E se i milioni fossero tre? Ecco, immaginate di trovarvi dinanzi ad una Proposta indecente come nell’omonimo film. Magari non ci sarà Robert Redford a farvi l’offerta ma un ricco americano che vi mette sul piatto, con nonchalance, tre milioni di euro per acquistare il vostro ettaro di vigneto. In fondo è un vecchio vigneto che non ti va di coltivare. Anche perché, se hai 21 anni, la prospettiva di tre, inaspettati, milioni di euro in tasca, non è così male. Ti fanno gola. Cavolo se ti fanno gola! Il vigneto sta lì da tempo e il nonno l’ha lasciato a tuo padre che non ha mai avuto voglia di coltivarlo. Lui preferisce stare sui trattori. Tu hai un lavoro da elettricista. Certo, non è il massimo ma ti dà da vivere in maniera onesta. Poi arriva questo americano e, come un fulmine a ciel sereno ti offre qualcosa che non ti ricapiterà più. Qualcosa che ti mette in crisi. Di quelle crisi che non ti fanno dormire la notte. Cavolo, tre milioni sono tanti ma tanti. Chi li ha mai visti e soprattutto chi li vedrà mai. Poi però inizi a pensare. Perché si, hai 21 anni e questo non vuol dire essere uno che non ragiona. La terra del nonno, quell’ettaro ora diventato il Klondike di Zio Paperone memoria, ha sempre dato uva poi rivenduta perché non è che c’era la voglia e la capacità di fare vino. Solo un paio di damigiane per la famiglia e il resto andava via. A chi sapeva fare il vino e aveva le capacità di farlo. Eppure non è che siamo in una terra sfortunata. Siamo a Serralunga D’Alba. Siamo nelle Langhe. Quel territorio baciato da Dio che produce il Barolo, il Barbaresco. Insomma lì dove il Nebbiolo assume la sua forma più alta. I terreni qui non hanno certo l’esposizione perfetta, ma chi l’ha detto che pur se diversa non possa far nascere qualcosa di buono. Anzi di ottimo. In fondo se qualcuno offre tre milioni di euro per un ettaro di terra, qualche potenzialità dovrà pure averla! Stefano Porro non ci ha dormito per notti intere. Il papà, che aveva ereditato la terra dal nonno e non sapeva cosa farsene, disse che doveva essere lui, Stefano, a decidere: la terra sarebbe comunque stata sua a tempo debito. Ma solo quella, perché la terra rappresentava l’unica cosa che poteva lasciargli in eredità. La scelta dunque, se tenerla o venderla, era solo ed esclusivamente sua. Lui avrebbe accettato qualunque decisione. Un ragazzo di 21 anni. La decisione spettava ad un ragazzo di 21 anni. Elettricista. Di Serralunga D’Alba. Cosa avreste fatto voi? Probabilmente avreste preso i soldi. Anche perché sì, un ettaro di vigneto in quel delle Langhe è un sogno. Produrre vino li sarebbe fantastico. Ma quanto ci si può ricavare da un ettaro? 7000, 8000 bottiglie l’anno? E quanto ci vorrebbe per arrivare a guadagnare tre milioni di euro? Ve lo dico io: 40 anni. Mi hanno fatto parecchia gola. Poi ci ho pensato e ho detto: io ho il mio lavoro, il mio stipendio. È vero che non navigo nell’oro ma se ti regalano tre milioni di euro, li sprecheresti perché non è una fatica che hai fatto tu e non sai apprezzare una fortuna così. Stefano invece ha fatto una lungimirante scelta di amore e si è tenuto la vigna del nonno (e del padre) iniziando la carriera del vignaiolo. Già il vignaiolo. Mica ci si improvvisa vignaiolo. Tocca studiare. Bisogna fare esperienza. Oltre che avere i soldi. Stefano, 21 anni. Quanta ammirazione per questo ragazzo. Che se ne va in giro ad imparare. Financo in Borgogna dove capisce quanto le basse rese in vigna, la cura maniacale della vite, la pulizia in cantina siano fondamentali per avere un prodotto di qualità. Le Langhe saranno pure un territorio baciato da Dio, ma qui sei costretto a produrre vini di qualità. Perché la concorrenza non è solo dovuta alla moltitudine di produttori ma alla qualità generata. Se non produci qualcosa di eccellente, non hai speranze. Si appoggia a due amici, anche loro neofiti, con i quali dividere una cantina. La devi avere una cantina, altrimenti il vino come lo produci? Dividendosi le spese, ha una parte della cantina per vinificare. Stefano ci mette un locale per deposito, ristrutturato per l’occasione, loro la cantina. 1600 bottiglie la prima annata. 2020. Nebbiolo ovviamente. Nel 2021, Nebbiolo e “la” Barbera che viene dalle vigne di Monforte. Un piccolo vigneto di parenti che Stefano coltiva con la medesima passione del suo. Nel 2022 si aggiunge anche una barrique di Barolo. Già tutta venduta! Mi fanno impazzire con questo Barolo perché sembra che non ce ne sia più in giro Ci vuole un enologo e lo capisce Abbiamo un enologo interno che fa naso e ci dice se ci sono dei difetti. Ci vuole uno esterno per questo. Saggezza. Umiltà. Capacità di capire i propri limiti e cosa ci vuole per eccellere. Per il resto In campagna ci siamo io, mio padre e mia madre. L’azienda non può rappresentare l’unica forma di sostentamento. Non basta per andare avanti. Così Stefano lavora in una grossa cantina. Anche per imparare. Prima cosa mi dà da mangiare. Non sembra ma è sempre uno stipendio. Poi vedo il bello e il brutto. Ecco, quando parli con un ragazzo come questo, con la testa sulle spalle e la saggezza di un anziano, ti ricordi di tutte le volte che hai visto in tv i dibattiti sulla disoccupazione. Ma lasciamo stare. Il futuro di Stefano è già nel suo immaginario. Vinificare tutto quello che posso e quando arriverò sulle 8000 bottiglie starò a casa. Insomma non vuole diventare un grande produttore. Mai superare le 10.000 bottiglie. Lavorare lui e solo lui senza triarsi indietro. Perché solo lui sa quanto amore ci voglia per produrre il suo vino. Amore, passione, dedizione, fatica. Essere nel cuore delle Langhe per un giovane produttore non da vantaggi se non hai qualcosa di unico. Stefano lo sa. Per quello è andato in giro a studiare. Far risaltare la zona, che non ha una esposizione ideale, potrebbe essere un vantaggio. Anche se con i cambiamenti climatici la zona non è poi così male. Anzi. In ogni modo qualcosa si porta con sé Stefano dai suoi pellegrinaggi enoici. Nessuna inoculazione di lieviti ma pied de cuve: cinque giorni prima della vendemmia si raccolgono alcune cassette di uva fatte quindi fermentare in una mastella per poi gettarle nella vasca di cemento. Il 50% dell’uva viene lasciata con la bacca intera creando una semi macerazione carbonica utile per conferire profumi esagerati. Fermentazione da dieci a venti giorni poi acciaio per la malolattica e sette mesi in barrique. Per fare tutto questo serve materia prima perfetta e massima pulizia in cantina e in vigna. Uve selezionatissime. Difficile farlo capire ai genitori che l’uva la vendevano e certo non andavano tanto per il sottile. Assaggiamo prima “la” Barbera: bottiglia n.393 di 700 (qui il post su Instagram). Il colore rubino e la estrema pulizia lo rendono un nettare quando lo verso nel calice. Sarà che deriva dal solo mosto fiore senza prendere nulla dalla pressatura in moda da esaltare quei meravigliosi sentori vinosi che emergono prepotenti. Ancorché giovane (è un 2021) la frutta (ciliegia e melograno) al naso è già matura: vantaggio di avere delle vigne vecchie. In più alla frutta, solo dei fiori. Insomma, un vino semplice, non impegnato, pulito, fresco già al naso. Volevo una barbera che si potesse bere con tutto. La sensazione che mi dà bevendolo mi riporta a quando mia nonna metteva lo sciroppo di amarena nella bottiglia: era rinfrescante. Fresco al palato insomma. Non ha una persistenza lunga così che risulta facilmente abbinabile. È beverino e con un formaggio o un salame, sta benissimo. Non è impegnato ma convincente perché versatile. I tannini non sono mai aggressivi ma quasi vellutati. Cosa questa che non evita comunque la necessità di berlo solo se accompagnato con del cibo. Assaggiamo poi il Nebbiolo. Bottiglia n. 475 di 2000 (qui il post). Bellissima intensità di colore, più scuro e profonda della Barbera. La frutta si evolve e da matura diventa la ciliegia messa sotto spirito dalla nonna. Escono sentori che potranno ancora evolversi con la permanenza in bottiglia. Ci sono i fiori. C’è il balsamico. Il sottobosco. Sento ematicità. Tabacco non dolce. Pellami freschi. Tutto frutto degli acini interi e dell’affinamento in cemento prima e di sette mesi di legno con tostature molto lievi poi. In bocca c’è la potenza dei vini di Serralunga ma anche una finezza ed eleganza. Serralunga è conosciuta come una zona strong. Il tannino è maturo e importante, cosa questa che risalta ancora di più la freschezza e la secchezza. La sapidità arriva importante e contribuisce alla davvero lunga persistenza. Un vino estremamente interessante ma che se non lo abbini, anche con una polenta, ti taglia. Bravo Stefano. Davvero bravo ma bravo. Quando gli chiedo a chi deve qualcosa mi risponde così: Devo tantissimo ad un commercialista amico di famiglia perché è stato lui a spronarmi a fare qualcosa. Non mi ero mai interessato alla campagna. Anni, prima era come una punizione perché costretto a fare qualcosa in vigna invece di andare al mare con la fidanzata. Adesso passo sabato e domenica in vigna. Contrappasso? No, solo la stupefacente casualità che la vita, in maniera inaspettata, riserva. Rimpianti? Forse. Come quelli verso il nonno mancato quando era piccolo e al quale ora non può fare tutte le domande che avrebbe voglia di fargli. Adesso se mi offrissero sei milioni di euro non gliela darei. La soddisfazione che ho avuto con la prima etichetta non ha prezzo Bravo Stefano. Teniamolo d’occhio perché ne farà di strada. Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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24 Marzo, 2023

Benvenuti al sud: Le Grazie di Bernardino Cera

Benvenuti al sud: Le Grazie di Bernardino Cera Quando un forestiero viene al sud piange due volte: quando arriva e quando riparte. Ve lo ricordate il film Benvenuti al Sud? Sì, quello con Claudio Bisio, Alessandro Siani ed Angela Finocchiaro. Con Bisio che viene trasferito da Milano a Castellabate. Insomma Bisio, da buon settentrionale passa dalle difficoltà di ambientamento dunque la voglia di scappare ad essere stregato dal Cilento e dalle sue persone. Con la voglia di non partire più. Non è andata esattamente così a Bernardino Cera e alla azienda Le Grazie di Montecorice (Salerno). Perché Bernardino è nato a Novara da genitori di Montecorice che, nonostante avessero parecchi ettari di terra (ventotto!) coltivati ad olive, fichi e pascolo, decisero di andare a trovare maggior fortuna al nord. Magari per ritornare dopo un po’. Dopo anni al nord, si torna sempre al paese prima o poi. Strana la vita invece che fa adattare una famiglia di un luogo così solare come il Cilento, al freddo di Novara. Al paese non si torna se non per le feste comandate. Ci sono i figli che crescono e di andare al paese non ne hanno voglia. Magari in estate. Almeno nel Cilento in estate c’è da divertirsi. Per Bernardino, il cui nome, come da tradizione, era del nonno, è un po’ diverso. Lui che è malinconico. Di quelli che sentono un insolito malessere dentro. Che non si placa se non quando, per le feste comandate, si trova dai nonni nel Cilento. Non piange per andare al sud. Semmai piange quando riparte. L’estate per Bernardino non è un momento per andare al mare, cosa che nemmeno gli piace. Semmai per vivere di quei luoghi. Della terra. Degli odori del mare. Godere del sole che ti taglia in due e che, quando lo lasci, ti fa sentire nel freddo la sua mancanza. I genitori lo hanno fatto studiare e lui lavora presso un commercialista. A Novara. Ora, non per denigrare il nord, ma se uno ha nel cuore il sud e il Cilento, può pure fare il più bel lavoro del mondo, ma non regge. Infatti Bernardino non regge capendo che, per stare bene, deve cambiare vita. Luogo. Tornare alle origini nel Cilento. Tornare alla terra. Così che Bernardino inizia a fare il pendolare tra Novara e Montecorice. Per lavorare nelle terre di famiglia. Già ma coltivare la terra che da olive e fichi necessita di preparazione e Bernardino lo sa. Sa anche che per realizzare il suo sogno, per stare bene, occorre impegnarsi. E non poco. Ad un certo punto ho avuto un’altra pazza idea di prendere un secondo diploma in agraria. Volevo delle basi. Studia e si diploma in agraria e nel mentre si sostiene producendo e vendendo olive, olio, fichi. Fino a che nel 2013 si trasferisce definitivamente a Montecorice per iniziare davvero una nuova vita. Contro tutti e contro tutti. Persino i suoi genitori. I miei genitori mi volevano ammazzare. Avevano scelto di andarsene per darmi un futuro migliore e io sono tornato in campagna. Come biasimarli in fondo. Loro che per primi erano andati via da un paese di poche anime dove non vedevano futuro per sé stessi, figuriamoci per i propri figli. Loro che avevano fatto studiare i figli e avevano visto Bernardino con un lavoro solido. L’unica felice di vederlo a Montecorice era ed è la nonna alla quale non pare vero di avere Bernardino, colui che porta il nome del nonno, vicino. Mia nonna mi ha messo all’ingrasso. Per lei ero Bernardino. Mi adora. Sto divagando forse ma aiuta a capire come si può essere sentito Bernardino a trasferirsi a Montecorice. E quanta forza deve aver trovato dentro di se per resistere, per realizzare il suo sogno. Per trovare la pace interiore. Le poche volte che torno a Novara mi manca il mare anche se non amo il mare. D’estate non vado al mare. Amo però vedere il mare. Mi fa stare bene. La pace. Bernardino ancora non era ancora riuscita a trovarla. Mancava qualcosa. Mancava la magia. Coltivare olive e fichi, produrre olio è meraviglioso ma non magico. Avevo bisogno di qualcosa di magico e l’ho trovato nel vino. Ecco, il vino. La meravigliosa, unica magia che il vino può offrire. Ancora più difficile però. Siamo nel 2018 e Bernardino inizia a piantare le prime barbatelle: 8000 piantine di Fiano e di Aglianico. Non si cura di chi lo prende per pazzo, di chi gli dice “ma chi te lo fa fare”. No, Bernardino va per la sua strada. Anche quando gli dicono che è meglio piantare l’Aglianico. Lui no, vuole un Fiano perché sa che i turisti vogliono il vino bianco (malinconico, sentimentale ma con spirito commerciale Bernardino!). Insomma Bernardino inizia a fare, anche, il vignaiolo. “Anche” perché non è che il resto lo può lasciare. Quello è il suo sostentamento. In vigna c’è lui e un suo fraterno amico. Fanno tutto loro su un terreno roccioso di poco più di tre ettari (senza dimenticare gli altri 25..). Terreno completamente roccioso. È una pazzia per fare questo lavoro. Non dormire la notte per tanto tempo. Roccioso ma baciato dal sole e cullato dai venti marini. A Montecorice le vigne sono sulla collina più alta. Da qui si vedono i tre golfi sottostanti. Da qui si respira quell’aria di mare che renderebbe mansueto anche un tannino spigoloso come quello dell’Aglianico. La prima vendemmia è del 2020 e Bernardino già pensava di dare al suo Fiano in purezza il nome 2020. Ma ci ripensa perché capisce che l’anno pandemico è nefasto ed è meglio che stia lontano dalla mente dei clienti (malinconico, sentimentale ma sempre con spirito commerciale Bernardino!). 3 ettari di vigneto su un terreno che nessuno vorrebbe coltivare. Piante giovani perché lì da poco. Insomma, sarà pure un luogo meraviglioso tanto da incantare Bisio nel film, ma cavolo che difficoltà. Per non parlare del resto che sono pure ulteriori 25 ettari sempre impervi e complicati. Vi piacciono i fichi? Buono l’olio? Ecco, tocca andare a farli però i frutti. Farli andando su e portarli giù. Faticoso eh? I soldi alla fine sono pochi e comunque insufficienti per permettersi una cantina. Così ne usa una che produce vino conto terzi ma non lo vende (malinconico, sentimentale ma sempre con spirito commerciale Bernardino!). Se si mettono in fila tutte queste cose mi viene il dubbio che non sto parlando con uno sprovveduto. Anzi! Bravo Bernardino. Io non sono un amante dei bianchi. Ad un certo punto ho scoperto il Fiano e la qualità della cultivar. Il Fiano è una delle poche che può invecchiare. Ero abituato ai vini del nord ma quando ho trovato il Fiano ho visto qualcosa di magnifico. Eccolo Bernardino. Innamorato della sua terra e, forse, ancor più di questo meraviglioso vitigno quale è il Fiano. Innamorato del Fiano dunque. Ho deciso di piantare anche la Falanghina. Malinconico, sentimentale ma sempre con spirito commerciale Bernardino! Quando uno inizia da zero come ha fatto Bernardino può gestire la vigna come meglio crede. Sceglie con saggezza protocollo ZEI, zero impatto ambientale. Ho un solo problema che è l’oidio per la ventosità. Utilizzo di soli prodotti naturali lasciando il solo zolfo. Tolto anche il rame andando oltre il biologico perché il terreno possa giovarne dell’assenza. Assaggiamo il Fiano in purezza Vincenzì (va pronunciato bene, con l’accento sulla “i” finale) Il nome è un omaggio allo zio di mio padre che si è trasferito in brasile per cercare fortuna. Mi sono immaginato in lui tornando a Montecorice. Tutti i vigneti nascono su suoi terreni. Ho scelto per i miei vini dei nomi che si ricollegano a persone molto care o luoghi che mi emozionano ancora adesso. La scelta nel volere un Fiano in purezza e affinato in acciaio diventa quasi un dogma. Magari dopo si potranno fare tutti i passaggi ma per Bernardino il suo Fiano deve essere buono già in acciaio. La presenza del mare con la sua sapidità, il terreno roccioso che rende fine il vino. A che sarebbe servito un passaggio in legno? Bella pulizia nel calice. Un colore paglierino quasi verdolino. I sentori sono quelli tipici del Fiano con aggiunta di grande mineralità. Non c’è l’opulenza del Fiano avellinese perché qui troviamo frutta delicata come la nespola e fiori di margherita che si legano allo iodio del mare. Non c’è molto altro, ma questa semplicità e linearità sono appaganti. La stessa semplicità la ritrovo in bocca dove appare pulito, secco, fresco, sapido. Eccellente coerenza con l’olfatto e una interessante bella persistenza. Un vino che appare pastoso con un finale che lascia la bocca agrumata.  Il vero problema di questo Vincenzì è la sua ruffianeria: se stappi la bottiglia, la finisci senza accorgertene. L’abbinamento non è con un pesce perché la sua ottima persistenza non lo consentirebbe. Una pasta con crostacei. Ecco, così si. Chapeau! Apriamo l’Aglianico e già si sentono gli effluvi. Nel calice il colore è importante, tagliente. È giovane (2021) e il riflesso porpora del colore rubino, lo dimostra. Il Sarto, questo il nome, è una dedica a nonno Bernardino, il sarto di Montecorice. Era lo zio di tutti a Montecorice e per tutti era lo zio Bernardino. Una persona solare alla quale tutti volevano bene. In molti andavano ad imparare il mestiere da lui. I sentori sono immediatamente vinosi. Si sposano con la prugna non ancora matura. Poi arrivano i fiori. Sembra null’altro, eppure qui c’è un breve passaggio in botte. Roteando il bicchiere, ecco che arrivano spezie dolci come tabacco, chiodi di garofano, cannella. Anche un po’ di ematico. Sentori dolci che contrastano con la frutta non ancora matura. Bel contrasto devo dire. Forse dovuto al terreno e alla vicinanza del mare. In bocca la sapidità spicca e la coerenza con l’olfatto c’è tutta. È fresco, secco, morbido. La frutta prende il sopravvento e si esalta con un tannino non arrogante, non ingombrante. Anzi, è morbido e grandemente rotondo. Non sembra quello spigoloso e deciso dell’Aglianico. Lo puoi bere da solo ma con un ulteriore anno di affinamento si arrotonderà ancora di più. Già me lo immagino con il ragù della nonna. Bella coerenza tra i due vini. Si sente la stessa mano. Si sente soprattutto l’amore. La recensione sul mio blog @ivan_1969. Ho assaggiato due vini non scontati e rappresentativi del territorio e di Bernardino. I vini devono rispettare l’azienda. La moda ti porta a fare delle scelte che il mercato ti richiede. Ma mai perdere l’identità Ciò che mi ha appagato di più è l’amore che Bernardino ha per la sua terra. Un territorio difficile, abitato da persone meravigliosamente ospitali che amano la vita. Ecco, amore. Un amore, un caldo abbraccio che ho ritrovato appieno nei vini di Bernardino. Malinconico, sentimentale e con un cuore immenso. Così è Bernardino.   Ivan Vellucci Mi trovi su Instagram : @ivan_1969
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17 Marzo, 2023

Roberto Castagnini One Man Band

Roberto Castagnini One Man Band È proprio vero che il mondo del vino riesce a farti conoscere sempre persone speciali. Ognuna con la propria, unica, storia alle spalle e qualcosa, ancora tutta da scrivere, per il futuro. Le piccole aziende poi riservano sempre sorprese. Nei vini certo, maggiormente nelle persone. O nella persona. Perché in molti casi, di persone che fanno le cose, ce n’è una sola: One man band. Così che i vini non possono che essere la vera espressione della persona che ha accudito le vigne e modellato il prodotto. Siamo a Carrara, alle pendici delle Alpi Apuane. Una terra di mezzo tra la Toscana e la Liguria anche se in Toscana ancora. Così che quando qualcuno ti parla non ti aspettare l’intercalare tipico toscano. Nella terra di mezzo si parla un vero mix. Forse quasi più ligure. Mi capita così con Roberto tanto che gli chiedo subito se sia nato li. Lui quasi se la prende. Nato li. Il papà li. Il nonno li. Le terre e la vigna che con il nonno coltivava. Carrarese senza sé e senza ma. Altroché. Nella terra di mezzo mica sei in pianura. Non tanti metri di altitudine (circa 200). Ma qui tutto è così in ripida salita che le vigne si adagiano su terrazze da meno di un metro, cosa questa che impone lavorazioni esclusivamente manuali. Anzi, più che manuali, da incubo perché non è che ci puoi andare con qualcosa di meccanico. Impervia e a pochi km dal mare tanto che si può vedere, all’orizzonte, anche l’isola d’Elba. Sono nato e cresciuto nei vigneti. Facevo vino sfuso. Poi imbottigliato. Etichettato. Quando si fanno le etichette si sbagliano e si rifanno. Siamo partiti da un ettaro adesso siamo a tre e mezzo. Roberto, Roberto Castagnini, parla a raffica. È una persona mite, pacata. Con due occhi che sorridono. Di quel sorriso di chi fa ciò che gli piace. Senza fretta. Senza dannarsi l’anima. Senza qualcuno o qualcosa che gli corre dietro. Ma con tanto amore e passione. Eppure quando gli chiedo in quanti lavorano nella sua azienda, la Castagnini,  la sua risposta è: Siamo io, io ed io. Ho una persona saltuaria, un pensionato, che dà una mano in vigna ma poi faccio tutto io. E in cantina? Anche in cantina faccio tutto io. L’enologo mi dà una mano ma per il resto faccio io. Lui mi dà i compiti. Provo ammirazione e tenerezza allo stesso tempo. Anche se Roberto non è uno che fa pesare ciò che fa. Anche se non deve essere per nulla facile salire e scendere per le terrazze dei suoi cinque ettari, lui affronta tutto con calma serafica. Quelli bravi direbbero che ha un atteggiamento Zen. Io dico che Roberto ha in sé la saggezza di chi ne ha viste tante e sa che tanto, pure se si affanna, le cose non cambiano. Cosa devo fare. Se mi arrabbio non succede nulla. Quello che non faccio oggi faccio domani. Alle 7-7.30 chiudo e vado a casa. Quello che c’è da fare si farà domattina. Domani piove? Me ne vado a casa. Non devo morire della vigna. Come fai a non voler bene ad una persona così? Sono nato in mezzo alle vigne di proprietà di mio nonno che seguivo. Imparando tante cose. Volevo fare l’agrario ma ho cambiato strada. Sono tornato poi indietro. Roberto è una di quelle persone che nonostante avesse la terra ha preferito altro. Da giovani si vede la vita in maniera diversa. Le ambizioni. La voglia di emergere. Di fare qualcosa di diverso dal padre o dal padre di tuo padre. Prima di ritornare alla terra, nel 2000, Roberto ha avuto modo di fare altro. Tanto altro. Per sei anni l’agente di commercio vendendo carne fresca (seguendo le orme del papà che era macellaio). Dovevo fare 5000 km a settimana e sono diventato pazzo. Poi l’azienda è fallita e ha aperto un negozio di alimentari aggiungendo una macelleria (l’impronta del papà continua). Una realtà che ha dato grandi soddisfazioni fino a quando con i dipendenti e la loro gestione la complessità è aumentata. Ho preso l’esaurimento e mi sono rimesso a fare vino Eccolo il vero Roberto. Quello che nella sua pacatezza ha bisogno della libertà e di voler essere responsabile solo di sé stesso e di ciò che produce. La voglia di stare all’aria aperta e curarsi della vigna. Solo che tra commerciale e cantina la vigna non la vedo più. Volevo starci di più ma ci sono tante altre cose che portano via tempo. In questo luogo perso tra le colline di Carrara, Roberto dirige la sua orchestra formata da sé stesso. Su e giù per le terrazze. Con i suoi tempi. Come se la vigna e le piante debbano rispettare i suoi di tempi. Ma questa è la vera sinfonia. Perché la cura che Roberto ha nelle sue piante è quella di un padre verso i figli. Come gli aveva insegnato il nonno. Su quelle vigne che ormai avranno più di sessanta anni. Vigne di Massaretta (o meglio Barsaglina ma non ditelo a Roberto che si offende), Vermentino e Vermentino Nero. Con qualche pianta di Sangiovese, Merlot, Ciliegiolo. Tutte mischiate senza un ordine logico. Sono vigneti vecchi dove c’è tutto di più. Quando vai a fare la vendemmia diventi matto. In vigna è tutto misto. Nel filare due piante di Massaretta, una di Vermentino Nero, uno di Merlot e quattro di Vermentino. Ci devi passare quattro volte per fare la vendemmia. In fondo un tempo si faceva così. Perché il vino mica si imbottigliava per venderlo. Si faceva per casa e quello che avanzava era venduto sfuso. Quindi non importava cosa c’era dentro. Bastava fosse buono. Il grande lavoro di Roberto è principalmente sui vitigni autoctoni come il Vermentino Nero e la Massaretta. Difficile da vinificare e complicati da portare in cantina. Ma con risultati che sorprendono quando il lavoro si chiude con successo. Il Vermentino Nero difficile in vigna perché non puoi fare il cordone speronato, con i grappoli abbastanza lunghi, con chicco grosso e buccia sottile. Niente legno in cantina anche se poi i sentori sono quelli tipici della barrique. Misteri dei vitigni! Però si porta a casa un vino beverino che d’estate è fresco e anche di frigorifero si beve bene. La Massaretta complicata in cantina per il continuo rischio di riduzione che la renderebbe imbevibile (tanto che un tempo non se ne faceva nulla). Lo chiamavano il vino puzzone perché lo mettevano subito in botte dopo la pigiatura. Gradazione sostenuta che però non si avverte, tannino delicato e levigato. Solo la Massaretta fa un po’ di legno. Poco perché non voglio la vaniglia. Roberto vuole i vini come lui. Devono essere e sono la sua espressione: sinceri, schietti, diretti. Mai ruffiani. 20000 bottiglie in totale con un solo blend (per seguire il disciplinare) sono tante per una persona sola. Ma lui non sente il peso. Se lo fa scivolare. Siamo arrivati ad un ben livello nonostante tanti problemi. Trovare l’enologo è stato difficile. Nel 2016 ho trovato una brava persona e gli ultimi anni siamo saliti di livello. Abbiamo preso anche alcuni premi che sono sempre una soddisfazione In gamma anche un Vermouth e una bollicina metodo Charmat Purtroppo oggi se non hai la bollicina non sei nessuno. Che grande Roberto. Lo dice con una schiettezza disarmante. Quelle verità che tutti pensiamo ma che in pochi si azzardano a dire. Quando gli parli di futuro, vedi che cala un misto di rassegnazione e tristezza. Per poi riprendersi subito perché tanto Roberto vive il presente. L’unica cosa che lo fa stare bene. In mezzo alla sua vigna tra i filari del nonno. Tre figli, due femmine ed un maschio che di vigna non ne vogliono sentir parlare. Ognuno ha la sua strada. Non vedo interesse per l’azienda. Andiamo avanti finché c’è voglia e ce la faccio. Loro, in qualche modo faranno.   Saggio. Fatalista. Non so. Però è meravigliosamente disarmante Roberto. Anche se confida che: Ogni tanto mi viene la voglia di buttare via tutto. Tanto lo so che è solo un attimo. Perché su quei terrazzamenti lui si diverte. Ci vive. La mia è passione e divertimento. Altrimenti passa subito la voglia. Faccio ciò che mi piace e ogni tanto c’è qualche piccola soddisfazione. Magari con i premi. Fanno piacere. L’animo di Roberto è questo. Semplice. Puro. Vuole, anche se non lo ammetterebbe mai, una pacca sulla spalla. Qualcuno che gli dica che la sua passione, il suo divertimento, in qualche modo produce buoni frutti. Amor proprio? Secondo me un modo perché quelle terre che ha ripreso con tanto amore, non vadano proprio abbandonate. Perché i figli si accorgano prima o poi quanto amore si perderebbero se non continuassero il lavoro di papà Roberto. Il tuo vino preferito? A me piacciono un po’ tutti. Su tutti però la Massaretta e il Vermentino Nero. Torneresti indietro? Si e no. Il lavoro della vigna non è nulla. Il problema è incassare. Ma non tornerebbe mai indietro Roberto. La sua vita è qui. Me lo immagino, anche con più vendemmie sulle spalle, ad andare su e giù per le vigne. Ma sono anche certo, che uno dei suoi figli sentirà prima o poi il richiamo della terra. È così e sarà sempre così. Dai, Roberto, vedrai che accadrà.   Ps ho assaggiato la Massaretta Cybo 2020 ma non ho voluto interrompere il racconto perché mi sembrava scorresse bene così. L’ho recensito sul mio blog Instagram @ivan_1969. Qui posso dirvi che ho trovato Roberto nel vino. Ho trovato la schiettezza della vinosità ma soprattutto posso dire essere un vino che non capisci subito. Un po’ come Roberto che a prima vista appare burbero ma quando lo conosci ti fa simpatia e tenerezza. Piano piano impari a conoscerlo (il vino e Roberto) e ti intriga sempre più lasciandoti la bocca pulita e vogliosa di un nuovo sorso. Che poi è la stessa sensazione che ho dopo aver parlato per ore con Roberto: mi vien voglia di mollare tutto e andare ad aiutarlo nelle sue vigne. Ivan Vellucci Mi trovi su Instagram : @ivan_1969
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10 Marzo, 2023

Azienda Agricola La Greggia e la Toscana che non ti aspetti

Azienda Agricola La Greggia e la Toscana che non ti aspetti Lui è il gatto, io la volpe, siamo in società.
Di noi ti puoi fidar Essere azienda agricola in Toscana non è cosa semplice. Produrre vino, vino di qualità, è ancora più complicato. Non già perché non ci sia un terreno vocato o un clima ideale. È che occorre rispettare la tradizione, quella che porta ad usare il Sangiovese e poco altro. Quella che fa produrre vini che ne rappresentano l’anima e vogliono rappresentare solo quello. Quella tradizione che vuole che il vino si debba vendere anche sfuso e in grande quantità. Insomma, un mix di fattori che rendono la vita complicata, se non impossibile a chi vuole iniziare l’avventura enoica in queste zone. Senza tralasciare il doversi scontrare con i mostri sacri del vino italiano. Alfredo Moretti fonda l’azienda La Greggia in quel di Tizzana, borgo tar Pistoia e Prato, insieme alla moglie Katlhleen. Siamo nel 2012 circa. Le vigne impiantate qualche tempo prima seguendo i consigli raccolti qua e là così da ritrovarsi con del Merlot, del Cabernet Sauvignon e ovviamente l’omni presente Sangiovese che in Toscana non può mai mancare. Insieme a Alicante Bouschet e Barsaglina: due vitigni non proprio comuni. O facili. La produzione è giusta ma l’esperienza enologica forse non è al massimo così che, per dare una sferzata inizia la collaborazione, quasi fortuita, con Andrea Paglietti, enologo piemontese. Quando sono arrivato io la tecnica enologica di cantina era un po’ arretrata e i vini non all’altezza. Insomma, non erano un granché. Alla cantina avrei dato un 3, ai vini 5/6 grazie ad un cantiniere appena arrivato Insomma un po’ di esperienza importata dal Piemonte. Mica poco. La qualità del vino è subito salita grazie ad una cantina pronta. Esposizioni belle. Belle vigne Migliorare la qualità è e deve essere l’obiettivo da raggiungere. Detta così non sembra difficile. Ma in un mondo dove il vino è quello da tavola, dove la produzione deve essere alta e dove il Sangiovese comanda, è complicato. Se non complesso. Un classico della zona. Hanno tutti premura di vendemmiare presto. A fine agosto si raccoglie il Merlot. A fine settembre il Cabernet. In mezzo il resto. Ora ho imposto che quando gli altri raccolgono il Sangiovese noi raccogliamo il Merlot Andrea ha una lunga esperienza e le idee chiare. Ma si scontra con la tradizione che è dura da cambiare. Non è stato facile far passare il discorso delle basse produzioni e che si vendemmia con calma Eh ma ci vuole pure la parte commerciale. Così si ricostruisce la linea dei vini, si creano nuove etichette, si usa Barsaglina, Alicante e Sangiovese per il vino sfuso. Arriva Alberto, Funghi, per dare un po’ di freschezza commerciale. Non capita tutti i giorni
Di avere due consulenti
Due impresari, che si fanno
In quattro per te Alberto ed Andrea. A&A. Il gatto e la volpe. È così che me li immagino quando si alternano a raccontare della cantina, del vino, delle esperienze, del loro operato. Una bella coppia che si spalleggia a vicenda. Andrea ha il piglio del piemontese. Schietto ma delicato. Pulito ma deciso. Ha portato la cultura piemontese in toscana cercando di ammorbidire l’acidità e i tannini toscani. Duri. Forti. Determinati. Alberto è un toscano atipico. Non ha l’esuberanza tipica perché pacato ma il piglio commerciale è quello giusto. Saper bene dei propri prodotti, toccando le leve giuste, non è da tutti. I risultati in bottiglia ci piacciono e piacciono alla ristorazione così come ai clienti Insieme sono una bella coppia. Attiva e dinamica. Si passano la palla ridendo l’uno dell’altro. Si spalleggiano. Il gatto e la volpe insomma. Quattro i vini prodotti (oltre al Vin Santo e all’olio): Moraie, Merlot in purezza; Vicomoro, Cabernet Sauvignon e Franc; Fontanaccio, Sangiovese in purezza. Ah il quarto, l’Iracondo, blend di Cabernet Sauvignon, Franc e Merlot Dedicato al socio che si scaldava un po’ tanto Andrea ci tiene ad una sottolineatura Il rapporto qualità prezzo è 8. Ciò che manca per arrivare al 10 è l’essere famosi. Alla cieca i nostri vini sono pari o meglio di marchi blasonati Non vedi che è un vero affare
Non perdere l’occasione se noi poi te ne pentirai Andrea è sempre più schietto ma pragmatico. Non dice cose che non ritiene vere e lo testo subito assaggiando i vini. Assaggiamo dunque prima il Vicomoro (recensito anche sulla mia pagina Instagram @ivan_1969). Cabernet Sauvignon e Franc annata 2018. Bel colore rubino intenso con piccoli riflessi granata. Si vede che è ancora un pelino giovane nonostante gli oltre quattro anni. I sentori confermano la necessità di maggiore evoluzione. C’è prevalenza di vegetale e frutta ancora aspra. Le tostature e le spezie ci sono. Con i legni siamo blandi per una alta percentuale di terzo, quarto e quinto passaggio Arriva anche del caffè e del cacao. Un vino che è intrigante perché, avendo necessità di apertura, regala qualcosa in più ad ogni rotazione del calice. In bocca la freschezza c’è tutta e si evidenzia, se ancora ce ne fosse bisogno, la necessita di un ulteriore anno di affinamento. Il tannino maturo è ancora un po’ aggressivo così che senza un abbinamento diventa mordente. Non puoi berlo da solo! Ciò che mi piace è la coerenza tra olfatto e gusto e il retro olfatto di frutta fresca. Come mi diceva un rappresentante in toscana vino è franco: Colore, naso, bocca e retro olfattivo convergono Persistenza buona. Equilibrato di quell’equilibrio appena arrivato. Sicuramente meno spigoloso di un Chianti. Lineare, completo. Bel biglietto da visita. Ora il Moraia, Merlot in purezza, annata 2019. Scuro, compatto, attraentemente seduttivo grazie ad un rubino intenso con riflessi porpora. L’annata è stata calda e la frutta si sente matura, al limite della confettura. Prugna e ciliegia a profusione. La frutta sembra masticabile, croccante. I 12 mesi di barrique, sempre di diversi passaggi fanno emergere sentori terziari. In bocca la sensazione rispetto al Vicomoro è di maggi or calore e persistenza minore. Un vino più facile, forse più piacione. Dotato di una morbidezza che migliorerà ulteriormente con il tempo. Freschezza ancora importante. Tannino che c’è ed è maturo. Equilibrio e coerenza con la parte olfattiva. Ha un finale che sembra andare verso l’amarognolo senza però mai raggiungerlo. Entrambe i vini sono sia da bere adesso, purché “accompagnati”, sia tra un anno o due ovvero quando si “arrotonderanno” un pò. Il Vicomoro riuscirei ad abbinarlo comunque più facilmente: siamo in Toscana e con una bella “ciccia” ci starebbe da Dio. Freschezza, alcolicità, capacità di invecchiare. Questo il miglioramento da apportare. Gli sforzi, tanti, hanno portato a vini strutturati, colorati. Alle volte un po’ troppo alcolici. Insomma, La Greggia non ha una lunga storia alle spalle. Può essere definita una cantina giovane, ancorché con vigne di età compresa tra i 18 e i 25 anni. Rappresenta però il coronamento del sogno di Alfredo Moretti e oggi, grazie ad Andrea ed Alberto può dormire sonni tranquilli. È una ditta specializzata, fa un contratto e vedrai
Che non ti pentirai   Ivan Vellucci Mi trovi su Instagram : @ivan_1969
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