Suggestioni di Vino

Suggestioni di Vino è la rubrica che racconta le persone del vino. Della loro storia, dell’amore, della passione che inoculano nel vino. Perché il vino è materia viva e le persone ne sono il nutrimento.

Le incursioni enoiche di Ivan Vellucci, ingegnere e manager per dovere, ma soprattutto Sommelier raccontano con passione e trasporto, territori e produttori d’eccezione.
Ivan ci porta a conoscere realtà prima di tutto umane, dove il sorriso e l’ospitalità dei vignaioli sono lo specchio dei vini che producono. La rubrica Suggestioni di Vino propone ogni settimana  suggestive esplorazioni e scoperte enologiche, narrate con trasporto e partecipazione. Al lettore parrà di accompagnare Ivan in queste visite speciali e sarà stimolato a fare lo stesso: vivere il mondo del vino come un bambino, con lo stupore negli occhi e la magia nel bicchiere.

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3 Febbraio, 2023

Coos, raccontare la famiglia mettendoci la faccia

Coos, raccontare la famiglia mettendoci la faccia Quando si produce vino, quando si deve gestire una azienda e se ne deve promuovere lo sviluppo, può capitare che proprio lo sviluppo non rientri più nelle filosofie che ne hanno dettato la nascita. Capita. Lo sviluppo è un po’ come far crescere una pianta. Serve cura. Serve amore. In un mondo come il nostro servono anche i mezzi economici. Tutto fila liscio fino a quando proprio quella filosofia che ne ha dettato la nascita, viene meno. Almeno nell’animo di chi l’ha fondata. Coos. Coos è una delle famiglie storiche del Ramandolo, vino storico dei Colli Orientali del Friuli. Una famiglia che da sei generazione produce vino in quel di Nimis (Udine). Dario è la quinta generazione. Alessandro la sesta. Padre e figlio dal 2018 sono ripartiti con la loro nuova azienda: AD Coos. Un acronimo che ha le iniziali dei nomi che rappresentano le ultime due generazioni. Perché “ripartire” se si è alla sesta generazione? Dario Coos è figura importante per il Ramandolo. È lui che nel 1982 fu artefice, insieme alla cooperativa di Ramandolo (fondata dal bisnonno), del primo disciplinare. È lui che 1990 va a Roma per la creazione della DOC. Ed è sempre Dario a perorare la nascita della DOCG. Una famiglia che si trasferisce a Nimis nell’800 e inizia a produrre vino. Poi capita. Capita che l’azienda che prende il nome dalla quinta generazione dei Coos ha uno sviluppo non più compatibile con la filosofia di artigianalità che era la base del fare il vino e non c’è altra scelta che lasciar tutto. E ricominciare. Ricominciare per voler raccontare la storia della propria famiglia. Mettendoci la faccia. AD Coos dunque. Un nuovo inizio. Nell’anno domini 2018. AD. Anno domini. In fondo mio papà ed io abbiamo fatto il liceo classico. Volevamo scollegare le singole persone e raccontare la storia di famiglia. Alessandro parla dell’esperienza passata come una ferita aperta. Ancora troppo aperta per poterne parlare in maniera distaccata. Forse perché il papà ne ha risentito davvero. Ma è un friulano. Di quelli testardi e pragmatici. Di quelli che non guardano al passato per piangersi addosso ma solo al futuro verso cui andare. Avendo vissuto guerre, terremoti, perdite di figli l’insegnamento che abbiamo ricevuto è sempre stato quello di non piangersi addosso ma di guardare alle cose che portano la passione. Quanta verità in questa frase. Ma qui siamo in Friuli. Terra pesantemente devastata dalla Grande Guerra prima, dalla Seconda Guerra Mondiale poi, dal terremoto del 1976 infine. Eppure sempre risorto. Sempre con lo sguardo al futuro senza mai perdersi d’animo. Perché il domani sia sempre meglio del passato. Grazie al lavoro. Certo che c’è amarezza verso una avventura che deve aver causato al papà in primis e a lui di riflesso, tanti dispiaceri. Il nome della propria famiglia che non è più rappresentativo della propria famiglia. Ma dove non c’è tradizione, non c’è passione. Non c’è famiglia. Passione, cuore. Ci metti la faccia. Tutti gli aspetti economici passano in secondo piano. Come non credere ad Alessandro che parla con il cuore in mano. Tutto per soddisfare l’esigenza di ra ccontare la storia della sua famiglia. Di interpretarla attraverso i propri vini. Le radici che affondano nel passato non possono non essere evidenziate. Parla con tristezza del nonno Albino che non c’è più, terza generazione dei Coos. Memoria storica e ultimo vero assaggiatore di famiglia. Ora c’è solo lui, sesta generazione e il papà, quinta. Ecco perché la voglia di continuare. Pragmatismo friulano. Sincerità friulana. Onestà friulana. Umiltà friulana. Ci si sente ospiti nel vigneto e non proprietari. Alessandro ricorda sempre di più il nonno e i suoi insegnamenti: mai intervenire in vigna se questa non ne ha bisogno; le viti vecchie vanno curate e seguite; piuttosto si fanno riposare ma occorre dare continuità ai vigneti. Una filosofia che porta a sentirsi gestori della materia prima intervenendo il meno possibile al fine di mantenere gli aspetti varietali dei singoli vitigni caratterizzando l’annata. Anche prendendosi il diritto di rinunciare ad una vendemmia. La passione è quella cosa che ti fa dire a fine giornata che nonostante tutto è andata bene. Divertirsi ed essere appagati. Quanta dolcezza nelle parole di Alessandro. Due ettari e mezzo di pura passione. Una dimensione che consente di avere il controllo diretto dando continuità alla qualità e ciò che proponi. Una gestione in famiglia con l’obiettivo di non ricommettere più gli errori del passato. È bello notare che la gente assaggiando i vini si ricorda della famiglia. Vuol dire che il nome dei Coos vale ancora qualcosa. Vale la memoria. Vale il futuro. Pochi vini ma pienamente identitari del territorio. Anche se con qualche eccezione tipo il Sauvignon Blanc e il Pinot Grigio. Assaggiamo proprio il Sauvignon. Prodotto per ricercare eleganza rispetto alla ruvidità friulana. Mi piace perché al naso ritrovo semplicità ed eleganza. Semplice nei sentori di frutta e fiori. Ben definito e vino. Il sorso è coerente con il naso. Grande equilibrio e pochi contrasti. Lineare, preciso, finanche civettuolo. Fresco, sapido con finale lievemente ammandorlato a perfetto contrasto la una sensazione di morbidezza iniziale. È un vino con persistenza non elevata che abbini facilmente finendo con altrettanto facilità la bottiglia. Ci sono ovviamente gli bianchi friulani come il Friulano (che non si può ma si chiama qui Tocai) e la Ribolla Gialla e Pinot Nero. Poi ovviamente il Ramandolo e Refosco. Proprio quest’ultimo è da sempre il cavallo di battaglia di papà Dario che ne intuì il potenziale girando in lungo e largo l’Italia per capire come gestirlo al meglio. Il Refosco in queste zone matura un mese dopo arrivando dunque a surmaturazione naturale. Veniva pestato con i piedi in grandi tini chiusi poi con la ponca per la macerazione. Macerazione piuttosto lunga. È rappresentativo ripartendo dalla tradizione diventando un marchio di fabbrica. Surmaturazione in pianta con vendemmia a fine ottobre e un 20% appassito in cassettine. Struttura e corpo senza fare legno per mantenere l’acidità fondamentale per il refosco. Nonché per le tradizioni friulane. Si sente subito la frutta matura, la marasca tipica della surmaturazione. La mancanza di barrique fa emergere proprio il vitigno. Al sorso è evidente la parte surmatura che si sposa con il tannino e la freschezza rendendolo simile ad un Ripasso. Ma comunque differente. Identitario del territorio. La nota amabile utile proprio per evitare che sia troppo vegetale e spinto come i vecchi vini friulani. Ruvidità viene alleviata dalla morbidezza. Un vino che puoi bere tutti i giorni abbinandolo con facilità. Lo sorseggerei tutto. Bella continuità con la bevibilità del bianco.   Il Ramandolo (ottenuto con vendemmia tardiva che permette di contrastare perfettamente la freschezza e il tannino del Verduzzo) lo assaggio a casa seguendo il consiglio di Alessandro: ci vuole un formaggio vicino. Qualcosa di consistente. Decido di sperimentare un estremo nord contro estremo sud con un caciocavallo podolico. Dico solo che ciò che ottengo è un tripudio di sapori. Non posso che dire: stupendo. Con un tonnarello cacio&pepe? La recensione completa cliccando qui @ivan_1969. Quando il cibo e vino unisce! Parlare con Alessandro è rilassante. Lo ascolto con passione ed attenzione perché mi narra a cuore aperto della sua famiglia. Colgo una serenità di animo e una passione che raramente ho trovato. Non c’è voglia di riscatto, acredine, risentimento. L’unica forza motrice è la passione e la voglia di raccontare la storia di una famiglia. La sua. Mettendoci la faccia come continua a dire. Bellissimo davvero.   Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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27 Gennaio, 2023

Cantina De Vita, crescerò e solo per il mondo andrò

Cantina De Vita, crescerò e solo per il mondo andrò Vi ricordate la pubblicità dei biscotti Plasmon? Si i biscotti Plasmon quelli che mangiavamo da bambini e che, per chi ha avuto fratelli o sorelle, rubavamo di nascosto (c’è pure chi ha continuato a mangiarli da adulto tanto che la stessa Plasmon ne ha prodotto una versione per adulti). Ecco, un jingle della pubblicità faceva
Crescerò, e solo per il mondo andrò Mò che c’entrano i biscotti con il vino? Un momento no? C’entrano con la storia che sto per raccontare. Quella di una persona che sa di dover crescere ma ha già le idee chiare. Per il vino non per i biscotti. Per puro caso mio padre mi fa sapere che avevamo reimpiantato il vigneto della masseria di famiglia ed erano dunque pronte le uve per essere vendute. Alla fine mi sono chiesto: ma perché dobbiamo vendere le uve? Ferma tutto! Vorrei provare ad iniziare la strada da produttore Così inizia Roberto De Vita il suo racconto e così inizia la sua storia di vignaiolo. Di professione? No, di amore. Roberto è un broker farmaceutico come lui stesso ama definirsi che si avvicina al vino per puro caso. Un po’ per sfidare sé stesso un po’ per creare e vivere quelle emozioni che solo il vino sa dare. Non è certo uno sprovveduto né uno che fa le cose per caso. Studia. Si informa. Si confronta con tutti perché vuole creare qualcosa di concreto. Oltre alle emozioni. Sperimenta soprattutto. Anche se questo vuol dire confrontarsi, anzi scontrarsi con il proprio enologo. Che spesso ci azzecca come direbbero da queste parti. Ah ecco, dimenticavo di dirvi quali parti. Siamo vicino Salerno con soli due ettari nemmeno vicini. Un pezzo negli Alburni a circa 50 km da Salerno; l’altro alle porte del capoluogo- La vigna è in mezzo ad una vallata e difronte a me ho la regina indiscussa dei vini dei colli di Salerno che è Montevetrano. Praticamente ci guardiamo. In effetti dove sorgono le vigne e la masseria di famiglia, si è dentro un canalone che porta fino a gettarsi nel golfo di Salerno. Esposizione fantastica e soprattutto posta in una posizione che riesce a godere delle brezze marine. La masseria di famiglia c’è da metà 800 e fino agli anni 30 del secolo scorso produceva vino. Per la famiglia mica per venderlo. Poi quando uno fa il farmacista, broker farmaceutico scusate, non è che ha molto tempo per la vigna. Almeno fino a quando non capisce che tesoro si ritrova tra le mani. Serviva un enologo e una cantina per vinificare. In attesa di ristrutturare la masseria. Pragmatico ed attento Roberto. Come un farmacista appunto. Perché sa che questo è un modo che prima di dare emozioni richiede sacrificio. Investimenti e sacrifici. L’idea comunque è un vino che potesse rappresentare il territorio. Il suo territorio. E quando senti parlare Roberto lo capisci che quello è un attaccamento viscerale. Quando parla dei suoi vini e delle differenze con quelli cilentani, irpini, beneventani. Ci tiene a tenerli nell’alveo di Salerno. Ecco che per creare un vino rappresentativo prende i due vitigni che sono la Campania: la Falanghina e il Fiano. Creare un blend per rendere il Fiano meno opulento e la Falanghina meno impegnata. Ne ricava il Saltalavia (recensito su @ivan_1969)con un 80% di Fiano e un 20% di Falanghina. Un ettaro di vigneto diviso con le stesse identiche proporzioni del blend: così è la vigna, così è il vino. Perché impegnarsi a fare le quote quando le puoi ottenere già dalla vigna? Ecco appunto la vigna. 4 anni, un po’ troppo giovane per poter ottenere un vino interessante. Eppure Roberto ci si butta a capofitto (dopo aver fatto le analisi ovviamente) in maniera semplice e diretto! Come il vino che ne deriva dopo solo sei mesi di acciaio.       Pane, burro e alici dinanzi ad un tramonto. Questa l’idea che vorrei comunicare con Saltalavia. Quello che assaggio, un 2021, è davvero interessante. I sentori del Fiano ci sono tutti. Quelli della Falanghina pure. Ci sono i frutti i frutti a pasta bianca come la pesca, c’è il mandarino e soprattutto la nocciola. Vivida, intensa che mi ricorda le mozzarelle di bufala di Battipaglia. C’è macchia mediterranea segno che le brezze del mare arrivano, sì che arrivano. Profumi floreali e fruttati della Falanghina che spezzano l’opulenza del Fiano. Anche in bocca dove è Fresco, sapido, secco. Un vino verticale, pulito, equilibrato con sentori e sapori che si evidenziano uno dietro l’altro. La giovinezza prevale e si evidenzia dal finale che va verso l’amarognolo ma non ci arriva. L’uva deve essere già di qualità in vigna per poi dare un prodotto interessante. Roberto sa della giovinezza delle sue vigne e sa anche che anno dopo anno i suoi vini saranno sempre meglio. L’ottavo anno è quello a cui punta per avere una pianta matura. Calcoli da vero farmacista. Non certo da broker farmaceutico. Assaggiamo poi il Capofilaro. Aglianico del mio territorio. Tanto per ribadire il concetto. Piante di 8 anni poste ad una altitudine di circa 600 metri. Vendemmia 2020 con un anno di acciaio e 8 mesi di botte piccola secondo/terzo passaggio. L’idea è ammorbidire il rognoso Aglianico. “Un vino che dovrebbe rimanere in bottiglia ancora sette/otto mesi”. Lo assaggiamo comunque per capirne le potenzialità. Rosso rubino con riflessi porpora. Emerge molto la terrosità, il sottobosco. Insomma il vegetale che arriva prima dei frutti, prima delle spezie, prima delle tostature. Segno che il vino deve ancora riposare. L’impetuosità, o rognosità che dir si voglia, ha bisogno di tempo. Serve domarla questa forza dirompente dell’Aglianico. Ma che potenzialità! La freschezza è forte, così forte da far venir meno l’equilibrio. La spalla è forte. Il tannino potente ma non invadente, non aggressivo. Questo mi fa capire quanto sia un vino di prospettiva che deve evolversi in bottiglia. Non più in botte per evitare di acquisire altri sentori. La differenza tra naso e sorso è evidente. Così come lo squilibrio e quel finale che tende ad essere ammandorlato. Ma è un vino che acquisterei per tenermelo in cantina per berlo a più riprese apprezzandone l’evoluzione. Piccole produzioni da queste parti. Meno di 3000 bottiglie per l’Aglianico Capofilaro e circa 4700 bottiglie per il blend Falanghina/Fiano Saltalavia. Ne ha di tempo Roberto per crescere. E sono certo che crescerà bene perché quello che ho assaggiato ha mostrato, a pieno, le sue potenzialità. Certo anche Roberto sa che deve aspettare e sa anche che dovrà continuare a scontrarsi (o confrontarsi) con il suo enologo.     Sono un po’ testadura e dico all’enologo: facciamo così. Poi però quando sbaglio gli dico che aveva ragione. Sa che deve provare. Deve sperimentare proprio perché è all’inizio e di vino ne sa poco. E già ha in serbo un bel rosato che recepirà una base di Cabernet e Merlot. Piano piano crescerò. Lo sa. Lo vuole. Ci crede. Vedete che il jingle della Plasmon ci stava bene? Bravo Roberto. Continua. Continua a crederci fino in fondo. Perché la terra, la tua terra, saprà regalarti (e regalarci) davvero belle cose.   Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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20 Gennaio, 2023

Agricola Le Querce e la determinazione della nuova generazione

Agricola Le Querce e la determinazione della nuova generazione. Partirono in due ed erano abbastanza. Un pianoforte, una chitarra e molta fantasia. Più o meno così è stato per Federico e Valentina. Solo che al posto del pianoforte e della chitarra c’erano 40 ettari di terra. La fantasia si, tanta ma più ancora poté la determinazione. Federico 30 anni, Valentina 29. Parte integrante dello studio paterno lui, consulente lei. Ma cosa diavolo ci fanno in Toscana, a Campiglia Marittima tra Venturina e Piombino? La cosa che più mi colpisce di Federico è la sincerità. Non è uno sprovveduto né uno che non sa il fatto suo. Ma è “quadrato” nonostante la sua età. E Valentina che gli sta al fianco, non è da meno. Quando si presenta, così come fa sul sito internet dice che la loro è una “piccola” azienda. 40 ettari di cui 20 vitati che diventeranno 25 in poco tempo. Lo dice con sincerità senza, spavalderia. Anzi, noto decisione e determinazione. Quella che ha preso il posto della fantasia. Federico e Valentina sanno che quella che hanno per le mani è una vera azienda. Non una semplice cantina. E se vuoi far fruttare una azienda, hai bisogno di volume. È quello che ti insegnano e che professi quando fai il consulente. Così come quando ti devi occupare dei lati fiscali, contrattuali e tributari delle aziende. Insomma, il lavoro di Valentina e Federico. Tanta, tanta responsabilità. Che si sentono addosso ma con quella leggerezza tipica dei giovani. Belli tosti questi ragazzi. Magari ad avercene. Idee chiare. Progetti concreti. Piani da applicare. Per fare tutto questo non ci si può improvvisare. E loro non si improvvisano. Ovvero non si improvvisano vignaioli. Certo, hanno le loro idee. Hanno i loro gusti. Ma lasciano fare a chi sa avendo, sempre, sotto controllo i processi, le procedure, i metodi. Mantenendo comunque un imprinting. Il loro. Biologico? Certamente. Meccanizzato? No! Selezione a mano con cassette da 20kg. Macerazioni? Ovvio. Controllo della temperatura? Nemmeno a chiederlo. Barrique? Certo ma a di quelle a tiratura limitata. Anfore? Perché no. Bianco in barrique? Senza pensarci su. Il wine bar in vigna? Obbligatorio. Se guardi questi due ragazzi, se parli con loro, se li ascolti, capisci la loro forza, la loro passione, la loro capacità. Che non è spocchia. Non è arroganza. È solo capacità. Determinazione. Non è voglia di arrivare. È voglia di esserci. Di affermarsi in un mondo così difficile come quello del vino. Non guardano ai mostri sacri che hanno intorno o più lontani. Guardano alla loro azienda. Guardano alle persone che lavorano. Giovani. Siamo un’azienda di giovani. Tanti giovani che affiancano a persone più esperenziate creando quel mix che serve. Tanto coinvolgimento. Continui brainstorming. Tutto deve girare per il meglio. Processi, tempi, metodi. Ci impegniamo perché ogni piccola cosa non passi inosservata. Federico si ritrova con questa azienda da circa sette anni quando il padre decide di acquistarla. Lui se ne innamora. Quando ho visto l’azienda per la prima volta, è stato amore a prima vista. Anche perché da buon pugliese, con tanto di nonno che lo scorrazzava per le vigne di famiglia, sa il valore della terra. Se ne innamora ma sa anche non può lasciare così, da un momento all’altro, lo studio di famiglia. Quindi fa il pendolare tra Milano e Campiglia Marittima. 382 km. Mica pochi per un pendolare. Vallo a spiegare a chi non vuole spostarsi dalla propria città. Si certo, l’azienda è sua. Ma potrebbe fare come molti facendola gestire da altri e usandola solo per il fine settimana. No, lui no. Lui deve esserci. Deve e vuole essere presente. Per organizzare, per gestire ma, soprattutto, per fare squadra con tutte le persone che lavorano nell’azienda. Anche questo ti insegnano quando lavori in una grande azienda o per le aziende. Il team. L’importanza del team. Valentina non è da meno. Uniti non solo per i sentimenti ma anche dagli obiettivi e dalla determinazione. Si, sempre quella che ha preso il posto della fantasia. Quando fai la consulente devi mettere mano ai processi e magari cambiarli. Poche volte tocchi con mano le cose. Spesso un consulente “fa le slide” e indica cosa fare. Qui invece Valentina pensa ma subito agisce. In simbiosi ma anche in indipendenza con Federico. Due parti di un medesimo ingranaggio. Sincroni quando serve. Altrimenti asincroni. Sono così Federico e Valentina. Una coppia che sa il fatto proprio. Fanno avanti e indietro da Milano insieme. Si alternano, si completano. Federico in vigna, Valentina in cantina. Bello vedere come le origini tornino. Come la frenesia della città lasci il passo alla campagna. Come due ragazzi si gettino in qualcosa che sanno poter essere loro. Valentina ci tiene sempre a dire che l’azienda è di Federico. Ma lei è parte integrante. Ogni mattina mi sveglio presto e faccio un giro nelle vigne. Come se fosse un giardino. Mi piace guardarla dall’inizio fino alla vendemmia. Questa è la meraviglia che Federico si trova dinanzi. Che fa sua e non vuole delegare. Abbiamo iniziato a studiare qualcosa di nuovo come studi all’università. Valentina da buon (ex) consulente non si ferma mai di studiare. L’organizzazione è qualcosa che ti porti dietro. Organizzare con un calendario settimanale tutte le lavorazioni, gli assaggi, la cantina. Così come per Federico l’esperienza nello studio del padre ha pagato. Sentendoli parlare ci si rende conto di come abbiano i processi in mano. Eppure sono posati. Fanno le cose con ponderazione. Prendendo in esame le proprie potenzialità, cercando di superarsi. Ma senza strafare. Assaggiamo due vini, entrambi espressione della loro azienda. Il primo è Dodicilune, un Vigogner in purezza che matura in barrique per 6 mesi e sei mesi in anfora (bella scelta questa, non affatto banale e studiato per esaltare i sapori). Un vino semplice, non immediato, non banale. Già dai sentori ti conquista per la sua iodicità (siamo e meno di tre km dal mare) che si unisce alla frutta e ai fiori. Trovi il miele nel bicchiere. Al sorso non può che conquistarti per la grande coerenza tra olfatto e gusto. Persistenza lunga che richiede un abbinamento studiato. Finale lievemente mandorlato. Il secondo, Vinalia 2020 è un blend di Cabernet Sauvignon e Merlot con 18 mesi di barrique. Bello e intenso il colore rubino che trovi nel bicchiere. Alla prima olfazione regala tante spezie dolci e sentori caramellosi di aceto balsamico. Poi arrivano frutti e fiori rossi. Sarei curioso di averlo nel bicchiere tra dieci anni perché secondo me l’evoluzione porterà sentori eterei a completare il bouquet. Al sorso c’è tutto e c’è tutta la sua giovinezza. Dall’olfazione ti aspetteresti una rotondità che non ritrovi a pieno nel bicchiere. Ma è giovane e deve riposare ancora un po’. I tannini sono comunque poco aggressivi. Insomma un grande vino. Questi due vini dimostrano a pieno come siano già riusciti a far girare le cose per il meglio. Come ci sia la mano giusta in vigna, come l’enologo e i processi di cantina siano ben gestiti. Come, soprattutto, abbiano saputo dare una vera identità, loro, al prodotto finale. Bravi ragazzi. Programmi per il futuro tanti. Altri vitigni, altri procedimenti. Altre sperimentazioni. Senza la voglia di rappresentare a pieno il territorio toscano che li ospita. Certo, rispetto totale ma utilizzo sapiente delle terre per coniugare al meglio i vitigni. Idee davvero chiare. Stupiscono ancora. Stupiscono per non omologarsi a ciò che sta loro intorno. Scegliendo forse la strada più complicata. Ma anche quella con maggiore potenzialità. Hanno tanto entusiasmo Federico e Valentina. Non posso che augurare loro tante e tante vendemmie piene di successo. Magari con ancora più fantasia. Perché in fondo, bomba o non bomba noi arriveremo a Roma, malgrado voi!   Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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13 Gennaio, 2023

Mustilli, quando gli antenati ti guardano

Mustilli quando gli antenati ti guardano palazzo Mustilli a Sant’Agata dei Goti Passeggiando per le stanze delle antiche dimore, alle volte ci si imbatte nei ritratti di personaggi vissuti in epoche lontane. Pochi hanno la fortuna di avere sparsi per casa ritratti di antenati propri. In ogni caso, ci si sente scrutati, osservati. Financo giudicati. Spesso incutono timore perché ti guardano altezzosi dall’alto verso il basso. Ricordo bene questa sensazione quando andavo a casa dei miei nonni! Ora, con una simile premessa, a chi verrebbe in mente di mettere i ritratti degli antenati sull’etichetta delle proprie bottiglie di vino? Non basta essere scrutati mentre si attraversano le stanze del proprio palazzo? Serve pure qualcuno che ti scruti e ti giudichi mentre bevi il vino che hai prodotto? Solo persone animate da sana follia potevano pensare a questo. Siamo a Sant’Agata dei Goti, un meraviglioso paese nel cuore del Sannio. E nel mondo enologico, il Sannio richiama l’eccellenza dei vini campani: la Falanghina. Qui, Paola e Anna Chiara dirigono l’azienda di famiglia: Mustilli Leonardo Mustili, papà di Paola e Anna Chiara era uno di quei pionieri artefici della riscoperta prima, del successo poi, della Falanghina. Tempi difficili quelli degli anni 70 per un vino campano. Ma pure ora non è che le cose vadano a gonfie vele con la enorme concorrenza che c’è. Eppure, Paola e Anna Chiara sono li, a sostenere, con la determinazione che solo due donne così, in un mondo maschilista, il loro prodotto. I loro prodotti. Il fattore, quando mia sorella disse che della azienda se ne sarebbe occupata lei rispose che non aveva fiducia nelle donne. Insomma, l’inizio difficile. Ma pure il proseguo non è che sia stato semplice per due donne. Il testimone lasciato da un papà, forte ma non ingombrante, con l’obiettivo di portare avanti e far evolvere quanto di buono era stato fatto. Un terreno particolare quello del Sannio. Matrice vulcanica e tanto tufo. Tanta finezza, complessità e mineralità da portare nel bicchiere con semplicità e nel rispetto della natura. Senza badare alle convenzioni. Non solo Falanghina ma anche il Piedirosso (Per’ e Palumm) “che noi vinifichiamo in maniera leggiadra senza usare lunghe macerazioni perché tanto non ci tiri niente fuori anche se lo lasci a macerare per lungo tempo”. Le vigne di Mustilli 15 ettari vitati con 50% Falanghina. Poi Greco, Aglianico e Piedirosso. Oltre che piccole zonazioni per creare le eccellenze della casa: Cesco di Noce da Aglianico, Artus da Piedirosso, Vigna Segreta da Falanghina. Non ci sono vini piacioni dice Paola. La strada è quella della tradizione ovvero vinificando ciò che arriva dalla campagna. Una scelta che in tempi non recenti ha portato a soffrire per un mercato che tendeva ad altro. Ma ora c’è spazio. Determinazione. Costanza. Coerenza. Due sorelle che riescono a cavarsela. Con allegria. A Napoli la definirebbero “A’Cazzimma”. Un imprinting che è DNA della famiglia. Caratterialmente siamo tremende. Siamo molto sincere. Molto empatiche e diciamo sempre quello che pensiamo. O chi odi o ci ami. A’Cazzimma appunto Camminiamo per la nostra strada. Siamo liberi e la libertà per noi è molto importante. Idee chiare. Barra dritta. Determinazione. Volontà. etica. Le decisioni prese in due. Trovando un accordo. Anna Chiara si occupa della parte agricola e di cantina. Paola non scende nel suo mondo. Perché quando lo fa diventa un operaio. Mi ha costretto durante la pandemia a impiantare tre ettari di vigna a mano. Piantato a mano con il teorema di pitagora… Paola si occupa della parte commerciali e amministrativa. La prima bottiglia di Falanghina Mustilli Sono loro l’azienda. Si appoggiano a pochi collaboratori. Anna Chiara pretende che le cose siano loro a farle. Perché così può avere tutto sotto controllo. Perché così si è artefici del proprio destino. Paola magari se la prende. Ma pure lei è della stessa filosofia. In fondo. Bellissimo il rapporto tra le sorelle. Entrambe agronome ma Io è come se non avessi fatto agraria perché su certe cose decide solo lei. Paola lo sa e lascia fare. Perché è tranquilla e serafica nelle decisioni così come nel dividersi i compiti. Amore e odio. Ma soprattutto amore. Durante la vendemmia cerco di scomparire, mentre con i rapporti con il pubblico ci sono io perché lei è un po’, come dire, ostica Ascoltare Paola che parla del rapporto tra le sorelle è una esperienza unica. Sembra di assistere ad una commedia di Scarpetta. Non lo conoscete? Allora non siete proprio partenopei o amanti di quella cultura. Io, per fortuna, avevo i nonni e i genitori che mi hanno fatto scoprire quelle commedie riprese da Eduardo De Filippo. Eduardo, Scarpetta però era quello che iniziò il filone della commedia napoletana. Se citassi “Miseria e nobiltà” sarebbe più noto? Ora, senza divagare, io immagino davvero Paola e Anna Chiara come parte di una commedia di Scarpetta. Parte di una famiglia che è unita sotto tutti i punti di vista e che, come è giusto che sia, si infervora, si scalda, litiga. Ma poi il rispetto per la famiglia, anzi la Famiglia e per i ruoli, riconducono, sempre, la discussione sulla retta via. Le scene che Paola mi racconta mi fanno ridere e non poco. Lei che viene (bonariamente) vessata per gli impianti della vigna. Lei che si nasconde durante la vendemmia per non incombere nelle rigide disposizioni di Anna Chiara. Anna Chiara che viene tenuta lontana dai clienti per evitare atteggiamenti poco consoni. Ma sono due sorelle. Parte diverse di una stessa medaglia. Che si integrano perfettamente come gli ingranaggi di un orologio, di una azienda che opera al femminile. Quasi in maniera matriarcale. E si sa che le donne sono precise, tremende, senza pietà.
Il quadro che ho dinanzi è divertente ma reale. Crudo e preciso. Due sorelle che hanno raccolto l’eredità dal padre che, si vede, le ha davvero instradate nel migliore dei modi. Determinate e ostinate. Pronte a non cedere il passo pur di rimanere (a ragione) attaccati alle proprie idee. Alle tradizioni. Al rispetto delle cose concrete e non certo delle chiacchere. I personaggi della commedia appaiono sul palco della Mustilli uno per volta, non tutti nello stesso atto. Si definiscono nelle parole di Paola. Se ne delinea il loro ruolo nell’azienda. Il carattere. Le peculiarità. Sempre a contorno dei due personaggi principali: Paola e Anna Chiara. C’è la mamma. Che è presenza costante ancorchè defilata. Un grappolo di Falanghina C’è il marito di Paola che lei definisce musicista e che insegna musica a Lecce. Ci sono i figli di Paola. Ben quattro. Uno che fa il piazzaiolo in Svizzera. Una femmina di 21 anni che studia mediazione linguistica ed aiuta nelle visite in cantina. Due gemelle di 18 anni: “una ha deciso che vuole fare la ballerina dunque balla tutto il giorno. L’altra che ancora non ha deciso ma si vuole iscrivere a giurisprudenza e si è presa un anno sabbatico” C’è Antonella, la figlia della signora Maria (cuoca di famiglia) che è come se fosse la terza sorella. In amministrazione, persona di fiducia. Comanda a bacchetta le sorelle per tutto ciò che riguarda i conti. Poi ci sono le persone che aiutano in vigna e in cantina nonché gli stagionali. Personaggi che sembrano a contorno ma fondamentali per la narrazione e la vita della cantina. Entrano ed escono nei racconti rendendoli unici, frizzanti, veri. Gli aneddoti si rincorrono e si uniscono in una grande rappresentazione teatrale. Sullo sfondo c’è la dimora di famiglia. Un palazzo storico che ha ospitato gli antenati. Ci sono le diverse stanze. La vigna. La cantina. Ecco, adesso immaginatevi tutti questi personaggi che entrano ed escono di scena in un alternarsi di dialoghi e battute. Stupendo! Chiedo a Paola cosa ne sarà della azienda dopo. La continuità con i figli che oggi sembrano impegnati in altro. L’eventuale problema futuro. Quale problema. Ci vendiamo l’azienda. Noi siamo ben felici perché non siamo attaccati alle cose materiali Pragmatismo. Determinazione. Forza. Caparbietà. A’ Cazzimma. E i vini? Come fanno a essere da meno. Da due sorelle così caratteriali. Da un teatro così verace come possono non uscire vini di carattere? Vini per i quali non serve struttura ma identità. Vini che rappresentano il territorio poiché espressione della famiglia. Vini che nascono per essere bevuti, non contemplati. Assaggiamo tre vini che sono espressione di tre particolari zonazioni. Il primo è Vigna Segreta, 2019. Una Falanghina del Sannio che fa solo acciaio. Un vino delicato che si presenta nel bicchiere con sentori floreali che donano delicatezza ed eleganza. C’è la nocciola ed il balsamico. Giusti, puliti, meravigliosi. Sa di Falanghina! Il terreno è vulcanico così che il sorso non può che essere sapido e minerale; secco e moderatamente caldo. Un sorso assolutamente coerente con gli odori. Finale ottimo e pulito. Bella persistenza. Convincente. Continui a berlo abbinandolo facilmente anche con una mozzarella di bufala. Poi arriva il turno di Artus 2018 da uve Piedirosso. Fermentazione e affinamento in anfora (10 mesi). Perché il Piedirosso ha bisogno di aria. Pochi tannini. Pochi antociani. Necessita di micro ossigenazione per evitare fenomeni di ossidazione e l’anfora è l’ideale. Che non faceva papà Leonardo. Io penso che ne sarebbe soddisfatto del risultato. Ha sempre dato molta fiducia a noi. Bel colore rubino che sta per virare sul granato. Molto fresco anche al naso. Ci sono i frutti rossi non ancora maturi. Ha un buonissimo sentore di tabacco, noce moscata, chiodi di garofano. C’è una prugna matura che emerge. C’è il floreale e il minerale. Bouquet completo. Andrebbe servito intorno ai 13 gradi per apprezzarne meglio i sentori e i sapori. C’è così complessità al naso sembra abbia fatto botte. Ma nemmeno l’ha vista! In bocca è fresco. Piacevolmente fresco con bella coerenza con olfatto. Sapido ma non eccessivamente. Non estremamente caldo. Lo puoi abbinare a carni non corpose ma sta bene anche con la mozzarella. Chiusura di bocca precisa. Un altro vino che non smetti di bere. Infine, Cesco di Nece 2017. Un aglianico diverso dai soliti. Non è un vino palestrato. È diretto. Ha un bellissimo bouquet che si arricchisce fino ad essere complesso continuando a restare nel bicchiere: prugna, fiori rossi, spezie, pietra focaia.  In bocca è molto fresco per un Aglianico. È un vino certo più difficile nell’abbinamento per via del tannino aggressivo che lo fa però resistere al tempo. Bella la chiusura di bocca. Strutturato e convincente. Un crescendo di sensazioni grazie a vini splendidamente connessi tra di loro. La mano è la stessa: Anna Chiara L’occhio non può che cadere sulle bellissime etichette. Gli antenati. Dai quadri sono scesi sulle etichette. In una forma meno austera però. L’idea è stata di mia madre. Siamo appassionati di musica di quei tempi. Poi per caso mio marito è musicista. Abbiamo detto agli antenati scendete da lì e metteteci la faccia anche voi. Antenati con un tocco di modernità grazie a piccole aggiunte di particolari “contemporanei”: gli occhiali di Lennon, la mascherina di Annie Lennox, il fulmine di David Bowie. Ma ci sono altri antenati? Uhh ce ne abbiamo un sacco! Insomma per le etichette c’è ancora tanto futuro. Con la speranza che Paola e Anna Chiara non vendano. Perché una azienda come questa dovrebbe essere annoverata nel patrimonio dell’umanità!   Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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5 Gennaio, 2023

Giuseppe Floridia, il vino tra poesia e tecnologia

Il vino è poesia. Il vino è amore. Il vino è passione, sudore, preoccupazione, forza, tenacia. Il vino è vita. E se fosse anche “tecnologia”? Non ho detto chimica. Ho detto “tecnologia”. Giuseppe Floridia è un ingegnere elettronico e la Cantina Tuscania è sua. Cosa diavolo ci fa un ingegnere elettronico a produrre vino? Beh che c’entra, pure io che scrivo di vino sono ingegnere (aeronautico)! Avvicinare la tecnologia al vino fa paura. È come evocare un conciliabolo di streghe che girano la pozione magica dentro calderone. Eppure, eppure, se ci si approccia al vino in maniera laica si può capire come la tecnologia abbia lo scopo di aiutare l’uomo. Non sostituirlo. Non prevaricarlo ma “solo” rendendo evidente ciò che avviene nel processo enologico. Per poi intervenire. Prima che sorga il problema. Una volta, in una cantina di San Gimignano, chiesi ad un produttore che aveva adottato la mia tecnologia se il vino era venuto più buono. Lui mi rispose: no, è venuto uguale. Ma ho dormito la notte Ecco, sta tutta qui la filosofia di Giuseppe. La tecnologia non serve e non deve servire per fare il vino più buono ma ad aiutare i vignaioli a prevenire il problema. Perché altrimenti gli investimenti vanno in fumo. Giuseppe intuisce da giovane che qualcosa di tecnologico si può avere nel vino per supportare i produttori. Lo capisce già dagli anni 90 allorquando da giovane laureato inizia a lavorare nel settore. Vinicolo? No, biomedicale. Come biomedicale? Che c’entra ora il biomedicale con il vino? Nulla, proprio nulla ma questa era la prima vera passione di Giuseppe. Solo che appassionarsi al settore del vino diventa abbastanza facile per un toscano doc che vive in toscana e che comincia a fare dei lavoretti nel settore, così, tanto per arrotondare un po’. Avevo a che fare con i medici che per natura e professione devono essere distaccati. Lavorando nell’enologia vedevo un mondo fatto di passione. Un mondo contadino per il quale facevo attrezzature, le facevo pagare e diventavamo comunque amici. Mi regalavano bottiglie Spero non lo scrivi, ma c’era pure il tema delle ragazze Mi dice sottovoce ma con quella risata che ti coinvolge. Quando da giovani ci si presentava ad una ragazza la domanda che sempre usciva fuori era: di che ti occupi? Se le dicevi che eri nel biomedicale le facce diventavano interrogative. Con la risposta “nel settore del vino”, facevi subito colpo Insomma, facile essere stregato dal vino, dai luoghi unici dove sorgono le cantine, dalle persone del vino. Meno facile far svanire l’ingegnere che è in lui. Cosa questa che Giuseppe non vuole. Anzi, essere appassionato di tecnologia lo mantiene e lo esalta con la convinzione che la tecnologia può essere al servizio del vino. Una missione! Giuseppe ha sempre cercato un modo per fare il vino in maniera naturale. Semplice. Senza aggiungere nulla ma solo “controllando”, “gestendo” ciò che accade in cantina. “Un altro modo di essere naturale insomma”. Come il motto della sua Parsec ovvero l’azienda che si occupa di supportare le cantine di mezzo mondo nella gestione del processo enologico di cantina. Parsec? E ora cosa è questa? Non si era detto che Giuseppe gestisce la Cantina Tuscania? Facciamo un po’ di chiarezza. Giuseppe è metodico ma anche vulcanico. Perché quando parla del vino si esalta. L’ingegnere che è in lui lascia il passo all’uomo tanto preso dal vino da fargli cambiare vita: da ingegnere elettronico biomedicale a tecnologo al servizio dell’enologia a vignaiolo. Torna poi ad essere l’ingegnere che non può e non vuole nascondere quando parla con i grafici alla mano. Quando cita termini come “cinetica fermentativa” che farebbero strabuzzare gli occhi a tutti i sommelier del mondo. Due sono le realtà delle quali Giuseppe si occupa: la Parsec, società leader nel mondo per la produzione di sistemi di gestione del processo enologico; Cantina Tuscania per la produzione del vino (e mettere in pratica le sue soluzioni) nata come sperimentazione della zonazione del Chianti con le grandi cantine toscane. Quando parla Giuseppe non mi perdo. Forse perché pure io sono ingegnere. I suoi grafici sono abbastanza chiari (almeno per me). Le sue descrizioni sono da perfetto ingegnere che sembra eccitarsi quando spiega le dinamiche fermentative (“l’ossigeno gestito correttamente mi permette una regolarità di cinetica fermentativa”), il controllo della temperatura, la sua stratificazione. Non posso però che sorridere perché la mia mente già immagina la faccia del vignaiolo che guarda questo toscano gentile che parla una lingua di altro pianeta. La mia mente vaga ancora pensando a quante persone “non laiche” possano far storcere il naso le parole di Giuseppe. Specialmente quando parla di controllo degli aromi attraverso i sensori “perché devi far avvenire l’estrazione quando serve controllando le temperature”. Oppure “evito che il lievito vada in sofferenza non ammazzando gli aromi per via della riduzione ovvero della produzione di composti solforati”. Cantina Tuscania nasce dalla voglia di mettere in pratica le tecniche enologiche, di capire quali sono i vitigni migliori nelle differenti zone. È il 2008 e Giuseppe offre le tue tecnologie ai grandi del vino italiano e non solo. Che non se ne separano più. Giuseppe e le sue tecnologie sono nascoste, insite nei contenitori in acciaio e anche nelle barrique. Ma ci sono. Non sostituiscono l’uomo ma ci sono. Giuseppe rileva la Cantina nel 2015 con l’obiettivo di ottenere il miglior vino possibile dai vitigni che ha a disposizione. Lo fa con grande umiltà adesso che si è superato il concetto che il vino si fa, solo, con la poesia. “Però la poesia ci vuole perché senza poesia il tutto diventa più complicato”. 3500 bottiglie (“non ne vogliamo fare di più”) e la riscoperta di vitigni dimenticati come Fogliatonda e Pugnitello. Grande attenzione alla pulizia e alla qualità dei processi. L’ingegnere…. Una sola grande, unica convinzione: ancora c’è tanto da scoprire e forse non si scoprirà mai. Questo è il bello. Chiudo la chiaccherata con una domanda provocatoria che però non riesce a creare il minimo turbamento in Giuseppe a dimostrare ancor di più la sua solidità ma soprattutto l’orgoglio di aver creato qualcosa che rende una azienda italiana leader nel mondo. “Saresti in grado di migliorare vini fantastici come ad esempio un Romanée Conti o un Petrus?” Sono nostri clienti per l’ossigenazione. Penso che abbiamo contribuito a migliorare il prodotto Come si fa a non ammirare e voler bene ad una persona così ed ad essere orgogliosi di averla conosciuta? Ah dimenticavo. I suoi vini. Tre produzioni. Un Chianti, un Chianti Riserva e un Rosso. Già dalle etichette mi affascinano (“Sono appassionato di Tecnologia, vino e arte” mi confessa Giuseppe). Sono vere opere d’arte. Appena le assaggio, le pubblico sulla mia pagina Instagram. Stay tuned.   Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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30 Dicembre, 2022

Bastian Cuntrari, due ragazzi e la loro passione

Il territorio è questo. La Valtellina è muro È la prima cosa che mi dice Michele facendomi vedere i terreni sui quali sorgono i suoi vigneti. Quando li guardi da sotto capisci perché si definisca “eroica” questo tipo di viticoltura. Siamo alle pendici delle Alpi che si affacciano sull’Adda. Qui sorgono i vigneti. Relegati da tempo, lontano dal fiume. Perché i terreni prossimi alle rive dovevano servire per le coltivazioni di prima necessità così che gli unici luoghi possibili per il vino diventavano i terrazzamenti. Difficili, impervi ma allo stesso tempo generosi grazie all’esposizione, alla composizione dei terreni, ai salti di temperatura tra giorno e notte. Terrazzamenti che diventavano veri e propri orti, utili per produrre qualcosa per la famiglia: ortaggi e vino. Piccoli pezzi di terreno ad uso personale rimasti tali fino a quando ce ne è stato bisogno. Da lì in poi, la vite e il Nebbiolo della Valtellina, la Chiavennasca. Michele 33 anni, Patrick 36. Michele che già lavora in vigna e Patrick che scopre una realtà della quale rimane affascinato. Due amici che si ritrovano a condividere la stessa passione e che gettano il cuore oltre l’ostacolo. Coraggio e incoscienza di due ragazzini (era il 2015!) che senza soldi e con molti sogni vanno in cerca di terreni, terrazze, sulle quali iniziare la loro personale avventura. Bastian Cuntrari. “I so stuf”. Questo si sentivano dire da qualche vecchio vignaiolo, stufo di lavorare, stufo di andare su e giù per le terrazze. Facendo tutto a mano, senza macchinari, senza sosta. Logora, sì che logora questa vita. Ma proprio quelli erano i terreni che facevano al caso loro. In fondo di forza e volontà, Michele e Patrick ne hanno da vendere. Michele ha la testa sulle spalle. Posato, calmo, umile. Sa quello che vuole ma sa che ci vuole tempo per averlo. Non ha paura di lavorare, di sporcarsi le mani. Mette in file le cose come se fossero tanti mattoncini. I pensieri, le preoccupazioni. Le ansie, le gioie. Sempre uno dietro l’altro. Con pacatezza. Non ha bisogno di niente altro che non sia la terra e la vite. Nel cuore del Grumello e un pezzettino di Sassella, nel 2016 nasce il primo vino, Valtellina Superiore. Non c’era tanta vigna per fare i vini e l’unico modo per uscire era un blend al 50% delle due vigne Costretti a vendere l’uva per racimolare un po’ di soldi utili per l’acquisto delle attrezzature. Così si comincia. Senza soldi, senza aiuti esterni. Possono contare solo su loro stessi. Sulle loro braccia. Sul loro entusiasmo. Il vino puoi farlo con tutto e con niente Ma le attrezzature servono per elevare la qualità e questi due ragazzi lo sanno. Ci credono e preferiscono investire piuttosto che portare a casa i soldi. Rispetto per la terra. Rispetto per la natura. Perché la terra è il loro sostentamento e va rispettata. La concimazione la facciamo con le stalle. Cerchiamo quelle che hanno il letame. Poi, ti arrangi, con la carriola e la forca Come fai a non voler bene a questi due ragazzi? A due persone così semplici, senza grilli per la testa? Adesso abbiamo tre ettari e mezzo di vigne: un ettaro e mezzo di Grumello, uno di Sassella, uno di Inferno Due soli vini. Perché questo riescono a fare. Senza enologo. Senza cooperative. Potendo contare solo della loro forza. Solo delle loro braccia. 6000 bottiglie e il sogno di arrivare a 15000. Questo è il numero che Michele e Patrick sanno di poter gestire. Da soli. Sì, da soli. Perché sono solo loro due e solo loro due vogliono rimanere. È una questione di orgoglio, di controllo dei processi. Ma anche e soprattutto di grande realismo e pragmatismo. Due ragazzi con la testa sulle spalle davvero. Se non riesci a vendere quelle quantità è meglio che chiudi perché vuol dire che non sei capace di lavorare Cosa vuoi dirgli? I vini dunque. Un Valtellina Superiore con 100% Sassella da vigneti a 500metri di altezza. Due anni di legno e uno di bottiglia. Importante e carico come serve in queste zone. Con il freddo. Con il formaggio o la cacciagione. Click qu per la mia recensione. Siamo andati a cercare (quante prove abbiamo fatto e quanti fallimenti) legno con zero tostatura per far emergere il territorio. Solo legno, senza materiali non naturali Un Grumello, Rosso di Valtellina. Non DOCG per avere un prodotto fresco e beverino ma con un solo anno di affinamento. Nasce dal lavorare loro stessi la vigna e dal conoscere il terreno. Non vogliono un vino pesante e decidono di raccogliere anticipatamente per dare freschezza e beva. Quando lo assaggio non posso che dargli ragione. Senti tutto il frutto croccante della valle. Un vino che puoi bere tutti i giorni. Che abbini facile non senza ricordare (e trovare nel bicchiere) quella magia che il lavoro di questi due ragazzi ti stanno offrendo nel bicchiere. Non hanno paura di produrre vini diversi per le annate diverse. Amano così tanto il proprio lavoro che non vogliono essere standard. Vogliono qualcosa che rappresenti il territorio, l’anno, le condizioni diverse. Ogni anno un vino diverso. Ogni stagione un vino che esprime ciò che è successo. Hanno capito che questa è la loro forza. Michele è pratico, attento. Ha sotto controllo tutti i costi. Li snocciola come se fossero granelli di un rosario. Il costo della bottiglia, quello dell’imbottigliamento, dell’etichetta. Non gli scappa nulla e questo fa capire quanto siano costretti a tener conto di ogni singolo aspetto. Per rimanere in piedi. Per sopravvivere. Siamo un discorso a parte. Siamo un po’ come essere sulla luna. Siamo l’unico pezzo di terra al mondo dove due scappati di casa riescono ad aprire una azienda da zero Ma perché il nome Bastian Cuntrari? Siamo l’unica azienda in Valtellina che coltiva tutto sulla sponda Retica ma la cantina sta sull’altra sponda. È l’unica cosa che ci siamo già trovati: la cantina di casa della mia bisnonna dove si tenevano salumi e formaggi. Avevamo prima la cantina che la vigna Ripeto ancora una volta: come si fa non voler bene a questi due ragazzi? Non voglio fare il moralista. Mi piacerebbe solo che mio figlio capisca quanto sia davvero difficile, ma anche possibile la vita. Quanto si possa partire da zero per poi trovare il proprio spazio nel mondo. Serve però fatica. Sudore. Forza di volontà. Anche nel “cercare” il letame e gestirlo accuratamente. Michele e Patrick, non solo vi auguro un gran bene, ma vorrei poteste essere di esempio. Per chi vuole emergere. Per chi vuole vivere del suo lavoro. Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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23 Dicembre, 2022

Claudio Cipressi, il signore della Tintilia

Il Molise. Prima nemmeno c’era il Molise. C’erano gli Abruzzi, poi Abruzzo e Molise. Poi solo il Molise. Quando a scuola studiavamo il Molise, quasi lo saltavamo. Si parlava della pastorizia, della transumanza. Nient’altro. Figuriamoci con il vino. Perché si fa pure il vino in Molise? Chissà quante volte Claudio Cipressi da San Felice in Molise si sarà sentito fare questa domanda. E chissà quanti punti interrogativi avrà visto sulla faccia delle persone quando parlava della Tintilia. Tintilia? Alzi la mano chi, da non esperto di vino, sa che esiste un vitigno chiamato Tintilia. Claudio Cipressi da San Felice in Molise ama la sua terra. La vorrebbe vedere diversa. Ma per sua stessa ammissione non riesce nemmeno lui a viverci. Almeno per periodi lunghi. “Perché non c’è nulla qui. Passa una macchina ogni tanto. Meno male che io viaggio spesso”. Così è il Molise.   Conosco Claudio quasi per caso. Abbiamo organizzato una serata su Abruzzo e Molise e ho sentito parlare della sua Tintilia. Lo contatto via email per acquistare delle bottiglie e poi in una serata ho il piacere di assaggiare i suoi prodotti che mi confermano la bontà degli stessi. Ne rimango folgorato. Assaggio il Macchiarossa dal quale viene fuori davvero tutto il Molise e la grande freschezza della Tintilia e mi piace. Quando però metto il naso nel calice dove c’è il 66 non posso che dire: wow! Al sorso anche meglio. C’è così tanto in questo bicchiere che so di aver scelto bene. Al contempo però non posso non saperne di più di Claudio Cipressi. I genitori di Claudio avevano dei terreni coltivati a cereali e ai primi degli anni 90 Claudio pensa di poter coltivare altro. Altro, non vino. Perché di vino non sa nulla. Proprio capendo cosa si può coltivare in Molise scopre che la vite qui si coltivava nel passato. Nella sua terra. C’era pure stata una cooperativa negli anni 70 con vigneti ormai andati distrutti. L’orgoglio Molisano. La voglia di fare qualcosa nella sua terra. Per la sua terra. Dalla sua terra. Andare in cerca della Tintilia sembra facile. Non lo è nessuno sa davvero cosa sia. Senza una base ampelografica. Senza una conoscenza certa. Toccava chiedere in giro. Agli anziani dei paesi. Una volta in Molise si coltivava la Tintilia. San Felice nel Molise era patria divino. È patria del vino molisano. Ma l’orgoglio molisano fa brutti scherzi. “C’era pure una cooperativa con 200 ettari che poi è andata via via disgregandosi perché i soci volevano indietro le loro terre. “Perché con i miei terreni devono guadagnare gli altri”. Ma l’unione fa la forza. Da soli, si sono spenti. Così che i vigneti andarono distrutti. Con loro, il vino in Molise. Una volta in Molise si coltivava la Tintilia. Ma allora qualcosa si può fare in Molise. Certo, il Montepulciano dei cugini abruzzesi. Ma una volta in Molise si coltivava la Tintilia. Ora dov’è? Claudio capisce che solo recuperando qualcosa del passato si può riportare in auge la viticultura in Molise. Solo che tocca andare a cercarla questa Tintilia. E chi se non gli anziani del paese possono sapere dove sta e chi ce l’ha? Una volta in Molise si coltivava la Tintilia. Andare paese per paese a chiedere ai vecchietti non deve essere stato facile. Ne breve. Ma cerca che ti ricerca che qualcuno alla fine Claudio lo trova. “Nella mia vigna c’è la Tintilia”. Ecco, questo voleva sentirsi dire Claudio. Vecchie vigne con impianti ad alberello. Lasciate lì a fare i frutti come potevano. Traendone quel vino che serviva a casa. Null’altro. Ma sarà davvero la Tintilia? Una volta in Molise si coltivava la Tintilia. Bel problema. Perché se vuoi recuperare qualcosa, poi ci deve essere qualcun altro che ti dice che quello che hai trovato è davvero ciò che cercavi. Siamo negli anni 90 e non c’è nessuna descrizione della Tintilia dunque nessuna descrizione del vitigno. Ergo, nessuna autorizzazione all’impianto. Una volta in Molise si coltivava la Tintilia. Insomma la strada sembra in salita ma per fortuna Claudio non è il solo che vuole recuperare questo meraviglioso e antico vitigno. Solo nel 2002 la Tintilia entra nel Registro Nazionale (la DOC è del 2011). Oggi poco più di 100 ettari vitati 12 dei quali di Claudio dove, in maniera biologica, produce una delle migliori Tintilia del Molise. Azi, tre: Settevigne, Macchiarossa, 66. Più il rosato. Diversificate in funzione del territorio. Senza dimenticare un metodo classico. Tanto per far capire anche le differenze e potenzialità della Tintilia. Devi conoscere la DOC della Tintilia certo ma poi devi andare a fondo con l’azienda e l’etichetta. Se hai detto che conosci la Tintilia non hai detto nulla. Così Claudio spiega perché servono più etichette. Ognuna diversa dalle altre. Ognuna con le sue specificità del territorio, del processo enologico. Oggi in Molise si coltiva la Tintilia. Finalmente! Molti premono per la DOCG ma io non voglio perché già siamo poche aziende e se ci cominciamo a dividere…. Pragmatico Claudio. Sa che per non ripetere gli errori delle cantine sociali occorre rimanere uniti. Il territorio ha poche aziende. Davvero poche. Pochi eroi che portano avanti un progetto che vuole non affermare ma far emergere il Molise. Ma se non si fa “sistema” u n vitigno così poco noto come la Tintilia ci mette poco a scomparire un’altra volta per dare spazio a qualcosa di più produttivo e noto. Anche Claudio nella sua azienda è costretto a fare i conti con la realtà. Produrre Falanghina, Trebbiano e Montepulciano (per un totale 2 ettari e mezzo) diventa un obbligo. O un male necessario. Claudio lo affronta con pacatezza. Con dolcezza direi. Che è la stessa con la quale parla della sua Tintilia. Sì, la sente proprio sua. Una sua creatura. E in fondo lo è. Perché quando la salvi dall’oblio e la riporti in vita, diventa parte di te. Come un figlio. La pacatezza si trasforma poi in fierezza e da questa traspare un velo di fatica. Quella fatica che si deve fare per promuovere un prodotto come la Tintilia. Difficile. Deve essere davvero difficile. Ma quando si è animati da una simile determinazione, non ce ne è per nessuno. A Claudio devo dire davvero grazie. Perché quando ho assaggiato il suo Tintilia 66 ne sono rimasto stregato. Complesso al naso perché ci trovi tanto e tutto in maniera distinta anche se l’odore che mi ha colpito è stato qualcosa di simile alla cenere ricordandomi la scorsa del pecorino conservato proprio nella cenere. Un sorso che è caldo, ampio e avvolgente. Persistente e armonioso. Dotato di una freschezza perfettamente bilanciato con i tannini. Non fai altro che cercare odori e sapori che puntualmente trovi. Alla fine l’ho portato alla serata degustativa e tutti i cinquanta ospiti ne sono rimasti entusiasti. Sembravano bambini che assaggiavano qualcosa di meraviglioso per la prima volta. Insomma, un vino che eleggerei mio vino dell’anno. Grazie Claudio. Grazie per averci donato questo vitigno e questo vino. Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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16 Dicembre, 2022

Stefan Goldman e la Riserva del papà

C’è stato un periodo della nostra storia, erano gli anni ottanta, quando le campagne si svuotavano. Le luci della città o forse la miseria delle campagne attiravano, o spingevano, le persone fuori dalle terre. Così le case, le terre, i paesi si spopolavano. Pochi arditi intraprendevano invece il percorso inverso e la Toscana rappresentava la meta di riferimento. Il miraggio di una vita diversa a contatto con la natura. Pietralta sorge nel nulla. Letteralmente nel nulla tra San Gimignano e Volterra. Un luogo accogliente. Un agriturismo che accoglie i propri ospiti alla vecchia maniera. Con la schiettezza e la cordialità di una volta. Convivialità e gioia di riunirsi intorno ad un tavolo per mangiare cose genuine e bere i vini del territorio. A vederlo come è oggi viene difficile pensare come lo trovarono i genitori di Stefan. Quando parli con Stefan capisci che è un toscano. L’inflessione è chiara, inconfondibile. Eppure il nome non è propriamente toscano. Il cognome poi! Quando hai un papà tedesco (mamma di Milano), ci sta tutto.
Stefan è schietto, diretto, sincero. Deve averle prese dal papà, caratteristiche nordiche. Ma è anche modesto, riflessivo, emotivo. Non può che averle prese che dalla mamma. Un bel blend insomma! Arrivare dalla città, dove tutto è a portata di mano in questo lembo di Toscana n egli anni 80 quando tutto era (già) incolto ed abbandonato, non deve essere stata una passeggiata. I ricordi di Stefan sono ancora vivi. Certo, lui non c’era. Ha solo 31 anni. Ma le storie le ha sentite e storie di questo tipo rimangono dentro. Fanno parte di te perché sono della tua famiglia. Racconta con divertimento, pur sapendo che non è stato per nulla facile, di quando i suoi genitori si trovarono in un casale dove non c’era acqua corrente ed energia elettrica, circondata da undici ettari di terreno incolto, abbandonato. Difficile. Davvero difficile ricominciare. Anzi, cominciare da qualcosa che non c’era. La casa da sistemare. Il terreno da coltivare. Tutto. Tutto. Tutto. Tutto senza esperienza. Perché due cittadini milanesi cosa ne sanno di come si coltiva un campo. Di come si produce il vino, l’olio. Vuoi la vita di campagna? Eccola. Senza esperienza. Senza aiuti. Senza macchinari. Solo con la voglia di dedicarsi alla natura. Rispettandola ed amandola. Con questi principi è venuto su Stefan. Nel rispetto della natura. Quando Stefan parla del suo passato, l’emozione è palpabile. Sa da dove sono partiti. Sa dove sono. Soprattutto sa dove vorrebbe arrivare. Trovarsi a venti anni a dover gestire l’azienda del papà, non è semplice. Ma è la sua azienda. Sua è la responsabilità. Sa di essere sulla strada giusta. Sa di metterci tutto del suo. Ma vuole fare di più. Il papà ne sarebbe orgoglioso. Forse non avrebbe apprezzato le nuove sperimentazioni ma i tempi sono cambiati e fare qualcosa di diverso è un obbligo. Senza perdere l’identità di quella Toscana che ormai è nel DNA. “Il vino? Eh il vino si faceva per la casa mica per venderlo”. Fino a quando Stefan ed il papà non decidono che si può fare qualcosa di diverso. Con il Sangiovese ad esempio. Ci sono le vecchie vigne che però non sono idonee perché da troppo tempo abbandonate. O forse non lo erano al tempo, senza esperienza. Capiscono che hanno bisogno dell’enologo, dell’agronomo. Di braccia per la vendemmia. Insomma di qualcuno che li supporti. Cinque ettari sono comunque tanti. Erano undici gli ettari sì ma difficili da gestire per due venuti da Milano. Stefan ha una idea ben precisa del vino. Non è che uno solo perché ha 31 anni non deve avere le idee chiare. Lo vuole biologico, nel rispetto delle tradizioni. Lo vuole che rappresenti il territorio. Lo vuole vivo. Senza fronzoli. Come è la sua natura. Nel tempo hanno impiantato ovviamente il Sangiovese perché il Chianti e il Riserva non possono certo mancare in questo territorio. Ma anche Merlot, Syrah, Trebbiano, Malvasia. Poi Teroldego e Manzoni bianco. Per sperimentare però. Per capire le potenzialità della terra (o delle tecniche con i vini naturali che “è un’altra società però”). Argillosa, ricca ma con basse rese. “Nel futuro ci sarà un ritorno alle origini con Mammolo e Ciliegiolo. Papà ne sarebbe stato contento”. Il territorio. La terra. La vita. Stefan non si ferma. Si è dovuto fermare quando il papà se n’è andato. Ma non ora. Studia. Perché sa che portare avanti una azienda senza sapere non si può. Non possiamo non assaggiare qualcosa. Cosa se non i tre vini che rappresentano al meglio l’azienda? Partiamo con un Chianti DOCG. È un bel chianti che nel bicchiere esprime tutta la sua “chiantitudine”. I sentori ci sono tutti anche grazie ad un processo ben controllato ed un passaggio rapido in tonneau grande. Bella freschezza in bocca. In fondo è un vino giovane, che va bevuto così anche se in bottiglia ci starebbe bene altri anni. Generoso e con quei tannini poderosi, quasi aggressivi. Secco, sapido, equilibrato ma nervoso. Persistente e con un finale lievemente mandorlato. Mi convince. Facciamo un salto in avanti con la Riserva 2017. Quando Stefan parla di questo vino lo dipinge, lo incensa ma soprattutto si sente che lo adora. Si, certo, è decisamente più equilibrato del Classico. È più ricercato del Classico grazie alla selezione dei vigneti che cambia ogni anno. È più complesso con i sentori che tra un po’ si arricchiranno anche di etereo. È balsamico. È la Riserva che in bocca è uno di quei vini che non smetteresti mai di bere. Ma non è questo che lo fa adorare a Stefan. Questo vino è viscerale. È passione. È nostalgia. Forse perché ne parlava con il papà con il quale discuteva di come si dovesse fare il vino. Questo vino. Insomma, sembra un omaggio al papà. Come se fosse un albero che cresce con le forti radici impresse nel passato. Infine proviamo il blend da Syrah e Merlot. Un 2018 che riposa un anno intero in barrique. Un vino che è una pennellata. Fa contenti tutti. Ruffiano sì ma ben fatto Questa è Pietralta e le sue 20.000 bottiglie. Questo è Stefan. Un ragazzo che sa da dove viene e sa dove vuole andare. Un ragazzo che ha nel cuore la sua terra ma ancor di più vorrebbe che il papà lo vedesse ora, mentre assaggia orgoglioso il suo Riserva. Sono sicuro che la prima cosa che penserebbe è “abbiamo fatto bene a lasciare Milano per la campagna”. Non mollare Stefan. Non guardare in faccia nessuno se non i clienti del tuo agriturismo mentre bevono il tuo vino. Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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9 Dicembre, 2022

Cantina La Stradina: da zero a cento, in cinque

Cosa possono avere in comune un elettricista, un Dirigente postale di filiale, un dipendente della Lavazza, un Amministratore Delegato di una azienda di imballaggi di cartone e un Fisico ricercatore universitario? Magari appartenere ad una banda? Può essere. Di certo, l’amicizia, quella con la A maiuscola. Una amicizia che parte da quando si è bambini e che in un comune con poco più di 7000 abitanti come è Gattinara, si può fare. Perché si cresce insieme anche se poi si prendono strade diverse. Per quanto le radici, quelle, non si dimenticano. Sono quelle che ti fanno rimanere con l’anima ed il cuore legato alla tua terra. L’amicizia chiede di più: va coltivata. Come la terra, come le piante. Coltivata, accudita, gestita. “Perché non ci compriamo un pezzo di terra e ci facciamo il vino?”. Nasce tutto così. Come un gioco. Una battuta, messa sul tavolo da Roberto quando, alla soglia dei 40 anni c’è ancora tanta voglia di stare insieme. Le serate, le cene, le bevute. In fondo siamo a Gattinara nel Vercellese, dove il vino è cosa seria. Sarà perché qui si beve il nebbiolo, anzi il Nebbiolo e perché l’interpretazione di questo ha dato vita nel 1990 alla DOCG. Cosa c’è oltre il Nebbiolo se non il Nebbiolo? Invece di comprarcelo, ce lo facciamo noi. Come viene viene. Un modo per stare insieme. Un modo per continuare ad unire cinque amici forse un po’ annoiati dalla monotonia di un piccolo paesino ma con l’animo dei ragazzini che erano e che in fondo sono ancora. Sempre pronti a divertirsi e far baldoria. Siamo come Ancelotti e se va bene, si vince la Champion. Comprano mezzo ettaro, si solo mezzo ettaro sul quale ci sono delle piante di nebbiolo. “Non sapevamo come fare” mi dice Roberto. “io faccio l’operaio e di vino da uno a cento ci capisco venti. Gli altri anche meno”. Insomma, nel 2004 la banda dei 5 fa la prima vendemmia senza sapere nulla di vino. Vendemmiano il misero mezzo ettaro e chiedono consigli in giro su come fare il vino. “Abbiamo fatto le media delle cose che ci dicevano”.  Svegli i ragazzi. Volenterosi e con la voglia di divertirsi. Prendono in prestito tutto il materiale che serve per fare il vino. Fanno tutte le operazioni così come gli hanno detto di fare financo la macerazione per 12 giorni. Allo svinamento sentono buoni profumi ma non tutti sono convinti. È prima di mettere il tutto dentro una barrique (comprata usata ovviamente) che inizia la discussione sulla qualità del prodotto. Ecco, vorrei fermarmi qui. Perché quando Roberto mi racconta questa cosa io scoppio a ridere. Ma tanto. La scena che ho dinanzi agli occhi sembra uscita da un episodio del Muppet Show dove i personaggi litigano. Una sana litigata tra amici. Insulti nel dialetto locale. Improperi che vengono erogati come se piovesse e soprattutto pareri contrari tra chi dice che fa schifo e chi invece che è bevibile; tra chi che è meglio buttare via tutto tanto abbiamo scherzato e chi invece pensa che ormai la barrique c’è dunque va riempita. Una parola però echeggia ad un certo punto nella discussione. Una parola che è diventata un intercalare piemontese (me ne sono accorto la prima volta che ero a Torino in tram diretto verso il primo giorno di lavoro in Fiat): minchia! Ecco, minchia è la parola che Roberto pronuncia quando ha assaggia il vino. Quella parola è stata lo spartiacque della banda. Minchia quanto è buono. Ecco, è buono. Non è spettacolare. Non si parla di sentori, percezioni, sensazioni. È buono. È semplicemente buono. Tutto qui. Schietto. Preciso. Sincero. È buono e ce lo possiamo bere. Abbiamo raggiunto lo scopo. Ah ovviamente i lieviti erano quelli in polvere e la malolattica era partita senza che lo volessero. ça va san dire. L’anno dopo non è che gli venga così bene però. Ma chi se ne frega. Tanto hanno prodotto qualche centinaia di bottiglie nel 2004 che basteranno per un po’ di cene. Scherza scherza che negli anni cominciano a comprare un po’ di barrique. Di seconda vita però. Basta che dentro sia passato il Nebbiolo. Quelle grandi non si possono prendere perché non entrerebbero in cantina. “Occorrerebbe costruirle dentro ma chi ha i soldi!” Nel frattempo Giorgio, il fisico, quello che fa il ricercatore, si laurea (pure) in enologia così che l a banda possa autogestirsi. Almeno uno intelligente ci vuole nel gruppo no? Giorgio è uno che va al CERN di Ginevra. Una testa! 2000 bottiglie l’anno. Non di più. “All’inizio di agosto andiamo in vigna (quando abbiamo tempo) e tiriamo via un po’ di grappoli per aumentare la qualità”. Le piccole quantità consentono micro vinificaizoni. Quel fazzoletto di terra in realtà ha diverse esposizioni e diversi terreni così da far emergere le differenze. Quasi come se fossero dei mini cru. “però poi la vendemmi la dobbiamo fare nel fine settimana che noi lavoriamo”. L’anno scorso ci hanno invitato ad un concorso. Ma noi ci andiamo solo se la degustazione è alla cieca altrimenti chi ci crede a cinque come noi? Tutta la meraviglia, la schiettezza di Roberto e della banda sta in queste parole. Nemmeno loro ci credevano e non so se, anche ora che uno dei vini ha preso 100, ci credono ancora. Per loro è come se fosse ancora tutto un gioco. Un passatempo. Un modo per autoprodursi il divertimento. Anche se hanno capito che qualcosa di diverso va fatto. A cominciare dalla cantina.   Perché prima la cantina era sotto casa di Giorgio, uno scantinato. Ora che con il mio lavoro ho fatto le cose per gli architetti, ce la siamo aggiustata bene Non ci credono ancora. Perché ogni annata è diversa, perché ogni anno c’è qualcosa di nuovo. Non vogliono essere omologati. Loro, la banda dei 5, fa le cose come vengono. Come la natura concede. E va bene così. Perché tanto, dopo tanti anni, stanno ancora insieme. A divertirsi. A bere vino. A prendersi in giro l’un l’altro. Anche a Gattinara. PS il vino è davvero notevole. In un mio post la recensione. Da non perdere! Ivan Vellucci Mi trovi su instagram : @ivan_1969
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