06 Set 2024
Malerba. Marco, Filippo e la zingarata enologica
Amici di scuola, di caserma… E dunque, amici da tutta la vita.
Eccoli qui, gli amici miei. Cari amici.
Oh, ma che fai? Dove vai?
Ha svoltato a sinistra.
Che c’è a sinistra?
So ‘na sega! Allo zingaro quando gli gira… gli gira.
Ecco, questo è essere zingari.
Questa è la zingarata: una partenza senza meta e senza scopi,
un’evasione senza programmi.
Può durare un giorno, due o una settimana.
Una volta mi ricordo, durò venti giorni.
Salvo complicazioni.
Mario Monicelli firma nel 1975 l’indimenticabile Amici miei. Ugo Tognazzi, Gastone Moschin, Adolfo Celi, Philippe Noiret, Duilio Del Prete.
Il dialogo è la voce fuori campo del Perozzi, Philippe Noiret. Descrive l’amicizia nella loro voglia di stare insieme e insieme godersi la vita. Anche, ma non solo, attraverso gli indimenticabili scherzi. Anche, ma non solo, attraverso le zingarate, partenze senza una meta. Partenze verso qualcosa che non è importante perché ciò che conta è il viaggio e stare insieme.
Marco
Filippo
Marco Valentini e Filippo Artini sono gli artefici di una vera e propria zingarata enologica. Il dialogo con loro porta alla luce persone, vignaioli, amici. Uniti in un progetto sempre in bilico tra qualcosa di serio e di goliardico ma che in realtà rappresenta il loro legame di vita. Non so come spiegarlo, ma la nostra chiacchierata a tre galleggia in un brodo primordiale fatto di allegria e cazzeggio, di scienza e spiritualità, di tempo e infinito. Una zingarata che può durare una vita. Salvo complicazioni.
Marco e Filippo sono amici dai tempi del liceo a Montevarchi. Lo finiscono insieme e insieme, con tutti i maschi della classe, si iscrivono ad informatica per quello che loro definiscono “anno sabbatico”.
Cosa c’è di meglio di un anno vissuto a non fare nulla dicendo invece di essere studenti di una facoltà che tanto non interessa a nessuno? Una strategia da vera zingarata. E dopo?
Io per avere tutto più chiaro sono andato a fare l’idraulico. Dopo la parentesi informatica ho trovato un idraulico che cercava un apprendista. Ho fatto l’apprendista. Cinque anni. Poi ho fatto agraria.
Ho fatto enologia cosi perché andava di moda e non avevo una visione chiara del futuro. Ma anche per un incontro avvenuto in maniera del tutto casuale. In estate in biblioteca c’era un ragazzo che faceva viticoltura ed enologia. Mi incuriosì molto e da li decisi di fare l’esame di ammissione. Fui preso e via.
Marco ha il papà che compra un podere con 12 ettari ancora mentre faceva il professore. Era sul finire del liceo di Marco. Prima si iscrive pro forma ad informatica, poi fa l’idraulico, infine (!!) agraria. Mette la testa a posto? Ma no mica si può. Lavora pure in una enoteca a Firenze. Suvvia!
Filippo dopo aver scelto con convinzione la facoltà di enologia ed aver completato gli studi, se ne va un pò in giro, per lavorare s’intende, all’estero e in Italia. Lavora specialmente in Franciacorta. Almeno fino a quando decide di voler ritornare in Toscana. Ma qui ci arriviamo dopo
Noi siamo amici di liceo. Andavamo a liceo insieme. Ci siamo ritrovati anche se sempre rimasti in contatto. Abbiamo avuto l’esigenza di realizzarci in qualcosa di nostro con l’idea di fare vini irriproducibili. Siamo arrivati a questa esigenza da strade diverse.
Lui ha visto la parte industriale e professionale cosi aggressiva del vino. Io ho una vigna che utilizziamo tuttora dal 1996. Ho imparato a fare il vino da mio nonno poi gli studi agronomici mi hanno aiutato. Grandi telefonate con Filippo per le vendemmie e sul come fare il vino. Mio nonno non voleva aggiungessi nulla al vino. Se aggiungevo mi toccava farlo di nascosto. Con gli studi agronomici ho avuto un punto di vista più critico su quanto veniva fatto nelle varie cantine dove andavo.
Insomma, due amici dall’epoca del Liceo a Montevarchi. Due buontemponi che comunque non si risparmiano per il lavoro. Accomunati da una amicizia che si consolida quando Marco decide di rifare il vino del nonno con la piccola vigna del padre. Piccola perché gli ettari sono tanti ma di vigna ce ne è appena mezzo ettaro. Vigna buona però perché vecchia il giusto e con una serie di vitigni interessanti. Dal Sangiovese che in Toscana non può mai mancare, ai bianchi particolari come lo Zuccaccio.
Le strade tra i due si separano dopo informatica. Ma in qualche modo percorrono due binari paralleli. Fino a ritrovarsi.
Iniziamo a ritrovarci agli inizi degli anni 2010 quando Marco ha iniziato a sperimentare vinificazioni sempre più leggere.
Cercava di spiegarmi la teoria su cose che mi succedevano. Lasciavo le barrique senza solfitare e li trovavo a zero di libera e il vino non difettato. Era lui l’esperto e mi doveva spiegare cosa era successo. Nella mia vigna ho Sangiovese ma anche tanta uva bianca. Ho anche l’Aleatico dal quale ho fatto il passito. Il mio impegno in viticoltura è sempre stato un passatempo succedaneo al lavoro principale. Il we principalmente.
All’epoca stavo in una azienda dove spumantizzavo in Franciacorta. Da li è nata la sperimentazione di Marco sui metodi classici.
Due amici che si ritrovano dinanzi a fermentazioni e travasi con una idea ben precisa e, soprattutto, condivisa, di come fare il vino. Un meraviglioso modo di stare insieme. Di sperimentare a distanza. Di comprendere come le amicizie, se coltivate, durano al tempo.
Marco che ha già la vigna e, ancorché nel tempo libero, inizia a sperimentare su quello che gli passa per le mani. Oltre che per la testa.
Volevo alleggerire il vino di tanti orpelli seguendo la linea di mio nonno dove non si poteva mettere niente altrimenti il prodotto perdeva di salubrità. Il vino di mio nonno era buono ma qualche evidente difettuccio lo aveva. Volevo riprodurlo ma senza difetti. Ero poi incuriosito dal metodo classico. I primi approcci sono stati proprio da metodo classico. Facevo settanta litri. Su bianchi e rossi avevo qualche esperienza. Quello di mio nonno era un rosso classico, classicissimo. C’era un bianco che veniva molto bruno.
Il rosso veramente gli veniva molto scuro tanto che lo chiamava inchiostro. Io ho fatto l’enologo e ho lavorato in diverse parti di Italia e all’estero. Sono sempre stato un pò critico con li settore dove razzolavo perché lo trovato ambiguo. Tutti si spacciano di portare la propria unicità però poi nell’aspetto produttivo non ho visto apportare nulla. Tutti portano gli stessi materiali e tecnologie. Piano piano con Marco abbiamo invece cercato una nostra strada che considerasse il vino non un prodotto ma una sostanza.
L’affermazione di Filippo racchiude in se tutta ma davvero tutta la filosofia della duetto. Il vino che è sostanza, non prodotto. Perché il prodotto è trasformazione di qualcos’altro. Di per se omologato. La sostanza invece è uno stato naturale oppure ottenuto per reazione chimica.
Il prodotto è destinato ad un tipo di consumatore. La sostanza è quello che riesci ad ottenere senza portare il vino da nessuna parte. Difficile da vendere perché ci inseriamo in un contesto commerciale. Occorre confrontarsi però con chi fa di tutto affinché il vino dia particolari sensazioni. Questo però rende i nostri vini molto più aperti e riconoscibili per una caratteristica specifica.
Difficile solo pensare una cosa del genere. Il vino è il prodotto di trasformazione dell’uva, degli zuccheri in alcoli. Insomma è qualcosa che è per quello che abbiamo sempre saputo sia.
Ma se tutto questo invece venisse messo in discussione? Se il vino non fosse solo un prodotto ma una sostanza che è frutto di un procedimento volto ad ottenerne la vera essenza?
Sarebbe tutto diverso.
Ci arriviamo dopo.
È iniziato a succedere nel 2017 circa. Parlammo in maniera più strutturata.
Secondo me anche prima. Avevi voglia di rientrare.
In effetti è vero. Sono stato dieci anni in Lombardia e volevo rientrare facendo una cosa mia. Non andando a lavorare da altre aziende. Ho cercato posti e coinvolgevo Marco. Dal punto di vista finanziario, comprare una cosa in Toscana era troppo oneroso.
Mi ha portato a vedere delle vigne a Panzano in Chianti! Li costano quanto una gioielleria a metro quadro.
Quando si stava concretizzando questo posto che poi ho comprato abbiamo iniziato a produrre in maniera professionale.
Ecco, qui dove? Avete presente il liceo di Montevarchi? Ecco, quello è il baricentro che torna sempre. Baricentro tra le due tenute che costituiscono Malerba, questo il nome dell’azienda di Marco e Filippo. Due tenute perché così gli garba. Comunque sia, percorrendo la A1 si esce a Valdarno così da trovarsi quasi immediatamente a Montevarchi.
La tenuta di Marco si trova verso l’interno, a Tenuta Bracciolini, in frazione Cicogna. Quella di Filippo, dalla parte opposta dell’autostrada, a Cavriglia, località Casino (nomen omen…). Distanti poco più di venti km e Montevarchi nel mezzo.
Io abito in un lato e Marco nell’altro. Siamo distanti venti km circa. Due areali completamente diversi. Qui c’è il Chianti con terreni ripidi poveri e sassosi. Nell’altro versante l’argilla è profondissima. La balze del Valdarno. Qui si vedono colline nude di tutta argilla.
Io avevo sempre avuto voglia di una linea di vino mio. Ho perso mio padre e mi sono trovato a gestire da solo tutta la terra. Per dare una destinazione pratica, per tutto il lavoro, mi serviva una società del genere.
L’azienda Malerba vede i primi vagiti nel 2018 producendo vino nella vigna e nella cantina di Marco. Vigne e cantina di Filippo arrivano nel 2020 quando nasce ufficialmente Malerba. Venti ettari in totale con due e mezzo vitati. Nel casino più totale si vinificava in due cantine fino a che adesso avviene tutto nella cantina di Filippo destinando quella di marco per stoccaggio e come cantina storica.
Bellissimo stare dietro a questi due o perlomeno cercare di farlo. Rimbalza tutto da una parte all’altra come se fossero due ragazzini che cercano di confondere le idee per coprire una loro marachella.
Filippo ha il suo tono pacato e rilassato anche nella postura. Marco con la sua aria da buontempone e la battuta pronta. Entrambi dotati di tanta arguzia e capacità imbonitiva tanto che in alcuni passaggi mi è sembrato di essere il pupo tra due pupari. Quanto mi sono divertito!
Biologici? Biodinamici? Naturali? (Tradizionali manco mi passa per l’anticamera del cervello!)
Ad entrambi piace poco essere categorizzati. Già ad un toscano in generale l’essere accomunato a qualcos’altro non gli va a genio, figuriamoci a due come Marco e Filippo che hanno fatto della distinzione un loro manifesto di vita.
In vigna ci comportiamo come se noi non ci fossimo. Ci avviciniamo molto al biodinamico senza essere nell’associazione.
Non osserviamo i pianteti. La luna si perché mio nonno mi ha sempre detto di travasare in certe fasi di luna. Il biodinamico va un pò oltre. Metterci le mani non è semplice. Io sto molto a curare questa vite e a farla da solo. Mi sposto poi da Filippo che ha l’estensione di vigna più grande. Anche Filippo viene da me eh!
In vigneto interveniamo pochissimo. Il nome della nostra azienda Malerba deriva del profondo rispetto dell’ecosistema comprese le erbacce. Il vigneto è volutamente tenuto in maniera disordinata. Ci sono un sacco di arbusti, di essenze. Ci nasce pure qualche albero. Cerchiamo di creare un ecosistema più integro in grado di reagire alle sollecitazioni esterne. Il meno possibile perché è sempre una gara di compromessi. In cantina siamo i più talebani possibile. Non utilizziamo nessun ingrediente in nessuna fase della lavorazione. Nessun macchinario. Non c’è tecnologia. Non c’è caldo non c’è freddo. Anche i metodi classici vengono fatti uno con un tiraggio invernale (freddo) e uno estivo più semplice. Non c’è niente. I nostri vivi si realizzano, a parte la pigiadiraspatura iniziale, senza corrente elettrica. Tutto a mano. Questo non per moda o per marketing ma perché nel corso degli anni ci siamo accorti che ogni aggiunta influenza il vino e cerca di portarlo da qualche parte.
Impossibile non rimanere colpiti (e affondati) da affermazioni del genere.
Rispetto tutte le opinioni e i Credi in termini di vino anche se non tollero la chimica più di tanto perché vuol dire artefazione. Più di tanto nel senso che se, in certe condizioni, occorre usare in vigna e solo in vigna, elementi in grado di curare (o prevenire) e questi non comportano poi residui nel vino, perché no.
Nel caso di Malerba ci sono degli elementi molto interessanti che necessitano un vero approfondimento.
Non mi riferisco alla vigna dove, certamente, il mancato utilizzo di sostanze chimiche e il ricorso all’inerbimento è pratica di buon senso. È in cantina che c’è da rimanere stupiti: zero tecnologia, zero aggiunte. Nessun intervento dell’uomo se non ad agevolare, mai a modificare il processo.
Il concetto espresso da Filippo va nell’ottica di quella che lui stesso definisce sostanza. Materia che si trasforma non attraverso un processo produttivo ma dalla “semplice” interazione tra le sostanze e il sistema che le contiene.
Tra le cose poco spiegabili c’è quello per cui i serbatoi sono dei bioreattori dove non manca nulla. Difficile da raccontare perché non aggiunge nulla alla narrazione. Ogni micro organismo ha bisogno di fattori e co fattori di crescita che in molti casi vengono aggiunti. Si aiuta, protegge, conserva per evitare inceppamenti. La formula alchemica è il bioreattore che se qualcosa manca se la crea da sola.
Una sorta dunque di capacità intrinseca del sistema di regolarsi e di trovare al proprio interno gli elementi necessari per la trasformazione.
Sembra facile ma non lo è affatto. Ciò che non si può raccontare facilmente è, ancorché nel completo disordine, una attenzione maniacale in vigna e in cantina.
L’enologia non racconta secondo noi alcune cose che accadono nei nostri vini che stanno a contatto con le bucce per quasi duecento giorni, mentre nei testi o negli articoli di letteratura si parla al massimo di 90 giorni. Noi andiamo oltre e arriviamo ad un punto nel quale si perdono le parti fruttate e il vino diventa più semplice, vicino all’acqua. Sviniamo in quel momento li. Durante questo processo l’uva si è trasformata più profondamente di quando si possa fare con le normali tecniche enologiche.
Avete letto bene: oltre duecento giorni di contatto con le bucce, utile non ad estrarre qualcosa ma per assottigliare il vino. Per togliere qualcosa semmai. Togliere la parte materiale per poi svinare ed andare in bottiglia dopo un paio di travasi. Così da fargli avere una seconda vita.
Non c’è legno. Non c’è acciaio. C’è solo vetro e vetro resina per non aggiungere assolutamente nulla.
Rimontaggi fatti rigorosamente a mano trattando tutto in maniera delicata. Come per il cappello che viene massaggiato per immergerlo senza farlo andare mai sul fondo.
Se esistesse un macchinario in grado di fare le cose meglio di noi non avremmo problemi. Facciamo però un lavoro delicatissimo che non è possibile realizzare con macchinari. Che oltretutto portano a realizzare prodotti, non sostanze.
La nostra presenza è sempre necessaria. Non facciamo analisi chimiche se non quando andiamo in bottiglia per i dati di legge o se spediamo all’estero. Tutto si basa sulla nostra sensibilità. I ritorni sensitivi ci guidano sulle operazioni da fare. La macchina non potrebbe fare questo.
Si definiscono alchimisti e sul loro sito troverete Malerba vini alchemici. Un sito che quando mi ci sono imbattuto ha fortemente attirato la mia attenzione per un’aurea eterea, un senso di mancata immediatezza che porta, chi è curioso, a voler interagire.
La curiosità. Ecco cosa serve per approcciarsi ai vini di Marco e Filippo. La voglia di scoperta che ha un bambino. Senza pregiudizi o contaminazioni. Senza la tara mentale derivante dalla consuetudine.
In fondo, perché ci piace qualcosa? Perché l’abbiamo assaggiata o ce l’hanno fatta assaggiare. L’abbiamo vista o ce l’hanno fatta vedere. Ci piace qualcosa perché uno o più dei nostri sensi ha gradito la sensazione offerta. Così è per il vino. Ci piace non in senso assoluto ma per differenza. Noi riconosciamo le differenze. Anche i ricordi sono differenze poiché ricordiamo qualcosa accaduta nel passato ora non più presente.
I vini di Malerba sono da approcciare non per il processo che c’è dietro ma per la loro capacità di stupire e risvegliare alcuni sensi. L’alchimista trasformerà anche e se ci si crede, i metalli in oro, ma è anche vero che
E quando tutti i giorni diventano uguali è perché non ci si accorge più delle cose belle che accadono nella vita ogniqualvolta il sole attraversa il cielo. (Paulo Coelho)
Dalla vigna di sessanta anni ci facciamo ontano nero che non facciamo tutti gli anni. Una parte di questo vigneto se non facciamo Ontario entra nell’assemblaggio del secondo rosso.
Uno dei due metodi classici viene fatto con le uve bianche di un vigneto misto di sessanta anni. Era il vigneto per fare il vino di casa. È diventato meno produttivo ma più interessanti. Sangiovese delicato e difficilmente inquadrabile come Sangiovese. Sembra quasi un pinot nero, scarico, non cosi tannico. Non tutti gli anni riusciamo a farlo.
L’azienda è venti ettari. Il vigneto è due ettari e mezzo, tre ettari e mezzo di olivo. Il resto incolto e un pò di bosco oltre che seminativo. Incolto ma occorre tenerli puliti.
I nostri vini hanno un aspetto aromatico aperto e non monodirezionale. Sono stilisticamente diversi.
I vini di Malerba non dovrebbero stare su uno scaffale visibile poiché le sensazioni che si vogliono offrire attraverso una sostanza è talmente distante dal “normale” che li rende non classificabili.
Concettualmente ci mettiamo su un altro scaffale ma poi ci dobbiamo stare.
Giulebbo è il progetto di passito che al momento è in bottiglia ma non etichettato. È l’esclamazione di mio nonno. È un giulebbo.
Un passito delle uve Malvasia, Trebbiano e Zuccaccio, un vitigno antico tipico del Valdarno, utile perché affronta molto bene l’appassimento grazie alla polpa carnosa e al grappolo spargono.
L’ho sempre usata per il Vin Santo. Al nonno gli veniva dolce
Due rossi da Sangiovese con qualche pianta di Canaiolo, Malvasia Nera ecc. In fondo la vigna è quella che è e non si interviene più di tanto. I rossi cambiano per la vigna di provenienza e vengono realizzati nello stesso modo attraverso 200 giorni circa di contatto con le bucce.
Il Ronzamoro viene dalle vigne di Filippo. Ontano Nero da quella di Marco. Dalla vigna di Marco, con suolo argilloso e vigna vecchia viene fuori un Sangiovese tendente al frutto scuro. Quando abbiamo la sensazione che l’uva possa dare questo tipo di frutto, facciamo l’Ontano. Altrimenti solo il Ronzamoro.
Prima di provare i due rossi importanti, ho voluto provare Schiribizzo, ottenuto dalle vigne dei Filippo con “soli” sessanta giorni di contatto sulle bucce. Un vino che, pur avvicinandosi ai canoni “tradizionali” funge da finestra sl cortile di Malerba. Nel bicchiere è rubino si ma pastoso. I sentori sono caldi di ciliegia in confettura, frutta cotta e scorza di arancia. Poi foglia di pomodoro, fiori in potpourri e tante note dolci di tabacco e cioccolata quasi ad essere Mon Chéry. Una sorta di intrigante intruglio melassoso nel quale ho voglia di tuffarmi.
In bocca è secco, moderatamente caldo, molto sapido, fresco. Tannini importanti. Ciò che meraviglia però è la sequenza delle sensazioni che avvolgono la bocca: partendo da una innata dolcezza per passare alla secchezza quindi freschezza e sapidità. Grande avvolgenza e lunga persistenza. Equilibrio interessante.
Un vino che va certamente accompagnato ma che ho comunque voglia di berlo (strana questa sensazione) senza alcun tipo di cibo per riprovare la sensazione di estrema verticalità iniziale che lascia poi spazio ad un incredibile ampliamento. Meravigliosa la sensazione finale della bocca.
Andiamo al Ronzamoro il cui nome è l’espressione dialettale di quel meraviglioso insetto che ha il dorso argentato. Colore granata di grande bellezza con una intensità cromatica che è indice di leggerezza. Eppure i sentori sono di china, frutta matura marmellatosa quasi a riportare la dimensione a profondità, dimensione. Pastosità da addentare. Avete presente il Pensatoio di Abus Silente? Ecco, appena metto il naso nel calice ho la sensazione di venire pervaso da flussi magici che mi trascinano in profondità. Gomma, tabacco, noce moscata, pepe, alloro, origano, cardamomo, vaniglia, fiori appassiti…. Un complesso spettro olfattivo che sembra cambiare da calice a calice.
Il sorso è grandioso. Intenso e volitivo con tannini maturi e subito aggressivi quasi a difendere qualcosa. Secco, non particolarmente caldo e con un equilibrio che, piano piano, si raggiunge. Come se si chetassero le durezze una volta accarezzato. La frutta marmellatosa contribuisce a lasciare la bocca in un meraviglioso stato finale ancorché con una persistenza non lunga. Cosa quesa che fa si che si sia vogliosi di un ulteriore sorso. Abbinato ad una bistecca, l’ho trovato eccezionale.
Ontano Nero è un albero capace di indurirsi con l’acqua tanto da essere usato come pali di fondamenta nelle città lagunari. La sua corteccia produce un colore nero così che nel passato venisse considerato un albero del Male.
Sangiovese in purezza per un vino che non si produce tutti gli anni e quando avviene è solo in poche bottiglie.
Rispetto al Ronzamoro cambiano i riflessi che qui sono aranciati. Cambiano notevolmente i sentori con un intrigante gioco di frutta cotta e ancora non matura. Una mutevolezza che diventa incomprensibile dunque stimolante. Il balsamico apre le narici come a volerci invitare a qualcosa di speciale. Arriva il goutron, il tabacco, il pellame. Spezie come noce moscata e pepe. Violetta e peonia. L’impressione è di un vino più energico, più determinato, meno dimensionale rispetto al Ronzamoro. Una sensazione di minor complessità olfattiva.
Il sorso è in generale più fine con una importante sensazione di freschezza aranciata e ai tannini maturi ma fortemente arrotondati, non aggressivi. Bello questo equilibrio che si raggiunge prima con la dolcezza, poi la sensazione di secco, quindi la sapidità a lasciare in bocca la bellissima sensazione di arancio che si mischia con prugna e ciliegia. Bellissima e piacevolissima sensazione. C’è comunque dimensione comunque meno profonda del Ronzamoro, come se ti portasse ad esplorare solamente la superficie per non volerti far inoltrare ulteriormente.
Un vino estremamente piacevole che merita sicuramente un cibo di accompagnamento.
Due vini diversi per due esperienze di diverse di profondità. Ontano Nero si lascia scoprire e ammalia senza condurre nella dimensione ignota. Come se indicasse una porta aprendo la quale è possibile scoprire altro: va bene anche così, oppure spingiti oltre nel qual caso c’è Ronzamoro.
Le due bolle sono lo Stracciabrache, che è un rosè metodo classico da Sangiovese e Zizzania realizzato con le bacche bianche macerate e fatte sempre a metodo classico. Entrambe i metodi classico vengono tirati con il mosto d’uva. Lo Zizzania con il mosto d’uva appassita. Qui torna lo Zuccaccio.
Se i rossi sono stati una esperienza dimensionale, le bolle sono qualcosa di poco descrivibile. Perlomeno con i metodi “canonici.
Stracciabrache, il cui nome deriva da un arbusto della macchia mediterranea simile alla vite, è il metodo classico da Sangiovese con 42 mesi di affinamento sui lieviti. Lo definirei viola perché il viola è il primo colore che mi è venuto in mente mettendo il naso nel calice e assaggiandone un sorso. Un gusto meravigliosamente insolito e che non è replicabile con altro. Piace o non piace. A me è piaciuto per la sua stravagante capacità di portarmi in un mondo colorato di viola dove è, finalmente, il frutto a prevalere. Anche in un metodo classico dove questo non riesce a resistere. Confesso una cosa poi che sa dell’incredibile. Ho assaggiato lo Stracciabrache a luglio e dopo averlo tappato bene con uno di quei tappi per bollicine, l’ho dimenticato in frigo. Assaggiato nuovamente dopo oltre un mese al rientro dalle ferie, l’ho trovato ancora più buono. Una leggerissima, impercettibile nota ossidativa lo ha nobilitato. Il frutto? ancora più evidente e meraviglioso.
Zizzania. Malvasia, Zuccaccio, Trebbiano, Ansonica. Magari altro. Chi può dirlo. Di certo è un metodo classico (2018) che divide anzi, spacca completamente il “classico”. Non ci sono punti di riferimento ne contiguità. A partire dal colore che è più di un macerato che di un metodo classico bianco blanc de blanc. Qui c’è arancio e ambra. Che meraviglia.
L’olfatto poi è dirompente con l’albicocca disidratata che si mischia con la dolcezza dell’uva. Si, dell’uva. Pare strano ma qui c’è e si sente. C’è tanta mineralità, tanta macchia mediterranea per un non so che di minerale e vegetale. Sa di olivo e alloro, sa di miele e arance candite. Incredibile.
In bocca è proprio l’arancia candita che arriva prepotente insieme alla spiccata mineralità. Secco e con un perlage finissimo ricorda molto un macerato. Di quelli fatti bene però. Il finale è quasi “affumicato” e la persistenza lunga.
Insomma un metodo classico alternativo, diverso, dirompente. Di quelli che lasciano stupiti amandolo o odiandolo. Senza compromessi. Di sicuro, se lo ami, ti porta in un’altra dimensione: chiudendo gli occhi ti ritrovi in mondi diversi perché assolutamente non convenzionale. Abbinamento? Un pesce con gli agrumi, un risotto agli agrumi e gamberi, ma anche una meravigliosa panzanella. Dove lo vedo spaziale è con una insalata nella quale ci sono dei pezzi di arancia.
Quando il vino alla degustazione inizia a prendere una tendenza acquosa quasi di chiusura ovvero si è smontato dalla parte materiale, interrompiamo il contatto.
La nostra dimensione aziendale è questa. Non ci sono margini di crescita sul numero di bottiglie che ora sono a 6/8000 bottiglie. Quello che dovremmo fare è raggiungere un livello di conoscibilità per l’impegno e l’idea che abbiamo avuto. Questo da parte mia poi Marco non so che impegni abbia per il futuro.
Dal punto di vista aziendale siamo in una fase in cui il prodotto c’è ma abbiamo bisogno di far conoscere il brand per far si che questo diventi un lavoro che ci permetta di vivere. Ci stiamo muovendo in vari fronti per divulgare il verbo di Malerba. Quello che vedo è un grande impegno nel marketing e nel parlare molto.
Una dimensione aziendale che non è certo elevata. Un impegno e una attenzione che, al contrario, è costante e spasmodica. Eppure Marco e Filippo, nella loro calma serafica e costanza di buonumore, non si fanno tanti problemi. Anzi, ci scherzano su.
Il tempo vien da se. La scadenza temporale è di raggiungere risultati soddisfacenti in qualche anno. Abbiamo tutti e due delle compagne che ci hanno sostenuto in questo progetto e non è da poco ma poi magari ci mandano il conto
Un tempo che sembra indefinito, evanescente. Entrambi hanno 45 anni. Entrambi delle compagne. Entrambi vogliono continuare la loro vita per quello che è perché (evviva!) piace così. Senza alcun tipo di pensiero relativo ad una sorta di continuità aziendale. Anzi.
A me intriga molto che tutto questo si esaurisca con noi. Da un punto di vista sostanziale con i figli sarà un piacere che continuino. Quello che facciamo è però molto legato alle nostre persone. Come quelle distillerie strafiche in scozia che finiscono la torba e smettono di distillare ma continuano a vendere che hanno raggiunto un livello alto che va bene.
Grazie per la torba.
Ecco, mi viene a questo punto in mente, per chiudere questo articolo, una frase di Paolo Coelho tratta sempre dal libro L’Alchimista.
Se quanto hai già trovato è fatto di materia pura, non potrà mai marcire. E tu, un giorno, potrai tornare. Se è stato soltanto un attimo di luce, come l’esplosione di una stella, allora non troverai più nulla quando tornerai. Ma avrai visto un’esplosione di luce. E anche solo per questo ne sarà valsa la pena.
Secondo me calza a pennello con la filosofia di Marco e Filippo.
Grazie ragazzi e un grande in bocca al lupo.
Ivan Vellucci
ivan.vellucci@winetalesmagazine.com
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