Suggestioni di Vino

Suggestioni di Vino è la rubrica che racconta le persone del vino. Della loro storia, dell’amore, della passione che inoculano nel vino. Perché il vino è materia viva e le persone ne sono il nutrimento.

Le incursioni enoiche di Ivan Vellucci, ingegnere e manager per dovere, ma soprattutto Sommelier raccontano con passione e trasporto, territori e produttori d’eccezione.
Ivan ci porta a conoscere realtà prima di tutto umane, dove il sorriso e l’ospitalità dei vignaioli sono lo specchio dei vini che producono. La rubrica Suggestioni di Vino propone ogni settimana  suggestive esplorazioni e scoperte enologiche, narrate con trasporto e partecipazione. Al lettore parrà di accompagnare Ivan in queste visite speciali e sarà stimolato a fare lo stesso: vivere il mondo del vino come un bambino, con lo stupore negli occhi e la magia nel bicchiere.

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14 Aprile, 2023

Pian delle vette e l’orgoglio delle Alpi Bellunesi

Pian delle vette e l’orgoglio delle Alpi Bellunesi Anche se ho vaghi ricordi della geografia studiata alle scuole medie, delle Alpi Bellunesi non ho proprio memoria. Eppure se qualcuno mi chiedesse di Cortina, non esiterei a definirla la perla delle Dolomiti. Cortina, Dolomiti, Alpi Bellunesi. Tutto qui? No, ovviamente. Le Alpi Bellunesi sono un unicum del nostro variopinto territorio tanto da dedicarci un Parco Nazionale. Meriterebbero dunque maggiore notorietà. Analogamente per il vino. Alzi la mano chi pensando, per il vino, alle Alpi, pensa a Belluno. Facile dire Trentino, facile dire Alto Adige. Meno Belluno. A meno che non si parli di Prosecco (e anche qui sfido ad associarlo alle Alpi). Eppure le Alpi Bellunesi hanno tutto. Ci sono le esposizioni, il suolo, i vitigni. C’è il clima, i venti, l’umidità, l’influsso del mare. Allora è solo una questione di notorietà. Proprio questo deve aver pensato Egidio quando, in quel di Rivergaro (Piacenza) dove lavorava, si trovava a parlare con i colleghi e nessuno conosceva le sue terre di origine. Per il vino ovviamente! Non serve essere orgogliosi per pensare che qualcosa in più si possa fare. Impegnarsi in prima persona perché la terra dove si è nati possa avere un ruolo. Siamo a Feltre, proprio ai piedi delle Alpi Bellunesi, nell’omonimo Parco Nazionale. 600 metri sul livello del mare. Prima della Grande Guerra qui si produceva vino per l’impero austro ungarico. Emigrazione, fillossera e indirizzo lattiero caseario delle terre generarono anni di oblio fino a quando, alla fine del secolo scorso, la Regione Veneto pensò che si dovesse rigenerare la viticultura di queste zone. Con questi presupposti, anzi su queste basi nasce Pian Delle Vette. Una delle poche aziende nate dall’impulso della Regione Veneto verso la cultura del vino in queste aree. Non basta un impulso però per far funzionare le cose però. Ci vuole una idea. Ci vuole imprenditorialità. Ci vuole dedizione. Oltre che tanto altro. L’azienda Pian delle Vette non gode di buona salute. Tanta produzione, qualche scelta di vitigni non proprio azzeccata. Insomma c’è da rimetterci mano. Così, per caso, come spesso capita in queste cose, Egidio D’Incà capisce che questa che gli si presenta è l’occasione per fare veramente qualcosa per la sua terra. Da solo sarebbe impossibile. Il suo lavoro è un altro e non può certo abbandonarlo. Ha bisogno di un socio e lo trova nel modo più semplice: Walter il promotore finanziario, amico di lunga data.   Io sono un suo cliente da quando ha iniziato la sua attività negli anni 80. Poi lui ha vissuto nel paese di Mugnai dove ho vissuto anche io. Paese storico della viticultura bellunese. È il 2016 quando Egidio e Walter si buttano letteralmente in questa iniziativa rilevando l’azienda dalla coppia trevigiana che l’aveva fondata. Ero rientrato dall’esperienza di Rivergaro aiutando i soci nel veneto. Avevi del tempo. La passione per coltivare la terra c’era ed è venuta questa occasione e abbiamo deciso di fare il salto. Qui c’era una situazione talmente ideale per fare una buona cosa che lo stimolo è venuto fuori. Ai due si aggiunge nel 2020 Alessandro che di mestiere fa l’istruttore sportivo e fisioterapista e che si innamora delle vigne nel periodo del Covid quando la sua attività è ferma. Sono quelle casualità che capitano e che si possono prendere oppure no. Non avevo grandi conoscenze specifiche. Durante il lockdown era tutto chiuso e ho iniziato a dare una mano ad Egidio. Mi è piaciuto quello che si faceva qui e dalla passione è diventato un progetto, un lavoro. È il mio lavoro e un po’ alla volta ho imparato la gestione agronomica dall’agronomo e la cantina. Egidio mi sta dando nozioni sulla parte amministrativa. Egidio, Walter, Alessandro. Tre persone prestate alla viticultura da altri ambiti. Tre persone con una idea ben precisa. Con un progetto imprenditoriale che è proprio ciò che serve perché una azienda possa funzionare davvero. Tre persone animate dall’impegno verso un territorio. Dal senso di appartenenza verso un territorio che sentono proprio. Lo stimolo è stato il fatto che noi siamo una provincia un po’ bistrattata e quando ero in quel di Rivergaro si parlava solo di Trentino e Alto dige. Quando rientro in patria devo fare qualcosa. Egidio sa bene come ci si debba sentire quando si vive lontano dalla propria terra natia. Quando, un po’ come a scuola, nessuno sa cosa siano le Alpi Bellunesi. Ma soprattutto nessuno le conosce quando si parla di vino. La regione aveva fatto uno studio ampelografico dove andava a dichiarare i risultati la nostra zona era propensa per la coltivazione di vini bianchi fermi e spumanti e vini rossi dell’arco alpino. Su questa scorta sono stati piantati 8 tipologia di vitigni dell’arco alpino. L’azienda che rilevano è piccola. Due soli ettari (poi diventati tre) coltivati con vitigni internazionali come Chardonnay, Muller Thurgau, Pinot Nero ma anche locali come Bianchetta e Teroldego Il Teroldego viene considerato come vitigno trentino però il primo impianto è stato fatto nell’800 a Tese Valsugana Il grosso delle vigne lo abbiamo trovato così. C’era l’impostazione del vigneto e una importante quantità di vino perché il precedente titolare non aveva uno sfogo commerciale. Siamo dovuti partire in maniera veloce. I primi due mesi abbiamo dovuto affrontare tutto. Come l’imbottigliamento. Per il vigneto abbiamo dato la svolta in funzione della nostra visione. Infatti la svolta è nell’utilizzo anche di vitigni svizzeri come Gamaret (incrocio di Gamay e Reichensteiner), Diolinor (incrocio tra Pinot Nero e Rouge de Diolly) resistenti e di struttura: grande segno di imprenditorialità nell’utilizzare vitigni resistenti eliminando quelli poco versatili come il Traminer. Dalla passione all’entusiasmo per portare avanti un progetto. Con ampi margini di miglioramento. Ruoli ben definiti con Alessandro che si occupa del vigneto e della vinificazione; Egidio della parte strategica, commerciale e amministrativa; Walter che fa da jolly della situazione con focus sulla parte agronomica. Ciò che manca sono i supporti agronomici. A Feltre abbiamo una scuola agraria che si occupa di lattiero-caseario; a Conegliano fanno solo prosecco. Dunque dobbiamo andare a cercarlo in Trentino Idee chiare, strategia altrettanto chiara, programmi per il futuro. Chiari. Il terzetto insomma ha dato una vera svolta imprenditoriale a Pian delle Vette. Due linee di prodotto per due diverse tipologie di vini. La prima fascia costituita da selezioni di uve Pinot Nero, Teroldego, Gamaret, Diolinor, Chardonnay (questa anche in metodo classico con il Pinot Nero) e una seconda fascia di ingresso. Abbiamo iniziato un progetto con un vicino creando una linea di entrata: frizzante, rifermentato, rosso e bianco fermo, un rosso base. Tutti base Teroldego, Merlot e Muller Thurgau. In totale la produzione non supera le 15 mila bottiglie anche perché le rese arrivano al massimo a 50 quintali ettaro. Da noi se vuoi fare qualità devi fare queste quantità. Bhè con vigneti a circa 600 metri di altitudine, terreno morenico e pendenza a 35/45% di più non si può proprio fare nonostante operazioni in vigna in parte meccanizzata. Non possiamo fare il diserbo meccanico perché ci sono terrazzamenti. Abbiamo inserito una macchina che ci fa questo lavoro ma non dovunque. Dove ci sono le scarpate più alte occorre farlo a mano. Obiettivo manco a dirlo è diventare una azienda che sia riconosciuta per la qualità dei vini. La qualità appunto. Ho personalmente provato il Pinot Nero 2017 (la recensione completa su @ivan_1969) e ne sono rimasto molto colpito dai coinvolgenti e complessi sentori: i frutti rossi e neri e gli aghi di pino a ricordare che siamo ai piedi delle Alpi. Poi la prugna non ancora matura, la violetta in potpurri, il pepe, la cannella, la noce moscata e l’alloro. Tanto per dimostrare di aver riposato per due anni in botte. Non può mancare il balsamico perché siamo in quota. Al sorso me ne sono innamorato. Fresco, secco, caldo, minerale con tannini quasi eleganti perché si possa bere, senza problemi, l’intero calice. Bella persistenza e chiusura di bocca elegante con la prugna che torna. Un vino mai banale, complesso e avvolgente, non morbido ma deciso. Determinato e imponente senza darsi arie. L’ho abbinato ad una tagliatella al ragù ed è stato sublime. Qui attorno sono nate poche realtà e ancor meno fanno vinificazione. Dunque ci sarà nel futuro possibilità di ampliamento. Per la linea principale molte viti devono arrivare alla maturazione giusta. E anche la visione del futuro sembra decisamente chiara! Se parliamo e non facciamo niente, l’esempio per i giovani non c’è. Questo può essere un esempio per far capire che le cose si possono fare. Egidio, Walter, Alessandro. Sono le Alpi Bellunesi ad essere orgogliosi di voi. Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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7 Aprile, 2023

Azienda Agricola Mattè. Semplicemente Bruno e Michele

Azienda Agricola Mattè Semplicemente Bruno e Michele Nella favola di Lev Tolstoj “i due fratelli”, il fratello maggiore è quello che si pone obiettivi ambiziosi, sfidanti e rischiosi; il fratello minore colui che tende a non perdere di vista i piccoli piaceri della vita e rimanere attaccato alle tradizioni. Bruno e Michele di cognome fanno Mattè. Hanno 36 e 33 anni. Una famiglia alle spalle che ha sempre lavorato la terra in quel di Volano a poco più di 20 km da Trento. Quando si ritrovano a dover gestire i pochi ettari che papà Marco aveva ricevuto dal nonno (pochi perché quando hai dieci figli devi dare un po’ ciascuno) e che non erano sufficienti per produrre vino in quantità utile per campare (negli anni 80 la quantità era l’unica unità di misura disponibile per il vino) si comportano come non ti aspetteresti da due ragazzi. Nelle tante storie di cantine che si tramandano di padre in figlio (o figli) infatti si vede spesso uno stanco proseguire dell’attività in un mercato sempre più difficile. Invece no. In questa storia, tutto è profondamente diverso. Siamo dinanzi a due ragazzi, Bruno e Michele che non solo sanno il fatto loro, ma hanno bene in testa il loro futuro. La lunga chiaccherata con Bruno e Michele la sintetizzo così: Il fondo coltivato consta di quattro ettari di proprietà e sei in affitto; Sul fondo gravitano tre aziende tutte riconducibili a loro e sui quali si lavora insieme; Un solo ettaro, composto dalle particelle migliori, è vitato per la cantina; Vitigni coltivati: Marzemino, Carbernet Sauvignon, Carmenere, Nosiola per le linee base (anche se di base non si può parlare); Pinot Nero, Grigio e Chardonnay per le linee top che dovranno uscire (maggiori affinamenti ed anni alterni) Metodi di vinificazione ricercati e non banali Sì certo, raccontarla in questo modo è facile. Due ragazzi nati nei campi, tra le vigne del trentino che non avevano mai visto una cantina prima di entrarci da soli. Per necessità o forse solo per poter credere nelle loro idee, nel progetto, nel sogno. La voglia di creare qualcosa di diverso. Negli anni impari, assorbi e cerchi di riportarlo nella nostra realtà. Abbiam cercato in questi tre anni di trovare una identità aziendale. Bruno e Michele non è che non abbiano faticato per arrivare sin qui (e sin qui per loro stessa ammissione è solo l’inizio perché di strada da fare ce ne è e molta). Anzitutto lo studio. L’istituto Agrario di San Michele all’Adige non è tanto lontano ed entrambi diventano periti agrari per poi darsi dei compiti in azienda: Bruno in vigna, Michele in cantina. Poi la sperimentazione.  È il 2007 quando iniziano a fare micro vinificazioni. Piccoli esperimenti su come si può produrre del vino in modalità diverse dal solito. Con le diverse particelle. Con diverse tecniche in cantina che vanno ad imparare curiosando in giro. Quindi l’intuizione, il pensare che se vogliono differenziarsi in quel del Trentino ma ancor più in Italia devono offrire qualcosa di diverso. In queste terre, nelle terre che furono del nonno prima e del padre poi ci sono varietà che rappresentano il territorio, il Trentino. C’è la Nosiola e il Marzemino ad esempio. Due vitigni complicati ma unici. Poco conosciuti ma proprio per questo ancor più difficili. Occorre qualcosa di diverso sia per vincere le ostilità dei vitigni sia per farli affermare. Andare controcorrente. Quando siam partiti ci prendevano per pazzi perché volevamo lavorare con Marzemino, Carmenere e Nosiola Infine investono. Puoi avere anche le migliori idee del mondo ma devi investire se vuoi emergere. Abbiamo ristrutturata la cantina, le attrezzature, la barricaia, la sala degustazione. Il 14 di agosto sono arrivati i serbatori e al 21 abbiamo iniziato la vinificazione. Come nella favola di Tolstoj, Bruno è il fratello maggiore e forse è quello che si pone obiettivi ambiziosi. È anche l’anima commerciale dell’azienda. Michele, da fratello minore è forse quello più pacato. Che pensa a come fare il vino in una maniera innovativa. Ma sono una bella coppia e soprattutto una vera squadra. Bruno ci tiene a dirmi che loro sono una azienda artigianale Siamo una azienda artigiana dall’inizio alla fine. Un artigiano puro. Tutta la gestione aziendale. Non abbiamo nemmeno un agente perché giriamo noi con la macchina. Abbiamo una etichettatrice semi automatica e una imbottigliatrice manuale. Che la famiglia Mattè sappia vinificare in zona era cosa nota. Già il papà Marco produceva bollicine con metodo classico che poi conservava in un rifugio anti areo ma, arrivare ai livelli di Bruno e Michele, proprio no! Quando Michele mi spiega le tecniche di vinificazione (perché è lui l’enologo al quale piace lavorare da solo in cantina!) rimango esterrefatto. Celle frigorifere per la vendemmi per preservare le ossidazioni. Vasche refrigerata. Saturazione azotata e argon. Fermentazione dei rossi in tini aperti. Bianchi con fine fermentazione parte in legno e acciaio. Acini interi. Macerazioni carboniche. Tre anni di barrique. Tostature lievi. Affiniamo tutta la nostra massa in legno. Anche la Nosiola e il rosato da Cabernet. Ogni anno fanno prove come se la cantina fosse un laboratorio. Ogni anno è diverso e occorre provare. Perdonate il francesismo ma l’unica parola che mi viene da dire è: minchia! L’impressione che ho parlando con Bruno e Michele è che questi due ragazzi non solo sono preparati ma abbiano talmente bene in mente il loro percorso, sappiano perfettamente i loro punti di forza e le debolezze che quasi quasi penso mi stiano facendo una candid camera: non starò parlando con qualcuno che mi mette alla prova? Scavando nelle persone si coglie davvero il loro spirito. La voglia di vivere la terra e la famiglia Una famiglia che lavora. Io e mio fratello. Mia madre, mio padre. Alla vendemmia si parte al mattino. Una bella colazione alle 9. Un aperitivo prima di pranzo. Una merenda nel pomeriggio. Una vendemmia tutta manuale ovviamente. Perché qui si crede ancora al valore dell’uomo e all’apporto che può dare alla terra. Ma anche perché il terreno è tutto marne e calcare. Se poi piove è ancora peggio. Però poi te lo ritrovi nel prodotto finale. Il grappolo di uva che lo prendi con le mani e fai la cernita così da trovartelo in cantina sano. Questo dà ai vini grande pulizia. Preparazione. Visione. Idee. Famiglia. Ma piedi ben piantati nel terreno dal quale nasce la vite. Siam partiti con l’aspettativa di aumentare le bottiglie. Sono poi arrivati due anni di Covid e la vendita è iniziata nel 2022. Passi piccoli, graduali con l’idea di arrivare al massimo a 15.000 bottiglie con nicchie di produzione. Produzioni calate per migliorare la produzione. Numeri piccoli per ricercare la qualità. Consci delle proprie possibilità, delle attrezzature, delle proprie forze utili solo per raggiungere la qualità. Il Covid è stato per loro quasi una fortuna perché con i vini in bottiglia hanno potuto osservarne l’evoluzione e il loro miglioramento. Ora siamo fuori con la line giusta. Quasi non vogliono venderli per l’evoluzione. Ma anche su questo sanno quanto sia importante farsi conoscere e avere il giusto riconoscimento. Abbiamo anche un Trento doc con il quale potevamo già essere fuori ma vorremmo portarlo a 60/120 mesi. Come se non bastasse! Cominciamo ad assaggiare e partiamo da una vera chicca. Stoll, la Nosiola metodo Classico stabulata in legno. Il nome, un omaggio al rifugio anti areo dove papà Marco metteva il suo di metodo classico “Sono anni difficili, bisogna tener duro. Ogni anno impariamo per migliorare. La Nosiola spumante metodo classico siamo solo noi a farla. Cerchiamo strade diverse per evitare la concorrenza. 15 mesi di lievito: non si deve eccedere perché la Nosiola può diventare semi aromatico e loro sanno che non troverebbe mercato. È una bolla che esula completamente da qualsiasi altra bolla trentina. Gli odori sono quelli freschissimi di nocciola caratteristica della Nosiola. Una nocciola i cui aromi partono dal verde della buccia (come faccio a spiegare a mio figlio l’odore della buccia della nocciola adesso? È tanto che la vede con il guscio. Lasciamo perdere che è meglio) per poi evolversi e diventare frutto. C’è una bella freschezza data dagli agrumi che spiccano. Una mineralità da pietra focaia ma, soprattutto un meraviglioso sentore di che mi ricorda la “torta della nonna” nella versione con la crema al limone. Quando assaggio noto subito una bolla molto fine e la delicata spalla acida per nulla invasiva ottenuta grazie all’affinamento in legno e al controllo delle temperature in post fermentazione. Va quasi a chiudere sull’amarognolo. La persistenza è buona con ottimo retro olfatto che fa riemergere la frutta e, soprattutto la voglia di un altro calice. Insomma, si lascia bere volentieri. Lo abbinerei ad una pizza base mozzarella di bufala bianca o a del riso zucca e speck. Bolla convincente La Nosiola è un vitigno molto esile da un punto di vista strutturale. Si mantiene di più nel tempo. Assaggiamo delle Nosiole di venti anni fa. Facciamo due vendemmie sulla stessa superficie. I grappoli più verdi per la spumantizzazione; i più spargoli per la surmaturazione in vigna (almeno 15 giorni in più). Già questo lascia intravedere una lavorazione in più per un vino bianco da Nosiola. Quella che assaggiamo è la Nosiola Avel 2019 con un 30% di appassimento unita a fine fermentazione. Questo procedimento le dona un bel colore carico di oro. La surmaturazione si sente dai fiori di camomilla che virano verso il miele di acacia. C’è il balsamico e si sente la mentuccia. La particolarità di questo vino è data dalla frutta che qui vira sul tropicale o a pasta gialla. In bocca c’è una secchezza importante. La spalla non è eccessiva grazie all’affinamento in legno per un 40% cosa questa che regala anche una certa rotondità e un accenno di tannino. Il finale è ancora verso l’amarognolo, caratteristica varietale che si mantiene. Bel vino anche se l’abbinamento risulta un po’ complesso. C’è bisogno di un pesce grasso come scorfano o rana pescatrice. Una anguilla, un capitone. Vino non banale non è facile. Bravi È un vino che da quando lo abbiamo imbottigliato ad oggi è in continua evoluzione. Siam partiti con note di gelsomino esagerato e ci siamo accorti che per caratteristiche genetiche, tende a complessarsi. A distanza di sei mesi il vino è completamente diverso. Siamo usciti dopo due anni di bottiglia Questo denota sempre di più una grande visione. Apriamo il Rosato Fiorir de Soreie da uve Cabernet 2020. Qui abbiamo azzardato. È un cabernet vinificato in bianco dove abbiamo una macerazione in cella frigo per una settimana con estrazione del colore. Poi in vasca per una settimana di stabulazione per far emergere i sentori e una fermentazione lunga anche due settimane. Poi in legno per 8 mesi per poi andare in bottiglia. Scusate se è poco! Si sentono le note semi ossidative che richiamano uno champagne anche di un certo affinamento. È un rosato fresco e complesso. Qui abbiamo rischiato con un metodo provenzale avendo degli amici che vinificano li. Seguito la Grenache provenzale con un Cabernet proveniente da vigne esposte a nord est Quando metto il naso nel bicchiere, mi piace molto per i sentori freschi e vivi. C’è del mirtillo, del fico, del melograno. Ricorda le caramelle balsamiche fatte con le erbe. Complessità interessante di composti di mele cotte, vaniglia. C’è la mela annurca che mia nonna ci tagliava a fettine in estate. Sono fermo all’olfazione perché è i sentori mi suscitano ricordi meravigliosi. La dimensione è così dolce e rotonda che quasi non ce la faccio a berlo. In bocca le note ossidative emergono preponderanti. Il sentore di mela annurca me lo ritrovo in bocca ancorché molto sapido. La rotondità arriva comunque aprendosi completamente in bocca. Si sente il legno e torna quella caramella balsamica colta dal naso. La scelta di legni poco o per nulla tostati sono utili per non rendere stucchevole quello che risulta un grande vino. Poi è il turno dei rossi. Krea, il Marzemino. Vitigno particolarmente difficile perché germoglia precocemente e con le gelate tardive è soggetto a perdite di produzione. In cantina, se non trattato bene, tende ad andare in riduzione. I sentori molto chiusi lo rendono di difficile impatto commerciale. Con uno studio certosino abbiamo deciso di stravolgere il marzemino. Nasce da un vigneto di 63 anni nella zona classica dello Ziresi. Bruno ne parla con un po’ di delusione. Ce lo hanno declassato dalla doc perché non rispetta il disciplinare. Per aspetti legati al prodotto perché non richiama la tipicità. Già, perché quando vuoi fare qualcosa di diverso, di significativo ed unico, c’è sempre da combattere. È un 2019, prima vendemmia. Porta in sé un 30% di uva appassita in arellario. Lavorata ad acini interi con una macerazione quasi carbonica in tini aperti. Fermentazione sulla prima massa di 15/20 giorni poi in acciaio. Dopo 45 giorni di appassimento delle altre uve si diraspano ad acini interi e fermentati. Poi tutta la massa viene ripassato sulla massa appassita lasciando il cappello sommerso. Va poi in botti extra fine di rovere leggermente tostato per avere una struttura più importante ed evitare che abbia un finale vero l’amarognolo. Va spesso travasato per evitare che vada in riduzione. Vanno anche tolti tutti i vinaccioli per evitare la nota amara. Già così si può capire la complessità che questi due ragazzi portano in un vino. Quanto studio, quanta passione, quanto tempo ci vuole per creare qualcosa del genere. La recensione sul mio blog @ivan_1969 Colore rubino estremamente compatto. Lievi riflessi viranti verso il granato. La dolcezza si sente già al naso con note di amarena sotto spirito, fiori in potpurri. La viola è molto evidente e si amalgama molto con nel potpurri. C’è tabacco, vaniglia, chiodi di garofano. Tutte note piacevolmente dolci. La complessità olfattiva non è elevata perché il vitigno quello può offrire ma se lo si tenesse in bottiglia potrebbe esprimere ancora di più. In bocca tannino e freschezza prevalgono. La sapidità è presente. Ti aspetteresti una maggiore rotondità che ci sarà solo tra qualche tempo. È un vino che offre una diversità tra naso e bocca meravigliando per la freschezza. Il finale ha ancora un pelino di amarognolo comunque levigatissima. Persistenza non lung. Il retro olfatto richiama gli odori del calice. Un vino con cui pasteggiare. Non è un Marzemino croccante ma quasi masticabile che si abbina bene con carni o una tagliatella al ragù. Io lo proporrei con un pizzocchero. Posso dire che hanno preso un marzemino e ne hanno fatto un grande vino. Finiamo con i Cabernet Mener. Stesso vigneto del rosato vendemmiato 15 giorni dopo. 65% di Cabernet Sauvignon, 5% di Cabernet Franc e 30% di Carmenere appassito con lo stesso procedimento del Marzemino. Insomma, la lavorazione è la stessa del Krea cambiando solo un po’ la tostatura delle botti per il Carmenere. Nel bicchiere bel rubino con colore similare al Marzemino. I sentori cambiano poiché non propriamente morbidi. Semmai più ruvidi. Volevamo un taglio bordolese come si facevano prima in trentino senza il merlot. Sono evidenti le note di liquirizia e cacao. Il Carmenere in surmaturazione porta il pepe verde. C’è la balsamicità che è come un marchio di fabbrica dell’azienda. Sento sottobosco e aghi di pino che richiamano le foreste. La complessità è simile al Marzemino. Interessante per la sua freschezza. Nonostante procedimenti analoghi i sentori passano dalla rotondità alla freschezza. Il sorso evidenza coerenza tra olfatto e gusto. Grande freschezza e sapidità. Secco e caldo. Meno masticabile del Marzemino. Persistenza che si allunga rendendo l’abbinamento necessario con qualcosa di consistente tipo capriolo e cervo. Lo vedo benissimo con una polenta funghi e formaggio fuso. Abbiamo cercato di stare in linea con il nostro territorio offrendo bassa alcolicità. Più sulla freschezza e sapidità che sul corpo. Ecco, siamo alla fine ma vorrei non finisse mai. Perché parlare con Bruno e Michele fa solo capire quanta preparazione ci sia in persone come loro. Quanto studio. Quanta passiona. Quanta voglia di emergere. Bravi! Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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31 Marzo, 2023

Stefano Porro e la vigna da tre milioni di euro

Stefano Porro e la vigna da tre milioni di euro “Pensateci bene… l’amore può durare solo una notte, un milione di dollari dura tutta la vita!” E se i milioni fossero tre? Ecco, immaginate di trovarvi dinanzi ad una Proposta indecente come nell’omonimo film. Magari non ci sarà Robert Redford a farvi l’offerta ma un ricco americano che vi mette sul piatto, con nonchalance, tre milioni di euro per acquistare il vostro ettaro di vigneto. In fondo è un vecchio vigneto che non ti va di coltivare. Anche perché, se hai 21 anni, la prospettiva di tre, inaspettati, milioni di euro in tasca, non è così male. Ti fanno gola. Cavolo se ti fanno gola! Il vigneto sta lì da tempo e il nonno l’ha lasciato a tuo padre che non ha mai avuto voglia di coltivarlo. Lui preferisce stare sui trattori. Tu hai un lavoro da elettricista. Certo, non è il massimo ma ti dà da vivere in maniera onesta. Poi arriva questo americano e, come un fulmine a ciel sereno ti offre qualcosa che non ti ricapiterà più. Qualcosa che ti mette in crisi. Di quelle crisi che non ti fanno dormire la notte. Cavolo, tre milioni sono tanti ma tanti. Chi li ha mai visti e soprattutto chi li vedrà mai. Poi però inizi a pensare. Perché si, hai 21 anni e questo non vuol dire essere uno che non ragiona. La terra del nonno, quell’ettaro ora diventato il Klondike di Zio Paperone memoria, ha sempre dato uva poi rivenduta perché non è che c’era la voglia e la capacità di fare vino. Solo un paio di damigiane per la famiglia e il resto andava via. A chi sapeva fare il vino e aveva le capacità di farlo. Eppure non è che siamo in una terra sfortunata. Siamo a Serralunga D’Alba. Siamo nelle Langhe. Quel territorio baciato da Dio che produce il Barolo, il Barbaresco. Insomma lì dove il Nebbiolo assume la sua forma più alta. I terreni qui non hanno certo l’esposizione perfetta, ma chi l’ha detto che pur se diversa non possa far nascere qualcosa di buono. Anzi di ottimo. In fondo se qualcuno offre tre milioni di euro per un ettaro di terra, qualche potenzialità dovrà pure averla! Stefano Porro non ci ha dormito per notti intere. Il papà, che aveva ereditato la terra dal nonno e non sapeva cosa farsene, disse che doveva essere lui, Stefano, a decidere: la terra sarebbe comunque stata sua a tempo debito. Ma solo quella, perché la terra rappresentava l’unica cosa che poteva lasciargli in eredità. La scelta dunque, se tenerla o venderla, era solo ed esclusivamente sua. Lui avrebbe accettato qualunque decisione. Un ragazzo di 21 anni. La decisione spettava ad un ragazzo di 21 anni. Elettricista. Di Serralunga D’Alba. Cosa avreste fatto voi? Probabilmente avreste preso i soldi. Anche perché sì, un ettaro di vigneto in quel delle Langhe è un sogno. Produrre vino li sarebbe fantastico. Ma quanto ci si può ricavare da un ettaro? 7000, 8000 bottiglie l’anno? E quanto ci vorrebbe per arrivare a guadagnare tre milioni di euro? Ve lo dico io: 40 anni. Mi hanno fatto parecchia gola. Poi ci ho pensato e ho detto: io ho il mio lavoro, il mio stipendio. È vero che non navigo nell’oro ma se ti regalano tre milioni di euro, li sprecheresti perché non è una fatica che hai fatto tu e non sai apprezzare una fortuna così. Stefano invece ha fatto una lungimirante scelta di amore e si è tenuto la vigna del nonno (e del padre) iniziando la carriera del vignaiolo. Già il vignaiolo. Mica ci si improvvisa vignaiolo. Tocca studiare. Bisogna fare esperienza. Oltre che avere i soldi. Stefano, 21 anni. Quanta ammirazione per questo ragazzo. Che se ne va in giro ad imparare. Financo in Borgogna dove capisce quanto le basse rese in vigna, la cura maniacale della vite, la pulizia in cantina siano fondamentali per avere un prodotto di qualità. Le Langhe saranno pure un territorio baciato da Dio, ma qui sei costretto a produrre vini di qualità. Perché la concorrenza non è solo dovuta alla moltitudine di produttori ma alla qualità generata. Se non produci qualcosa di eccellente, non hai speranze. Si appoggia a due amici, anche loro neofiti, con i quali dividere una cantina. La devi avere una cantina, altrimenti il vino come lo produci? Dividendosi le spese, ha una parte della cantina per vinificare. Stefano ci mette un locale per deposito, ristrutturato per l’occasione, loro la cantina. 1600 bottiglie la prima annata. 2020. Nebbiolo ovviamente. Nel 2021, Nebbiolo e “la” Barbera che viene dalle vigne di Monforte. Un piccolo vigneto di parenti che Stefano coltiva con la medesima passione del suo. Nel 2022 si aggiunge anche una barrique di Barolo. Già tutta venduta! Mi fanno impazzire con questo Barolo perché sembra che non ce ne sia più in giro Ci vuole un enologo e lo capisce Abbiamo un enologo interno che fa naso e ci dice se ci sono dei difetti. Ci vuole uno esterno per questo. Saggezza. Umiltà. Capacità di capire i propri limiti e cosa ci vuole per eccellere. Per il resto In campagna ci siamo io, mio padre e mia madre. L’azienda non può rappresentare l’unica forma di sostentamento. Non basta per andare avanti. Così Stefano lavora in una grossa cantina. Anche per imparare. Prima cosa mi dà da mangiare. Non sembra ma è sempre uno stipendio. Poi vedo il bello e il brutto. Ecco, quando parli con un ragazzo come questo, con la testa sulle spalle e la saggezza di un anziano, ti ricordi di tutte le volte che hai visto in tv i dibattiti sulla disoccupazione. Ma lasciamo stare. Il futuro di Stefano è già nel suo immaginario. Vinificare tutto quello che posso e quando arriverò sulle 8000 bottiglie starò a casa. Insomma non vuole diventare un grande produttore. Mai superare le 10.000 bottiglie. Lavorare lui e solo lui senza triarsi indietro. Perché solo lui sa quanto amore ci voglia per produrre il suo vino. Amore, passione, dedizione, fatica. Essere nel cuore delle Langhe per un giovane produttore non da vantaggi se non hai qualcosa di unico. Stefano lo sa. Per quello è andato in giro a studiare. Far risaltare la zona, che non ha una esposizione ideale, potrebbe essere un vantaggio. Anche se con i cambiamenti climatici la zona non è poi così male. Anzi. In ogni modo qualcosa si porta con sé Stefano dai suoi pellegrinaggi enoici. Nessuna inoculazione di lieviti ma pied de cuve: cinque giorni prima della vendemmia si raccolgono alcune cassette di uva fatte quindi fermentare in una mastella per poi gettarle nella vasca di cemento. Il 50% dell’uva viene lasciata con la bacca intera creando una semi macerazione carbonica utile per conferire profumi esagerati. Fermentazione da dieci a venti giorni poi acciaio per la malolattica e sette mesi in barrique. Per fare tutto questo serve materia prima perfetta e massima pulizia in cantina e in vigna. Uve selezionatissime. Difficile farlo capire ai genitori che l’uva la vendevano e certo non andavano tanto per il sottile. Assaggiamo prima “la” Barbera: bottiglia n.393 di 700 (qui il post su Instagram). Il colore rubino e la estrema pulizia lo rendono un nettare quando lo verso nel calice. Sarà che deriva dal solo mosto fiore senza prendere nulla dalla pressatura in moda da esaltare quei meravigliosi sentori vinosi che emergono prepotenti. Ancorché giovane (è un 2021) la frutta (ciliegia e melograno) al naso è già matura: vantaggio di avere delle vigne vecchie. In più alla frutta, solo dei fiori. Insomma, un vino semplice, non impegnato, pulito, fresco già al naso. Volevo una barbera che si potesse bere con tutto. La sensazione che mi dà bevendolo mi riporta a quando mia nonna metteva lo sciroppo di amarena nella bottiglia: era rinfrescante. Fresco al palato insomma. Non ha una persistenza lunga così che risulta facilmente abbinabile. È beverino e con un formaggio o un salame, sta benissimo. Non è impegnato ma convincente perché versatile. I tannini non sono mai aggressivi ma quasi vellutati. Cosa questa che non evita comunque la necessità di berlo solo se accompagnato con del cibo. Assaggiamo poi il Nebbiolo. Bottiglia n. 475 di 2000 (qui il post). Bellissima intensità di colore, più scuro e profonda della Barbera. La frutta si evolve e da matura diventa la ciliegia messa sotto spirito dalla nonna. Escono sentori che potranno ancora evolversi con la permanenza in bottiglia. Ci sono i fiori. C’è il balsamico. Il sottobosco. Sento ematicità. Tabacco non dolce. Pellami freschi. Tutto frutto degli acini interi e dell’affinamento in cemento prima e di sette mesi di legno con tostature molto lievi poi. In bocca c’è la potenza dei vini di Serralunga ma anche una finezza ed eleganza. Serralunga è conosciuta come una zona strong. Il tannino è maturo e importante, cosa questa che risalta ancora di più la freschezza e la secchezza. La sapidità arriva importante e contribuisce alla davvero lunga persistenza. Un vino estremamente interessante ma che se non lo abbini, anche con una polenta, ti taglia. Bravo Stefano. Davvero bravo ma bravo. Quando gli chiedo a chi deve qualcosa mi risponde così: Devo tantissimo ad un commercialista amico di famiglia perché è stato lui a spronarmi a fare qualcosa. Non mi ero mai interessato alla campagna. Anni, prima era come una punizione perché costretto a fare qualcosa in vigna invece di andare al mare con la fidanzata. Adesso passo sabato e domenica in vigna. Contrappasso? No, solo la stupefacente casualità che la vita, in maniera inaspettata, riserva. Rimpianti? Forse. Come quelli verso il nonno mancato quando era piccolo e al quale ora non può fare tutte le domande che avrebbe voglia di fargli. Adesso se mi offrissero sei milioni di euro non gliela darei. La soddisfazione che ho avuto con la prima etichetta non ha prezzo Bravo Stefano. Teniamolo d’occhio perché ne farà di strada. Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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24 Marzo, 2023

Benvenuti al sud: Le Grazie di Bernardino Cera

Benvenuti al sud: Le Grazie di Bernardino Cera Quando un forestiero viene al sud piange due volte: quando arriva e quando riparte. Ve lo ricordate il film Benvenuti al Sud? Sì, quello con Claudio Bisio, Alessandro Siani ed Angela Finocchiaro. Con Bisio che viene trasferito da Milano a Castellabate. Insomma Bisio, da buon settentrionale passa dalle difficoltà di ambientamento dunque la voglia di scappare ad essere stregato dal Cilento e dalle sue persone. Con la voglia di non partire più. Non è andata esattamente così a Bernardino Cera e alla azienda Le Grazie di Montecorice (Salerno). Perché Bernardino è nato a Novara da genitori di Montecorice che, nonostante avessero parecchi ettari di terra (ventotto!) coltivati ad olive, fichi e pascolo, decisero di andare a trovare maggior fortuna al nord. Magari per ritornare dopo un po’. Dopo anni al nord, si torna sempre al paese prima o poi. Strana la vita invece che fa adattare una famiglia di un luogo così solare come il Cilento, al freddo di Novara. Al paese non si torna se non per le feste comandate. Ci sono i figli che crescono e di andare al paese non ne hanno voglia. Magari in estate. Almeno nel Cilento in estate c’è da divertirsi. Per Bernardino, il cui nome, come da tradizione, era del nonno, è un po’ diverso. Lui che è malinconico. Di quelli che sentono un insolito malessere dentro. Che non si placa se non quando, per le feste comandate, si trova dai nonni nel Cilento. Non piange per andare al sud. Semmai piange quando riparte. L’estate per Bernardino non è un momento per andare al mare, cosa che nemmeno gli piace. Semmai per vivere di quei luoghi. Della terra. Degli odori del mare. Godere del sole che ti taglia in due e che, quando lo lasci, ti fa sentire nel freddo la sua mancanza. I genitori lo hanno fatto studiare e lui lavora presso un commercialista. A Novara. Ora, non per denigrare il nord, ma se uno ha nel cuore il sud e il Cilento, può pure fare il più bel lavoro del mondo, ma non regge. Infatti Bernardino non regge capendo che, per stare bene, deve cambiare vita. Luogo. Tornare alle origini nel Cilento. Tornare alla terra. Così che Bernardino inizia a fare il pendolare tra Novara e Montecorice. Per lavorare nelle terre di famiglia. Già ma coltivare la terra che da olive e fichi necessita di preparazione e Bernardino lo sa. Sa anche che per realizzare il suo sogno, per stare bene, occorre impegnarsi. E non poco. Ad un certo punto ho avuto un’altra pazza idea di prendere un secondo diploma in agraria. Volevo delle basi. Studia e si diploma in agraria e nel mentre si sostiene producendo e vendendo olive, olio, fichi. Fino a che nel 2013 si trasferisce definitivamente a Montecorice per iniziare davvero una nuova vita. Contro tutti e contro tutti. Persino i suoi genitori. I miei genitori mi volevano ammazzare. Avevano scelto di andarsene per darmi un futuro migliore e io sono tornato in campagna. Come biasimarli in fondo. Loro che per primi erano andati via da un paese di poche anime dove non vedevano futuro per sé stessi, figuriamoci per i propri figli. Loro che avevano fatto studiare i figli e avevano visto Bernardino con un lavoro solido. L’unica felice di vederlo a Montecorice era ed è la nonna alla quale non pare vero di avere Bernardino, colui che porta il nome del nonno, vicino. Mia nonna mi ha messo all’ingrasso. Per lei ero Bernardino. Mi adora. Sto divagando forse ma aiuta a capire come si può essere sentito Bernardino a trasferirsi a Montecorice. E quanta forza deve aver trovato dentro di se per resistere, per realizzare il suo sogno. Per trovare la pace interiore. Le poche volte che torno a Novara mi manca il mare anche se non amo il mare. D’estate non vado al mare. Amo però vedere il mare. Mi fa stare bene. La pace. Bernardino ancora non era ancora riuscita a trovarla. Mancava qualcosa. Mancava la magia. Coltivare olive e fichi, produrre olio è meraviglioso ma non magico. Avevo bisogno di qualcosa di magico e l’ho trovato nel vino. Ecco, il vino. La meravigliosa, unica magia che il vino può offrire. Ancora più difficile però. Siamo nel 2018 e Bernardino inizia a piantare le prime barbatelle: 8000 piantine di Fiano e di Aglianico. Non si cura di chi lo prende per pazzo, di chi gli dice “ma chi te lo fa fare”. No, Bernardino va per la sua strada. Anche quando gli dicono che è meglio piantare l’Aglianico. Lui no, vuole un Fiano perché sa che i turisti vogliono il vino bianco (malinconico, sentimentale ma con spirito commerciale Bernardino!). Insomma Bernardino inizia a fare, anche, il vignaiolo. “Anche” perché non è che il resto lo può lasciare. Quello è il suo sostentamento. In vigna c’è lui e un suo fraterno amico. Fanno tutto loro su un terreno roccioso di poco più di tre ettari (senza dimenticare gli altri 25..). Terreno completamente roccioso. È una pazzia per fare questo lavoro. Non dormire la notte per tanto tempo. Roccioso ma baciato dal sole e cullato dai venti marini. A Montecorice le vigne sono sulla collina più alta. Da qui si vedono i tre golfi sottostanti. Da qui si respira quell’aria di mare che renderebbe mansueto anche un tannino spigoloso come quello dell’Aglianico. La prima vendemmia è del 2020 e Bernardino già pensava di dare al suo Fiano in purezza il nome 2020. Ma ci ripensa perché capisce che l’anno pandemico è nefasto ed è meglio che stia lontano dalla mente dei clienti (malinconico, sentimentale ma sempre con spirito commerciale Bernardino!). 3 ettari di vigneto su un terreno che nessuno vorrebbe coltivare. Piante giovani perché lì da poco. Insomma, sarà pure un luogo meraviglioso tanto da incantare Bisio nel film, ma cavolo che difficoltà. Per non parlare del resto che sono pure ulteriori 25 ettari sempre impervi e complicati. Vi piacciono i fichi? Buono l’olio? Ecco, tocca andare a farli però i frutti. Farli andando su e portarli giù. Faticoso eh? I soldi alla fine sono pochi e comunque insufficienti per permettersi una cantina. Così ne usa una che produce vino conto terzi ma non lo vende (malinconico, sentimentale ma sempre con spirito commerciale Bernardino!). Se si mettono in fila tutte queste cose mi viene il dubbio che non sto parlando con uno sprovveduto. Anzi! Bravo Bernardino. Io non sono un amante dei bianchi. Ad un certo punto ho scoperto il Fiano e la qualità della cultivar. Il Fiano è una delle poche che può invecchiare. Ero abituato ai vini del nord ma quando ho trovato il Fiano ho visto qualcosa di magnifico. Eccolo Bernardino. Innamorato della sua terra e, forse, ancor più di questo meraviglioso vitigno quale è il Fiano. Innamorato del Fiano dunque. Ho deciso di piantare anche la Falanghina. Malinconico, sentimentale ma sempre con spirito commerciale Bernardino! Quando uno inizia da zero come ha fatto Bernardino può gestire la vigna come meglio crede. Sceglie con saggezza protocollo ZEI, zero impatto ambientale. Ho un solo problema che è l’oidio per la ventosità. Utilizzo di soli prodotti naturali lasciando il solo zolfo. Tolto anche il rame andando oltre il biologico perché il terreno possa giovarne dell’assenza. Assaggiamo il Fiano in purezza Vincenzì (va pronunciato bene, con l’accento sulla “i” finale) Il nome è un omaggio allo zio di mio padre che si è trasferito in brasile per cercare fortuna. Mi sono immaginato in lui tornando a Montecorice. Tutti i vigneti nascono su suoi terreni. Ho scelto per i miei vini dei nomi che si ricollegano a persone molto care o luoghi che mi emozionano ancora adesso. La scelta nel volere un Fiano in purezza e affinato in acciaio diventa quasi un dogma. Magari dopo si potranno fare tutti i passaggi ma per Bernardino il suo Fiano deve essere buono già in acciaio. La presenza del mare con la sua sapidità, il terreno roccioso che rende fine il vino. A che sarebbe servito un passaggio in legno? Bella pulizia nel calice. Un colore paglierino quasi verdolino. I sentori sono quelli tipici del Fiano con aggiunta di grande mineralità. Non c’è l’opulenza del Fiano avellinese perché qui troviamo frutta delicata come la nespola e fiori di margherita che si legano allo iodio del mare. Non c’è molto altro, ma questa semplicità e linearità sono appaganti. La stessa semplicità la ritrovo in bocca dove appare pulito, secco, fresco, sapido. Eccellente coerenza con l’olfatto e una interessante bella persistenza. Un vino che appare pastoso con un finale che lascia la bocca agrumata.  Il vero problema di questo Vincenzì è la sua ruffianeria: se stappi la bottiglia, la finisci senza accorgertene. L’abbinamento non è con un pesce perché la sua ottima persistenza non lo consentirebbe. Una pasta con crostacei. Ecco, così si. Chapeau! Apriamo l’Aglianico e già si sentono gli effluvi. Nel calice il colore è importante, tagliente. È giovane (2021) e il riflesso porpora del colore rubino, lo dimostra. Il Sarto, questo il nome, è una dedica a nonno Bernardino, il sarto di Montecorice. Era lo zio di tutti a Montecorice e per tutti era lo zio Bernardino. Una persona solare alla quale tutti volevano bene. In molti andavano ad imparare il mestiere da lui. I sentori sono immediatamente vinosi. Si sposano con la prugna non ancora matura. Poi arrivano i fiori. Sembra null’altro, eppure qui c’è un breve passaggio in botte. Roteando il bicchiere, ecco che arrivano spezie dolci come tabacco, chiodi di garofano, cannella. Anche un po’ di ematico. Sentori dolci che contrastano con la frutta non ancora matura. Bel contrasto devo dire. Forse dovuto al terreno e alla vicinanza del mare. In bocca la sapidità spicca e la coerenza con l’olfatto c’è tutta. È fresco, secco, morbido. La frutta prende il sopravvento e si esalta con un tannino non arrogante, non ingombrante. Anzi, è morbido e grandemente rotondo. Non sembra quello spigoloso e deciso dell’Aglianico. Lo puoi bere da solo ma con un ulteriore anno di affinamento si arrotonderà ancora di più. Già me lo immagino con il ragù della nonna. Bella coerenza tra i due vini. Si sente la stessa mano. Si sente soprattutto l’amore. La recensione sul mio blog @ivan_1969. Ho assaggiato due vini non scontati e rappresentativi del territorio e di Bernardino. I vini devono rispettare l’azienda. La moda ti porta a fare delle scelte che il mercato ti richiede. Ma mai perdere l’identità Ciò che mi ha appagato di più è l’amore che Bernardino ha per la sua terra. Un territorio difficile, abitato da persone meravigliosamente ospitali che amano la vita. Ecco, amore. Un amore, un caldo abbraccio che ho ritrovato appieno nei vini di Bernardino. Malinconico, sentimentale e con un cuore immenso. Così è Bernardino.   Ivan Vellucci Mi trovi su Instagram : @ivan_1969
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17 Marzo, 2023

Roberto Castagnini One Man Band

Roberto Castagnini One Man Band È proprio vero che il mondo del vino riesce a farti conoscere sempre persone speciali. Ognuna con la propria, unica, storia alle spalle e qualcosa, ancora tutta da scrivere, per il futuro. Le piccole aziende poi riservano sempre sorprese. Nei vini certo, maggiormente nelle persone. O nella persona. Perché in molti casi, di persone che fanno le cose, ce n’è una sola: One man band. Così che i vini non possono che essere la vera espressione della persona che ha accudito le vigne e modellato il prodotto. Siamo a Carrara, alle pendici delle Alpi Apuane. Una terra di mezzo tra la Toscana e la Liguria anche se in Toscana ancora. Così che quando qualcuno ti parla non ti aspettare l’intercalare tipico toscano. Nella terra di mezzo si parla un vero mix. Forse quasi più ligure. Mi capita così con Roberto tanto che gli chiedo subito se sia nato li. Lui quasi se la prende. Nato li. Il papà li. Il nonno li. Le terre e la vigna che con il nonno coltivava. Carrarese senza sé e senza ma. Altroché. Nella terra di mezzo mica sei in pianura. Non tanti metri di altitudine (circa 200). Ma qui tutto è così in ripida salita che le vigne si adagiano su terrazze da meno di un metro, cosa questa che impone lavorazioni esclusivamente manuali. Anzi, più che manuali, da incubo perché non è che ci puoi andare con qualcosa di meccanico. Impervia e a pochi km dal mare tanto che si può vedere, all’orizzonte, anche l’isola d’Elba. Sono nato e cresciuto nei vigneti. Facevo vino sfuso. Poi imbottigliato. Etichettato. Quando si fanno le etichette si sbagliano e si rifanno. Siamo partiti da un ettaro adesso siamo a tre e mezzo. Roberto, Roberto Castagnini, parla a raffica. È una persona mite, pacata. Con due occhi che sorridono. Di quel sorriso di chi fa ciò che gli piace. Senza fretta. Senza dannarsi l’anima. Senza qualcuno o qualcosa che gli corre dietro. Ma con tanto amore e passione. Eppure quando gli chiedo in quanti lavorano nella sua azienda, la Castagnini,  la sua risposta è: Siamo io, io ed io. Ho una persona saltuaria, un pensionato, che dà una mano in vigna ma poi faccio tutto io. E in cantina? Anche in cantina faccio tutto io. L’enologo mi dà una mano ma per il resto faccio io. Lui mi dà i compiti. Provo ammirazione e tenerezza allo stesso tempo. Anche se Roberto non è uno che fa pesare ciò che fa. Anche se non deve essere per nulla facile salire e scendere per le terrazze dei suoi cinque ettari, lui affronta tutto con calma serafica. Quelli bravi direbbero che ha un atteggiamento Zen. Io dico che Roberto ha in sé la saggezza di chi ne ha viste tante e sa che tanto, pure se si affanna, le cose non cambiano. Cosa devo fare. Se mi arrabbio non succede nulla. Quello che non faccio oggi faccio domani. Alle 7-7.30 chiudo e vado a casa. Quello che c’è da fare si farà domattina. Domani piove? Me ne vado a casa. Non devo morire della vigna. Come fai a non voler bene ad una persona così? Sono nato in mezzo alle vigne di proprietà di mio nonno che seguivo. Imparando tante cose. Volevo fare l’agrario ma ho cambiato strada. Sono tornato poi indietro. Roberto è una di quelle persone che nonostante avesse la terra ha preferito altro. Da giovani si vede la vita in maniera diversa. Le ambizioni. La voglia di emergere. Di fare qualcosa di diverso dal padre o dal padre di tuo padre. Prima di ritornare alla terra, nel 2000, Roberto ha avuto modo di fare altro. Tanto altro. Per sei anni l’agente di commercio vendendo carne fresca (seguendo le orme del papà che era macellaio). Dovevo fare 5000 km a settimana e sono diventato pazzo. Poi l’azienda è fallita e ha aperto un negozio di alimentari aggiungendo una macelleria (l’impronta del papà continua). Una realtà che ha dato grandi soddisfazioni fino a quando con i dipendenti e la loro gestione la complessità è aumentata. Ho preso l’esaurimento e mi sono rimesso a fare vino Eccolo il vero Roberto. Quello che nella sua pacatezza ha bisogno della libertà e di voler essere responsabile solo di sé stesso e di ciò che produce. La voglia di stare all’aria aperta e curarsi della vigna. Solo che tra commerciale e cantina la vigna non la vedo più. Volevo starci di più ma ci sono tante altre cose che portano via tempo. In questo luogo perso tra le colline di Carrara, Roberto dirige la sua orchestra formata da sé stesso. Su e giù per le terrazze. Con i suoi tempi. Come se la vigna e le piante debbano rispettare i suoi di tempi. Ma questa è la vera sinfonia. Perché la cura che Roberto ha nelle sue piante è quella di un padre verso i figli. Come gli aveva insegnato il nonno. Su quelle vigne che ormai avranno più di sessanta anni. Vigne di Massaretta (o meglio Barsaglina ma non ditelo a Roberto che si offende), Vermentino e Vermentino Nero. Con qualche pianta di Sangiovese, Merlot, Ciliegiolo. Tutte mischiate senza un ordine logico. Sono vigneti vecchi dove c’è tutto di più. Quando vai a fare la vendemmia diventi matto. In vigna è tutto misto. Nel filare due piante di Massaretta, una di Vermentino Nero, uno di Merlot e quattro di Vermentino. Ci devi passare quattro volte per fare la vendemmia. In fondo un tempo si faceva così. Perché il vino mica si imbottigliava per venderlo. Si faceva per casa e quello che avanzava era venduto sfuso. Quindi non importava cosa c’era dentro. Bastava fosse buono. Il grande lavoro di Roberto è principalmente sui vitigni autoctoni come il Vermentino Nero e la Massaretta. Difficile da vinificare e complicati da portare in cantina. Ma con risultati che sorprendono quando il lavoro si chiude con successo. Il Vermentino Nero difficile in vigna perché non puoi fare il cordone speronato, con i grappoli abbastanza lunghi, con chicco grosso e buccia sottile. Niente legno in cantina anche se poi i sentori sono quelli tipici della barrique. Misteri dei vitigni! Però si porta a casa un vino beverino che d’estate è fresco e anche di frigorifero si beve bene. La Massaretta complicata in cantina per il continuo rischio di riduzione che la renderebbe imbevibile (tanto che un tempo non se ne faceva nulla). Lo chiamavano il vino puzzone perché lo mettevano subito in botte dopo la pigiatura. Gradazione sostenuta che però non si avverte, tannino delicato e levigato. Solo la Massaretta fa un po’ di legno. Poco perché non voglio la vaniglia. Roberto vuole i vini come lui. Devono essere e sono la sua espressione: sinceri, schietti, diretti. Mai ruffiani. 20000 bottiglie in totale con un solo blend (per seguire il disciplinare) sono tante per una persona sola. Ma lui non sente il peso. Se lo fa scivolare. Siamo arrivati ad un ben livello nonostante tanti problemi. Trovare l’enologo è stato difficile. Nel 2016 ho trovato una brava persona e gli ultimi anni siamo saliti di livello. Abbiamo preso anche alcuni premi che sono sempre una soddisfazione In gamma anche un Vermouth e una bollicina metodo Charmat Purtroppo oggi se non hai la bollicina non sei nessuno. Che grande Roberto. Lo dice con una schiettezza disarmante. Quelle verità che tutti pensiamo ma che in pochi si azzardano a dire. Quando gli parli di futuro, vedi che cala un misto di rassegnazione e tristezza. Per poi riprendersi subito perché tanto Roberto vive il presente. L’unica cosa che lo fa stare bene. In mezzo alla sua vigna tra i filari del nonno. Tre figli, due femmine ed un maschio che di vigna non ne vogliono sentir parlare. Ognuno ha la sua strada. Non vedo interesse per l’azienda. Andiamo avanti finché c’è voglia e ce la faccio. Loro, in qualche modo faranno.   Saggio. Fatalista. Non so. Però è meravigliosamente disarmante Roberto. Anche se confida che: Ogni tanto mi viene la voglia di buttare via tutto. Tanto lo so che è solo un attimo. Perché su quei terrazzamenti lui si diverte. Ci vive. La mia è passione e divertimento. Altrimenti passa subito la voglia. Faccio ciò che mi piace e ogni tanto c’è qualche piccola soddisfazione. Magari con i premi. Fanno piacere. L’animo di Roberto è questo. Semplice. Puro. Vuole, anche se non lo ammetterebbe mai, una pacca sulla spalla. Qualcuno che gli dica che la sua passione, il suo divertimento, in qualche modo produce buoni frutti. Amor proprio? Secondo me un modo perché quelle terre che ha ripreso con tanto amore, non vadano proprio abbandonate. Perché i figli si accorgano prima o poi quanto amore si perderebbero se non continuassero il lavoro di papà Roberto. Il tuo vino preferito? A me piacciono un po’ tutti. Su tutti però la Massaretta e il Vermentino Nero. Torneresti indietro? Si e no. Il lavoro della vigna non è nulla. Il problema è incassare. Ma non tornerebbe mai indietro Roberto. La sua vita è qui. Me lo immagino, anche con più vendemmie sulle spalle, ad andare su e giù per le vigne. Ma sono anche certo, che uno dei suoi figli sentirà prima o poi il richiamo della terra. È così e sarà sempre così. Dai, Roberto, vedrai che accadrà.   Ps ho assaggiato la Massaretta Cybo 2020 ma non ho voluto interrompere il racconto perché mi sembrava scorresse bene così. L’ho recensito sul mio blog Instagram @ivan_1969. Qui posso dirvi che ho trovato Roberto nel vino. Ho trovato la schiettezza della vinosità ma soprattutto posso dire essere un vino che non capisci subito. Un po’ come Roberto che a prima vista appare burbero ma quando lo conosci ti fa simpatia e tenerezza. Piano piano impari a conoscerlo (il vino e Roberto) e ti intriga sempre più lasciandoti la bocca pulita e vogliosa di un nuovo sorso. Che poi è la stessa sensazione che ho dopo aver parlato per ore con Roberto: mi vien voglia di mollare tutto e andare ad aiutarlo nelle sue vigne. Ivan Vellucci Mi trovi su Instagram : @ivan_1969
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10 Marzo, 2023

Azienda Agricola La Greggia e la Toscana che non ti aspetti

Azienda Agricola La Greggia e la Toscana che non ti aspetti Lui è il gatto, io la volpe, siamo in società.
Di noi ti puoi fidar Essere azienda agricola in Toscana non è cosa semplice. Produrre vino, vino di qualità, è ancora più complicato. Non già perché non ci sia un terreno vocato o un clima ideale. È che occorre rispettare la tradizione, quella che porta ad usare il Sangiovese e poco altro. Quella che fa produrre vini che ne rappresentano l’anima e vogliono rappresentare solo quello. Quella tradizione che vuole che il vino si debba vendere anche sfuso e in grande quantità. Insomma, un mix di fattori che rendono la vita complicata, se non impossibile a chi vuole iniziare l’avventura enoica in queste zone. Senza tralasciare il doversi scontrare con i mostri sacri del vino italiano. Alfredo Moretti fonda l’azienda La Greggia in quel di Tizzana, borgo tar Pistoia e Prato, insieme alla moglie Katlhleen. Siamo nel 2012 circa. Le vigne impiantate qualche tempo prima seguendo i consigli raccolti qua e là così da ritrovarsi con del Merlot, del Cabernet Sauvignon e ovviamente l’omni presente Sangiovese che in Toscana non può mai mancare. Insieme a Alicante Bouschet e Barsaglina: due vitigni non proprio comuni. O facili. La produzione è giusta ma l’esperienza enologica forse non è al massimo così che, per dare una sferzata inizia la collaborazione, quasi fortuita, con Andrea Paglietti, enologo piemontese. Quando sono arrivato io la tecnica enologica di cantina era un po’ arretrata e i vini non all’altezza. Insomma, non erano un granché. Alla cantina avrei dato un 3, ai vini 5/6 grazie ad un cantiniere appena arrivato Insomma un po’ di esperienza importata dal Piemonte. Mica poco. La qualità del vino è subito salita grazie ad una cantina pronta. Esposizioni belle. Belle vigne Migliorare la qualità è e deve essere l’obiettivo da raggiungere. Detta così non sembra difficile. Ma in un mondo dove il vino è quello da tavola, dove la produzione deve essere alta e dove il Sangiovese comanda, è complicato. Se non complesso. Un classico della zona. Hanno tutti premura di vendemmiare presto. A fine agosto si raccoglie il Merlot. A fine settembre il Cabernet. In mezzo il resto. Ora ho imposto che quando gli altri raccolgono il Sangiovese noi raccogliamo il Merlot Andrea ha una lunga esperienza e le idee chiare. Ma si scontra con la tradizione che è dura da cambiare. Non è stato facile far passare il discorso delle basse produzioni e che si vendemmia con calma Eh ma ci vuole pure la parte commerciale. Così si ricostruisce la linea dei vini, si creano nuove etichette, si usa Barsaglina, Alicante e Sangiovese per il vino sfuso. Arriva Alberto, Funghi, per dare un po’ di freschezza commerciale. Non capita tutti i giorni
Di avere due consulenti
Due impresari, che si fanno
In quattro per te Alberto ed Andrea. A&A. Il gatto e la volpe. È così che me li immagino quando si alternano a raccontare della cantina, del vino, delle esperienze, del loro operato. Una bella coppia che si spalleggia a vicenda. Andrea ha il piglio del piemontese. Schietto ma delicato. Pulito ma deciso. Ha portato la cultura piemontese in toscana cercando di ammorbidire l’acidità e i tannini toscani. Duri. Forti. Determinati. Alberto è un toscano atipico. Non ha l’esuberanza tipica perché pacato ma il piglio commerciale è quello giusto. Saper bene dei propri prodotti, toccando le leve giuste, non è da tutti. I risultati in bottiglia ci piacciono e piacciono alla ristorazione così come ai clienti Insieme sono una bella coppia. Attiva e dinamica. Si passano la palla ridendo l’uno dell’altro. Si spalleggiano. Il gatto e la volpe insomma. Quattro i vini prodotti (oltre al Vin Santo e all’olio): Moraie, Merlot in purezza; Vicomoro, Cabernet Sauvignon e Franc; Fontanaccio, Sangiovese in purezza. Ah il quarto, l’Iracondo, blend di Cabernet Sauvignon, Franc e Merlot Dedicato al socio che si scaldava un po’ tanto Andrea ci tiene ad una sottolineatura Il rapporto qualità prezzo è 8. Ciò che manca per arrivare al 10 è l’essere famosi. Alla cieca i nostri vini sono pari o meglio di marchi blasonati Non vedi che è un vero affare
Non perdere l’occasione se noi poi te ne pentirai Andrea è sempre più schietto ma pragmatico. Non dice cose che non ritiene vere e lo testo subito assaggiando i vini. Assaggiamo dunque prima il Vicomoro (recensito anche sulla mia pagina Instagram @ivan_1969). Cabernet Sauvignon e Franc annata 2018. Bel colore rubino intenso con piccoli riflessi granata. Si vede che è ancora un pelino giovane nonostante gli oltre quattro anni. I sentori confermano la necessità di maggiore evoluzione. C’è prevalenza di vegetale e frutta ancora aspra. Le tostature e le spezie ci sono. Con i legni siamo blandi per una alta percentuale di terzo, quarto e quinto passaggio Arriva anche del caffè e del cacao. Un vino che è intrigante perché, avendo necessità di apertura, regala qualcosa in più ad ogni rotazione del calice. In bocca la freschezza c’è tutta e si evidenzia, se ancora ce ne fosse bisogno, la necessita di un ulteriore anno di affinamento. Il tannino maturo è ancora un po’ aggressivo così che senza un abbinamento diventa mordente. Non puoi berlo da solo! Ciò che mi piace è la coerenza tra olfatto e gusto e il retro olfatto di frutta fresca. Come mi diceva un rappresentante in toscana vino è franco: Colore, naso, bocca e retro olfattivo convergono Persistenza buona. Equilibrato di quell’equilibrio appena arrivato. Sicuramente meno spigoloso di un Chianti. Lineare, completo. Bel biglietto da visita. Ora il Moraia, Merlot in purezza, annata 2019. Scuro, compatto, attraentemente seduttivo grazie ad un rubino intenso con riflessi porpora. L’annata è stata calda e la frutta si sente matura, al limite della confettura. Prugna e ciliegia a profusione. La frutta sembra masticabile, croccante. I 12 mesi di barrique, sempre di diversi passaggi fanno emergere sentori terziari. In bocca la sensazione rispetto al Vicomoro è di maggi or calore e persistenza minore. Un vino più facile, forse più piacione. Dotato di una morbidezza che migliorerà ulteriormente con il tempo. Freschezza ancora importante. Tannino che c’è ed è maturo. Equilibrio e coerenza con la parte olfattiva. Ha un finale che sembra andare verso l’amarognolo senza però mai raggiungerlo. Entrambe i vini sono sia da bere adesso, purché “accompagnati”, sia tra un anno o due ovvero quando si “arrotonderanno” un pò. Il Vicomoro riuscirei ad abbinarlo comunque più facilmente: siamo in Toscana e con una bella “ciccia” ci starebbe da Dio. Freschezza, alcolicità, capacità di invecchiare. Questo il miglioramento da apportare. Gli sforzi, tanti, hanno portato a vini strutturati, colorati. Alle volte un po’ troppo alcolici. Insomma, La Greggia non ha una lunga storia alle spalle. Può essere definita una cantina giovane, ancorché con vigne di età compresa tra i 18 e i 25 anni. Rappresenta però il coronamento del sogno di Alfredo Moretti e oggi, grazie ad Andrea ed Alberto può dormire sonni tranquilli. È una ditta specializzata, fa un contratto e vedrai
Che non ti pentirai   Ivan Vellucci Mi trovi su Instagram : @ivan_1969
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3 Marzo, 2023

Vitivinicola Amar, il centro dell'isola

Vitivinicola Amar, il centro dell’isola “Cerco un centro di gravità permanente. Che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose sulla gente” Al centro c’è tutto. Il centro è il cuore. Il centro è il luogo dal quale parte e arriva tutto. Spesso il centro non cambia perché qualora cambiasse, tutto il resto ne risentirebbe. Siamo a Sorgono (NU), nel Mandrolisai, nel centro esatto della Sardegna. Un luogo collinare, difficile, pieno di contraddizioni e, al contempo, tradizione. Qui sembra che il tempo si sia fermato ai primi del 900. Ogni sasso, ogni zolla di terra, ha la sua storia che custodisce in sé come celasse segreti. I solchi scavati sui volti degli anziani sono gli stessi che trovi nei campi. Sono la storia di questi luoghi. Da loro, parte il futuro. Un futuro che non può che avere solide radici nel passato. Vitivinicola Amar è una piccola, piccolissima realtà di queste terre. Piccola come tutte le altre. Perché qui la terra è sacra e si tramanda di padre in figlio. Perché qui la terra è così sacra che la si rispetta come se fosse parte integrante della propria famiglia. Sacralità legata alla necessità. Di essere autonomi, indipendenti: in un’area così complessa ed isolata della Sardegna, occorreva (e in parte occorre ancora) far da sé e per sé. Qui la tecnologia non è mai arrivata. Per impossibilità economica ma anche per rispetto delle tradizioni. O forse anche perché siamo al centro dell’isola e chi ci viene fino qui a portare la tecnologia! Essere biologici come lo è Amar, non è un vezzo né una scelta commerciale. È una necessità. Un dato di fatto. È così e non si può fare diversamente. Riprendere quello che è sempre stato fatto dai miei genitori. Loro dai loro padri. Le vigne sono state estirpate più volte nel corso dei secoli però sono sempre li. Il nonno di mia madre diceva che lui conosceva quella vigna da quando era piccolo e il nonno gli aveva raccontato che quella vigna era lì da quando c’era suo nonno. Sono lì da sempre Le vigne di famiglia coltivate ad alberello proprio vicino casa. Andrea e la moglie Angelica prendono il testimone dai loro genitori. È il 2015 quando gli anziani genitori non riescono più a portare avanti le vigne. Come potrebbero d’altronde? Senza nessuno ad aiutarli per i lavori totalmente manuali. No, non è più cosa loro. Andrea e Angelica. Ci sono loro. Solo loro. Nel rispetto delle tradizioni. Per la continuità. Non vivono qui però. Sono a Cagliari. Hanno altri lavori, altra vita. Ma c’è la tradizione. Già la tradizione. Non possono, non vogliono sottrarsi alla tradizione. Al loro destino. Quelle vigne non possono non essere coltivate. Costretti dunque a fare i pendolari nel tempo libero. Almeno due ore di viaggio. Se ti va bene. Per le difficili strade della Sardegna che da Cagliari portano su nel Mandrolisai fino ai 700 metri di Sorgono. Almeno due ore di viaggio. Se ti va bene. L’azienda c’è sempre stata. È una vita che è li. Anzi più di una vita. Comprendono però la necessità di dover innovare, apportare qualcosa di diverso. Dare una svolta. Perché prima l’uva era conferita e il vino che si produceva venduto sfuso. Alla vecchia maniera. Prima si pensava di più a massimizzare le rendite. Il vigneto doveva produrre quantità. Per sopravvivere. Adesso conta di più la qualità. Questo il Mandrolisai Già, la qualità. Conta più di tutto. I vecchi clienti sono rimasti un po’ delusi perché abituati ad altre quantità. Per fortuna ci sono state buone annate e adesso abbiamo molto vino in affinamento Da sempre si è prodotto vino in queste zone. Ognuno pensava a sé producendo vino da vendere sfuso e conferendo le uve alla cantina sociale. Così da produrre vino. Un solo vino che potesse rappresentare tutti. dando da mangiare a tutti. Due ettari e mezzo sono pochi per far diventare questo il primo lavoro. Sufficienti a malapena per continuare la tradizione continuando, comunque, a vendere vino sfuso. Allargare l’azienda? Come si fa! Troppo complicato. A distanza e con un lavoro da portare avanti. E una famiglia. Già una famiglia. Perché appena presa in mano l’azienda, era il 2016, arriva il primo figlio. Poi, nel 2018, due gemelli. Difficile la vita. Ma nessuno si tira indietro. Figuriamoci per gente così orgogliosa. Poco più di 5000 bottiglie prodotte in sole tre tipologie sempre da Bovale, Monica e Cannonau: Serratzargiu, rosso che fa solo acciaio; Salvaleonicco, rosso con almeno 6 mesi di barrique; Mesania, rosè. Ho avuto modo di provare il Serratzargiu scelto appositamente per capire bene il territorio. Non volevo contaminazioni da legno e questo vino fa si botte ma completamente scarica Il vino mi ha riportato davvero in Sardegna. L’odore del mirto, i sentori erbacei di sottobosco, l’anice stellato, il balsamico, la frutta nera. Il sorso è irruento con i suoi tannini decisi e la spiccata sapidità. Un retro olfatto che richiama la frutta e il mirto. Un vino nero, scuro e impenetrabile come questa terra ma che di questa terra assorbe e restituisce ogni cosa. Questo vino è il vino della svolta per Andrea, vignaiolo a mezzo servizio che continua, incessantemente, il suo pendolarismo. Senza mai lamentarsi. Senza mai perdere il suo sorriso. Andrea che quando arriva in azienda trova sempre il papà e la mamma che continuano a vivere qui. Tornare alle origini e trovarli è la migliore delle ricompense. Siamo partiti nel 2019 avendo un po’ di fretta. Con molta impazienza di uscire. Lasciamo alla bottiglia il tempo di affinare Si c’è fretta ma ci sono vigne antiche. Terra antica. Il vino non può che essere già buono. La fretta. Quella fretta che non è per nulla parte di Andrea. Persona calma e pacata. Che sorride al mondo. Sorride alla vita. Sentendo la responsabilità delle vigne di famiglia. Con la voglia di far bene, di rappresentare il territorio. Anche perché sa che i suoi figli dovranno continuare la sua opera. È tradizione. Sorride Andrea. Anche dei suoi progetti. Perché ha cominciato a crederci. A capire che da tanta storia, da tanta tradizione, può nascere qualcosa di grande. In fondo gli alberelli delle vigne sono storici. Il terreno è in altura. Le esposizioni sono buone. Allora occorre sperimentare e attivare dei progetti alcuni di essi già in cantiere. Come il metodo classico. Siamo la prima cantina del Mandrolisai a fare il metodo classico. Anzi, proprio le bollicine In uscita a breve il 24 mesi rosé. Poi il Monica in purezza. Poi il Cannonau. Poche bottiglie, circa 1000 all’anno, per sperimentare nella tradizione. Non ci piace puntare su un mono prodotto. Come tempo fa dove si produceva, con la cantina sociale, un solo vino che rappresentasse tutto il territorio Bella questa volontà di rappresentare il territorio. Rappresentarlo sì ma con prestigio. Senza sconti. Senza voglia di cedere qualcosa. Non si accettano compromessi. Perché questo è il centro della Sardegna. Perché da qui parte e arriva tutto. È quel centro di gravità permanente di un’isola senza il quale non ci sarebbe l’identità e forse non ci sarebbe la stessa isola.   Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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24 Febbraio, 2023

Cantina Andrian e la prospettiva del vino

Cantina Andrian e la prospettiva del vino Ricordate il film “L’attimo fuggente” quando il professor John Keating interpretato da Robin Williams sale sulla cattedra? Ecco, spiegava la prospettiva così: “Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un’altra prospettiva. La prospettiva insegna che a seconda da dove si guarda qualcosa, si ottengono visioni diverse. Prospettive diverse. Ecco, l’Alto Adige è proprio una regione in prospettiva. Già, perché in Italia la chiamiamo Alto Adige in quanto regione più a nord. In Austria invece Süd Tirol, perché la regione più a sud. Dell’Austria. Così che per noi è una regione votata ai vini bianchi, per gli austriaci ai vini rossi. Il gioco della prospettiva. Mettetela come vi pare ma, alla fine, questa regione è così particolare da rendersi idonea sia ai bianchi sia ai rossi. Anche se con un problemino mica da ridere: circa 5600 ettari vitati per 5000 produttori. Il contadino qui può fare il suo vino ma non può vivere dal vino Già, perché qui, in Alto Adige (Süd Tirol) non è che chi lavora la terra faccia solo quello. E visto che qui ci sono tutte persone dotate di grande intelligenza c’è voluto un attimo per capire che solo insieme si vince. Come? Semplicemente associandosi nelle così tanto bistrattate cantine sociali. Mica quelle che pensiamo noi dunque. Qui si parla di luoghi meravigliosi, strutture imponenti, persone competenti. Tutte vocate allo sviluppo. Cantina (Kellerei) Andriano (Andrian) è la cantina cooperativa più storica dell’Alto Adige (Süd Tirol) fondata 25 aprile 1893 da 31 contadini nell’omonimo paesino di Andrian a pochi passi da Bolzano (Bozen) sulla riva sinistra dall’Adige (Etsch). Ne parlo con Alexandra Erlacher, che nella cantina cooperativa si occupa di Sales e Marketing. La cosa che più mi colpisce di Alexandra è la sua dolcezza unita alla forza. Non solo parla della cantina e dei vini con competenza e ammirevole passione, ma usa una dolcezza che, alla fine, non può che fartene innamorare. Della cantina eh! In Alto Adige il sistema delle cooperative funziona molto bene.  La cantina Andrian era molto conosciuta soprattutto per i vini rossi. Partecipava a tutte le fiere. In Austria dicevano che stavano al sud del Brennero Tempi d’oro quelli. Anche se tempi nei quali la cantina era apprezzata più all’estero che in Italia. principalmente per i vini rossi. Poi si sono accorti che era anche terra di vini bianchi Anche in Alto Adige (Süd Tirol) le cose non è che vadano sempre per il verso giusto. Investimenti sbagliati. Decisioni sbagliate. Così che la prima cooperativa dell’Alto Adige (Süd Tirol) è entrata in difficoltà. Ma proprio perché siamo in Alto Adige (Süd Tirol) le persone non si piangono addosso e cercano la soluzione. Non dando la colpa alla cooperativa. Ha avuto bisogno di un’altra cantina per lavorare Per trovare una cantina con la quale lavorare non è che poi si sia dovuto andare tanto lontano. Il paese di Andrian è proprio difronte a quello di Terlano, giusto aldilà dell’Adige (Etsch) ovvero sulla sponda destra. I due paesi si stanno guardando A Terlano sorge l’omonima cantina. Sociale. Nel 2008 avviene la fusione tra le due con la decisione di salvaguardare le diverse identità: una unica azienda con due marchi separati. La cantina che ne scaturisce unisce i 60 soci di Andrian ai 143 di Terlano; gli 80 ettari di Andrian ai 190 di Terlano. Ma guai a unirli come identità. Certo, grandi sinergie. Come l’unico enologo Rudi Kofler e unico agronomo. Ma sempre e comunque due identità Una azienda con due anime sotto un tetto Alexandra è romantica. Conia questa definizione perché lei è innamorata della Andrian e dei suoi vini. La voglia di mantenere una identità, anzi due, è forte. Per preservare il terroir diverso e perché ogni marchio uno stile diverso Quanta è strana e meravigliosa la natura. Pochi metri di distanza. Un fiume, nemmeno tanto grande, a separare e i terreni diventano profondamente diversi. Terlano con porfido quarzifero (origine vulcanico): pochi nutrienti ma molto minerale. Andrian con roccia calcarea. Ad Andrian il sole c’è la mattina fino a quando non sparisce dietro il monte Gant: 2000 metri di roccia calcarea, argilla e pietre di dolomia. A Terlano il sole rimane fino a sera riscaldando il terreno così che durante la notte il calore possa essere rilasciato. Ad Andrian lo sviluppo delle piante è dietro di 10/15 giorni rispetto a Terlano Per mantenere due identità però serve tanto lavoro e soprattutto tanto supporto. Non tutti i contadini sono contadini. Lavorano in altri settori. Dai 2000 metri agli 11 ettari. I nostri contadini hanno bisogno di aiuto Eccola la grandezza e il pragmatismo. La squadra vera. Supporto ai contadini per tutto ciò che concerne la vigna. Ma anche poi premio al merito. Perché il lavoro, quello buono, non solo va premiato ma anche retribuito. Così che c’è un voto ovvero un punteggio al lavoro svolto in vigna e c’è il voto all’uva. Utile per determinare un prezzo diverso per contadino. Voto alto, ovvero impegno e investimento, retribuzione dell’uva alta. Con questo sistema riusciamo a portare qualità nella bottiglia E che vini! Ci sono interpretazioni del territorio con il Lagrein e la Schiava, il Gewurztraminer e il Muller Turgau; internazionali (ma manco tanto per queste zone) Merlot, Pinot Noir, Sauvignon Blanc, Chardonnay e Pinot Blanc. Pinot Noir, Merlot, Lagrein, Sauvignon Blanc e Chardonnay anche in versione “selezione” per grandi affinamenti in legno. Il comune di Andrian non potrebbe contenere le vigne di tutti i soci così che risultano sparse nel territorio. Non poprio a distanza breve. La vinificazione però, avviene insieme, a Terlano. Per entrambe le cantine. Sinergie. Intelligenza. Per chi ama il vino sa che l’Alto Adige (Süd Tirol) è sì famosa (in Italia) per i vini bianchi ma anche per i rossi come il Pinot Noir che qui, ha raggiunto livelli altissimi. Allora sfido Alexandra chiedendole proprio del loro Pinot Noir e di come in Alto Adige (Süd Tirol) la zona di Mazzon sia diventata un punto di riferimento per questo vitigno. Abbiamo una vigna singola vicino Mazzon, un ettaro di un socio storico dal quale produciamo (sole 4500 bottiglie) Anrar che nel 2022 ha vinto il concorso come miglior Pinot Noir d’Italia Toh, Alexandra ha messo a segno un altro punto. Dovrebbe far riflettere questa cosa quando si pensa che le cantine sociali, le cooperative, non custodiscano in sé eccellenze. Chi ha una vigna a Mazzon avrebbe da che mettersi in proprio o venderla guadagnando cifre per garantirsi la pensione. Invece no. Conferisce le uve alla cantina sociale. Lealtà, attaccamento, qualità. Tra le due cantine unite in cooperativa, non c’è competizione (io già me le immaginavo in una disfida a remi tipo Oxford e Cambridge sulle acque dell’Adige) semmai completamento. Come ad esempio sui Sauvignon Blanc. Quello di Terlano è sempre esaurito ma quello di Andrian è un’altra stilistica che va complemento: più pronto per Andrian, più complesso per Terlano Ho avuto modo di assaggiare e recensire sia il Gant 2019 di Andrian, fantastico Merlot 2019 sia il Vorberg Riserva 2020 di Terlano raffinato Pinot Bianco. Entrambi superlativi. Entrambi con una precisa identità. Come le due cantine. Le due recensioni sono cliccando qui: Gant e Vorberg. La chiaccherata volge al termine e Alexandra mi stupisce ancora quando le chiedo come si senta a lavorare qui. Posso dare un contributo alla crescita di questo marchio del quale io personalmente sono molto convinta. Ciò che mi piace di più è andare in giro ed incontrare le persone. Anche se io posso raccontare tante cose sul vino ma alla fine è il vino stesso che sa raccontare di più La prospettiva di crescita. Che poi altro non è che vedere le cose in maniera diversa rispetto agli altri. Guardare lontano con la voglia di essere partecipi di ciò che si è intravisto. È proprio vero che dietro ogni vino c’è una storia. Ma è altrettanto vero che dietro ogni vino ci sono tante persone speciali. Come Alexandra.   Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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17 Febbraio, 2023

I Fenicotteri e l'aerale del futuro

I Fenicotteri e l’aerale del futuro Nel 2009 l’allora ministro dell’economia Tommaso Padoa-Schioppa, definì “bamboccioni” una generazione di giovani pigri che non volevano fare nulla. Figuriamoci lavorare e staccarsi dalla propria famiglia. Oggi invece si parla di reddito di cittadinanza e di chi, pur potendolo, non vuole lavorare puntando al sussidio. Il concetto non cambia. 31 anni possono essere tanti o pochi. Ma è l’età giusta per essere definiti “bamboccione”. Ecco, ora prendete tutto quello che ha rappresentato il preambolo dell’articolo e pensate all’esatto opposto. Anthony Poli è l’esatto opposto di un bamboccione. Non so quale sia il termine giusto per definirlo, ma Anthony potrebbe esserne il prototipo. Di questo opposto. La sua, in fondo, è la storia semplice di un ragazzo con una passione: la terra. È anche vero che per coltivarla la terra devi avercela. Altrimenti sei un semplice contadino. Ma Anthony è anche un contadino. Uno di quelli che non si stanca nel fare le cose. Lavoro tanto ma quello che faccio mi piace. Se devo scegliere tra andare in giro o andare a potare, scelgo di andare a potare Anthony viene da una famiglia che lo ha fatto crescere a pane e piante. Con il papà giardiniere, agricoltore insomma: le mani bene immerse nella terra. Una passione già presente da piccolo Quando sarò grande avrò almeno 100 ettari di terra Così diceva Anthony in tenera età Proprio grazie al papà che Anthony conosce Claudio, la di lui moglie Giovanna, i figli Andrea e Flavia da poco in quel di Monte Castello di Vibio. Viene accolto in casa come se fosse un figlio. Il terzo figlio. Fa parte della famiglia e come tale viene trattato. Guarda, visto che hai questa passione e per me sei come un terzo figlio, vai in giro, cerca terra e facciamo una azienda agricola Forse, questa è stata la vera unica fortuna di Anthony. Tutto il resto, è solo determinazione, passione, romanticismo. Senza dimenticare però il sostegno. Quello del papà, di Claudio, di Giovanna. Persone capaci di sostenere e alimentare il sogno di Anthony. Alimentarlo senza mai interrompere il flusso di positività. Romanticismo dicevamo. Perché quando un ragazzo intraprende gli studi, capisce di aver sbagliato strada sentendo forte il richiamo della terra e ha la forza di cambiare facoltà e ricominciare, allora siamo in presenza di qualcosa di più di un amore. Questo è romanticismo. Anthony è così. Torna indietro, studia agraria e inizia a lavorare. Con le sue mani. Con la sua forza. Senza fermarsi un attimo. Faccio tutto io. Papà mi dà una grossissima mano La manodopera solo per la raccolta. Dell’uva e delle olive. Fa pure da consulente ad altre aziende come agronomo e ha una ditta di giardinaggio.   Metodo. Forza. Fatica. Dentro e fuori la cantina. Dentro e fuori i terreni. Serve metodo e organizzazione. Il lunedi cantina. La vendemmia? Esiste solo quello. Una agenda ben definita. Senza sgarrare. In tanti dicono che non c’è lavoro. Ma ce ne è in avanzo. Occorre avere solo la forza e la voglia. Bamboccione? Proprio no. Claudio gli lascia corda libera su tutto. Partecipa come persona molto modesta. “facciamo insieme” dice. È un investitore spettatore. Non chiede numeri. Non vuole il risultato. Gli piace il progetto e si fida di Anthony. Già il progetto. Anthony è ambizioso ma di quella ambizione sana. Senza spocchia. Fatta solo di duro lavoro. Di rinunce. Di fatica. Animata dalla passione per ciò che si fa. Voglia di vivere a contatto con la terra sentendone il ritmo, accarezzando i cicli vitali, osservando la bellezza del crescere qualcosa che hai impiantato. Il romanticismo. Nel 2014 Claudio fonda l’azienda I Fenicotteri dove lavora un po’ tutta la famiglia: Andrea si occupa delle consegne e della parte amministrativa, Flavia della comunicazione, Giovanna delle etichette e della accoglienza. 160 ettari con 10 ettari di vigna e oltre 2500 olivi non sono pochi da gestire. Specialmente per un ragazzo come Anthony. Ma ci si butta anima e soprattutto corpo. Lavoro, lavoro, lavoro. Nel 2017 mi sono sentito abbastanza grande per produrre vino Bamboccione? No, consapevolezza. Così, grazie anche al supporto tecnico di Roberto, enologo, con pochi attrezzi e tanta passione sono nati i primi vini. Consapevolezza. Consapevolezza di essere in una zona con ottimo potenziale in grado di produrre prodotti di alto livello. In effetti siamo in Umbria, a Monte Castello di Vibio, poco lontani dalla più rinomata Monfefalco. Una zona dove vitigni autoctoni ma anche alloctoni stanno contribuendo a rendere grande una regione così piccola. Qui, già nel 2002 Claudio aveva impiantato Merlot e Sagrantino, Trebbiano spoletino nel 2011. Altre vigne acquisite da poco. Proprio parlando di queste ultime Anthony mi stupisce. La gente vede un masso da tirare. Io vedo tanto potenziale. È vero che è vecchia e produce poco ma può fare la differenza. Bamboccione? No, visione. C’è nelle parole di Anthony la schiettezza di un ragazzo, la maturità di un uomo, la visione di saggio. Quando parla delle piante, dei trattamenti, dei cicli vitali, della raccolta, non parla di “cose”. Parla di esseri viventi che hanno bisogno di attenzione, cura. Una attività maniacale che lui fa da solo aiutato solo dal papà. Senza usare la chimica. “Essere tecnicamente più avanzati e non far fare alla chimica. Perché se ti affidi alla chimica, questa fa da sola” Poi, come se la giornata fosse fatta da più di ventiquattro ore, si occupa anche degli ulivi. Che tratta al pari della vigna. Non se la prende con le persone che gli danno del matto. Ha rispetto degli altri. Ma nel tempo ha visto che il suo lavoro ha dato frutti e che chi lo denigrava, adesso, viene ad interessarsi dei suoi metodi. Una bella rivincita. Ama il suo lavoro. Ama la sua terra. Ma ancor di più ama Monte Castello di Vibio. La sua casa. Nei suoi sogni è far diventare Montecastello di Vivio un areale famoso come Montalcino. Ci crede. Ci crede davvero. Bamboccione? No, romantico. Per quello che ho in testa non abbiamo ancora fatto nulla E con i piedi ben piantati per terra. Non vuole superare le 20000 bottiglie Assaggiamo un paio di vini con la convinzione di Anthony che Il vino buono lo fanno in tanti. La storia è solo la mia Bamboccione? No, saggezza. Il primo è il Vibio (onore al paesino) da Trebbiano Spoletino coltivato in circa due ettari e mezzo per sole 2000 bottiglie (il resto dell’uva venduto a privati e alle cantine sociali). È un 2020. Ancora giovane. Semplice e ben centrato. Tanti fiori al naso insieme a bella frutta non matura. Poi fieno, Sentori semplici e puliti che tornano al sorso che si presenta secco, fresco, caldo, leggermente sapido. Buona la persistenza. Lo immagino perfetto per un aperitivo o un bel pesce al sale. Convincente per la sua linearità. Verticale ma con tendenza ad allargarsi sul finale che comunque è pulito senza virare sull’amarognolo. Poi il Sagramerlo 2019, blend di Sagrantino e Merlot (recensito su @ivan_1969, qui il link) Bel colore rubino di grande limpidezza. 12 mesi di botte al sesto passaggio (parte in barrique parte in tonneau). Subito evidenti i fiori, la frutta, il sottobosco. Tutti sentori non propriamente dolci anzi, ancora acerbi. In fondo c’è l’anima del Sagrantino che, essendo del 2019, è ancora un lattante. Infatti il tannino risulta ancora aggressivo ma con una rotondità sottesa che c’è tutta. Tra un anno e mezzo sarà spettacolare ma funziona benissimo anche così. Un vino da bere subito la prima bottiglia; conservare la seconda per almeno due anni. I vini mi hanno convinto. Porto con me il Merlot e il Crasi, un Pinot Bianco che è maturato in botte per dieci mesi. Così come porto con me la certezza che questo ragazzo, e l’azienda intera, farà strada. L’augurio è che riesca, insieme a tutta la sua famiglia (allargata) a realizzare il sogno per Monte Castello di Vibio e il suo areale. Ora, dopo tutto questo, uno si chiederà: ma che diavolo c’entrano i fenicotteri? Giovanna, la moglie di Claudio amava i fenicotteri che vedeva sempre nel giardino di una villa vicino Milano. Cosi, quando hanno comprato l’azienda agricola non potendo metterci i fenicotteri, Claudio ha deciso di chiamarla così. Se non è amore questo!   Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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